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mercoledì 10 dicembre 2025

I cronisti non amano raccontarsi

VITE MOLTO ENTUSIASMANTI MA CON QUALCHE PERICOLO

 

 


Berticelli,Rizza, Molossi
Nell’albo d’oro della cronaca ecco i nomi dei grandi maestri: Giuliani, Mantica, Gallizzi, Rizza, Mercuri , Conoscente, Falletta… Lavorare in cronaca è un onore. 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 


Un tempo i cronisti erano grandi marciatori. Qualcuno andava in bicicletta, come Giovannino Guareschi, quando stava a “Candido”.
Tanino Gadda
Occupandosi di cronaca, allora, soprattutto di “nera”, per procurarsi la notizia si faceva tanta strada, mangiando pane e polvere. Ne mangiarono Arnaldo Giuliani, Fabio Mantica, Max Monti, Patrizio Fusar, Salvatore Conoscente, Alfredo Falletta...: chi del “Corrierone”, chi del “Giorno”. E qualche volta rischiavano la vita. Come Giuliani e Mantica, che una notte appiattiti sull’erba all’Idroscalo assistettero a un duello rusticano. Restarono lì immobili come statue di marmo, fino a quando i duellanti non abbandonarono il campo e uno di loro andò al lavoro in un hotel del centro di Milano. Quando il maresciallo Ferdinando Oscuri seppe da un suo ”trombettiere” (confidente) il nome di uno dei due spadaccini, andò a trovarlo e cominciò a fargli domande prendendole alla larga. A un certo punto gli dette una manata sul ventre e quello si ritrasse per il dolore. Era quello che cercava.
Leggere quelle cronache è come immergersi in un romanzo di avventure. Patrizio Fusar seguì per una settimana un ricercato di grosso spessore. Il vice direttore del giornale., l’inflessibile Angelo Rozzoni, uomo dalle promesse di ferro, tenendo che fosse stanco, gli propose di farsi sostituire da un collega e lui si rifiutò di cedere il passo. Alla fine raccontò i percorsi, le soste, gli incontri che l’uomo aveva compiuto.
Franco Di Bella, allora capo cronista del quotidiano di via Solferino, incaricò Mantica di rintracciare per intervistarlo uno dei personaggi più rappresentativi della mafia americana, che doveva il nome a una donna che in un momento di estasi gli aveva detto: “Sei davvero bello, un dio”.
Il questore Plantone e Giuliani
Mantica prese al balzo l’incarico. Milano non è Locorotondo e il povero cronista consumò un bel po’ di suole per localizzare l’uomo spedito in Italia come indesiderabile. Alla fine lo scovò in una casa di ringhiera, ma venne bloccato da una guardia del corpo. Il cronista non poteva rientrare scusandosi di non essere riuscito a superare questo muro; così si appostò e approfittando di un momento favorevole si avvicinò al “boss”.
Così era la cronaca a quei tempi. Anni ‘50-’60. Una notte Arnaldo Giuliani passava per via Beccaria, quando una voce da un’auto lo chiamò. Lui si voltò e riconobbe il bandito che mirava al comando di Milano: il più famoso, determinato, implacabile e anche un bell’uomo, spiritoso ed elegante. Arnaldo rispose al saluto e andò via, con il suo garbo proverbiale. In quella malandra anche un mancato saluto può essere considerato uno sgarbo.
Giancarlo Magalli, quando conduceva “I fatti vostri” sul secondo canale, chiamò un cronista per raccontare il giorno in cui aveva lo stesso capobanda. L’occasione fu l’uscita di un libro sulla sua vita e le sue imprese, lì rappresentato dal figlio, notoriamente un gran bravo ragazzo. Poteva capitare che un cronista incontrasse un duro della malavita e ne raccogliesse la storia. Ricordo che ci fu un lungo preliminare prima di essere ammesso alla sua presenza. Devo aggiungere che la mala rispettava i cronisti e le forze dell’ordine e non puntava mai il mitra contro di loro. Vito Plantone, grande poliziotto, come Mario Iovine, Antonio Pagnozzi, Enzo Caracciolo, Ferdinando Oscuri…, quando era questore di Catanzaro mi raccontò un episodio: una sera in compagnia di alcuni colleghi e le mogli entrò in un ristorante molto noto e notò subito seduti a un tavolo un gruppo di pellacce, che quando i nuovi venuti avevano preso posto uscirono facendo arrivare pochi minuti dopo un grosso mazzo di rose rosse per le signore.
Enzo Catania
I poliziotti in servizio allora andavano in bicicletta o a piedi se non avevano la due ruote. Insomma cronisti e agenti cacciavano, ognuno con obiettivo diverso, con i mezzi a disposizione. E diventare cronista era una promozione sul campo, come scrive Giuseppe Gallizzi, giunto a Milano da Nicotera Marina con la Freccia del Sud, magari tirata dalla locomotiva a vapore. Anche lui ha fatto il suo percorso accidentato cosparso di sacrifici, di ore rubate al sonno, di scarpinate interminabili, prima di essere promosso cronista al “Corriere della Sera”, per poi arrivare alla guida delle edizioni regionali e infine alla carica di caporedattore centrale.
Essere cronista, per me, è come avere un titolo nobiliare, con la differenza che chi appartiene a un casato vive nell’agio e nella tranquillità; mentre il cronista nell’ansia e dorme, quando dorme, con un occhio aperto anche perché aspetta la telefonata dell’amico che lo informi di un delitto. Quello del cronista è un mestiere adorabile, affascinante, ricco di sorprese e di bugie, quelle che a volte si dicono per farsi aprire una via d’accesso. Un collega affezionato si presentò a un testimone per ricevere notizie dell’arresto di un famoso brigatista sotto le finestre di un convento; quello non avrebbe parlato neppure neppure sotto tortura, ma la parola può essere a volte magica. Si camuffò e riempì il carniere.
Nino Gorio
Non c’erano i telefonini, e se un cane da tartufi, come venivano definiti i cronisti, si trovava in aperta campagna poteva avere difficoltà a chiamare il giornale, se la radio installata sull’auto diventava muta. Una sera un altro collega era in via Cascina Barocco, estrema periferia della città, dov’era stata trovata una donna uccisa e incendiata; l’autista gli disse che era in ritardo a un anniversario in famiglia ed ebbe il consenso di lasciare il campo. Il mastino rimase a piedi, ma la circostanza gli fu favorevole, perché, attendendo un’altra auto del giornale, fece una notevole mietitura.
Qualche volta interviene la fortuna. Il mastino si trova in strada, scoppia una sparatoria fra bande rivali, è ovvio che vede la dinamica del conflitto in esclusiva. Ha l’idea di andare a sentire i parenti di una vittima, può capitare che con lui parlino e con gli altri no. La vecchia guardia della categoria ha fatto proseliti: Luca Fazzo, Fabrizio Gatti, Piero Colaprico, Goffredo Buccini, trasmigrato dal giornale del pomeriggio “La Notte” a “Repubblica, quindi al tempio del giornalismo, “Il Corriere”; Colaprico, andato in pensione, è diventato direttore artistico dello storico Teatro Gerolamo. Tra loro c’era guerra, ma con qualcuno lavorare era come giocare al calcio: se uno forava la rete non si sentiva un campione. In ogni caso essere cronista voleva dire avere un fiore all’occhiello..
E’ un mestiere esaltante, ti porta da una parte all’altra, ti chiama su teatri sempre diversi; ti fa assistere a un assedio a banditi armati, asserragliati in una banca, con le forze dell’ordine che tentano di farli uscire senza spargimento di sangue.
Piero Colaprico
Ricordo la rapina alla banca di piazza Insubria: i rapinatori dentro con un mucchio di clienti, tra cui un nonno con il nipotino; il giudice Dell’Osso e il capo della Squadra Mobile Achille Serra fuori impegnati in un patteggiamento durato dalle 9 del mattino alle 4 del pomeriggio, attorniati dai cronisti e da una folla di curiosi, tra cui i parenti dei sequestrati. E ricordo la rapina finita male, con il corpo esanime di uno del commando sul selciato; e il padre che parlando con un cronista ebbe parole amare per quel figlio vissuto male.
E poi i giorni del terrorismo, con i brigatisti che la notte chiamavano il giornale per dare “ordine” al cronista di recuperare un loro volantino lasciato in un cestino portarifiuti, nel mezzanino della metropolitana di via Palestro di fronte alle scale sulla ribalta dell’edicola chiusa per l’ora, o altrove, vicino a una chiesa o a una fabbrica. E poi l’arrivo in redazione dei carabinieri, che, informati, chiedevano il volantino e notizie sul tipo di voce, se giovanile o adulta; l’accento, l’ora della chiamata, il contenuto, la durata, se direttamente al tuo telefono o al centralino; e mettevano tutto a verbale. Nel mezzanino del metrò in via Palestro due donne aspettavano il cronista, una facendo finta di accendere la sigaretta ne fissava la sagoma. L’autista si fermò a una certa distanza dall‘ingresso del metrò, perché lui, disse, non era pagato per rischiare.
L'ispettore Sala, Colaprico, Presicci
Una vita fatta di ansia, di lunghe ore di attese, di corse, ma entusiasmante. Ne capitavano di tutti i colori. Anche l’uomo che veniva a protestare, dopo aver fatto chiasso in municipio, perché chiedendo il rinnovo della tessera di riconoscimento gliel’avevano negata perché nello spazio riservato alla professione aveva scritto combattente per la libertà. E quell’altro che si chiamava Crocifisso e nei documenti, nel centro del nome, si trovava una volta la “i” e un’altra volta la “e”. Ricordo un rapinatore degli anni 50. che si appostò davanti alla mia scrivania chiedendo che venisse raccontata la sua storia. “Ma come, lei ha figli e magari nipoti, che figura fa anche con gli abitamti del paese?”. “Ma proprio per quelli chiedo di essere raccontato da un giornalista, così mi crederanno”.
A volte le giornate del cronista sono divertenti. Gli capita d’imbattersi in in ogni tipo di personaggio come quello che alloggiava in un albergo e poi se ne andava senza pagare. Aveva lasciato pendenze in parecchi hotel; e quando il cronista raccontò la vicenda venne a protestare al giornale, pretendendo che gli venisse rivelata la fonte. E giacché c’era, voleva vendere un cesto di notizie.

