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mercoledì 20 agosto 2025

La grande bellezza del Galeso

AFFASCINA, SEDUCE, RAPISCE QUESTO MAGICO CORSO D’ACQUA

 

 

Il Galeso (foto De Florio)
Ero adolescente quando mi portarono a visitarlo dopo il varo di una nave su una sponda del Mare Piccolo. Scrittori poeti, pittori si sono ispirati a questo tesoro di Taranto.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 


Quando avevo una decina d’anni con tutta la mia famiglia andavo al Cantiere Tosi a vedere il varo delle navi. La cerimonia mi entusiasmava soprattutto quando la madrina lanciava la bottiglia di sciampagna contro lo scafo e la casa galleggiante scivolava verso il mare. Fu in una di quelle occasioni che mi accompagnarono in una visita al Galeso, di cui avevo sentito tanto parlare. Una visita veloce, senza ciceroni impegnati in citazioni storiche e letterarie. Con il passare del tempo lessi le pagine del Gissing (“Sulle rive dello Jonio”) e rimasi amareggiato, perché l’autore lo giudicava diverso da come se l’era immaginato.
Il Galeso (foto De Florio)
Nei miei ritorni nella Bimare mi proponevo di andare sulla sponda di quel gioiello, uno dei tanti sparsi nella mia città, ma c’era sempre un imprevisto che mi distraeva. E al momento della ripartenza mi sentivo un innamorato infedele. Un po’ di anni fa mi decisi, ma dovetti tentare più volte, perché non riuscivo ad arrivarci: non c’erano indicazioni precise e chiedere a un passante era impresa inutile: tutti mi rispondevano sorpresi, perché non ne sapevano niente, pur abitando nelle case vicine. Alla fine fu un pastore al comando del suo gregge ad illuminarmi. Una visione bucolica estranea all’ambiente.
Ed eccolo, il Galeso, occupato da grosse barche cariche di mitili sotto un enorme telone. Guardai, ricambiato, gli uomini indaffarati sugli scafi, che quando seppero che arrivavo dalla Lombardia, scrutando la macchina fotografica, dopo avermi dato il benvenuto, mi chiesero di puntare l’obiettivo verso di loro; e mi invitarono a brindare con acqua fresca. A far sbocciare la simpatia fu anche il dialetto che mi veniva spontaneo. Alla fine di una conversazione durata un’oretta, fatta di domande e risposte su Milano, sulla vita che vi si conduce, sulla nebbia, che oggi è rara, sul traffico, sulla gente che va sempre di corsa (non ne ho mai saputo il motivo). Poi mi vollero regalare un paio di chili di cozze, che intendevo pagare, ma le facce risentite mi suggerirono di non insistere. Tornai con le foto da distribuire e dovetti mobilitare nuovamente l’obiettivo, perché il gruppo era cresciuto.
Una sera al “Corriere del Giorno”, che allora era in un palazzo dei Beni Stabili, riferii le mie
Verso il ponte di pietra

impressioni all’amico di sempre Vincenzo Petrocelli, redattore della terza pagina. Gli dissi che stavo leggendo il pensiero della scrittrice polacca Kazimiera Alberti, autenticamente entusiasta della nostra regione, da lei “praticamente scoperta nell’Ottocento”, come Benito Mundi scrive nella prefazione al libro “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia” di Francesco Giuliani. “La Puglia è una regione molto antica, ricca di testimonianze che affondano nel silenzio e nelle tenebre della preistoria, aprendo un prezioso varco alla conoscenza…”. La Alberti definisce Taranto “una stella della Magna Grecia” e scopre con piacere i treni delle Ferrovie Sud-Est, che la portarono attraverso città e cittadine, villaggi, pianure e colline, per vigneti e frutteti… “Le Ferrovie svolgono una preziosa funzione turistica, economica, ma anche culturale… Più di novanta treni viaggiatori corrono, galoppano, trottano attraverso il calderone pugliese ed alla fine del giorno annotano una bella cifra: abbiamo percorso cinquemila chilometri, cosicché ogni otto giorni facciamo il giro del mondo”.
Il lungomare
Del Galeso non trovo traccia in queste pagine, e me ne dispiace. Visitando una città nata sul mare, vive sul mare e respira un’aria mediterranea, frizzante; vanta frutti di mare deliziosi e altre preziosità ovunque, allettando, come i suoi tramonti che infiammano l’orizzonte, un salto al Galeso è sempre salutare. E ristora lo spirito.
Comunque sono contento di essere nato a Taranto, in questa meraviglia, che riscopro ogni volta nei miei approdi: monumenti, tesori antichi raccolti nel Museo, il tessuto urbano, uomini dell’uno e dell’altro borgo, la Cattedrale, San Domenico, il lungomare, la Villa Peripato, il Castello Aragonese, il Mar Piccolo... Incontro anche tante persone gentili e ospitali, con la voglia d’ingegnarsi per la città, di cui per colpa della mia diserzione ho perso tante cose. Loro me le raccontano e io sono attento nell’ascolto. Nicola Giudetti, Antonio De Florio, Cataldo Sferra…, che celebrano Taranto in versi e in prosa o con immagini che hanno il sapore dell’arte.
La Dogana
Quante ore ho passato a meditare sugli scritti di Alfredo Lucifero Petrosillo, Diego Marturano, Alfredo Nunziato Maiorano, Claudio De Cuia, Diego Fedele, Giacinto Peluso, Nicola Caputo… purtroppo scomparsi. Li amo tutti, come amo Taranto, i suoi mari, i vicoli della città vecchia, “le strìttele”, il Galeso. a cui mi auguro abbiano ridato la dignità che merita.
Ricordo i versi “… tu guidi le sonanti acque e fresche/ acque per dolce clivo, alla tranquilla/ spera del mar tra floridi giunchetti/ fiume Galeso...”. Dissi al pittore Filippo Alto - parafrasando Giuseppe Giacovazzo -, che da Bari in tempi lontani si trasferì a Milano, conservando la sua roccaforte a Figazzano, nei pressi di Martina Franca: “Un giorno tu e io andremo sulle sponde del Galeso, dove trascorsi momenti di gaudio. Io lo vedrò scorrere all’ombra degli alberi giganteschi e tu lo coglierai con la tua tavolozza”. Filippo amava il paesaggio e i suoi angoli più deliziosi. Amava anche lui il fiume che coglieva il fischio delle navi quando slittavano in acqua. Non si può non amare il Galeso. Così come non si può non amare Mare Piccolo, con le barche all’ormeggio e il profumo del pesce fresco appena sbarcato. Taranto, dolce Taranto. Tu culli i miei sogni, m’incanti, m’inebrii. Quando sono a Milano un venticello fresco e ristoratore mi porta il tuo profumo. Inimmaginabile la gioia che provo quando salgo sul treno che si prepara a ingoiare chilometri di binari, uscendo dal grande ventre della stazione Centrale di Milano. E’ sempre affollato, quel treno. Domando qua e là ai viaggiatori dove sono diretti: chi a Foggia, chi a Bari, molti a Taranto, a baciare la sua terra. Il mio cuore batte forte ai racconti di chi lasciò la culla per venire al Nord a guadagnarsi il pane. “Ricorda il Galeso?”. “Certo che lo ricordo. Mio padre lavorava al Cantiere Tosi”, “Il mio a Buffoluto”, “Il mio all’Arsenale.
via Garibaldi
I racconti s’intrecciano, si accavallano, si moltiplicano. Si sa come vanno lo cose negli scompartimenti dei treni. Alcuni non hanno voglia di parlare, altri sonnecchiano, ma chi è sul punto di annoiarsi si lascia andare. E nel mio ultimo viaggio di ritorno non mi sono neppure accorto del tempo che passava. Un tale che aveva lasciato la terra per salire nel capoluogo lombardo cambiando mestiere aveva nostalgia e tanti ricordi del Galeso. Un altro, seduto proprio di fronte a me, sosteneva che il Galeso se lo portava nel cuore; e ricordava I sospiri di Orazio “per le dolci acque del Galeso, caro alle pecore avvolte nelle pelli, e i fertili campi che furono di Falanto, lo Spartano….”. Cose antiche, adesso andate a vedere com’è.
Qualcuno osserva che la bellezza del fiume è affascinante. Ascoltavo le opinioni, che si arricchivano, mentre il convoglio sussultava. E tutto quello che attraversava, cascine, animali, contadini alla guida del trattore, correva scomparendo come un fulmine. E io pensavo a Stazio, Marziale, Virgilio e agli altri che hanno celebrato il Galeso. A questi la mia mente ricorre ogni volta che incontro un ciarlatano che sputa sentenze su questa gloria della nostra città. Anch’io trovai i suoi fianchi umiliati, ma il mio lamento marciò verso quelli che dovevano intervenire e non lo facevano. E adesso?
il Ponte Girevole
Io adoro il Galeso e adoro Taranto. Se c’è qualcosa che non va , volto pagina. Non voglio sentirmi dire: “Ma tu chi sei? Te ne andasti oltre mezzo secolo fa , ritorni e salti in cattedra?”. Me lo dissero una volta e a dirmelo fu proprio un amico: “Chi parte lasciando Taranto non può più considerarsi figlio di questa città”. Amico mio, il cuore batte sempre per la Bimare. Non si possono soffocare i sentimenti. E poi, il Galeso conserva sempre la sua attrattiva. Nutro soltanto la speranza che il Galeso, qualche secolo addietro chiamato dai contadini Gialtrezze, senza averlo mai visto e senza sapere neppure dove scorresse, ha avuto i suoi detrattori ma anche i suoi entusiastici ammiratori. L’ inglese vittoriano George Gissing nel suo libro “Sulle rive dello Jonio”, tra l’altro scrisse: “Fiume? Sarà lungo appena mezzo miglio….”. La bellezza per lui si misurava con il metro. 

