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mercoledì 20 novembre 2024

Su Foto Taranto com’era

LE IMMAGINI DI DE FLORIO RACCONTANO LA CITTA’




Antonio De Florio oggi
L’autore si apposta come un cacciatore e aspetta la luce giusta
per lo scatto. Rende la bellezza della Bimare, la esalta. E’ regista sapiente di video con musiche che toccano il cuore.










FRANCO PRESICCI




E’ il pellegrino di Puglia. In ogni momento libero mette in tasca il suo obiettivo e se ne va in giro per la città a cogliere gli aspetti più belli nelle condizioni di luce più magiche.
Un angolo di Taranto Vecchia
Ha cominciato a scarpinare per Taranto, percorrendo San Vito, il ponte di ferro, piazza Fontana; a puntare il mirino più volte sulla Torre dell’Orologio, sulla scogliera, sulla ringhiera, sul Castello, soffermandosi “’ngàt’a duàne d’u pèsce”, “ ‘mbàcce a le lambàre”, che danzano con la musica del Mar Piccolo, non trascurando “le parànze”, il locale che ospitava il famoso ristorante “Pesce Fritto”, meta di tarantini e forestieri; la rivendita di cozze, “caùre”, “nuce”, cacasanghe”, “scorfane”, “gàmmare” e ”angidde” de “Cicce ‘u gnùre”, personaggio mai dimentcato.
So parlando di Antonio De Florio, comandante del sito su facebook di “Foto Taranto com’era”, è nato con il contrassegno della Bimare stampato sulla fronte. Taranto ce l’ha nel sangue, nell’anima, nel cuore, nei pensieri. Taranto è per lui la casa, il rifugio, l’oasi. Taranto per Antonio De Florio è amore, calore, abbraccio. Non c’è avvenimento, laico o religioso, che non lo veda impalato con il suo occhio nel miracoloso strumento che immortala uomini e cose. E’ un artista sensibile nel catturare ciò scruta: processioni, bande, angoli riposti, a volte sconosciuti, sopravvivenze archeologiche, vie storiche, targhe dedicati a uomini illustri, monumenti… E’ un cacciatore d’immagini. E come il cacciatore si apposta in un’uccellanda in attesa dell’uccello di passo, lui aspetta pazientemente la luce che più gli aggrada per fare lo scatto. E su facebook ammiriamo i suoi prodigi fotografici e quei video che ci lasciano incantati, anche grazie alle musiche che accompagnano le vedute.
Ho conosciuto tante delizie della mia città, grazie a questo esploratore mai stanco, viandante curioso e attento, legato alla sua città come l’ostrica allo scoglio. Le sue foto mi emozionano, mi esaltano, mi arricchiscono, mi fanno immaginare i luoghi dove la mia Taranto non c’è più: il vecchio sentiero che dai Salesiani andava adagio adagio alla scogliera è nascosto sotto le nuove costruzioni che Antonio riprende, scrivendo nelle didascalie che lì una volta c’era questo e c’era quello. De Florio sa tutto di Taranto, di quella di una volta e di quella moderna.
Antonio De Florio in piazza Fontana

Il borgo antico per lui non ha segreti. Lì s’incontra con gli amici, fa loro da guida, spiega, racconta, illustra, osserva, ricorda. Forse anche Alfredo Nunziato Marturano, poeta ed etnologo, amico di Rohlf, nei suoi giri per Taranto vecchia ascoltava dalle labbra screpolate dei pescatori, intenti a ricucire le reti, i suoni del dialetto, che ritrovavo inei suoi versi e in quelli di Diego Marturano, Alfredo Lucifero Petrosillo (“‘U travàgghie d’u màre”, poema che coinvolge, trascina, fa palpitare il cuore). Taranto vecchia per me è sacra, e tale è sicuramente per Antonio De Florio, che vi trascorre ore preziose sul ponte di pietra o sulla discesa di San Domenico, “indr’a le strìttele”, “le vichele” che hanno perduto un po’ del loro contenuto: negozi e negozietti, saloni di barbiere, ‘u buggegattele” dell’orologiaio, il locale pieno “de perdùne” e di statuine della Settimana Santa… C’è Nicola Giudetti, pittore e raccoglitore di oggetti detla città di una volta (forme di calzolaio, macinini del caffè, bracieri, bilance, “vummìle”, “strecatùre”, valve di “parecedde”…), che tra l’altro attraggono l’attenzione dei tanti turisti, affascinati dal linguaggio del simpaticissimo Nicola tra il vernacolo e un italiano originale, reinventato. Nicola è il re della città vecchia. Con sede in via Duomo, dove confeziona anche le processioni dei Misteri in terracotta e dipinge la città vecchia con amore. Questo laboratorio, ormai noto nel mondo, è un’altra meta di De Florio, che ha ritratto Nicola in ogni modo, puntando l’obiettivo anche sull’ingresso di quella specie di museo.
Facciata di uno stabile di Taranto vecchia
Seguo molto “Foto Taranto com’era”. Contemplo le foto di piazza della Vitoria, dove De Florio scatta nascosto tra il pubblico in occasione delle feste della Marina e di altre. Non lo si vede mai nei video elaborati dagli altri: lui è discreto, riservato, non si esibisce accodandosi alle autorità, non è mai in primo piano, eppure rende appieno il senso delle cerimonie. Durante una solennità ho cercato d’intercettarlo, di vederlo spuntare da qualche parte, ma era acquartierato chissà dove. Ho poi ammirato i suoi video e le sue immagini.
Adesso vedo in “Taranto com’era” anche foto realizzate da amici del gruppo a Massafra, a Manduria, a Sava, a Martina Franca, a Grottaglie, a Ceglie Messapica, a Lizzano, oltre alle vedute “imprigionate” da lui stesso e cartoline d’epoca… E vedo le sue riprese delle gare ciclistiche, l’arrivo della Milano Taranto, che io ventenne applaudivo al lungomare e qualche volta all’arrivo esaltante al Palazzo del Governo di fronte alla rotonda. Antonio dovrebbe allestire un’esposizione in una sede prestigiosa, magari il Castello Aragonese, per mostrarle a chi non va sul suo sito, che conta migliaia di soci. Mi affascinano, le foto di Antonio De Florio, comprese quelle scattate “quànne pònn’u sòle”, con quella policromia che lascia estasiati.
Il municipio in piazza Castello