mercoledì 3 dicembre 2025

Un nome da non dimenticare


MICHELE ANNESE UN COSTRUTTORE

 

 



Michele Annese
Un uomo poliedrico, volitivo, una fucina di idee,
sostenitore  della cultura; la biblioteca di Crispiano da lui diretta dava a chi aveva voglia di sapere tutto il nutrimento necessario.

 

 

 

 

 


 

 

 

 

FRANCO PRESICCI

 

Conosco tante masserie di Crispiano. Grazie al compianto Michele Annese, che le amava e vistava spesso. Mi coinvolse in queste passeggiate, sapendo della mia curiosità. Mi presentò ai proprietari, ai lavoratori e a quelli che per ragioni di piacere o di lavoro le frequentavano. Assistetti a feste, a manifestazioni culturali, a sPilanopettacoli teatrali, a incontri con stranieri. 
Annese e il notaio Aquaro
Alla Pilano mi trovai tra bancarelle colme di prodotti di ogni sorta e addirittura di oggetti d’arte, come quella dell’artista che faceva i Don Chisciotte con un fil di ferro. L’ambiente mi ha sempre affascinato: per la struttura architettonica, le stalle con cavalli miti e disposti alla carezza, come alla Cino del Duca, dove una sera venne presentato il libro “Puglia, il mio cuore”, di Giuseppe Giacovazzo, che tenne avvinta la gente con il racconto di tanti episodi, compreso quello di San Pio scatenato contro i fotografi invadenti. Alle Monache fui ospite di una serata che celebrava il gemellaggio con la Grecia, di cui Annese era stato il fautore. Al tavolo con me, proprio davanti all’ingresso del salone, Donato Plantone, segretario comunale della città. Vedemmo arrivare “lìmme” di ciliege-ferrovia e carne dopo un saporito piatto di orecchiette. E sentimmo i discorsi dei greci, più che soddisfatti di questa unione. Michele, quando era necessario, prendeva la parola per discorsi brevi e succosi. Poi lasciava il microfono agli altri e non interveniva più. Ricordo un’iniziativa con le donne che s’immedesimavano nei vecchi mestieri e due briganti con tanto di archibugio che fingevano di sorvegliare e invece giravano per mostrare l’abbigliamento di quelle bande che qualche secolo fa terrorizzavano anche le masserie.
Michele Annese
La prima struttura in cui entrai, sempre accompagnato da questo Cicerone colto e disponibile, fu la Lupoli della famiglia Perrone. che abitava (Luigi ci abita ancora) in via D’Aquino, a un tiro di fionda dal ponte girevole. L’ho sentito un paio di anni fa e mi ha parlato anche della sua collezione di “perdùne” in processione, in terracotta e con fattezze ben definite. Di questa masseria ho in mente il grande Crocifisso sulla sinistra dell’ingresso e la vecchietta con il bastone, che faceva fatica a rispondere alle mie domande; il museo della civiltà contadina, iniziato dal capofamiglia, autore anche di una pubblicazione in cui gli oggetti sono spiegati con chiarezza.
In un bellissimo volume, di cui Michele era entusiasta, perché frutto di una sua idea, la Lupoli, con le altre 99 masserie di Crispiano, viene presentata da una scheda informativa e da fotografie bellissime che mostrano i vari saloni, la cucina, la camera da letto, il salotto, la cappella, la torre con la campana… Costruita nel XVI secolo, è a corte chiusa, per difendersi dai malintenzionati, ed è un’azienda agricola. Le foto sono di Romano Gualdi di Caselfranco Emilia. La prima edizione è del 1988.
Quanta ricchezza mi ha dato questo volume, che pesa due chili ed ha tra gli autori Silvia Laddomada, tra l’altro direttrice dell’Università del Sapere e del Tempo libero. Tra le tante vedute, quelle di una donna che inforna il pane, il massaro con grossi baffi bianchi... Sono ancora grato a Michele per avermi aperto queste porte, facendomi prendere contatto con un mondo sconosciuto. Queste cento masserie sono dei gioielli. Sono stato a Le Mesole, alla Francesca, dove vive un cavallo che balla la pizzica… Qui tra piatti gustosi e gentilezza nel servizio c’era Vito Santoro, che si esibiva con la sua fisarmonica, spargendo allegria anche con i racconti di vita che fluivano dalla sua memoria.
Annese e Silvia al Piccolo Teatro