 

mercoledì 13 agosto 2025

Prestigioso PREMIO a Michele Focarete

UN CRONISTA CHE HA MANGIATO PANINO E POLVERE PER CAPTARE UNA NOTIZIA

 

 


Michele Focarete
Il riconoscimento, è stato consegnato il 10 Agosto
a Poggio Imperiale dal sindaco in una bellissima cerimonia alla presenza del sindaco Alessandro Liggieri con accompagnamento musicale.

 

 

 












FRANCO PRESICCI
 
 
 
 
Il Premio “Principe Placido Poggio Imperiale” è stato assegnato a Michele Focarete, attento, scrupoloso, poliedrico cronista inviato del “Corriere della Sera”, autore di coraggiose inchieste anche all’estero, conoscitore della malandra organizzata di Milano, Lombardia e oltre.
Poggio Imperiale

Il Premio gli è stato assegnato appunto per il suo valore professionale e per aver tenuto saldo il legame con la terra dei suoi nonni e dei suoi genitori: Poggio Imperiale, un bel paese tranquillo fatto di gente laboriosa, che sorge in Puglia, a un tiro di fionda da San Severo, i cui contadini un tempo lo raggiungevano a piedi.
Il Premio è nato con lo scopo di rendere merito alle personalità di ogni settore che hanno tenuto alto il nome di questa terra con il loro percorso professionale o per singoli episodi esaltanti. E Michele Focarete si è distinto quando frequentava per lavoro la Milano “by night”, raccontandola con garbo, serietà e puntualità di grande cronista sul “Giorno”, poi sul quotidiano del pomeriggio “La Notte” diretto da Cesare Lanza, entrando poi nel tempio del giornalismo: “Il Corriere della Sera”. Qui si è occupato anche di “nera”, esplorando l’ambiente dei “boss” e dei gregari, che miravano al dominio della città, tentando di espandersi anche fuori. Focarete è stato un esempio di cronista in prima linea, avido di notizie, cacciatore infaticabile, abituato a consumare scarpe e nutrirsi di pane e polvere per agguantare la chicca. Inoltre non ha mai dimenticato la “culla” in cui hanno emesso i primi strilli i suoi nonni e i suoi genitori; e ne parla in modo toccante, facendo intuire che le sue radici sono più solide di quelle dell’ulivo e della quercia.
Il nonno di Michele alla stazione