Le foto di De Florio fanno storia. Lui non ne parla, è restio. Quando al telefono lo estorto ad esporre i suoi “quadretti” lui nicchia. Insisto e lui tace o devia il discorso. Posta le sue foto su facebook per documentare le bellezze della città. Antonio ama le linee architettoniche delle masserie. “La Valle d’Itria spaziosa senza spreco e fiabesca con quei birilli che contrabbandano case, ha fatto esclamare più volte da un terrazzo di Locorotondo: ma questa è la patria di Andersen”, scrive Giuseppe Cassieri in “Radici di Puglia” … “un Andersen mediterraneo, transadriatico, con più balenanti misteri”.
Andando per i tratturi della Valle, Antonio De Florio guarda, medita, contempla, s’inebria e sceglie gli elementi da riprendere: case incappucciate, ulivi saraceni, vigneti, aratri, covoni, stoppie giallastre… tutto baciato dal sole o dalla notte, che illumina le crespe del mre. Un paesaggio incantevole, gioioso, da sogno; che ti entra nel cuore. C’è sentimento, nelle foto di Antonio De Florio. Lui la foto la vive.
Monumento vicino al Ponte girevole
Lo seducono la campagna, il mare, il suo mare, il nostro mare, quello della città che ha accolto i nostri primi respiri; il mare di Taranto, il Piccolo e il Grande, legati dal canale navigabile. Ama sorprendere i personaggi caratteristici, e gli attrezzi dei pescatori: le nasse, le reti sparse sul pontile, e le navi da cui sbarcano il pesce. Adora il dialetto, le musiche più belle, fatate, che fanno da sottofondo ai suoi video. Adesso riceve foto apprezzabili dall’esercito di amici che vanta su facebook e le sistema, con le sue, su “Foto Tarato com’era”. Anche quelle foto raccontano la città, vista da diverse angolazioni.
Antonio ha passato una vita tra camere oscure e scatti. Aveva 13 anni quando entrò nel laboratorio di Mario Oliva in via Anfiteatro (abitava in via Nettuno a pianterreno in una casa con loggetta con vista sulla strada. Quando andava a fotografare i matrimoni il “maestro” consegnava ad Antonio una borsa e gli diceva: Quànne passe quìdde c’u piattòne pìgghie e mìette gnindre”, e si portavano a casa una buona parte di dolci, facendo festa con la propria famiglia. Per lo sviluppo andava da De Siati, uno dei migliori fotografi tarantini di allora (anni 60”) e aveva le dita marrone per l’ipoclorito, usato appunto per quel procedimento.
De Florio militare a Treviso
Ne ha, di ricordi. “Il gestore del circolo dei marinai, in via Di Palma, sviluppava tutti i negativi, prevalentemente di donne in costume da bagno (allora una novità), che gli portavano “le marenàre”. I “fororeporter” andavano invece da Mario Oliva e mentre le pellicole passavano da una bacinella all’altra, spifferavano storie di amori fioriti e dissolti in un lampo.
Poi Antonio fece un concorso in arsenale e risultò 130esimo. E prese la via dell’Istituto Righi per il diploma di perito industriale. Andò militare a Treviso; dal ‘71 al 2004 all’Italsider, in pensione da “quadro” aziendale. Non chiuse con il lavoro: andò avanti tra lavoro e fotografia. Da sempre ricercatore scrupoloso, ha anche esplorato la storia di Taranto. Ha conosciuto bene figure particolari come Marche Poll, ha letto i testi più importanti sulle vicende della Bimare, vive la città ogni giorno, con il telefonino o con la macchina fotografica accesi. Ha un archivio ricchissimo e ordinato anche di poesie dialettali, da Diego Marturano a Diego Fedele, da Alfredo Nunziato Maiorano a Claudio Cuia, a Nerio Tebano, ad Alfredo Lucifero Petrosillo, ad Arturo Caforio... Fai un nome e lui ti declama un verso. Se non un’intera poesia.

mercoledì 13 novembre 2024

Il Festival delle cento masserie

A CRISPIANO UNA TRE GIORNI DI STRAORDINARIO SUCCESSO




La locandina del festival delle cento masserie
Una buona parte della manifestazione è stata dedicata alla poetessa dei navigli, Alda Merini, che per quattro anni fece le vacanze nella villa di Crispiano del marito Michele Pierri.