Quando Michele mi telefonava a Martina per invitarmi a fare due passi, sapevo che la destinazione era la Pilano o la Belmonte, dove c’era sempre qualcuno che ti parlava di Pizzichicchio. Cosimo Mazzeo, acciuffato dai soldati nella gola del camino. Era nato nel 1837 a San Marzano di San Giuseppe e aveva imperversato a Martina, Gioia del Colle, Taranto, Grottaglie. Inoltre aveva preso parte attiva all’irruzione a Cellino San Marco e in altri paesi.
Quando io ero piccolo lo sentivo nominare anche in famiglia. Franco Zoppo, docente di italiano e scrittore, tarantino doc, che abitava in via Margherita, nella Bimare, trasferendosi poi prima a Venezia, poi credo a Trieste, ha scritto un interessantissimo libro intitolato “Belmonte”, che Filippo Alto, a quel tempo responsabile delle attività culturali dell’Associazione regionale pugliesi di Milano, fece presentare da Arnaldo Giuliani, capo cronista del “Corriere della Sera”.
Annese, De Lucretiis, Santoro

Adesso Michele Annese non c’è più e abbiamo perso moltissimo. Perchè Michele era l’anima di tanti progetti e di altrettante imprese che vi si svolgevano nelle masserie e in altri luoghi. Lui era il principe della biblioteca “Carlo Natale”, il “deus machina” di ciò che accadeva a Crispiano, soprattuto nel campo culturale. Quel santuario di cultura, che era la biblioteca, ai suoi tempi e grazie a lui, fu un cantiere sempre aperto. Non soddisfaceva ogni richiesta da parte di studenti, lavoratori, anziani assetati di cultura, procurando loro i libri richiesi e quelli suggeriti , ma mandava i testi nei condomini, li esponeva nelle vetrine dei negozi, invitava gli scrittori a Crispiano per illustrare l’ultimo parto. Dette incarico ad Anna De Marco, una signora preparata, cortese e volenterosa, a curare le visite agli asini di Martina Franca, razza speciale, nella masseria Russoli.
Quanta energia impegnava per la sua città. Aveva idee, una gran voglia di metterle in atto e lo faceva senza perdere tempo. Partecipava a tutte le manifestazioni che si svolgevano anche a Martina Franca, prendeva, se richiesto, la parola, portava le sue testimonianze. L’ultima, la commemorazione di Elio Greco, fondatore di Nuove Proposte culturali. Stava già male ed era evidente.
Quando la biblioteca fu chiusa, lui creò l’Università del Tempo libero e del sapere, diretta dalla moglie Silvia Laddomada, che la tiene brillantemente in piedi con conferenze tenute oltre che da lei, anche da esperti d’arte e di altri settori. In quella sala si parla anche di tradizioni locali, di vita quotidiana e si fa anche festa in occasione di ricorrenze. Gabriele Annese, geniale consigliere comunale con delega allo sport, regge l’apparato tecnico che serve anche alla lavorazione di video. Insomma l’università è una fucina, dove fino a qualche anno fa si vedeva ai margini Michele, un santo protettore. Adesso questa figura è scomparsa, ma l’istituzione continua la sua opera sul suo esempio. A Crispiano lo ricordano, e come, Michele. Bisognerebbe creare un premio con il suo nome: un Premio per le persone che si distinguono non soltanto a Crispiano, ma anche nel circondario, anche nella regione; pensare a una targa con il suo nome, come hanno fatto per Filippo Alto a Locorotondo. “Via Michele Annese”, in centro, non in periferia. Michele merita questo ed altro. Anche le masserie dovrebbero muoversi, sollecitare. Per la giurìa potrebbero essere coinvolte personalità come Antonio Scialpi, docente e storico, e Nico Blasi, anima della preziosissima rivista “Umanesimo della Pietra”.
Ho detto troppo, non ho i titoli per aggiungere altro.
Michele Annese e Donato Basso

Mi si potrebbe dire che Michele nella sua città è stato già ricordato e in maniera straordinaria. Ma va tenuta sempre presente la sua memoria, perché ha fatto tanto per la cultura, da quando un gruppo di cittadini lo bloccò sul predellino del treno diretto al Nord, supplicandolo di non partire, perché c’era la biblioteca da costruire. Michele si convinse e scese dal convoglio, sapendo che Crispiano aveva bisogno di uno come lui: un costruttore, che non va dimenticato.
Michele è stato una figura eccezionale, ha tra l’altro inventato questo giornale, che non passa inosservato, anzi. E avrebbe fatto tante altre cose, se la malattia, non si fosse accanita inesorabilmente, portandoselo via. Michele è stato una pietra miliare, un suggeritore, una fucina di idee. Il suo nome deve essere scritto a grossi caratteri nella storia della sua città, generosa e accogliente come tutti sanno.

mercoledì 26 novembre 2025

L’artista Osvaldo Menegazzi

IL RE DEI TAROCCHI STORICI PARLAVA CON GLI UCCELLI

 


Osvaldo Menegazzi
Lo conobbi tantissimi anni fa in via Bottelli, nel quartiere Greco, dove dipingeva quadri surreali e faceva diorami con soldati in divisa  napoleonica. Era un vulcano di idee e un uomo generoso.

 

 

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI
 
 
 

Ordinava i tarocchi nel suo negozio e parlava con i passerotti. Un giorno andai per intervistarlo e verso la fine della conversazione si alzò e andò verso un mobile di fronte all’ingresso. E lì lo sentii dire: “Non ho il momento adesso, torma verso mezzogiorno. Quella è l’ora di pranzo: Non puoi avere sempre fame”.
Osvaldo Menegazzi e Vito Arienti

Incuriosito, sbirciai e lo vidi vicino a un tavolo con un mazzo di carte in mano e un passero che lo osservava. Domandai: “Osvaldo, che cosa fai, parli con i volatili?”. Non riesco a capacitarmi, sono sempre, qui, qualcuno, senza che me ne accorga rimane dentro quando chiudo e dorme su quella mensola in alto e quando riapro scende per fare colazione”.
Una bella storia, questa. Immagina il titolo dell’articolo: “Osvaldo Menegazzi, il re dei tarocchi, parla con gli uccelli”. “Una mattina si presentò uno di loro e io gli detti un po’ di molliche di pane e da allora è tornato con tutta la famiglia”. Osvaldo riservava sempre delle sorprese. Lo conobbi quando aveva lo studio in via Bottelli, a Greco, di fronte alla scuola elementare e un vecchio cinema, quando confezionava diorami, popolati da soldati napoleonici, e conchiglie che navigavano fra le nuvole in olio su tela. L’esercito di Bonaparte gli forniva idee quando realizzava i suoi tarocchi.
“E’ geniale – mi disse Vito Arienti, uno dei più grandi collezionisti di carte storiche d’Europa, che nella sua tipografia di Lissone ristampava carte con secoli di vita. Come “La geografia intrecciata nel gioco dei tarocchi”, che nel settembre del 1725, creò non pochi problemi all’autore, allo stampatore e ai possessori. Il mazzo fu condannato al rogo nella pubblica piazza di Bologna per decisione del cardinale Ruffo. Motivo? Alla carta numero 21 era indicato un governo misto nella città felsinea, mentre per il prelato e per il Vaticano era papale.
Un mazzo e carte