“Nessuno può dimenticare il luogo delle proprie origini. In famiglia ho ascoltato le storie di questa terra e io stesso da bambino passavo le mie vacanze estive a Poggio e trovavo molte persone che avevo conosciuto soltanto nei ricordi; e proprio i ricordi corrono veloci alla fine degli anni 50, quando mio padre, Giovanni Candido Focarete, mi portava a Poggio Imperiale una volta all’anno. Una grande avventura che sapeva di magia. Partivano dalla Centrale di Milano di mattina per arrivare a destinazione a mezzanotte. Ad attenderci c’era mio nonno Michele, meglio conosciuto come Michelucc. Un’immagine surreale ai confini con la realtà. Era seduto sul carretto (barrocc) trainato dal suo inseparabile asino, che si chiamava Matteo. Michelucc vestiva con una camicia pesante a quadroni, con maniche arrotolate sui gomiti che mettevano in mostra la maglia della salute, tassativamente di lana, in testa una coppola grigio-scura. Quando ci vedeva i suoi occhi diventavano lucidi e l’abbraccio con mio padre era poderoso, infinito, A me dava una carezza con le sue mani ruvide da contadino, che mi facevano sentire protetto. E poi come nelle più classiche delle favole a lieto fine mi faceva tenere le brigie. Due chilometri come un cow boy fino ad arrivare a casa, in via Focarete”.
Lo ascolto, Michele, con interesse e nostalgia, perché le sue parole ridestano tante mie memorie, compresa quella della conferenza da me tenuta proprio nella chiesa di Poggio Imperiale sul genetliaco di Papa Pio XII, quando frequentavo il liceo classico Matteo Tondi di San Severo. La missione mi era stata affidata da don Giuseppe Stoico, rettore del seminario, in una giornata di neve alta quasi mezzo metro.
Ha ragione Michele: il tuo paese rimane nel cuore per sempre, lo ami, lo sogni, lo porti sempre con te, ovunque tu vada, con le case, le persone, i momenti vissuti: un viatico dell’anima.
“L’altro nonno – riprende Michele - Giuseppe Sarra - faceva il macellaio e lo chiamavano “Chiancarell”, da chianca (l’asse di legno su cui in passato si tagliava la carne e sul quale veniva esposta per la vendita”. Ancora oggi lo ricordo, a distanza di un secolo, perché ha insegnato il mestiere a tutti i macellai del posto e dei paesi vicini”. Nonno Giuseppe, uomo di poche parole, ma dal grande cuore, ebbe 14 figli, tra cui mia madre Lucia, che si innamorò di Giovanni Camillo Focarete, mio padre, che faceva il sarto con l’hobby della musica. Per comprargli la tromba mio nonno vendette un pezzo di terra. Ma il lavoro e la banda del paese a Camillo andavano stretti e così come tanti uomini del Sud, emigrò a Milano, trovò una casa in affitto e aprì una sartoria in viale Romagna, davanti alla Casa dello Studente.
A sinistra il papà di Michele Focarete
A 29, quando pensò di essersi sistemato, mio padre scese a Poggio Imperiale e disse a Lucia: “Domani ritorno su, vieni con me e ci sposiamo”. E così fu. Nel gennaio del ‘47 nacque mia sorella, Anna, in via Carlo Forlanini, all’Ortica, e nell’agosto del ‘51 nacqui io, in via Pietro da Cortona, a un centinaio di metri da piazzale Susa. Milanesi di nascita, terroni di origini”. Terrone, che bella parola! Terra, contadino (arte nobile), zappa, raccolto, nutrimento, fatica, quanta fatica.
Mi affascina questa storia, che Michele snocciola anche nei particolari, manifestando amore per Poggio e per la sua gente, per il campanile che con il suo ritmo richiama i fedeli alle funzioni e scandisce le ore. Michele è come se fosse nato a Poggio, un tessuto urbano stretto in un atto di affetto caloroso.
Il cronista inviato che ha inseguito con impegno e passione la notizia; che ha vissuto la Milano dei sequestri, dei regolamenti di conti, delle rapine clamorose, riceve un premio che probabilmente non si aspettava. Che emozione, vero Michele? Con il pensiero va ai giorni in cui scendeva dal predellino del treno alla stazione di Poggio Imperiale, inaugurata il 25 aprile del 1864, insieme alla tratta Ortona-Foggia e attiva fino alla chiusura, nel 2000. La stazione, luogo di incontri, di fervore, di attese, di persone che vanno o vengono tra i fischi del locomotore., che parte lento come una lumaca e poi corre come il vento.
Il giornalista Focarete
Non trascura nulla, Michele Focarete. Giornalista dall’80, ha spesso trattato argomenti legati all’infanzia maltrattata e al traffico degli esseri umani. Nel 2009 arrivò secondo al prestigioso Premio Vergani e l’anno successivo lo vinse come migliore cronista lombardo per il reportage in Romania sulla tratta dei bambini rubati negli orfanotrofi e gettati sui marciapiedi a prostituirsi, pubblicato su “Sette”, il “magazine” del “Corriere della Sera”. Si è occupato per lungo tempo della vita notturna milanese e dei suoi cambiamenti, “quelli che gli americani chiamerebbero ‘nighter’”. Ha scritto tre libri (“Milano ad ogni ora”, “Il mio nome è Lara” e “Milano by night – quando lo spogliarello era un’arte”). Dal 2013 al 2017 ha ricoperto l’incarico di consigliere e vicepresidente della commissione Cultura dell’Ordine dei giornalisti... Attualmente collabora a diversi quotidiani nazionali e settimanali. E ha inanellato un bel po’ di Premi, tutti importanti, per il suo lavoro di giornalista, che non guardava l’orologio e quando era sul teatro di un avvenimento osservava con cura senza mai lasciarsi sfuggire nulla. Un cronista di altri tempi pronto a tutto pur di portare in redazione il carniere pieno. Bene hanno fatto dunque il sindaco di Poggio lmperiale, Alessandro Liggieri, e il consiglio comunale a riconoscere il talento di Michele Focarete, dandogli il Premio ispirato alla figura di Placido Imperiale, “che fondò nel 1759 il nostro paese e fu conosciuto come esempio di ‘principe illuminato’ per la sua visione e per le sue azioni mirate al miglioramento delle condizioni di vita e alla valorizzazione dei territori”.
Focarete a un convegno


La cerimonia di consegna si è svolta il 10 agosto in una serata musicale con protagonista l’orchestra fiati “Apulia” diretta dal maestro Antonello Ciccone e con la partecipazione del soprano Ripalta Bufo nel concerto “Ennio Morricone, la leggenda del ‘900.
Mi congratulo con Michele Focarete, collega e amico, gentiluomo, alla mano, schietto e ironico. L’ho sempre seguito fin da quando veniva al “Giorno” a portare i suoi articoli sui locali notturni, ambienti che conosceva alla perfezione. Pochi altri conoscono Milano come lui, di notte e di giorno, la Milano tormentata dalle bande criminali e la Milano che si compiace delle sue mille attività culturali. E ama, Michele, ripeto, il suo paese. Al tempo in cui Giovanni Focarete salì al Nord i viaggi erano un inferno, vagoni affollati anche nei gabinetti e la gente li conquistava attraverso i finestrini, perché le piattaforme erano intasate. Tempi di emigrazione,
Focarete con Papa Francesco

di salasso del Sud. Quello era il treno della speranza. E per molti la speranza si è concretizzata.

mercoledì 6 agosto 2025

Le chiesette rurali di Martina

SI PREGA TRA I PROFUMI. E' LA GRANDE BELLEZZA

 

La Madonna della Consolata
Il luoghi di preghiera sono sparsi. Dal Chiancaro alla vecchia strada per Noci, dove è prossima la festa della Madonna della Consolata, alla presenza del vescovo.

 

 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI


Sulla strada che da Martina va a Locorotondo in alto si erge un tempietto che mi appare come il guardiano della Valle d’Itria. Lo visitai la prima volta un’ottantina di anni fa insieme allo zio canonico penitenziere, don Martino Calianno, che celebrava la Messa nella basilica e a volte in quella chiesetta a un tiro di fionda da casa sua, in via Marangi: una via breve, uno scampolo parallelo a via Bellini.
Vito e Angela Argese
Un’altra piccola chiesa è quella della Madonna della Consolata, in fondo alla vecchia via per Noci, che si allarga in un piazzale su cui, di fronte, si trova una scuola degradata e abbandonata. Ero già entrato in questo luogo di preghiera, durante una festa dedicata alla Signora. che richiama tanta gente, per devozione o per il piacere di vedere schierati baracche e stand, ascoltando un’orchestra che stuzzica la voglia di ballare. Una volta vi ho incontrato il compianto notaio Alfredo Aquaro, accodato alla processione con in mano una candela. “Ora prendo un po’ di arachidi, noccioline e semi di zucca per due ragazzini che mi stanno a cuore”, mi disse. Ciao, Alfredo.
Le chiavi della chiesetta ce l’ha Angela Argese, che la tiene in ordine e splendente, come fosse casa sua. Vito, il marito, le dà una mano. Mi sono seduto nuovamente qualche giorno fa su un banco vicino al simulacro di san Pio, ed è stato per me come un’immersione nella pace e nel silenzio, per un momento lontano dal mondo e dai suoi tumulti. Giacchè c’ero ho fotografato un antico pozzo all’aperto che ancora oggi raccoglie acqua piovana. A un tiro di fionda c’è una masseria ancora attiva. Fino a qualche anno fa Angela conduceva con saggezza un’azienda, dove oggi trascorre il periodo estivo. “Quasi ogni giorno passava un vecchietto e gli regalavo le uova”, dice questa donna intelligente, generosa e disponibile, come Vito, un uomo di spirito che non ama raccontare le proprie fatiche sulla terra, che non sempre dà soddisfazioni.
Il pozzo