FRANCO PRESICCI


Crispiano celebra le sue cento masserie, centro e fulcro del lavoro contadino, oasi di pace e di serenità, fucina di cultura. Le celebra con un Festival, giunto alla sua terza edizione, fra la partecipazione entusiasta dei cittadini, sempre attenti alle idee realizzate per far conoscere meglio il territorio e quello che produce, come il pomodoro giallorosso. Il Festival, durato tre giorni, è stato anche un omaggio a chi è nato in questa terra e anche a chi per motivo di lavoro o di carriera se n’è andato lontano; ed un mezzo per farlo conoscere di più, amare di più, attirando sempre più turisti.
Sagra del pomodoro giallorosso a San Simone
Sono stati giorni di festa, e non solo, perché questi gioielli meritano di essere valorizzati sempre di più anche per dare a chi ha voglia di venire a Crispiano la possibilità di ammirare le sue bellezze, le caratteristiche architettoniche e paesaggistiche, la squisitezza della gente e le prelibatezze della cucina locale.
Crispiano è una città dinamica, laboriosa, che offre tra l’altro, aria buona, da sempre, visto che durante il secondo conflitto mondiale molti tarantini vi si riversavano per sfuggire ai bombardamenti e poi per farvi la villeggiatura. Anche la poetessa Alda Merini, nei suoi quattro anni trascorsi a Taranto, soggiornò a Crispiano nella villa di suo marito Michele Pierri, importante poeta anche lui e primario del pronto soccorso del vecchio ospedale della Bimare. Grazie a Michele Annese, uno dei personaggi che sono stati ricordati nel corso del Festival, a suo tempo gustai le delizie coltivate in alcune masserie, come la Monti del Duca, la Pilano, la Belmonte, dove nella gola del camino venne acciuffato il brigante Pizzichicchio, al secolo Cosimo Mazzeo, che pareva imprendibile, sottraendosi a tutte le imboscate (un affresco ricorda ancora la cattura). Sempre guidato da Annese, assistetti a iniziative in tante altre masserie, fra cui Le Monache, dove si consacrò il gemellaggio con la Grecia, tra prelibatezze del luogo, comprese le mozzarelle e le ciliege ferrovia. Una serata memorabile, durante la quale mi si riservò il posto di fianco a Donato Plantone, già segretario comunale deceduto proprio in questi giorni.
Le ficazzedde
In un’altra masseria anni fa si svolse il convegno sull’allevamento delle lumache, avviato dal dottor Liuzzi, che convocò esperti della materia provenienti dal Leccese, presente un altro Liuzzi, già sindaco e medico pediatra.
Le masserie a Crispiano hanno sempre ospitato o promosso idee eccellenti, come quella di far rivivere i tempi di una volta con mestieri e persone in costume, briganti con tanto di schioppo a tracolla e artisti come Mimino Miccoli, che esponeva i suoi Don Chisciotte eseguiti intrecciando un filo speciale.
Tre giorni di appuntamenti interessanti ed istruttivi, dunque, con molti interventi, a cominciare da quello del sindaco Luca Lopomo. Qualcuno ha chiesto alla dottoressa Anna De Marco, guida preparatissima, già solerte collaboratrice di Michele Annese nella biblioteca “Carlo Natale”, se le masserie di Crispiano siano davvero cento. Tante sono, tranquillo. E sono tutte nel volume intitolato appunto “Le cento masserie di Crispiano”: libro, del 1988, arricchito dalle meravigliose immagini del fotografo Romano Gualdi, di Castelfranco Emilia, che intervallano testi di Silvia Laddomada, Michele Annese, Angelo Carmelo Bello, Tony Fumarola, Pasquale Pellegrini, Renato Perrini.
Allestimento della sala consiliare per il festival delle cento masserie
La famiglia di Michele seguì passo passo la fattura del libro anche attraverso le conversazioni che il padre faceva a tavola con lo stesso Gualdi e con cittadini che aspettavamo con ansia l’uscita dell’opera, mentre s’infoltivano le foto di ulivi saraceni, grappoli d’uva, facciate, interni, cappelle, cortili, trulli, coltivazioni, vecchiette sedute su una panca con il bastone tra le mani: scatti che introducono il visitatore negli ambienti, consentendogli di osservare i soggiorni, le cucine, le camere con letti in ferro battuto, camini, quadri, ritratti di personalità…
Il Festival delle masserie è stato organizzato, dal Comune e dall’Info-Point, coordinato da Manuela Santoro con l’appoggio della Biblioteca. Si sono susseguiti dialoghi e presentazione di temi specifici: per iniziare c’è stata la proiezione di un video girato da Aldo De Pace, un tarantino che aveva casa a Crispiano e che è stato molto vicino a Michele Annese nella formulazione dei progetti della biblioteca (video trasmesso per la prima volta nell’88 alla masseria Le Mesole durante la presentazione del libro “Le cento masserie di Crispiano); a seguire il Panel “Radici a distanza”, moderato da Anna De Marco, che aveva l’intento di accertare il legame di chi ha scelto altre residenze fuori Crispiano, continua ad avere con la sua città nativa. Per questo è stata data la parola alle figlie di personaggi rilevanti per la storia di Crispiano.
Testimonianza della fam. Pierri su Alda Merini
Con il coordinamento di Manuela Santoro, il microfono è stato dato a Marzia, figlia di Michele Annese, che vive a Milano e ha raccontato come il padre per Crispiano abbia fatto davvero tanto, per rendere omaggio alle cento masserie e anche per rendere sempre più ricca e prestigiosa la biblioteca, diventata vanto della città. Loredana, figlia di Aldo De Pace, che vive a Monza, ha ricordato che il padre sentiva Crispiano come la sua seconda casa; Maria Vittoria, figlia di Angelo Bello, che vive a Roma Ciampino, ha parlato dei tanti libri scritti dal padre sul territorio locale ed Eugenia che invece è rimasta a Crispiano, figlia di Michele Vinci che si dedica da tempo al teatro e alla cultura vernacolare nel paese. Raffaella, la figlia del fotografo Romano Gualdi di Castelfranco Emila, ha inviato un messaggio, letto da Marzia, rafforzando così il legame oltre i confini con Crispiano.
Si è anche accennato all’opera di Gianpaolo Annese, “Dimmi chi era il chiodo”, che meriterebbe un premio anche per il ritratto icastico che l’autore (giornalista dello storico quotidiano “Il Resto del Carlino” di Bologna) ha fatto del padre e per le molte informazioni che Michele ha fornito in quella conversazione interrotta a causa della sua morte.
Sindaco Lopomo all'ingresso del Villino Valente
Il Festival ha riservato poi la seconda giornata ad Alda Merini, alla quale su uno dei ponti che scavalcano il Naviglio Grande, a Milano, hanno dedicato una targa. Per l’occasione, con il coordinamento di Giuse Alemanno, i due figli di Michele Pierri, Lucio e Pucci e il nipote, Dino hanno raccontato l’accoglienza riservata alla poetessa in un’atmosfera di serenità a Crispiano. Presenti Don Franco Semeraro, Tony di Corcia e Anna Maria Frascati. Gabriella Perrini e Roberto Parabita hanno declamato versi della Merini e di Pierri per la Merini, alcuni inediti (i versi di Pierri, a suo tempo letti da Ungaretti, furono accolti con entusiasmo).
E’ stato anche organizzato un giro letterario per le vie di Crispiano, sulle tracce della poetessa, con Anna De Marco e Tiziana Mappa che tra l’altro sulla Merini ha scritto una tesi di laurea. Il percorso ha attraversato i luoghi di cultura di Crispiano, dalla biblioteca “Carlo Natale” agli istituti scolastici, al Teatro Comunale, alle piazze principali fino al Villino “Valenti” dimora estiva di Alda Merini e del marito Michele Pierri.
Tra gli altri eventi della manifestazione, il dibattito “Feudalesimo masserie e brigantaggio” introdotto da Nico Santoro e curato da Giorgio Sonnante; una premiazione nominata “Ambasciatori e Sentinelle” per chi si è distinto come il Cammino Materano, Rotta dei due Mari e Cicale di Puglia, con la presentazione di Ottavio Cristofaro.
Villino Valente, dimora estiva della poetessa Alda Merini

Al Teatro Comunale, spettacolo teatrale “I Girovaghi: Contadini traditi dopo la morte del sergente Romano”, a cura della Pro Loco. Il sergente Romano aveva militato nell’esercito borbonico; poi raggruppò una banda, con la quale nel 1861 costrinse i piemontesi a lasciare la città. Acquartierato nel bosco delle Pianelle, due anni dopo, fu tradito e sorpreso nel suo rifugio di Gioia del Colle, sua città natale, dove fu ucciso.
A chiudere le manifestazioni, un week end tutto dedicato alla sagra del pomodoro giallorosso a San Simone, con stand e mercati della terra dello Slow Food di Crispiano e Martina Franca.
Il Festival delle masserie di Crispiano ha riscosso un grande successo anche di pubblico. Un programma denso di temi e di eventi; memorabile la visita, per cui è stato aperto per la prima volta il cancello della casa delle vacanze della poetessa del Naviglio e di suo marito Michele Pierri, poeta “rivolto a cercare un’intima religiosità e fu salutato all’inizio da Betocchi e Pasolini con giusto fervore critico”: parole di Giacinto Spagnoletti nella “Storia della Letteratura Italiana del Novecento”.
Onore dunque a Crispiano, dove le cose si fanno sempre bene, e ad alto livello.

mercoledì 6 novembre 2024

Un bel libro di Carmela Maria Ricci

QUANDO LA VALLE D’ITRIA FU INVASA DALLA NEVE



La valle d'Itria
L’opera è stata presentata in mezza Italia: da Martina Franca a
Milano, sul Naviglio Grande, ovunque con successo. La Ricci ha scritto pagine emozionati, qua e là poetiche.