Arienti e Menegazzi si frequentavano da tempo, pur avendo caratteri diversi: il primo era austero, pacato, di poche parole; il secondo un vulcano, con la faccia da patriota risorgimentale, che avrebbe potuto fare da modello per la carta di un disegnatore raffinato. Era anche generoso e si compiaceva quando qualcuno leggeva un articolo di giornale che parlava di lui: gli piaceva il suono con cui le parole venivano pronunciate. Aveva i capelli, la barba e i baffi bianchi ben curati e vestiva con eleganza, prevalentemente di scuro, con una specie di amuleto che gli pendeva sul petto. Era spesso di buon umore, la sua ironia sapida rendeva gli incontri piacevoli. Interrompeva le domande con una risata scoppiettante, quando l’interlocutore lo provocava, lo stuzzicava, gli sollecitava risposte sulla sua vita sentimentale. Era riservato. Il grande esperto mondiale di carte Kaplan inserì un suo mazzo nella sua enciclopedia, un onore di cui Osvaldo andava fiero. E lieto per una foto che lo ritraeva con e Arienti. Ne aveva anche con lo stesso Kaplan. Tante persone realizzavano originali disegni per le sue carte.
Un pomeriggio mi invitò ad andare ad Altare, provincia di Savona, dove i Bormioli padre e figlio eseguivano soldatini di piombo e il figlio faceva anche bottiglie di vetro infilandovi dentro le navi. Lo fece alla mia presenza e così capii, dopo anni di domande e di ipotesi, come avveniva che un cacciatorpediniere entrasse in un vetro. Mi colpì il lavoro del padre, che faceva delle facce fortemente espressive: i suoi soldatini erano dei capolavori. La sera fummo invitati a mangiare a casa dei due artisti, iscritti alla Società di Storia patria, riso con i tartufi. Mi sfuggono i nomi di battesimo: erano gli anni ‘70. Ricordo che il giovane lavorava alla Snam e il padre era in pensione.
"La geografia intrecciata.."
Quando andavo in via Fara, nella bottega d’arte di Menegazzi, trovavo sempre un personaggio: un grande attore, la cui voce profonda mi affascinava; un famoso collezionista andato ad acquistare un libro importante del settore o semplicemente a godere di quell’atmosfera quasi surreale che vi si respirava tra tutti quei mazzi di carte.
Osvaldo è morto nel 2021. Pannelli quadri, mazzi di carte sono stati trasferiti nel nuovo locale al Ticinese, condotto sapientemente da Cristiana Dorsini, sua nipote, vera appassionata e competente. “Qui è rimasto tutto quello che ha realizzato lui, quadri compresi”. Lo spirito di Osvaldo è ancora qui, in questo spazio, tra carte giapponesi e altri luoghi e carte che risalgono al 1400, oltre a quelle che fanno eseguire da nuovi talenti, come faceva il Guppenberg nella tipografia dei giardini della Scala; e come faceva lo stesso Vito Arienti di Lissone.
Menegazzi era un artista e non aveva nulla a che fare con l’arte divinatoria, non dava responsi a persone afflitte da un fallimento, una delusione in amore. Lui produceva le carte per scopi culturali o le faceva produrre e le metteva in scatole originali fatte da lui personalmente.
Il Meneghello a Porta Ticinese
Il primo marzo del 1964 nacque il primo mazzo e poi “Le conchiglie divinatorie”, pubblicate nell’Enciclopedia “Taroc” di Stuart R. Kaplan, nome autorevole nel settore, autentico conoscitore della storia delle carte da gioco. Menegazzi lo conosceva personalmente: “Negli anni ‘70, dopo aver assistito allo spettacolo alla Scala, venne nella mia bottega a cenare con altri amici collezionisti. La sua è la più importante enciclopedia delle carte esistente”, mi disse Osvaldo, entusiasmandosi. E aggiunse “che nella sua monumentale opera ha dato ampio spazio a una ventina di mazzi della mia editrice, ‘Il Meneghello’. Ne hai fatta di strada da quando mi ricevesti la prima volta nella tua ‘fucina’ di via Bottelli, 100 metri dal ponte della Ferrovia a Greco”. Oggi le sue carte si trovano al Museo dei Tarocchi di Stoccarda, nell’analogo Museo di Parigi e nelle collezioni più prestigiose nel mondo”.
Osvaldo con il suo indirizzo è noto a Tokio e a Mosca e gli americani gli ordinano i “Tarocchi dei Visconti”. Gli chiesi la fonte della sua passione e mi rispose che non sapeva giocare e non amava avere tra le dita quei rettangoli di cartoncino figurati. Ma gli venne l’idea di disegnarli, prendendo spunto dai temi dei suoi quadri, da quelle conchiglie appuntite che sembravano perforare l’aria.
Tarocchi
Erano tante in via Fara le sue tele in via Fara, e Cristina le ha trasferite tutte al Ticinese, appendendole ai muri. Sono composizioni e collage di carte e tarocchi antichi, che sono state esposte in mostre di rilievo. Ci sono anche talismani e singolari elaborazioni simboliche e fantastiche.
Parlando con Osvaldo il tempo volava senza accorgersene. Le sue opere non erano apprezzate soltanto da Kaplan e da Vito Arienti. Sono opere d’arte. Bisognerebbe fare capolino nella storia delle carte, che sono state usate anche come mezzo di propaganda politica e di satirica. A Milano il primo documento che fa riferimento alle carte da gioco risale al 1418: vi si vietava ai commercianti di dolci di attirare i minori di anni 20 nel gioco di carte e di dadi.
Quando arrivò il momento del saluto mi dispiacque: avrei continuato ad ascoltare con interesse questo artista che tra una frase e l’altra aveva espressioni di stupore mostrando le sue creazioni. Era un suo modo di fare. Detti l’ultimo sguardo a una vetrinetta affollata di soldatini. Erano quelli del Bormioli di Altare, che mi mostrò come si fa a sistemare una nave in una bottiglia: la nave entra... in porto e poi soffiando il vetro si crea la base, il fondo.
Menegazzi tra i suoi quadri
“Una sera, quando stavo aperto fino a tardi entrò un collezionista di Torino e acquistò tutto l’esercito di Bormioli, che ricostruiva anche le battaglie del Corso. Era il gennaio del 2007, le lancette dell’orologio ferme sulle 23,30. Entrò un passerotto e si mise a saltellare su un mobile. Mi emozionai nel vedere quella bestiola in cerca di cibo. Gli dissi: ‘Sei bello, birbone’ e gli offrìi uno spicchio di mela e briciole di pane e un po’ di scagliola, che spargevo fuori del locale”. Dopo qualche mese scrissi una filastrocca sul re dei tarocchi amico degli uccelli. E la pubblicai in un libro rimasto nei miei scaffali, senza l’odore del piombo di una casa editrice. 

mercoledì 19 novembre 2025

Santa Cecilia annuncia una festa bellissima


LA NASCITA DEL BAMBINELLO SUL PAGLIAIO DELLA GROTTA

 


Particolare di un presepe
Migliaia di luci agli ingressi e dentro i negozi; sulle mensole e nelle vetrine tantissime statuine per il presepe e tutto ciò che occorre per realizzarlo. I cuori palpitano di gioia.