Ricordo che avevo 11-12 anni quando un altro contadino, Giovanni, mi parlava del mago della pioggia, che con un cappello a larghe falde e un ampio mantello saliva sui trulli e invocava la generosità del Padreterno, ritmando preghiere o parole rituali mai rivelate. Da tanto tempo desidero stimolare Vito Argese, un serbatoio di storie, a ripercorrere con la memoria vie erbose, come tanti anni fa feci con don Oronzo, a cui il grande pittore cantore della Puglia Filippo Alto affidò il microfono in una delle sue serate a Figazzano. Finora Vito lo ha fatto a stralci, spontaneamente, accennando alla chiesetta della Madonna della Consolata. “Era ridotta a un rudere, non c’erano soldi per restituirle la dignità di culto. “Fu il sindaco Alberico Motolese, ancora oggi ricordato con stima e rispetto da molti, a provvedere. Un costruttore gli aveva chiesto l’autorizzazione per erigere uno stabile e il primo cittadino gli chiese di aggiustare le ossa della chiesa”. E rieccolo, il luogo di culto, senza sfarzi, senza tante immagini se non quelle della “Via Crucis”, accogliente, a un tiro di fionda dalla masseria Recchione, all’incrocio di cinque contrade. La chiesetta fu benedetta nel ‘58 da monsignor Guglielmo Motolese, amministratore apostolico e poi arcivescovo della Bimare. “Allora la gente viveva in campagna”, mi riferisce Vito.
Ora sono in tanti ad aspettare la festa, che si conclude come al solito con i fuochi d’artificio che sprigionano mille stelle policrome e geometrie nell’aria, mentre fedeli e non applaudono e la musica continua a spandersi tutt’intorno. Intanto un uomo basso, sorridente, simpaticone prepara le bruschette. “Gustate questa delizia: pane di Laterza con olio, sale, pomodoro e origano”, urla gioioso. Se arriva qualcuno in ritardo, Angela corre subito a cercare una sedia, e la consegna con la sua abituale delicatezza.
La chiesetta di via Papadomenico

Ci sono stato un paio di volte e ho notato persone venute da altre parti, come l’avvocato Martino Carbotti, che ha i trulli sulla via per Locorotondo, il “locus rotundus”, in cui Giuseppe Giacovazzo, già direttore della “Gazzetta del Mezzogiorno”, aveva la redazione del suo periodico “Paese Vivrai”, poi diretto dal figlio Piero, mezzo busto della televisione nazionale.
Un’altra chiesetta sta proprio a Figazzano. Le chiavi erano custodite da don Oronzo, un anziano contadino affabile, arzillo, dalla memoria fertile. Inanellava parole in dialetto martinese, destando subito l’attenzione di chi ascoltava. Un anno, per la festa della Madonna, era in programma l’esibizione di padre Cionfoli, che era però disponibile per il lunedì e non per la domenica. Gli organizzatori erano in difficoltà e alla fine pensarono di spostare i festeggiamenti. “Che cosa?”, tuonò don Oronzo. “Io per padre Cionfoli non accetto che si rimandi la festa. La Madonna viene prima di tutti. Se insistete, io chiudo la chiesa e vi arrangiate”.
Don Oronzo non le mandava dire, tenace, irremovibile. Raccontò l’episodio in dialetto a un pubblico numeroso invitato da Filippo e arrivato anche da Milano. Seduti in prima fila, il ministro Vernola dei Beni Culturali, e il critico d’arte Raffaele De Grada, ospite del pittore. In una mia intervista a don Oronzo feci una domanda impertinente: “Fiorivano amori fra i grappoli durante le vendemmie”. “Come no”. “Tu eri vivace?”. Don Oronzo: “Non mi ricordo. So soltanto che sono sempre stato al mio posto”. Era bassino, un po’ ricurvo per il lungo lavoro nei campi, prontissimo nelle risposte. Non schivava una domanda.
A volte salgo sul Chiancaro, imbocco il tratturo, mi fermo davanti al cancello, chiuso, dei trulli dello zio prete, come in un pellegrinaggio. Al ritorno ho un altro punto fisso: la fontanella che sta quasi all’incrocio da oltre un secolo. Dopo averla osservata, mentre un ragazzino le succhia acqua, prendo la strada che porta a via Mottola e a metà ho una sosta obbligata: una piccola chiesa, che vidi per la prima volta quasi ottant’anni or sono. Zio Martino di tanto in tanto ci andava e su quell’altare a volte diceva anche Messa. Adoro queste pareti consacrate. Qualche anno fa andai a cercare in un altro tempietto un sacerdote devoto di sant’Agostino, a cui volevo chiedere una Messa per mio nonno Francesco. Un amico mi indicò la via, e ci arrivai attraversando Locorotondo e poi ancora il territorio martinese. Arrivai in tempo per sentirlo parlare del suo santo preferito.
La Madonna della Stella

Ristora lo spirito un rito fra le viti e il canto delle cicale, mentre echeggia il rombo del trattore: il canto della natura e il sudore del contadino. I “din don” invitano alla funzione e sono ritmi veri, non registrati su nastro. Ah, la tecnologia si è insinuata anche sui campanili. E’ dolce il suono delle campane, i rintocchi arrivano al cuore, suscitando ricordi. Andando per via Mottola, se posso, mi fermo ad osservare il tempietto dedicato alla Madonna della Stella. Tanti anni fa i fedeli venivano a chiedere offerte per la sua festa, che non so se fanno ancora.
A Martina sono tante le chiesette di campagna; e sono molto frequentate. Martina è una città in cui la fede è diffusa. E il rispetto per i sacerdoti pure. Ricordo le donne che ogni mezzogiorno, a turno, portavano il piatto con la pastasciutta a zio Martino. Erano felici di farlo. Suonavano il campanello, lo zio tirava la corda che apriva la porta, loro salivano le scale e il pranzo era servito. Osservavo quelle donne incuriosito. Alcune di loro andavano a seguire la Messa celebrata dallo zio nella chiesetta sul rilievo dirimpetto alla Valle d’Itria. Ci si arriva attraversando una vietta collocata sullo stesso piano, sulla sinistra guardando dal basso.
I Santissimi Medici
Una volta non c’erano i rumori delle cilindrate che hanno fretta e la gente andava a piedi a Locorotondo e qualcuno sgambando va ancora ad Alberobello quando il paese accende le luci per la festa dei Santissimi Medici.
Dove porta la Fede! Ci sono cappelle nelle masserie. Ho visitato a Crispiano quella della Lupoli (appartiene a un tarantino, che ha in casa una collezione “de perdune” in processione per la Settimana Santa. Alla Lupoli si respira aria di antichità anche per il suo Museo della Civiltà contadina (zappe, torchi, rastrelli, falci... tutto un mondo ormai sconosciuto). Nella cappella si può ammirare un grande crocifisso collocato subito dopo l’entrata, a sinistra. Immortalai una donna anziana in meditazione su una panca di pietra. Ancora oggi ci sono donne vestite di nero. Come nei quadri del pittore Emilio Marsella, che ha dipinto anche le chiese della sua Maruggio. Pittura della memoria, ispirata nello studio milanese dell’artista.

 

mercoledì 30 luglio 2025

Domenico Porzio a Taranto

RITORNO ALLA CULLA DI UN GRANDE FIGLIO

 

Domenico Porzio
Visita nella città vecchia, seguito da un fotografo  eccellente, Carmine La Fratta. Soste nei vicoli, alla Dogana, nei negozi, incontri, alla Casa del Libro. Un viaggio del cuore.