FRANCO PRESICCI




Quando la neve cade lievemente e stende un tappeto candido sul paesaggio è una gioia. Ma quando fiocca in abbondanza, si gonfia come la panna e seppellisce le case e i campi, spargendo ansia e problemi, è un dramma.
La nevicata del '56, foto Messia

Nel ‘56 Nina aveva soltanto cinque anni; e osservava sorpresa e sbigottita quella massa candida che imprigionava il paese, impedendo ai contadini di mettere piede fuori dei trulli per rifocillarsi. L’elicottero provvedeva, dove riusciva, a lanciare il cibo dall’alto; e quando la gente tentava di aprire la porta, per acciuffare un pollo nel recinto, si accorgeva che quella difesa era… puntellata e occorrevano ripetute spallate per aprirla: la neve continuava a cadere a larghe falde, come pezzi di bambagia. Nina tremava anche per il freddo, aveva fame, come papà e mamma e tutti quelli coinvolti in quell’evento eccezionale. Il camino era spento e nella credenza c’era solo un pezzo di pane secco e una piccola spolverata di farina. Tutti si domandavano, spaventati: “Quando potremo trovare una via di sbocco in questo accerchiamento?”
Oggi Giulia è una bellissima signora, elegante, un sorriso dolce, laureata in scienze biologiche, già insegnante di matematica nelle scuole superiori, marito bravissimo tenore dalla voce potente come il tuono, e tesse abilmente e con tocchi di poesia le sue pagine, come nella trama di “Quella nevicata del ‘56 in Valle d’Itria”. Pagine bellissime, avvincenti, scritte con uno stile limpido, cristallino, come l’acqua di un ruscello che si può bere raccolta nei palmi delle mani. Le ho lette avidamente, con gioia, senza farmi mai distogliere dagli odori della cucina o dalle telefonate.
Cade la neve

Il racconto cattura subito l’attenzione, trascina il lettore, lasciandogli immaginare di essere lì, nel contesto, con Giulia e tutti gli altri, imprigionati da una barriera solida e inattaccabile anche dal piccone. “Mi sembra di essere diventato l’orso della candelora”, disse tatà Martino. E subito suscitò perplessità: “Chi è costui?”. E’ pericoloso, azzanna, sbrana? “Quando la ‘canulore’ è chiara l’orso si fa il pagliaio e se si fa il pagliaio l’inverno è duro e lungo”. Un modo di dire, una credenza antica, come tante nel mondo contadino.
“Il 3 febbraio si svegliarono di buonora, cercarono di aprire la porta d’ingresso e trovarono resistenza; le finestre erano, anche quelle, ostruite. Si accorsero che un’abbondante nevicata nella notte aveva ammantato la Valle d’Itria e aggiunto magia al già magico paesaggio della vallata”. Ma nessuno “avrebbe potuto pensare che quella montagna di neve si sarebbe protratta per quasi un mese e che sarebbe stata ricordata come la nevicata del secolo”. Tante famiglie che abitavano in campagna, nel trulli, nelle “casedde” rimasero circondate, come un forte dagli indiani. Le famiglie avevano tra l’altro bisogno della legna da mettere nel camino e quella che era già in casa era poca per accendere il fuoco e per di più umida.
Carmela Maria Ricci, l’autrice di questi ricordi, ha letto tanto, nella sua vita. Andata in pensione, ha coltivato con più passione la poesia, la narrativa, la pittura. E quando ha deciso di sedersi davanti al computer per raccogliere fatti, personaggi e ambienti di 68 anni fa non ha avuto difficoltà a smuovere la memoria, componendo un libro che è come un viaggio nel passato, che nonostante sacrifici, delusioni e speranze, a volte ci fa stare meglio.
Si spala la neve
Presentato da Francesco Lenoci e pubblicato da Giacovelli editore (sede a Locorotondo), l’opera sta peregrinando in quasi tutt’Italia, riscuotendo meritati consensi dappertutto. A Milano è entrato nella sede del Libraccio, sull’alzaia Naviglio Grande, dove è stato accolto da un pubblico attento e colto.
Quanti ricordi, in queste 200 pagine. Ricordi vivi, che si susseguono con un bel ritmo. Nina, che invocava ripetutamente l’estate, lamentando i geloni ai piedi e alle mani, non ha dimenticato un minuto di quelle giornate. “Se l’hanno prossimo sento qualcuno dolersi del caldo gli rompo la testa”, esclama un personaggio,.
Carmela è davvero brava: descrive in modo icastico paesaggi, persone, luoghi, emergenze: il lavoro contadino, che “sradica i sassi dalla terra”, rende gravide le viti, trasforma il loro sangue in vino, semina, raccoglie, quando la grandine non bombarda il frutto del suo sudore. Ricorda le danze sulle aie, i canti, i suoni, le botti di vino, occasioni per far fiorire un amore.
Nei giorni della nevicata faceva un freddo cane, mentre d’estate, dice un altro personaggio, se si voleva bere un bicchierone di nettare fresco occorreva immergere la bottiglia nel pozzo. Maria Carmela Ricci ha una memoria fertile e generosa, che evoca anche le neviere. “A quei tempi a Martina, durante l’inverno alcune famiglie, che lo facevano per mestiere, usavano stipare la neve in appositi magazzini sotterranei, scavati nella roccia…”. D’estate veniva venduta ai caffettieri, che la usavano per tenere fresche le bibite e confezionare le granite o alle famiglie per gli stessi scopi.
Benvenuto Messia nel '56

“Quella nevicata del ‘56” dunque non trascura nulla. E ripesca gli usi e i costumi… I fichi più pregiati, tagliati a metà, allineati sui cannizzi (le “sciaie”); diventati secchi, racchiusi con una mandorla all’interno. I fichi e le pere malandati erano dati in pasto ai maiali in apposite “pile”. Ed ecco la fiera della Bamminella, della Madonna Bambina, che si svolgeva a settembre a Cisternino. Nel paese delle braci deliziose si allestivano le bancarelle con sacchi di legumi, frutta secca… mentre i mercanti di bestiame intrecciavano affari. La fiera calamitava molti forestieri, che tra l’altro potevano ascoltare i cantastorie, assistere ai giochi come la morra. Mamma Comasia domandava se i presenti ricordassero la prima volta che fecero la salsa e tutti risero perché la ricordavano, eccome: mentre le bottiglie erano nel forno il silenzio fu scosso da vari scoppiettii; aprirono la porticella e si trovarono di fronte a tanti vetri in frantumi. Che jattura! La salsa era andata in gloria. Un gatto miagolò attirando l’attenzione di tutti i convenuti. Era tigrato e aveva gli occhi spaventati. Qualcuno lo aveva lasciato dietro il cancello per disfarsene. Lo sfamarono, ma quando tentarono di accarezzarlo digrignò i denti. Da grande conservò il carattere spigoloso e passava il tempo dietro la catasta dei sarmenti, negando ogni contatto. Era anche ladro con destrezza: approfittava di ogni occasione per scoperchiare le pentole, facendo fuori il contenuto. Una volta divorò il coniglio destinato come secondo al pranzo della famiglia.
Foto multipremiata di Messia