 

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI

 



A Milano si sono riaccese le luci di Natale: nelle vetrine dei negozi, all’ingresso degli esercizi specializzati, che sugli scaffali hanno allineato statuine del presepe di ogni dimensioni e grotte e luci inscatolate.
Presepe
A Taranto gli allestimenti cominciano con Santa Cecilia, la protettrice dei musicisti. Dopo le bande che partono da ogni rione per riunirsi in un punto stabilito della città e attraversando vie e piazze suonano pastorali e altre note sacre, mentre la folla al loro passaggio si distribuisce sui marciapiedi. “Passa la banda, evviva”, urla qualcuno dai balconi e altri battono le mano. “Arriva Natale!”, gridano altri;mentre le nonne fanno cadere la pastella nell’olio bollente per fare le pettole. Natale è Natale e la festa porta gioia. La prima pettola il nonno sonnecchia sulla poltrona e la prima pettola è per lui. Dopo le pettole, le “sannachiùtere,”piccoli dolcetti spalmati di miele e sparsi di “asinine”. La padella sfrigola e il profumo si diffonde, esce dalle case e inonda la strada. Stanno per arrivare dai monti della Basilicata gli zampognari. Ai miei tempi li seguivano mentre soffiavano nella cornamusa. Le mamme lanciavano monetine dal balcone, non si sentono gli zampognari. E noi virgulti guizzavano come cerbiatti. Oggi sui “social” impazzano gli artefici del presepe; a Napoli i turisti affollano San Gregorio Armeno, si fermano davanti ai banchi che espongono architetture sacre meravigliose eseguite a regola d’arte. Del resto novembre è al tramonto e il tempo passa come il vento. Nei laboratori di ceramica plasmano le grotte, i guardastelle, le lavandaie, i fuocherelli, gli animali, il dormiente, il pizzaiolo, tutta la popolazione dei presepi sparsa nei pressi della grotta, magari da mettere sotto l’albero, perché molte famiglie, soprattutto al Nord, a Milano, non ci rinunciano.
Presepe

Su facebook vedo presepi fatti con il polistirolo, con il sughero, con il gesso, il legno, la pietra, e illuminano i manufatti con luci che creano atmosfere suggestive. Il presepe è magia, favola, paesaggio con sentieri, corsi d’acqua, luoghi di mestieri antichi: il calzolaio con il deschetto, il fabbro, il falegname… Di fronte a un presente fatto bene l’appassionato s’immedesima, ha voglia di farne parte, magari nei panni del vecchietto che con la lanterna in mano a far visita al Bambine. Quando le giornate e soprattutto le notti sono gelide, una volta in alcune case riscaldate appena con il braciere o con un vecchio bacile dall’orlo sbreccato, il calore lo dava il presepe, fonte di amore e di serenità.
Lo allestiva il capofamiglia con la carta da pacchi immersa nella creta semisciolta nell’acqua. Prima l’artefice faceva lo scheletro di legno, poi lo rivestiva con quell’impacco, che qua e là ricopriva di erba vera e sassolini di sughero per farlo sembrare un passaggio. Due fronde di pino, spezzate dal vento, qualche lampadina qua e là ed ecco ricostruita alla bell’e meglio la nascita di Gesù in una grotta fredda e spoglia. Niente a che vedere con i capolavori che eseguono a Brescia o a Bergamo, nella stessa Milano e nel Sud, dove i personaggi sono di cartapesta o di terracotta e indossano abiti fatti a mano. Al Museo di Dalmine ci sono quasi mille esemplari provenienti da ogni parte del mondo ed naturalmente quello napoletano.
A Napoli sono artisti veri quelli che sagomano i personaggi di questa scenografia devozionale; la loro fama ha fatto il giro del mondo, anche grazie ai turisti che vanno e vengono e s’infilano in ogni angolo. Ma fuori dei vicoli di Peppino, Eduardo, Titina De Filippo, di Totò, Nino Taranto, Luciano De Crescenzo, Giuseppe Marotta c’è chi fa del presepe un’arte suprema.
Particolare di un presepe
Quando ero ragazzo l’8 dicembre i virtuosi del presepe avevano già la loro opera da mostrare orgogliosamente. E invitavano amici, parenti e conoscenti e i giovani per vederlo. Per la realizzazione spesso collaboravano anche i giovani. La mamma, anche se non esercitava il mestiere di sarta, cuciva gli abiti e qualcuna, che aveva dimestichezza con l’argilla, dava forma alla venditrice di frutta e alla contadina attorniata dalle bestie. Si prova gioia a sagomare l’argilla per formare i pastori. Tra i professionisti ci sono quelli di Cutrofiano e di altri paesi del Leccese. Una volta a Milano in via Mombello un negozio specialistico li raccoglieva quasi tutti. E sugli scaffali allineava statuine di ogni dimensione e di ogni materia. Anche quelli provenienti dal Salento con i vestiti eseguiti da persone che avevano dimestichezza con l’ago e il ditale. Anche a Grottaglie ci sono figuli di classe capaci di confezionare figure alte due centimetri e con espressioni realistiche.
Il presepe con questi personaggi è un viaggio affascinante, emozionante, tra sentieri, alture, spelonche. Il presepe lo si vive. Difficile pensare un Natale senza presepe. C’è già chi lo progetta, prepara l’occorrente (cespugli, terra di ogni colore sintetica, alberelli, che può farsi da sè, strappando rametti da un albero vero, e la neve, che non può mancare, spruzzata un po’ qua e un o’ là per incrementare il clima natalizio). C’è chi usa il gesso, la farina: tutto il presepe va spolverato di fiocchi; e se non è a portata di mano la neve sintetica, basta ricorrere alla farina, al detersivo o al gesso. Con i semi di zucca e il riso si costruisce il ficodindia, con le pale dipinte di verde e i frutti di bianco, rosso, giallo.
Presepe in sughero
Ci sono mille soluzioni fai da te per creare un presepe. La fantasia aiuta. Qualcuno ambienta il presepe in una cascina; altri in una casa diroccata.
In latino il presepe vuol dire dire stalla. E anche bestiame raccolto in un recinto per proteggerlo dai predatori. Ecco perché quelli che fanno… nascere Gesù in un condominio o in un trullo sono fuori strada. Non solo perchè non rispettano la tradizione, ma anche perché quei manufatti sono freddi, non dicono niente.
Il presepe è atteso soprattutto dai bambini; è un evento straordinario. Ai bambini piacciono sì le pettole, le luminarie, gli zampognari che vengono sotto casa e suonano “Tu scendi dalle stelle”; ma li attira il presepe. Qualcuno lo fa ritagliando le figure che appaiono sui settimanali o in un vecchio libro. A Taranto il pittore Raffaele D’Addario, che le pensava tutte, le disegnava, le colorava e le sistemava in un ambiente anch’esso di carta. Faceva anche quelli di sughero in una comune scatola di cartone, poi rivestita di carta doppia. Se qualche collezionista lo avesse scoperto lo avrebbe assediato. Già, perché ci sono persone che collezionano presepi e ci sono quelle che cercano confratelli della Settimana Santa per impolpare le loro processioni in miniatura.
Presepe in cartapesta
In piazza Duomo a Milano di solito va in scena il presepe mobile: figure che si muovono, acqua che scorre, il calzolaio che batte il martello sulla suola della scarpa… Un presepe enorme. La mia amica Anna Bruno mi parlava di un presepe lungo 60 metri non ricordo più in quale paese. Una fluidità compositiva che coinvolge. C’è inventiva, in quel presepe. C’è arte. Non tutti possono permettersi di dare movimento ai personaggi. Ma anche se statici sono da ammirare. Confesso: io ho più di mille statuine, grandi, piccole, di resina, di terracotta e ogni Natale, mentre mi appresto a creare il mio presepe di sughero, mi sento preso dalla gioia. E ho imparato a fare pastori alti un centimetro che sistemo in fondo per creare la prospettiva. Non tutti i tentativi riescono.
Anche mio padre faceva il presepe e mi chiedeva di dargli una mano. Preferiva la carta intrisa di creta. A sedici anni il presepe lo feci io nella chiesa di San Domenico a Taranto. Il parroco, don Stefano Ragusa, di Martina Franca e amico dello zio canonico, mi indicò il punto in cui voleva la scenografia presepiale e obbedii. Mancava poco tempo a Natale e io mi ingegnai subito, perché non volevo fare una brutta figura. I fedeli, soprattutto le vecchiette che al Vespro erano sempre in prima fila, pregavano invocando grazia a Gesù. Sono innamorato del presepe. A Taranto andavo in giro per le chiese che lo allestivano. Osservavo prima di tutto gli animali, dalle pecore ai conigli, e i personaggi che li portano sulle spalle, tra le braccia, al seguito. Mi dicevano che il presepe più bello lo facevano ella chiesa di San Pasquale, ma io non sono mai andato a vederlo e oggi mi sento in colpa. Ricordo il presepe che faceva in casa Rocchino, amico e collega di mio zio Dionigi. Era bello, luminoso e trasmetteva serenità.
Presepe di sughero
Al presepe nonna Graziella, martinese purosangue, al presepe dedicava uno spazio non tanto piccolo nell’ingresso. Il Bambino lo teneva nascosto in un tiretto del comò e noi aspettavamo con ansia il momento in cui sarebbe arrivato tra Giuseppe, Maria, il bue e l’asinello. La nonna si avvicinava al presepe, con un cenno faceva spegnere le luci a mia zia, tirava fuori dalla tasca il Bambinello e lo metteva nella grotta. E tutti a cantare per festeggiare l’evento. Mi accorsi che mancava l’angelo e il giorno dopo lo trovai appeso sulla grotta: l’aveva fatto mia madre, che aveva le mani d’oro.
Il presepe è messaggero di gioia e di pace; è un simbolo. Tutto nel presepe lo è. Ripercorrere la storia del presepe sarebbe come ripercorrere secoli di poesia e di leggende. Secondo una di queste, il primo presepe sarebbe stato realizzato a Lecce da San Francesco al ritorno da un viaggio in Oriente, tempo prima del presepe vivente di Greccio.