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 


Ero da poco arrivato a Milano e avevo già voglia di conoscere la città e di avvicinare i miei corregionali. Avevo incontrato il martinese Guido Le Noci, titolare della Galleria d’arte ”Apollinaire” in via Brera, il più prestigioso e famoso mercante d’arte europeo - amico di Pierre Restany, papà dell’”art nouveau” - editore di volumi eleganti e interessanti, uno dei quali dedicato alla Valle d’Itria, scritto da Cesare Brandi.
Porzio a Taranto vecchia
Ero giovane, disorientato, una grande nostalgia per Taranto, ancora indeciso se rimanere o tornare, quando decisi di andare a cercare alla Mondadori, che allora aveva la sede in viale Regina Giovanna, Domenico Porzio. Mi faceva esitare l’altezza del personaggio, così importante, capo ufficio stampa della casa editrice e assistente del presidente. Ma mi feci coraggio, salii sul pullman e via. Non dovetti aspettare molto per essere ammesso alla presenza del capo. Mi sorrise e mi dette il benvenuto. “Siediti. Hai l’onore di appoggiare il tuo fondoschiena dove hanno adagiato il proprio Kerouac, Soldati, Nabokov e tanti altri”. La rivelazione accrebbe il mio imbarazzo. Io scrivevo sulla “Tribuna del Salento”, periodico di Lecce, e su “Sette Giorni”, di Bari. Gli chiesi se poteva concedermi un’intervista per questi giornali. “Perché no! Tu fammi le domande e io risponderò” E così gli chiesi dei suoi primi giorni a Milano, come fosse riuscito a fare quella brillante carriera, se ogni tanto pensasse alla sua terra d’origine... Gli chiesi anche che cosa consiglierebbe a un giovane approdato da poco nel capoluogo lombardo”. “Di non credere di poter fare il lavoro in qualche maniera o a mezza giornata, di non dire di saper fare tutto e di non pronunciare mai la parola sfortunato”. Parlava piano, con un leggero sorriso incoraggiante e aggiunse che Milano amava i giovani intelligenti e volenterosi.
Porzio e Nicola Mandese

Era nato a Taranto, sin da giovane provava la passione per il giornalismo, ma il padre lo voleva medico. E lui non lo deluse. Studiò con impegno e a laurea conseguita gli disse: “Papà, tu hai voluto per me la laurea in medicina, io te la consegno, ma voglio fare altro: amo la carta stampata. E Cominciò il suo percorso con zelo,, continuò gli studi letterari, seguiti dalla pubblicazione di libri importanti, tra cui quelli su Borges. Divenne amico di Montale, Marco Valsecchi, critico d’arte del quotidiano “Il Giorno”, e di tantissime altri personalità. Per sapere della loro vita e della loro attività, basta leggere il volume “Primi Piani”, edito da Mondadori. Mi parlò a lungo di Mario Soldati, che amava telefonargli da qualunque parte del mondo si trovasse, per dirgli quello che faceva, le persone che incontrava, addirittura il ristorante in cui andava a pranzare, l’albergo in cui alloggiava.
Porzio in un vicolo
Io poi ebbi il piacere di parlare al telefono con l’autore di “Vino al Vino”, “Le due città”, “America primo amore”… Gli telefonai nel suo studio, in via Cappuccio, e lui mi parlò di tante cose: di Milano, del Premio Bagutta, da lui vinto nel ‘59, dei giardini di Milano, dei suoi palazzi storici, di “Le petits bourgeois”, di Balzac e della sua ammirazione per Milano, “cette jolie Capitale”, della sua casa di Tellaro… Parlare con lui era entusiasmante, non ti lasciava spazio, ma tutto quello che diceva era da assorbire. Anni dopo lo rividi in una riunione al Circolo De Amicis.
Mi si perdoni il dirottamento. Capita quando si hanno tante cose da dire. E io non voglio fare torto a Domenico Porzio, persona squisita, che non ha mai dimenticato la sua città natale. E ogni volta che lo invitavo a una manifestazione letteraria o a far parte della giuria in un Premio che aveva per tema Milano non diceva mai di no. Fu presente anche a quella intitolata “Le Porte dei Milano”, che furono assegnati ad Alberto Dall’Ora e a Silvio Garattini, il quale colse l’occasione per tenere un lungo discorso sulla ricerca, alla presenza di un’ottantina di giornalisti con signore e di numerose autorità, a cominciare dal sindaco e dal presidente generale della Coorte d’Appello, Beria di Argentine.
Nel ‘76 Domenico Porzio fu tra i primi ad arrivare al Cida (Centro informazioni d’arte), in via Brera, ad una serata pugliese con Vincenzo Buonassisi, gastronomo e inviato del “Corriere della Sera”, il direttore dell’”Europeo” Giovanni Valentini e l’inviato dello stesso settimanale, Salvatore Giannella, entrambi baresi. Tema: “I trulli che vanno in rovina”. C’erano oltre 400 persone. Le Noci per l’occasione aveva appeso alle pareti alcuni quadri e fece proiettare un documentario sulle tarantolate di Galatina. Non mancava Giacomo Lezoche, che era presidente dell’Associazione regionale pugliesi, e Nino Palumbo, autore tra l’altro di “Mare Verde” (pugliese di Trani, da Milano trasferitosi in Liguria, ma sempre pronto a rispondere all’appello). Quella sera, invitato a prendere la parola, Domenico Porzio parlò di una sua recente visita a Taranto e la descrisse sinteticamente, ma con efficacia
Domenico Porzio in libtreria


In via Brera Lambros Dose, gestore del Cida, lesse l’introduzione al libro di Massimo Fumarola, “A passeggio per la Valle d’Itria”, scritta da Paolo Grassi e si accesero gli applausi per il grande uomo di teatro. Qualche tempo prima di morire, a Cortina, Porzio era stato nuovamente nella città dei due mari e il fotografo Carmine La Fratta lo aveva seguito passo passo anche nella città vecchia, dove lo scrittore volle passare sotto la casa in cui era nato., si fermò a scambiare due parole con la gente e proseguì sulla scia del profumo del Mar Piccolo.
Domenico Porzio era un gran signore. Pur essendo un personaggio di alto rilievo, ascoltava e apprezzava, senza mai intervenire se non richiesto. Lo ricordo in una sua conferenza su San Nicola al Circolo della Stampa a Palazzo Serbelloni. La Sala Montanelli affollatissima, tutti lo seguivano con grande attenzione, mentre il pittore Filippo Alto prendeva nota. Alla fine Porzio mi regalò gli appunti, che conservo.
Porzio in un negozio di Taranto

Era un bell’uomo, cortese, dal sorriso comunicativo, dai modi garbati. Giorni fa ho ripreso a leggere “Primi piani” e ancora una volta mi ha affascinato il modo con cui fa il ritratto di quegli scrittori che aveva conosciuto anche perché molti pubblicavano per la sua editrice: Dino Buzzati che “adorava i cani, convinto che la loro faccia fosse una delle poche e convincenti prove di Dio. E Piero Chiara da Luino , lacustre di nascita, ma siculo-nornmanno di stirpe (gli avi valvassori sulle Madonie con greggi e pascoli nel contado di Polizzi Generosa), governa con le sue favole quattro milioni di lettori. Ha pubblicato anche “Elogio della libertà”, “Incontri e scontri col Cristo, “Conoscere Picasso” e le sue pagine su Borges. Era uno scrittore profondo, godibile. Da giovane diresse riviste con Oreste del Buono. La prefazione a “Primi piani” è di Enzo Biagi, che dice: “Mi piacciono gli articoli di Porzio perché non si è adeguato all’ultima moda. Ci sono dei miei colleghi che fanno venire in mente certi film di Buster Keaton; Io e la vacca; Si sentono in qualunque circostanza i protagonisti; Io e la palla. Domenico Porzio si accontenta invece della parte più modesta di testimone e più avanti assicura che anche Domenico Porzio ha ovviamente le sue curiosità, e vuole sapere, ma l’animo è più disposto a capire che a condannare.
Porzio firma un libro

Lo vidi l’ultima volta seduto, le braccia incrociate poco distante dal tavolo riservato ai dirigenti della Rizzoli, in occasione della presentazione di un libro del giallista Renato Olivieri, “Largo Richini”, con Arnaldo Giuliani, capocronista del “Corriere della sera”, che imperava intervistando ben cinque questori venuti da diverse città (Mario Iovine da Roma. Vito Plantone da Catanzaro, Putomatti da Sondrio...) su episodi particolari della loro vita professionale. Poi l’età dei premi per me si concluse e Domenico Porzio non ebbi più occasione per incontrarlo, Lo ricordo spesso, quel signore discreto, rispettoso, cordiale, dalla cultura immensa, che non amava essere alla ribalta. Sapevo sue notizie da Mario Oriani, che aveva una propria casa editrice in via Chiossetto, a pochi passi dal laboratorio storico del ceramista Giuseppe Rossicone (purtroppo scomparso da qualche mese) e pubblicava cinque riviste importanti, tra cui “Aqua”, e poi “Storia illustrata”.
Erano esaltanti quelle serate in un ristorante ai margini della città affollato di giornalisti, autorità, dal sindaco Carlo Tognoli al prefetto Vicari. Vi si consegnava i premi e gli applausi scrosciavano.