Maria Carmela ama il dettaglio e coglie tutti quelli di persone e luoghi in cui la trama si svolge. E accenna ai giochi preferiti da Nina, come l’altalena sistemata su un grosso ramo del ciliegio, il cui ombrello pendeva sul cortile. Si consumavano gli anni e d’inverno le case a cono di gelato si svuotavano: gli occupanti trovavano più comodo trasferirsi in paese. I tratturi perdevano le voci. Quando il tratturo tace si fa triste, ma la campagna non perde la sua malia. La campagna di Martina, la Valle d’Itria hanno un fascino che non esiste altrove. L’amata Valle è benedetta, disse tantissimi anni fa Alessandro Caroli, che fu tra i pilastri del nascente Festival, la rassegna che ha inondato di musica Martina.
Maria Carmela è anche una delicata poetessa e soffi di poesia si avvertono anche in questo suo libro, tra l’altro ricco di fotografie che aiutano il lettore a prendere più dimestichezza con il contesto. Alcune sono di Benvenuto Messia, fotografo eccellente, pluripremiato, che quella nevicata l’ha vissuta. La prima è un vigneto imbiancato. Seguono immagini dei genitori di Benvenuto, che è anche poeta, attore, fine dicitore, ciclista infaticabile, erede del papà Eugenio nell’arte delle immagini. E poi gli oggetti in uso nelle case tanti anni fa, come “’u mòneche”, una sorta di capanna con braciere, dove asciugavano i panni; pignatte “ferite” ricucite con il fil di ferro; capasoni: la pompa per il vetriolo; catena del camino con il paioli, detta camastra; un uomo infagottato che emerge da un cumulo di neve; un contadino con il ronciglione in mano; un orcio di creta per fare il bucato; un trullo con la cuspide avvolta nella coltre bianca, un ulivo saraceno, di quelli dallo zoccolo possente e dal tronco con sagoma scultorea; trulli dipinti dalla stessa Carmela ... Insomma un libro interessante e piacevole anche dal punto di vista della dote fotografica; con alcune poesie in lingua tradotte in dialetto martinese. Un libro che consiglio agli appassionati della lettura. La lettura che arricchisce, la lettura che resta, la lettura che dà gioia.
Neve sullo stradone, scatto di Messia

mercoledì 30 ottobre 2024

L’Università del tempo libero e del sapere

FESTEGGIATI I DIECI ANNI DI UNA GRANDE FUCINA



La torta con il nuovo logo

Fondata da Michele Annese, un mito, continua alla grande la sua attività. Al timone sempre Silvia Laddomada, bravissima e capace di vendemmiare consensi.




FRANCO PRESICCI





Michele e Silvia
L’Università del tempo libero e del sapere di Crispiano ha festeggiato il suo decimo anno. Purtroppo senza la presenza di Michele Annese, che rimarrà sempre presente nella memoria e nel cuore di tutti.
Fu lui, con la collaborazione di Silvia Laddomada, la moglie, ad avere l’idea di istituire nella sua città quella fucina di cultura, che per tutti quegli anni è stata frequentata da tante persone interessate a lezioni di letteratura, arte, storia. geografia, economia, diritto, musica, informatica, alimentazione... come ha ricordato nella sua relazione Silvia Laddomada, la direttrice, alla cerimonia del compleanno. A tenere quelle lezioni non è stata soltanto Silvia, somministrando la sua cultura di professoressa di italiano in pensione. In quel salone si sono esibiti anche il virtuoso della fisarmonica Vito Santoro, tra l’altro profondo conoscitore degli usi e dei costumi di una volta, che racconta simpaticamente con i tasti e il mantice del suo strumento; e suonatori come Antonio Palmisano, vecchio collaboratore di Michele anche alla biblioteca comunale.
Silvia è stata bravissima nel calamitare tante persone, sempre puntuali ogni settimana. Con il passare del tempo quelle persone sono aumentate e continuano ad infoltirsi con entusiasmo.
Michele Annese
I dieci anni dell’Università sono stati celebrati a metà ottobre nell’aula consiliare del Comune di Crispiano, con il patrocinio dello stesso Comune e del Centro Servizio Volontariato ETS di Taranto. Moderatore, il giornalista Vincenzo Parabita. Al microfono si sono avvicendati Mariangela Liuzzi, presidente dell’Associazione Minerva e Silvia Laddomada, dopo i saluti del sindaco Luca Lopomo. Sono intervenuti anche Carlo Martello, segretario Confcooperative di Taranto e già presidente Csv della stessa città bimare; Palmina Cannone, presidente dell’Università del Tempo Libero di Fasano. Quindi è stato presentato il libro di Gianpaolo Annese, preziosa firma del “Resto del Carlino”: “Dimmi chi era il chiodo, chiacchierata con Michele Annese, mio padre”. Grande come uomo, come segretario della Comunità montana, come amico e come padre. Gli rivolgo un saluto affettuoso.
Tornando al decimo genetliaco dell’università, al termine al pubblico è stato offerto un programma di intrattenimento nella piazza in cui sorge la sede del Comune, tra la Chiesa della Madonna della Neve e la Biblioteca “Carlo Natale”, che per anni ha avuto Michele come direttore solerte e competente: uno spettacolo per bambini, allietati con l’animazione e le mascotte della Max Magic Music Eventi; e per adulti con i mercatini dell’artigianato e del riuso a cura dell’Associazione Telos. Ospite d’eccezione la violinista e ballerina “performer” Chiara Conte.
Copertina del libro
In occasione di questa festa (“10 anni di Minerva, 10 anni di noi”) in locali di corso Vittorio Emanuele è stata organizzata un’esposizione delle attività dell’Associazione Minerva. La via evoca ancora una volta la figura di Michele Annese, che proprio in quel tratto alloggiò una grande manifestazione per illustrare i risultati di indagini archeologiche condotte da docenti dell’Università di Amsterdam nella masseria Amastuola e in alcuni locali creò il Centro Montaliano, ricco di documentazione: ritagli di giornali, libri, foto.

La festa dei 10 anni è stata inondata da tanta musica eseguita dall’orchestra di Emanuele De Vittorio, Giuliano Taddeo e Tonino Palmisano, da sempre presente accanto a Michele nelle iniziative allestite anche nelle strutture rurali con convegni, chioschi, esposizioni con il don Chisciotte di Mimino Miccoli, autore di opere d’arte originali. Insomma la figura di Michele Annese aleggia in tutto ciò che avviene a Crispiano. Ricordo le cene fatte insieme, l’odore dei fegatini che durante le feste arrivava al balcone della suocera, Antonia, una signora dolce, un sorriso delizioso, dedita all’ascolto, attenta all’osservazione con quei suoi occhi luminosi. Quando morì, Michele mi telefonò cedendo all’emozione.
Silvia continua da sola, ma sempre, immagino, ispirata da Michele, la sua meritoria attività all’Università. “Adesso riprendiamo, dopo la pausa estiva”, ha detto. Con lo slancio di sempre, con quel desiderio di incontrare la gente di Crispiano, interessata alle lezioni sui protagonisti dell’universo letterario e le divertenti serate animate da Vito Santoro con i suoi racconti di persone e cose, modi di dire, vicende, soprannomi, caratteristiche di personaggi dell’epoca dell’albero della cuccagna, dei falò di carnevale, dei giochi racchiusi nella sua memoria di simpatico cantastorie.
Il pubblico  all'Università del tempo libero e del sapere

All’Università della città delle cento Masserie c’è tanta curiosità e voglia di imparare sempre di più o di ripassare. E a giudicare dal pubblico numeroso l’interesse per quel sodalizio è notevole. “Riprendiamo”, ripete Silvia: con la cultura ma anche con cene collettive, per il piacere di stare insieme, con le conversazioni che arricchiscono. L’Università crispianese, dunque, alterna studio e passatempi, musica e feste. La serata dei 10 anni si è conclusa con il logo disegnato sulla torta e disegnato dall’architetto Marzia Annese e dalla giovanissima Ginevra Banfi, entrambe residenti in Lombardia e molto vicine all’Associazione.