 

mercoledì 12 novembre 2025

Un incontro con un grande artista

ALFREDO MAZZOTTA DI NAO SI RACCONTA AL CRONISTA




Scultura di Mazzotta
Parla della sua adolescenza, della sua passione per il pallone, delle squadre, delle partite, dei genitori della sua vocazione per l’arte, degli amici e dei colleghi, della mostra di Nao. Un pomeriggio edificante.






 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI


Con quel volto tondo e incorniciato dalla barba bianca e ben curata, il capo per metà potato, il sorriso serafico, i modi pacati, le mani appoggiate una sull’altra sul tavolo quando parla, sembra un frate francescano pronto per il suo sermone.
Mazzotta di racconta
Ma Alfredo Mazzotta, grande artista calabrese trapiantato a Milano, di sermoni non ne fa. Gli ho chiesto più volte di raccontarmi i brani salienti della sua vita e si è sempre schermito, con abilità e dolcezza. Non gli va di snocciolare episodi tanto lontani anche se li ha vivi nella memoria.
Giorni fa, quando sono andato a trovarlo con Olimpia Bucci, sua ammiratrice, mi è venuto incontro e quando ero quasi sulla porta mi ha chiesto di deviare, perché da un balcone qualcuno stava innaffiando i fiori e lasciava cadere gocce d’acqua. Poi eccomi nel suo sacrario con tanti quadri che coprono le pareti e sculture su un banco e cartelle di litografie e carte e altro. Si è seduto al solito posto, a un tavolo impreziosito da un’opera, e ha atteso qualche minuto che io cominciassi a parlare, mentre osservavo le sue “forme”: una mi sembra un cigno, un’altra una figura incurvata e assorta nella preghiera. Interpretazioni, ma quei lavori hanno fascino e provocano emozioni. Nessuna di loro lascia indifferente chi guarda. Dovunque giri gli occhi campeggiano bellezze.
Insisto: “Alfredo, ti prego, scava nel tempo e tira fuori delle storie”. Lo sai, ho difficoltà a parlare di me, non so da dove cominciare, fammi delle domande”. E lui apre pagine non ingiallite che mi spalancano un mondo che non mi è tanto estraneo, nel senso che ho vissuto momenti come i suoi. Il padre era contadino, la mamma sarta casalinga. Poi il papà lasciò la zappa e andò a fare il manovale. Lui fin da piccolo si costruiva i giochi da sé: la raganella, “i ciappoli”, sorta di bocce, fatte con frammenti di tegole da lanciare su campi improvvisati. Ma era il gioco del pallone la sua passione, da ragazzino. Con i suoi compagni formò una squadra chiamata “Diavoli rossi”, perché al mercato avevano trovato delle magliette di quel colore. E in campo erano peperoncini piccanti: bombardavano la porta e la foravano sempre.
Lo studio di Alfredo Mazzotta
Accennando a questi ricordi, si accende un pochino; sorride, chiude le mani a coppa, mentre gli occhi brillano. Che bello conversare con lui, così grande come scultore e pittore e così modesto come persona. “Facevo il chierichetto, suonavo le campane e fui chiamato a giocare nella squadra di Batia”. Organizzava eventi sportivi; componeva e disfaceva formazioni. Curava l’orto, bordandolo di fiori. Nel cortile del suo studio, dove non arrivano i rumori della strada, al centro domina un’isoletta vegetale con ortensie policrome e alberellii. Viene dalla Calabria, questa terra nota anche per il festival del peperoncino piccante che si svolge ogni anno a Diamante. Gioisce quando gli arrivano le preziosità gastronomiche da laggiù, anche perché sente il profumo del mare; e quello sì che gli fa fluire i ricordi, delle passeggiate in campagna e della raccolta dei funghi: i boleti che conosceva e quelli che conosceva chi era con lui. Ne ha, di ricordi, Alfredo. “Andai a Roma per visitare il museo delle cere, dove scattai delle foto che pubblicai su facebook. Una mia collega realizzò un fotomontaggio, sostituendo la testa di un monaco con la mia, con la didascalia “fra Alfredo da Nao”. Nao di Jonadi è il paese in cui lui è nato: sorge a circa 400 metri sul livello del mare “in posizione privilegiata fra l’Appennino calabrese e la costa degli Dei”. E’ vicino a Vibo Valentia e ha una torre risalente al XVI secolo.
Mazzota consulta il catalogo di Nao