Per le foto ringraziamo il fotografo Carine La Fratta, che seguì lo scrittore nella sua visita a Taranto.

mercoledì 23 luglio 2025

Una radiografia di Sesto e Milano

UN LIBRO DI SARDELLI E GALLIZZI RAPISCE L'ATTENZIONE

 

 


"Eravamo in via Solferino-Quarant’anni di vita al
‘Corriere” racconta l’atmosfera che si viveva in quelle stanze, le “firme” nobili, la disciplina, il rispetto reciproco, l’ordine, la pulizia, i rapporti umani, la storia del giornale: tempio del giornalismo.

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
Un sogno chiamato Corriere: il tempio del giornalismo che si erge in via Solferino. Quanti giovani di valore hanno vagheggiato di far parte del regno di Ottone, Afeltra, Montanelli, Buzzati, Bettiza… Quanti. E Giuseppe Gallizzi, anche lui, ha speso passi per arrivarci. Si rivolse ad un suo conterraneo, Lanocita, di un paese vicino alla sua Nicotera, ma non ottenne risultati; il responsabile delle pagine degli spettacoli gli rispose solo che lo avrebbe aiutato a patto che lui si cercasse un altro spazio per allenarsi, perché “Il Corriere” era il “Corriere”.
Gallizzi. Mieli, Stimolo

Gallizzi era una quercia e non si lasciava fiaccare facilmente. Passarono i giorni e prese a lavorare alla periferia del “Corriere”, scarpinando a Sesto San Giovanni per raccogliere notizie da trasmettere al sacrario del giornalismo. Non credo che abbia fatto il conto delle ore consumate sulla strada, dei chilometri macinati a piedi per andare a mietere in un ospedale, in un commissariato di polizia, in una caserma dei carabinieri. Sapeva già che cosa deve fare un cronista; che cosa deve essere: un cacciatore, un mangiatore di panini e polvere, un corridore, un maratoneta, uno pronto a buttarsi già dal letto alle 2 del mattino per volare sul teatro di un delitto.
Quanti sacrifici, quanta fatica per raggiungere l’obiettivo: entrare al “Corriere”. E alla fine fu arruolato nell’agone dei cronisti di razza. E dopo tanti anni e una carriera brillante (da cronista a inviato, a capo cronista a primo capo redattore), la voglia di raccontare una vita che ha il sapore dell’avventura, della favola diventata realtà. E il racconto, con stile seducente, lo ha steso con Vincenzo Sardelli, “Eravamo in via Solferino”, edito da Minerva. L’ho letto due volte anche per la gioia di apprendere storie e curiosità, fatti e chicche. Gallizzi la prende da lontano, elencando anche ricordi di episodi che lo hanno irrobustito. Comincia con il viaggio verso Milano con la “Freccia del Sud”, un treno sempre zeppo di passeggeri, che si catapultavano nei vagoni attraverso i finestrini, si stendevano per terra, con valigie e altri bagagli occupavano i gabinetti di decenza, le piattaforme, non si poteva quasi neppure respirare e il controllore non poteva chiedere di vedere i biglietti, non riuscendo a tagliare quella catasta umana. Nel grande ventre della stazione centrale occorreva molto tempo per svuotare i vagoni. Se non erro a trainarli era “’a Ciucculatère”, la locomotiva a vapore, un gioiello delle strade ferrate, una gloria, principessa nei miei ricordi, amica dei miei viaggi all’indietro, ma lenta.
Gallizzi e il figlio Francesco

Si era nel dopoguerra, i contadini lasciavano la terra e l’affidavano alle mogli, un salasso memorabile. A Milano bisognava cercare casa e lavoro e nel cercarlo era necessario dimostrare di avere voglia di fare, capacità, carattere, dignità; e occorreva stare attenti a non pronunciare mai la parola “sfortunato”: Milano voleva gente che vince, scartava i perdenti. E i meridionali sbarcati nel capoluogo lombardo dimostravano di volersi inserire, di essere all’altezza di una città che sa donare, ma vuole in cambio la bravura, la serietà, l’impegno. Gallizzi andò a Sesto San Giovanni, la città delle industrie che negli anni sono diventate reperti archeologici. All’epoca c’erano imprenditori illuminati che rispettavano i dipendenti, creavano per loro asili-nido, vacanze, scuole serali per farli crescere, istruirli, scuole professionali per arricchire i loro mestieri, le loro esperienze.
Questo libro è anche un compendio di storia. Gallizzi, casa a Sesto San Giovanni, descrive il passato e il presente della città che ha vissuto, con sapienza, ne fa la radiografia. Ma disegna con tratti decisi anche Milano: Brera, il Bar Giamaica, dove si riuniva la crema dei critici musicali, cinematografici, teatrali, d’arte, degli scrittori, da Salvatore Quasimodo a Emilio Tadini, pittori come Kodra a Carrà, Crippa. Vi faceva una sosta Mussolini che la mattina, andando al “Popolo d’Italia”, prendeva il caffellatte.
Gallizzi e Montanelli

In queste pagine campeggia anche un efficace ritratto della mala dell’Isola e di Porta Genova, le “falene” di via Larga, i night, i trani. Tutto il panorama della città a cui Gaetano Afeltra ha dedicato un volume: “Milano, amore mio”. Don Gaetano conosceva tutto dei percorsi del Porta, del Savini, del Biffi: i ristoranti che emanavano profumi in Galleria e accoglievano i nomi più illustri del mondo. Riferisce persino l’anno, il 1929, in cui sotto le guglie del Duomo arrivò la pizza.
Gallizzi non demorde, scavalca i sassi che incontra, fa il rodaggio in una serie di giornali, tra cui “Il Giorno”, “La Notte”, giorno dopo giorno acquista spessore professionale, sa che cosa aspetta il cronista appena esce di casa, il mattino o la notte: un cronista non ha soste, non ha feste consacrate, vigile anche a Pasqua e a Natale. Lui è pronto per far parte della basilica del giornalismo e finalmente vi entra non dalla sacrestia, ma dal portale principale. Rimane sbalordito dall’atmosfera, dai passamani lucidi, dalle scale brillanti, dal tavolo alla “Times”, dall’ordine, dalla disciplina… E’ il suo giorno migliore, in cui incravattato si presenta al pontefice e poi si sente chiamare signor Gallizzi dai collaboratori di piano. Conosce firme celebri: Montale, per esempio, con il suo aspetto di parroco di campagna. Lanocita fa il critico cinematografico ed è scrittore consacrato. Gallizzi incontra il mito, Gaetano Afeltra; Indro Montanelli. Il ragazzo venuto da Nicotera, in terra di Calabria, per fare il suo ingresso al “Corriere” ha fatto la sua gavetta e ha conquistato il titolo di cronista, una conquista importante, quasi nobiliare. Pronto a tutto, rispettoso dei fatti di cui si occupa, li racconta con onestà, senza enfasi, senza ricami, ma così come li ha visti, come li ha vissuti. Il suo nome circola, viene rispettato. Da inviato tiene la valigia in anticamera, per afferrarla subito e partire. Quando il “Corriere” chiama bisogna essere già sul posto indicato.
Giovanni Raimondi e Pier Maria Paoletti