La festa in piazza

Scrosci di applausi e parole di esortazione. Anche quello che arriva sarà un anno pieno di eventi. Silvia è brava, ha idee felici, spirito d’iniziativa, una grande voglia di fare, di rendere sempre più interessante il programma. Questi dieci anni sono stati ben nutriti, affascinanti anche, senza soluzioni di continuità. Silvia ha saputo coinvolgere tante persone, è stata capace di tenere sempre vivo il focolare. L’Università del Tempo Libero e del Sapere ha una lunga vita davanti a sé, perché Silvia Laddomada non lascia le cose a metà percorso, sa come alimentarle, farle crescere. E l’Università è cresciuta, tra il favore e la partecipazione della cittadinanza.
Michele, Lenoci, Presicci
Il libro di Gianpaolo, il figlio giornalista di ottima stoffa che dall’agosto del 2023 a dicembre, poco prima che Michele volasse via, gli ha posto decine di domande Dall’intervista sono nate quelle pagine emozionanti: “Dimmi chi era il chiodo – Chiacchierata con Michele Annese, mio padre”. Già il titolo colpisce, timbra il viaggio. Dal dialogo emerge un ritratto icastico di Michele, che va dalle sue umili origini all’infanzia, al suo incontro con Silvia, passando per i sacrifici fatti per andare a scuola, i concorsi vinti (il primo a Torino), la passione per la lettura, la biblioteca, il Centro Montaliano, di cui andava orgoglioso, l’attività politica, l’incarico di segretario generale alla Comunità Montana, il carattere, l’inflessibilità nella difesa del bene pubblico, le cene con gli amici, i rapporti con le giunte comunali, il suo amore per la buona tavola… Un ritratto fedele, eseguito senza enfasi, senza linee marcate. “Mi dispiace solo di lasciare voi e di non portare a termine gli ultimi libri, di cui sto raccogliendo il materiale...”.
Nonostante la malattia galoppasse e non gli lasciasse più molto tempo, Michele aveva voglia di raccontarsi, mostrando una memoria solida dei fatti di cui è stato protagonista o spettatore. Gianpaolo da ottimo professionista della carta stampata gli ha rivolto domande appropriate e lui ha risposto con sincerità. Questo è un libro che affascina, fa rivere la figura di Michele, uomo schietto, generoso, una fucina di idee messe in cantiere e realizzate. In queste pagine parla anche della sua famiglia d’origine: il papà agricoltore, originario di Monopoli, coltivava il terreno nelle masserie, e la mamma smaltiva le incombenze nella casa della “padrona” (a quei tempi il termine era in voga). Dopo la scuola elementare era necessario il consenso del padre per continuare gli studi. Grazie all’intervento di una persona che conosceva le doti di Michele e la sua volontà di andare avanti ottenne l’autorizzazione, ma con la condizione che facesse il percorso con le sue sole forze. E Michele quel percorso lo fece, racimolando i soldi un po’ qua e un po’ là, con lavoretti, anche organizzando un doposcuola. Gianpaolo ha raccolto queste gemme e ce le offre. Ho divorato il suo libro in mezza giornata: mi ha catturato subito e mi ha coinvolto.

mercoledì 23 ottobre 2024

Un personaggio incancellabile


MICHELE LAMANTEA RIGATTIERE A BRERA



Michele Lamantea
Per oltre cinquant’anni allestì il suo “esercizio” all’angolo tra le
vie Brera e Fiori Chiari. Ogni mattina da corso Como, dove abitava, andava in quel punto di fronte all’Accademia ed esponeva la sua roba.







FRANCO PRESICCI






“Non viene più qui Michele?”. Il baritono Giuseppe Zecchillo, che amava farsi due passi dal suo studio, in via Fiori Chiari, al bar dell’angolo, al signore elegante, segaligno, imbiancato, faccia da Peppino De Filippo, rispose che Michele arrivava di solito verso le 10.30.
Bar Giamaica

Doveva quindi aspettare una decina di minuti. Zecchillo sparì nel bar per sorseggiare un caffè e da lì vide il rigattiere in sella al suo carretto a pedali, scendere e scaricare senza fatica i suoi esemplari di modernariato e qualche pezzo antico. Ma non il candelabro stile Liberty richiesto; anzi, in quello stile non aveva niente. In quel momento tornò il baritono, che fu nuovamente interpellato, sottovoce. “No, a Brera c’è soltanto Michele ad avere un mercato all’aperto e non ne troverà altri neppure in altre parti di Milano”.
A Brera Michele lo conoscevano tutti. Gli volevano bene e lo stimavano. Simpatico, a volte loquace, a volte taciturno, pensieroso, impenetrabile. Seduto su una vecchia e solida sedia, braccia conserte, gambe accavallate, sguardo vigile che roteava tra l’Accademia con l’ingresso sempre affollato e il Bar Giamaica, un tempo meta di pittori, scrittori, poeti, che comodi ai tavoli all’esterno del locale discutevano.
Michele era pugliese. Nato il 23 gennaio del 1926 a Trinitapoli, in Puglia, da una famiglia modesta (il padre, Ruggero, faceva i pozzi artesiani), con i parenti aveva pochi rapporti. Abitava in corso Como 9, in un abbaino: casa e magazzino. Lasciava nel cortile il carretto, senza il timore che glielo rubassero.
Michele va al lavoro

Al suo arrivo a Milano, oltre 50 anni fa, c’erano ancora i “ghisa” sulla pedana, e lui quando ne vedeva uno lo osservava incuriosito. Geloso della sua vita privata, non aveva mai confidato a nessuno che di cognome faceva Lamantea. Fu il nipote Domenico, vicecommissario in via Fatebenefratelli, in servizio alla sezione omicidi, a dirlo ai giornalisti, quando Michele morì. E i cronisti, affamati di notizie di questo personaggio caratteristico molto amato e rispettato nella zona, scrissero lunghi articoli dotati di foto.
La biografia del rigattiere venuto dal Sud pezzo dopo pezzo s’infoltì di dettagli. Michele lasciò i banchi di scuola da ragazzo ed era analfabeta. Partì per Milano su un carro-bestiame. Dormì per quattro anni sotto i ponti, per un piatto di minestra frequentò la mensa dei preti, in seguito affittò una stanza in corso Como al civico 9, prendeva vasi in frantumi, li rimetteva in sesto e li vendeva. Poi fece un salto di qualità, trattando oggetti sani e più importanti. Occupò quel posto, in cui via Brera incrocia via Fiori Chiari, e a poco a poco divenne il beniamino di tutti, un po’ lunatico ma generoso.
Ritratto di Michele sul libro della Berner