Lo trovo scritto nel catalogo di una interessantissima mostra aperta a Jonadi, che vuol dire “Terra delle viole”, mentre Nao è luogo di preghiera (fu casale di Mileto).
Alfredo Mazzotta, mi dice ancora che tra le sue iniziative ideate laggiù, negli anni 70, organizzò la Stranao, ispirata dalla maratona dei 50mila del capoluogo lombardo, che coinvolge sempre la città. Insomma lo scultore di solito ha il passo di fra Cristoforo ma all’occorrenza assume quello del bersagliere. Venne a Milano, perché in Calabria allora non c’era l’Accademia di Belle Arti. Immagino che mai avrebbe preso il treno, voltando le spalle alla sua “culla”, se l’Accademia ci fosse stata. E’ uno con le radici solide, come quelle della quercia. Il treno già brontolava sul binario e lui lo prese senza voltarsi indietro. La nostalgia fa brutti scherzi. Ma l’arte è più forte.
Ed ecco Alfredo nella terra del Porta. Andò a lavorare in un’azienda che realizzava barometri e gli facevano fare i prototipi in legno. Di giorno studiava all’Accademia e di sera lavorava in un ristorante come barista fino a mezzanotte. La domenica andava al Castello e lo ritraeva con penne inzuppate nell’inchiostro di china. Quando era studente a Brera lavorò nello studio di Minguzzi, “tra bicchierate e cantate”.
Alfredo versa l'amaro calabro agli ospiti
Una breve interruzione. Va in cucina e torna con un “Amaro Silano” e un “Amaro del Capo”, inclina la bottiglia verso le coppe e offre agli ospiti. Per 4 anni ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera quattro anni scultura con Luciano Minguzzi e quattro pittura con Domenico Purificato. Quindi un anno di Decorazione con Luca Crippa e Giovanni Repossi e Scenografia con Tito Varisco. Con il tempo ha conosciuto quasi tutti gli artisti, maestri del pennello e dello scalpello. Di molti è diventato amico. Tanti se ne sono andati all’altro mondo, come Ibrahim Kodra, di cui Alfredo frequenta la Fondazione creata da Fatos Dashi Faslliu; Giuseppe Rossicone, bravissimo ceramista con studio in via Chiossetto; Remo Brindisi, Ernesto Treccani, Arnaldo Pomodoro, Eros Pellini, di cui fu assistente alla cattedra di scultura al Liceo Artistico di Brera e nel suo studio privato; Attilio Alfieri, con cavalletto e tavolozza in un salone di via Pantani, al piano terra, con accesso da un cortile antico e silenzioso… Fai un nome e ti sciorina la storia. Di Kodra sa tutto, da quando arrivò a Milano dall’Albania. Era stato per lungo tempo alla corte di re Zogu, dove gli avevano insegnato come si fa l’inchino. La prima volta sbagliò e la sovrana rise. Da quattro anni è nel consiglio direttivo della Società per le Belle Arti Permanente, guidata da Emanuele Fiano.
Quadreria di Mazzotta
Ora è direttore artistico della Collezione Museale di Jonadi, di Vibo Valentia, dove ritrovo Togo, noto come Enzo Migneco, pittore e incisore, “tra i maggiori artisti dell’Espressionismo mediterraneo”; e lo stesso Alfredo Mazzotta, nato nel ‘51: scultore, pittore e incisore che dopo la formazione artistica all’Istituto d’arte di Vibo Valentia si trasferì a Milano, “dove sviluppò uno stile personale che unisce equilibrio formale e ricerca materica, dando vita a opere di forte impianto plastico”. Ancora: “Mazzotta delinea il corpo umano in forme semplificate ma cariche di tensione plastica”. Figure sinuose, che attraggono, suggestionano, coinvolgono. Presenti anche Orazio Barbagallo, Michele Cannaò, Giovanni Conservo, Maria Credidio, Antonio Attinà, Andreina Galimberti, Eros Pellini, Matteo Cannata, Giovanni Blandino, Paola Grott, Giuliano Grittini, Ibrahim Kodra e Giorgio Melzi …
Nella presentazione il sindaco Fabio Signoretta ha scritto che “Jonadi accoglie con orgoglio una collezione permanente che intreccia arte, identità e appartenenza. Un risultato reso possibile dal generoso gesto di Alfredo Mazzotta, figlio di questa terra, artista di riconosciuto valore internazionale e uomo profondamente legato alle sue radici…”. A Nao e alla Calabria, che dette i natali a Corrado Alvaro, Tommaso Campanella, Leonida Repaci, Saverio Strati, Mino Reitano, Renato Dulbecco... ha dato la sua anima. “Calabria, terra di aspra e dolce bellezza, dove il sole incontra il mare senza tristezza”. La Calabria dove si ascoltano voci antiche e il profumo del mare inonda i paesi. La Calabria fatta di gente forte e volitiva, decisa, intelligente.
Sculture e quadri nello studio di Mazzotta
Alfredo sta per versarmi altro Amaro, una delizia per il palato, ma lo fermo: ho mille ragioni per non andare oltre, con mio sommo dispiacere: devo limitarmi a godere dell’odore di quel nettare.
Gli occhi di Alfredo parlano, dicono il piacere di questa compagnia, che lo ammira come uomo e come artista, apprezza anche la sua cadenza nativa nel linguaggio, la sua generosità, la sua ospitalità. Mi domando come sia fatta Nao, che vanta forse pochi sospiri, ma ha la dolcezza del paesaggio, dove c’è chi ci vorrebbe vivere, per trascorrere la vita a dimensione umana.
Sono le 5 e Alfredo mi invita ad andare a mangiare una pizza, ma non posso. A casa sono atteso. Ma il pensiero della pizza mi accompagna durante il viaggio di ritorno.

mercoledì 5 novembre 2025

Il biscegliese Dino Abbascià

UN IMPRENDITORE GENIALE DETTO IL “RE“ DELLA FRUTTA

 

 



Dino Abbascià in bicicletta
Aveva 13 anni quando emigrò a Milano a metà degli anni Cinquanta, in treno e con valigia di cartone. Cominciò a lavorare come garzone in un negozio di fruttivendolo, mostrando di essere un campione nelle vendite. Poi, fra impegno e sacrifici fondò un impero.

 

 




 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 

Sicuramente lasciò la sua Bisceglie con gli occhi lucidi, salendo su un treno per Milano, da solo. Aveva una gran voglia di rendersi utile, di non pesare sulla famiglia, di crearsi un avvenire con le proprie mani.
Dino Abbascià e Nico Blasi
Oggi nel suo paese gli hanno intestato una scuola primaria e l’ortomercato. Non gli mancarono delusioni. Nel capoluogo lombardo ebbe le sue delusioni. Attraversò in lungo e in largo la città, ma un posto di lavoro non riusciva a trovarlo; e scrisse alla mamma, pregandola di rivolgersi a don Pasquale Uva, che non solo nel suo territorio aveva creato un ospedale e altre opere. Quella lettera non fece in tempo ad essere recapitata: lui, Dino Abbascià, 15 anni, un sentiero lo aveva imboccato: un lavoro da garzone in un negozio di fruttivendolo in via Pacini con l’incarico di consegnare la frutta in sella a una bicicletta. I suoi occhi brillavano quando me lo raccontò un giorno nel suo ufficio disadorno al primo piano della sua azienda, in via Toffetti. Già, perché, dopo anni di sacrifici era riuscito a creare un impero, coinvolgendovi anche i fratelli.
Vado a memoria, non ho bisogno di consultare carte, ritagli di giornali, di ascoltare parenti e amici e soci dell’Associazione regionale pugliesi, che lo ebbero per tanti anni presidente. Ricordo bene quello che mi ha raccontato lui in diverse occasioni, compresa quella in cui mi invitò a pranzo nel ristorante di un suo amico a Porta Romana. Naturalmente io lo stuzzicavo, perché mai lui avrebbe cominciato il racconto della sua vita, sapendo che sarebbe finito sul giornale. Fra le sue doti aveva anche la riservatezza.
Abbascià e la moglie Teresa al ristorante