Ormai è chiaro che Giuseppe Gallizzi è nato giornalista. Ha imparato la tecnica del mestiere, ma lui è già un Tito Livio moderno. “Eravamo in via Solferino” è un libro che si lascia leggere con piacere: contiene nomi di cronisti noti e stimati, che fanno parte della scuderia: Alfredo Falletta, Max Monti, Arnaldo Giuliani, Fabio Mantica, Alberto Berticelli, Paolo Longanesi..... Gallizzi parla con l’orgoglio del figlio per un padre eccellente. Passando da una pagina all’altra, sfilano i ritratti di Alberto Cavallari, che “era un ingegno multiforme”; Giulio Nascimbeni tra l’altro biografo di Montale; Ugo Stille, un americano a Milano; Paolo Mieli, Giovanni Spadolini, Franco Di Bella, “il mago della cronaca nera”. Se non ricordo male fu proprio Di Bella a inventare l’etichetta di “solista del mitra” per Luciano Lutring, per la custodia di violino trovata nell’androne di un palazzo da cui il fuggiasco era stato visto uscire. Di Bella era una mente. Con gli articoli di cronaca ogni giorno imponeva alla sua squadra un viaggio attraverso la città e quei cavalli murgesi galoppavano infilandosi in luoghi oscuri, impervi, a volte pericolosi per strappare un briciolo di notizia o uno “scoop”, come accadde a Paolo Chiarelli in una roccaforte della droga con sentinelle dappertutto pronte a segnalare la presenza di sconosciuti o delle forze dell’ordine.
“Eravamo in via Solferino” appassiona, affascina., rapisce: descrive incisivamente personaggi, situazioni, luoghi, episodi, tra cui l’uscita e il rientro del grande Montanelli al “Corriere”. Arrivato all’ultima pagina, il lettore è più ricco: conosce molte vicende del giornalismo italiano, spesso tormentate. Le penne d’oro sono descritte con l’efficacia del pennello di un pittore. Ed emerge la figura di Ferruccio De Bortoli, il più recente comandante del bastimento: carismatico, simpatico, cortese, preparatissimo anche sulla storia e le storie di Milano. Salito in plancia nel ‘97, “fra tutti quelli che si sono avvicendati al vertice del ’Corsera’ in questi ultimi anni De Bortoli è forse il più corrierista”. Era entrato giovanissimo al “Corriere dei ragazzi”. Da lì caporedattore alle pagine di economia, vicedirettore, al vertice del tempio. Uomo di vasta cultura e dai modi da gentiluomo, energico, inflessibile, capace di “tirar fuori le unghie fino all’aggressività”.
Gallizzi e Alberto Sordi al Circolo della Stampa

Poi per tutti arriva il momento della pensione e anche per Gallizzi è arrivata quella scadenza. Ma ha aperto un’altra, fondando “La voce del giornalista”, e lotta ancora per mantenere la sua lista ben salda all’Ordine dei giornalisti.
E’ stato presidente del circolo della Stampa, dove ha ricevuto personalità come Rita Levi Montalcini, Romano Prodi, attori come Alberto Sordi.. In una foto appare Gallizzi in cima a uno scoglio, come la vetta del “Corriere”.
Un libro da non lasciare in libreria. Presentato da Vittorio Feltri, e con una dotta prefazione di Vincenzo Sardelli, brindisino, laureato in Lettere alla Cattolica di Milano, insegnante di italiano e storia; collaboratore di più giornali, ha scritto articoli di antropologia, filosofia, storia, letteratura e sociologia. Di Gallizzi dice che era un capo garbato e che la sua porta anche al Circolo della Stampa era sempre aperta. Gallizzi è cordiale e disponibile anche nella vita.

mercoledì 16 luglio 2025

Celebrato Nunzio Schema a Fasano

UN ILLUSTRE EDITORE CHE FECE ONORE AL SUD

 



Nunzio Schena

Nella sua tipografia ricevette Giovanni Spadolini,
il Dalai Lama... Fu ammirato da Paolo Grassi; si fece stimare anche al Nord. Pubblicò migliaia di volumi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI

 

Non si può dimenticare Nunzio Schema: l’editore di Fasano che anni fa aveva uffici e tipografia in via Della Stazione, dove riceveva personalità prestigiose.
l'editore Schena con Spadolini

Dalla sua finestra poteva ascoltare il fischio del treno che andava e veniva da Milano. Qualche volta quella locomotiva ha tirato il vagone in cui era seduto anche lui, diretto a Pavia, dove ha lasciato un segno incancellabile. Nunzio era un gentiluomo che dialogava con grande rispetto dell’interlocutore. Sapeva raccontarsi tenendo sempre sveglia l’attenzione di chi l’ascoltava. La sua storia è affascinante: quella di un imprenditore librario che ha fatto tanto e bene il suo mestiere. E’ stato celebrato un paio di mesi fa nella sua città come “il ragazzo che amava leggere i libri”. Ricorrono cento anni dalla sua nascita; e sicuramente numerose persone sono andate da altri angoli della Puglia per assistere anche alla “pièce” a lui dedicata.
Edificante rispolverare la vita e le opere di Schena, che evoca i tanti personaggi che gli fecero visita nella sua città collocata fra il mare e la collina, nella sua Grafischena a un tiro di schioppo da un ulivo saraceno così antico da essere piegato come la schiena di un vecchio bracciante. Nell’elenco, spiccano i nomi di Giovanni Spadolini - la cui biografia comprende incarichi di docente universitario, di ministro e di presidente del Consiglio di direttore prima del “Resto Del Carlino” di Bologna, poi del “Corriere della Sera” - il Dalai Lama...
Nunzio e Angela Schena

Durante l’incontro con Schena, Spadolini disse che “essere qui a Fasano, da un editore del Mezzogiorno, Nunzio Schena, che ha il coraggio di alimentare la pianta della cultura al di là della convenienza economica; che è impegnato in tante imprese anche appoggiato dalle Università della Puglia, compresa quella di Bari, è per me motivo di soddisfazione e di orgoglio”.
Tanti anni fa ebbi il piacere d’intervistarlo, Schena, alla presenza della figlia Angela, di Vinicio Aquaro, che scrive sulle pagine della “Gazzetta del Mezzogiorno”, e dell’assessore milanese Siro Brondoni. L’editore era un uomo spiritoso e lo dimostrò anche in quel colloquio, dicendomi che era del ‘25, ma non poteva morire “perché mi riferiscono che all’inferno hanno fatto il pieno”. Angela, manager dell’azienda, che stava in piedi di fianco a lui, aprì un sorriso dolce e divertito. Era evidentemente orgogliosa di quel padre generoso, ospitale, intelligente, affabile, grande lavoratore, oltre che ricco di idee. Lo conoscevano tutti, non soltanto in Puglia, ma anche al Nord, nella città della Certosa, del Castello Visconteo, del ponte coperto: Pavia.
Mi appassionava la vicenda di quest’uomo, che per costruire il suo opificio aveva lavorato 12 ore al giorno. Mi colpiva la passione, la tenacia, l’energia con cui aveva raggiunto il luminoso traguardo. Schena non era stato bene, ma aveva accettato ugualmente d’incontrarmi. Amava parlare con voce bassa, senza retorica, senza termini superflui. Sapevo che non gradiva le domande che rasentavano il pettegolezzo e quelle inutili, banali, superflue. Se costretto, si manteneva sul vago, tagliava le frasi, fingeva: “La mia memoria fa cilecca”. Un’intervista può anche essere un duello, ma con argomenti sostanziosi, costruttivi, in modo che chi ha in mano il taccuino e chi lo fa riempire si sentano arricchiti.
Nunzio Schena con Giovanni Paolo II