Una sera, uscito da una ricevitoria di via San Marco, dove aveva ritirato una modesta vincita al lotto, una signora, facendo marcia indietro con l’auto, lo travolse. Michele rimase in coma una ventina di giorni. Una mattina i nipoti Domenico e Giuseppe andarono a trovarlo in ospedale e sul comodino notarono un biglietto. Lo aprirono: era una poesia firmata Isabel. Chi era, questa Isabel? Una giovane tedesca, che ammirava moltissimo Michele. Lo aveva conosciuto in un bar durante un suo soggiorno a Milano con “Erasmus” ed era rimasta incantata dal personaggio. Studiava arte audiovisivi multimediali all’Università di Colonia”. Nacque una bella amicizia schietta, sincera. E quando era ricoverato in ospedale tutti i giorni andava ia trovarlo, si avvicinava al letto, gli accarezzava la mano e gli parlava sommessamente di sé, della sua vita, dei suoi studi. All’epoca Isabel aveva 25 anni ed era molto carina. Nata a Straubing, si chiama Briskorn.
Grazie a Domenico, la giovane tedesca ha accettato di rispondere alle mie domande: è gentilissima, paziente e si esprime molto bene nella nostra lingua. Nel 2003 girò un video amatoriale sulla giornata di Michele. “Se vuole glielo mando”. Nel giro di pochi minuti me lo sono trovato sul computer. Un video interessante, ben fatto, in cui rivedo Michele mentre si racconta, carica la sua roba nel cortile di casa, attraversa le vie della città in sella al suo carretto, fa colazione nel bar di fronte alla sua postazione quotidiana, parla un po’ con gli avventori e poi monta il suo “mercatino”. Insomma, Isabel in quel filmato lo fa rivivere, Michele; e lo coglie nei momenti in cui ha voglia di aprirsi, magari mentre s’infila la giacca.
“Era un maestro di vita, saggio, con una sua visione del mondo, autentico, senza filtri, senza maschera, capace di fare da trait-union tra persone diverse davanti al suo spazio. Era libero come un uccello”. Scomparve a 77 anni.
Michele Lamantea

Poco prima dei funerali a Domenico e Giuseppe, che fa il ristoratore, si accostò un giovane, che disse di essere il primo violoncellista della Scala e desiderava suonare durante la cerimonia nella chiesa di San Marco l”Ave Maria” di Schubert e musiche di Bach. In un angolo c’era Isabel, tenera, bella, addolorata. Domenico la vide e la invitò a sedersi nella fila riservata alla famiglia.
Deliziosa Isabel! Fece anche la tesi di laurea su Michele, e per realizzare il video andò a Trinitapoli a parlare con i familiari, che le dissero tutto quello che serviva per realizzare la sua opera. Una storia esemplare di amicizia pura, vera.
Intanto Domenico e Giuseppe erano tornati sul luogo dell’incidente per recuperare il carretto. “In due facemmo uno sforzo notevole, mentre lo zio ce la faceva da solo”. E attraversando le vie che portano a corso Como, la gente li fermava, chiedendo con modi bruschi dove avessero preso quel veicolo, credendo che lo avessero rubato a Michele.
Michele a Brera era dunque un’istituzione. Ricordo i giornalisti di tutte le testate intervistare le persone disposte a rispondere.
Michele in un ritratto di Peppino Bruno

Qualche cittadino piangeva, raccontando scampoli delle giornate di Michele, che a volte indossava un cappello alla Fellini, altre volte un cilindro. I fotografi, come il mio amico Peppino Bruno, di professione dentista, lo riprendevano vicino a un grammofono a tromba o seduto come un Papa, da solo o impegnato in una conversazione con qualche conoscente più assiduo. Migliaia gli scatti dei turisti, per cui immagini di Michele sono quasi in tutto il mondo.
Per merito di Isabel, anche i nipoti sanno molto di più dello zio, che come detto era persona semplice e gelosa della sua vita privata. Non sanno neppure oggi se fosse davvero sposato, come scrisse qualche giornale, aggiungendo che giocava in tutte le ricevitorie di Milano, “ma non era certo un ludopatico, se è vero. Era parsimonioso e non aveva voglia di sprecare i soldi”. Domenico parla con con commozione.
Nel bellissimo libro di ritratti di Federica Berner, con testi di Guido Vergani, Andrea Del Guercio, Elisabetta Bossi Fedrigotti campeggia anche il volto di Michele, accanto a quelli di Raffaele De Grada, Guido Ballo, Emilio Tadini, Osvaldo Patani, Enrico Baj, Ernesto Treccani, Luciano Minguzzi... C’è anche quello, fra gli altri, della nota pellicciaia Nuccia Bossi e del gioielliere Francesco Mereu. Insomma,
Zecchillo a Brera

Michele era incastonato nella storia del quartiere, assieme agli artigiani, ai titolari di negozi storici, allo stesso Bar Giamaica e alla latteria delle pie sorelle Pirovini, dove Ibrahim Kodra oltre 60 anni fa aveva un conto chilometrico, incrementato dagli amici che seguivano ogni suo passo. Da tempo Brera è cambiata, ma nel quartiere rimane il ricordo del pittore albanese, uomo simpatico, spiritoso, colto, amante della compagnia, divenuto col tempo famosissimo a Milano, ma anche nel resto d’Italia e altrove.
Incancellabile dunque la figura di Michele Lamantea, che dovrebbe essere commemorato con qualche evento: gli abitanti con cui ho avuto modo di scambiare due parole hanno esternato molto affetto per il rigattiere di Brera che per tanti anni ha venduto candelabri e altri oggetti agli appassionati del mondo lontano. Per qualche tempo ha avuto tra l’altro il busto, somigliantissimo all’originale, di Benito Mussolini. Poi è riuscito a venderlo.
Vidi Michele l’ultima volta qualche anno fa, quando andai al bar di fronte a lui, dove il baritono Giuseppe Zecchillo aveva appeso al muro alcuni dei suoi quadri realizzati con la pasta (spaghetti, maccheroni, linguine…) irrorata di porporina.

mercoledì 16 ottobre 2024

Una bella iniziativa alla questura di Lodi


DA ALCUNE LASTRE TRASFORMATE IN FOTO SCENE DELLA CRIMINALITA’ DI UNA VOLTA




La questura di Lodi

In una mostra allestita in un salone anche la strage di largo Tel Aviv nel settembre del ‘67 a Milano. Il questore Pio Russo ha illustrato la rassegna e il lavoro della polizia scientifica dalla sua nascita ad oggi. Intervento di Annamaria Di Giulio, dirigente del Gabinetto regionale polizia scientifica. Dialogo con il capo della Mobile Alessandro Battista.