Quel giorno, mentre mi bagnavo le labbra con due dita di vino, avvicinai a lui il bicchiere, dicendogli che compivo il gesto in suo onore, perché ero astemio, ricevette una telefonata. “E’ una persona che ti vuol bene”, mi disse, e mi passò la cornetta. Era Giovanni Morandi, direttore del quotidiano “Il Giorno”. Conosceva tutti, personalità e persone comuni. Non c’era settore in cui fosse estraneo. E non dico le cariche: vicepresidente dell’Unione Commercianti, membro di tanti consigli di amministrazione… Quando al Circolo della Stampa venne tenuto a battesimo un quotidiano voluto da un gruppo di baresi, fu invitato tra i relatori; al Rotary Club di Merate veniva accolto come un principe; alla presentazione del libro “Capatosta”, di Beppe Lopez, nel salone dell’Unione Commercianti, illustrò la figura dell’autore in modo icastico. I suoi interventi all’Associazione regionale pugliesi, in via Pietro Calvi, che pilotava, erano brevi e succosi. Organizzava feste affollate all’Hotel Quark, a Natale, a Capodanno, a Carnevale e mettendo il telefono a viva voce faceva ascoltare il saluto e gli auguri di Albano, suo caro amico, da Cellino San Marco o da altre parti d’Italia.
Abbascià balla con la figlia Annamaria

Era instancabile. 
Raccolse una moltitudine di corregionali in un hotel di via Washington, presente il sindaco Letizia Moratti e Annamaria Bernardini De Pace, presidente onorario dell’Arp, in una festa memorabile. Fu ispiratore di tante iniziative e di un Premio, che ancora oggi è autorevole e seguito. E’ stato assegnato a Livia Pomodoro, a Renzo Arbore, alle donne del vino di Manduria… Nelle cerimonie per la consegna non era mai in primo piano: dava spazio ai collaboratori, che lavoravano con entusiasmo e competenza.
Era leale, schietto; era amato e rispettato. Tutti, non soltanto al suo sodalizio, riconoscevano i suoi grandissimi meriti. Poco prima di morire, il 13 giugno 2015 (nato il 5 aprile’42) lasciò ai suoi un messaggio: “Non mollate”. E quelli osservano la sua ultima volontà. Pino Sorrentino, un membro del consiglio, dette la notizia su Facebook con queste parole: “Stamattina è venuto a mancare un grande uomo”. Con il suo sorriso e i suoi occhi dolci, con le sue maniere rispettose, galvanizzava chi aveva voglia di fare. Dell’associazione – dove erano esposti i quadri di un grande artista, Antonio Mellone - allevato a una disciplina militare - che con la sua matita per anni illustrò gli avvenimenti più rilevanti al “Giorno” - era l’anima, il fulcro.
L’associazione era (e continua ad essere) un cantiere sempre aperto. Fu lui a trasferire la sede da piazza Duomo a via Pietro Calvi, dove dette fiato all’entusiasmo di Giuseppe Selvaggi, che tiene alto il nome del circolo con la sua passione.
Abbascià e la moglie Teresa in Kenya
Era legatissimo alla sua Bisceglie, i cui prodotti agricoli percorrono tutta l’Europa. Ci andava spesso, rivisitava i suoi vicoli, i dolmen, le sue chiese, beveva l’atmosfera di arte e di storia e scriveva articoli appassionati su un periodico dedicato alla Puglia. Ma se durante i suoi soggiorni nella città dei suoi natali veniva invitato altrove per partecipare a una festa, a un convegno, a una gita non si faceva pregare. Ed eccolo nella Basilica di San Martino in Valle d’Itria assieme al rettore don Franco Semeraro e con lui immortalato nelle foto scattate da un amico; ed ancora nella campagna di Antonio Marangi, sempre a Martina, per una serata di allegria tra fegatini ed altre delizie. La Puglia era nel suo cuore. A Santa Maria di Leuca venne presentato un libro di un socio e non mancò, con Francesco Lenoci, di essere presente. In kenya costruì una scuola con le sue mani. Ho in mente un’immagine che lo ritrae a torso nudo, pantaloncini e un mattone in mano. Dino Abbascià, imprenditore osannato, trasformato in muratore per dare un tetto a bambini che studiavano sotto un albero.
Dino Abbascià e il ministro Maroni

Aveva un cuore d’oro. Un giorno, al termine di una manifestazione al Circolo della Stampa, sentii dirgli da una signora molto anziana che le ciliege costavano troppo e lui pronto: “Nel pomeriggio ti mando un cesto non solo di ciliege”. La generosità di Dino Abbascià era nota. Non spiattellava i sacrifici che aveva fatto né la sua bontà. Quando era assediato da cronisti amici usi ad affondare la benna si confidava. Lo chiamavano spesso, anche i redattori di grandi giornali. Anche la televisione. Aumentava esageratamente il prezzo della frutta? Si chiedeva il motivo ad Abbascià. E giacché c’era, qualche domandina sulla strada che aveva percorso per arrivare ai pioli alti della scala gliela facevano. Era una figura esemplare e i giornalisti non lo perdevano di vista. Ma Dino non si vantava di essere passato da garzone di fruttivendolo al vertice di un’azienda, da lui costruita passo dopo passo.
E’ scomparso da anni e a Bisceglie, di cui è l’orgoglio, non lo dimenticano. Ha tenuto alto il suo nome, ha fatto conoscere di più le sue virtù anche architettoniche, le sue attività ortofrutticole e manifatturiere, le sue bellezze. Ricordandolo, il presidente dell’Unione Commercianti, Carlo Sangalli, ha detto che era “l’amico che tutti vorrebbero avere e l’alleato che non chiede mai nulla in cambio”. E sempre Sangalli tenne l’orazione funebre in una chiesa zeppa di ammiratori che straripavano sul sagrato. Gente commossa, che commentava una personalità dalle mille doti, non frequenti nel mondo in cui viviamo.
Abbascià sull'altalena

Abbasscià era alla mano, cordiale con tutti, intelligente. Francesco Lenoci, docente di economia alla Cattolica, uno dei suoi estimatori, dice: “Era un grande, arrivato a Milano con la valigia di cartone, diventò il re dei fruttivendoli. Pensava in grande. Aveva capito l’importanza della finanza ai fini della crescita virtuosa delle piccole e medie aziende, degli artigiani e dei negozi. Per me era leggendario”.
Era apprezzato anche perché ogni volta che prendeva la parola in un convegno o in un’altra manifestazione si presentava come fruttivendolo. Ed era amico di tantissima gente che conta. A chiunque chiedessi un parere su di lui, ti sentivi rispondere: “Abbascià? “Era una persona corretta, un imprenditore onesto, che non amava i giochi di prestigio. E’ rispettoso, un formicone di Puglia”. Il lavoro per lui era sacro.
Quando era ragazzo, ancora garzone, gli altri ragazzi facevano a gara con lui: facevano di tutto per vendere di più, ma perdevano sempre. Era arrivato a Milano a metà degli anni Cinquanta. A 18 anni con i fratelli apri due negozi, uno in viale Coni Zugna e uno in via Mirabello. Serviva ristoranti, negozi, mense, hotel… Fu presidente del Sindacato milanese dettaglianti lombardi ortofrutticoli. Siedeva in vari consigli di amministrazione.. Era instancabile. Tutti a Milano conoscevano il salotto della frutta di Dino Abbascià vicino all’ospedale Fatebenefratelli.