Tommaso Fiore lo avrebbe definito un “formicone di Puglia”, che ricevette elogi anche da Papa Giovanni Paolo II, che aveva espresso il desiderio di conoscerlo. Grande Nunzio: ha davvero dato lustro alla sua città, alla nostra Puglia. E’ stato sempre puntuale, tempestivo. Nel ‘90, per la visita del Papa a Taranto – mi riferì l’avvocato Elio Greco – pubblicò il libro “Una vela di speranza”. E il Santo Padre lo invitò in Vaticano e l’abbracciò, dicendogli: “Da quando giro il mondo tutti sfornano libri, il tuo è il più bello”. Che soddisfazione! Che gioia! Vero Nunzio?
I volumi usciti dalla Grafischena non erano, e non sono, soltanto interessanti, ma anche ben curati, eleganti, con copertine ammirevoli, in cui c’era lo zampino del cognato, che, partito da Benevento e approdato a Fasano, nella tipografia di Nunzio ebbe il colpo di fulmine: “Addio al lavoro di ragioniere, scelgo quello di grafico in quest’azienda” che ha il sacrificio nelle radici.
Schena con il professor De Marsico

Quando scendevo in Puglia per bere l’aria pura e ristoratrice di Martina Franca e assaporare il profumo del Mar Piccolo a Taranto, ascoltando il dialetto dalle labbra screpolate dei pescatori, trovavo sempre qualcuno che mi parlava di Nunzio Schena: Nico Blasi, Piero Mandrillo, Francesco Lenoci ... In una delle mie solite corse a Crispiano, un giorno, conversando sulla ricchezza di testi, molti, di Schena, nella Biblioteca “C. Natale, il direttore Michele Annese, che era contemporaneamente segretario generale della Comunità Montana, mostrandomi un’opera piena di immagini di Santi, commentò, sfogliandola, che Nunzio era un editore di alto livello, di grande professionalità e serietà. “In occasione dell’inaugurazione del nostro Centro Studi Montaliani – aggiunse – Schena pubblicò un testo di Giuseppe Milano sul Premio Nobel autore di “Ossi di seppia”: Montale. E deragliando ricordo che dopo tanti anni dalla morte del padre la figlia Angela ha pubblicato, nel 2020, “La Biblioteca di Crispiano”, opera dello stesso Annese, contenente documenti, testimonianze, ritagli di giornali, foto di un’esperienza di promozione culturale, sociale e turistica del territorio.
Altri giudizi raccolsi a Martina Franca, dove Franco Carrozzo, allora comandante dei vigili urbani (scomparso da qualche mese), autore di un libro sulla polizia locale, esaltò l’impegno, lo zelo, l’accuratezza, la sensibilità dell’editore Schena e il suo gusto grafico. Vinicio Aquaro, che è pure presidente nazionale del Premio Valle d’Itria, ebbe anche lui parole esaltanti per Nunzio. “Nunzio Schena è stato un anticipatore, non ha mai guardato ai soldi ma al prodotto. E’ nato editore, non lo ha deciso in corso d’opera. Tra l’altro ha curato con dedizione e maestria ‘Lo scudo’, il primo periodico pugliese, e le opere di Alfredo De Marsico (1888-1985), principe del foro, dominatore della parola e ministro, che lo apprezzava tantissimo”. Per la cronaca, nei salotti di Napoli all’epoca le signore amavano passare il tempo leggendo e commentando le arringhe dell’oratore napoletano, che non apprezzava; e non ne faceva mistero.
Nunzio Schema già ragazzo rileggeva libri. Con il passar del tempo cominciò a prendere dimestichezza con gli strumenti tipografici nello stabilimento di Callisto De Robertis a Putignano. E confezionava due giornali: uno, “Il seggio”, ricavava il nome da un’antica piazza di Fasano. Spenti i bagliori della guerra, a Milano frequentò la tipografia dell’Opera di don Guanella, dove si guadagnò la simpatia, la stima e l’affetto di tutti al punto che fecero di tutto per non lasciarlo andare. Ma lui pensava a un impianto tutto suo.
Schena, a sinistra, con Paolo Grassi

E per realizzare il sogno fece il rappresentante di cartiere, tra cui la Cressati di Noci. Ma ci andava soprattutto per osservare, studiare, impossessarsi dei metodi che ispiravano il lavoro nelle tipografie.
Schena è noto anche per le sue decisioni-lampo, per il rispetto dei tempi. Era il 1983 quando stampò “Gli studi di cultura francese ed europea” in onore di Lorenza Maranini. La richiesta era arrivata dall’Università di Pavia. L’ateneo elogiò la tempestività e concesse a Schena la laurea “honoris causa” in Lettere e organizzò una mostra del libro su Garibaldi. Successo meritatissimo per Schena: aveva consegnato gli “Studi” a tempo di record, onorando la sua parola: l’Università aveva fretta e case editrici più famose si erano tirate indietro. Non se l’erano sentita di eseguire il prodotto in un mese e Schena lo fece in 25 giorni.
Quanta strada, quanta polvere mandata giù. E quante chicche nel suo “curriculum”. Eccone una: nei primi tempi, per andare da Fasano a Putignano in sella a un trabiccolo, lungo la strada si agganciava a un bugno del pullman di linea, superava il mezzo a Laureto, lo anticipava a Locorotondo, proseguiva per Alberobello, quindi per Putignano, per fare il giornale.
Oltre che grande lavoratore era geniale. Tra l’altro era stato lui a dare il nome al Premio della Fondazione Nuove Proposte Culturali di Elio Greco, che si svolse più volte anche a Milano al Circolo della Stampa (un’edizione fu assegnata ad Emilio Pozzi, giornalista della Rai, esperto di teatro e autore di libri sull’argomento).
Nunzio Schena ha mietuto, oltre a tanti consensi, anche onorificenze: nell’87 il governo francese lo nominò “chevalier dans l’ordre des artistes e des lettres; nell’88 il capo dello Stato gli conferì il titolo di grand’ufficiale al merito della Repubblica italiana...
Schena, a destra, con il Dalai Lama

Sempre nell’88 e oltre la Grafischena partecipò alla Buchmesse di Francoforte e al Salone del libro di Torino. Alcuni suoi volumi furono presentati alla Terrazza Martini, in piazza Diaz, a Milano, a pochi passi dalle guglie del Duomo.
Fu un piacere per me incontrare quest’uomo che, ripeto, fu lodato anche dal Dalai Lama, che nel ‘90 gli volle donare la sciarpa di lino, segno di eterna amicizia. Schena aveva pubblicato fra le sue migliaia di libri “Tibet in fiamme”, con intervista esclusiva al capo supremo della religione lamaistica e già capo teocratico del vasto altopiano dell’Asia Centrale.
Si fece mezzogiorno e Nunzio si alzò in piedi, sussurrandomi: “Diamoci del tu, è più semplice”. “Onorato, Nunzio”. Ora “il ragazzo che amava i libri” nel centenario della sua nascita è stato celebrato con significative manifestazioni a Fasano. Mi associo al ricordo, pensando che Nunzio Schena fondò la casa editrice nel ‘63, dopo aver eretto lo stabilimento tipografico nel ‘47. Sia gloria a Nunzio Schema.