FRANCO PRESICCI





”A Milano siamo arrivati alla guerra delle “gang”, alle annaffiate di piombo, agli assassini che colpiscono a pagamento. L’inchiesta sulla feroce sparatoria di largo Tel Aviv, dove... un parrucchiere è rimasto ucciso e tre suoi amici feriti, ha già accertato il movente. Tre gangster, nel senso più vero della parola, tre pedine della malavita organizzata, che si arricchiscono esercitando un controllo illegale su attività altrettanto illecite, sono stati mandati a uccidere un avversario che aveva tentato di inserirsi di prepotenza nel lucroso ‘giro’ delle bische clandestine”. Così scriveva Patrizio Fusar sul quotidiano “Il Giorno” il 13 settembre del ‘67, qualche giorno dopo la sparatoria, inizialmente prevista in via Pattari. Un episodio eclatante che suscitò sdegno nei cittadini del capoluogo lombardo, preoccupati per quella scena da Chicago anni Venti.
Il questore di Lodi Pio Russo

L’occasione per rispolverare quel fatto è data da un’interessantissima mostra fotografica allestita in un salone dell’Istituto Bassi, di fianco alla questura di Lodi, dove sulle pareti sono allineate immagini sugli avvenimenti che a Milano hanno suscitato spesso scalpore e paura. Non soltanto per i conflitti a fuoco a causa delle bische clandestine che con il tempo in città andarono aumentando al chiuso e all’aperto, difese armi alla mano, come accadde nel ‘71 alla “belanda” in corso Sempione, ma anche per regolamenti di conti nelle vie e nelle piazze, nei locali pubblici e in altre bische.
La rassegna di Lodi (prima foto appumto su largo Tel Aviv), è stata inaugurata sabato 5 ottobre alle 11 con la proiezione di un filmato sulla scoperta di alcune lastre utilizzate dalla polizia scientifica negli anni ‘70 nella Milano della malavita e su un tratto di storia della stessa sezione sin dai tempi della sua nascita. Quindi ha preso la parola il questore Pio Russo, che tra l’altro ha messo in evidenza il lavoro eseguito dalla stessa polizia scientifica nel trasformare le lastre in foto con tecniche moderne. Dopo un intervento breve e significativo di Annamaria Di Giulio, dirigente regionale della polizia scientifica, Alberto Prina, ideatore e responsabile del Festival della fotografia etica, nel quale l’iniziativa della questura è inserita, ha illustrato in pochi tratti la sua creatura.
Il salone della cerimonia

Osservando ogni immagine, compresa quella della strage di piazza Fontana nel dicembre del ‘69, si ha l’impressione di rivivere quei momenti tragici, che con tutti quei morti provocati da una bomba collocata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura sparsero terrore e indignazione. Quelle foto non si fermano dunque a largo Tel Aviv, iscritto negli annali degli scossoni che hanno lasciato sbigottita Milano: evocano altri fatti, altre scene, come la morte di uno sconosciuto, su cui si dovette indagare a lungo, e l’assassinio di una prostituta, che non è stato il solo: ad essere uccisa,, nel gennaio del ‘53, fu anche Mary Pirimpo, una bella ragazza del Sud venuta a Milano con la famiglia per trovare un posto di lavoro. Dopo di lei altre donne vennero massacrate sui marciapiedi lottizzati dagli sfruttatori.
Dopo l’intervento del questore, breve, efficace, sostanzioso, è stata data la parola ad un cronista, che ne ha approfittato per aprire diverse pagine della malandra nella terra di Carlo Porta: la rapina di via Osoppo, il 27 febbraio 1958, quando le tute blu assaltarono un furgone portavalori; la banda Cavallero, che dopo aver rapinato alle 15.15 l’agenzia del Banco di Napoli di largo Zandonai e rastrellato 12 milioni, fuggì a bordo di una 1100 blu. Arrivarono molte auto della polizia; il mresciallo Ferdinando Oscuri, volò anche lui sul posto, mentre i banditi cercavano una via di fuga, sparando all’impazzata con i mitra. “Spara, spara” urlava Cavallero al più giovane della banda, 17 anni e mezzo. Cavallero era deciso a trovare un varco e lo cercava a colpi di mitra. La polizia afferrò un complice, poi un altro.
Presicci, il questore Russo e la dottoressa Di Giulio


Una giornata da mezzogiorno di fuoco. Il capobanda riuscì ad eclissarsi, ma venne scoperto in uno scalo ferroviario deserto e arrestato. All’ergastolo trovò la fede, ne scriveva nel giornale confezionato con altri detenuti.
La mattinata di Lodi si è svolta alla presenza di tanti poliziotti non solo della città, agenti e dirigenti; e con l’uniforme anche Annamaria Di Giulio e il vicecommissario Attilio D’Agostino.
Quindici le foto. Il vicequestore Alessandro Battista, capo della Squadra Mobile di Lodi, ha informato il cronista su ogni particolare. “Le lastre sono state scoperte nell’archivio della polizia scientifica e trattate da specialisti molto esperti”. Battista è persona squisita, disponibile. Lui e il questore, a sua volta gentile e ospitale, hanno accompagnato il giornalista nella visita. Fuori c’era il sole, l’ambiente silenzioso. Battista ha risposto a tante domande, soddisfacendo ogni curiosità sulla rassegna, voluta e incoraggiata dal questore.
Il questore Russo e il commissario D'Agostino

L’esposizione finisce qui o avrà un seguito l’anno venturo, coinvolgendo magari anche il pubblico? Le forze dell’ordine sono una fortezza contro il crimine organizzato e sarebbe bello andare verso la gente, ricordando la brutalità di tanti criminali, dimostrata per esempio con l’uccisione dii tre malavitosi in un campo di granturco di via Selvanesco nell’aprile dell’80 e l’eliminazione di una coppia nei pressi dell’Innocenti, nello stesso anno. Episodi che Alessandro Battista conosce, come è informato sulle tante fughe dal carcere di quella specie di Vidoq di casa nostra, che per anni ha fatto parlare di sé, ispirando anche un film.
Il questore Russo e la dottoressa Annamaria di Giulio

Da molti anni l’ex “cane da tartufo” non entrava in una questura. A Milano la frequentò per anni. Lì aveva lavorato Mario Nardone, “il mito”, il gatto”, tale per il suo fiuto quasi infallibile; e lavoravano il maresciallo Ferdinando Oscuri, che risolse un delitto in tre ore anche trattando paternamente l’assassino, un giovane di sedici anni; Vito Plantone, “il re delle notti milanesi” e grande investigatore; Mario Jovine, che investigò sul colpo dei marsigliesi all’oreficeria Colombo in via Montenapoleone il 15 aprile ‘64, bottino 350 milioni; Antonio Pagnozzi, che consigliava alle famiglie dei rapiti di fingere scioperi nelle fabbriche per accorciare l’ammontare del riscatto; Enzo Caracciolo, che andò in pensione con lo scrupolo di non aver risolto il delitto di Simonetta Ferrero all’Università Cattolica, avvenuto il 24 luglio ‘71; il maresciallo Nino Giannattasio, che interrogò più volte Joe Adonis senza riuscire a fargli aprire bocca... Questi poliziotti furono pilastri di via Fatebenefratelli. Oggi non ci sono più, ma è rimasto il loro ricordo. Almeno nei colleghi anziani. Un cenno era dovuto a Paolo Scrofani, che, intervenuto per placare un folle mentre era fuori servizio, ci rimise la vita. Il cronista a Lodi, ha rivisto dopo una vita, con gioia, volti noti.
Presicci e la moglie con il capo della Mobile Battista
Al termine, sosta prolungata di fronte alla questura e ancora ricordi. Le parole a volte sono come le ciliege: ne cogli una e ne cade un’altra; se sono in coppia le appendi alle orecchie. Se l’argomento attira l’attenzione il discorso diventa un fiume in piena. Parlando con il vicecommissario Attilio D’Agostino, ho espresso il desiderio che la manifestazione del 5 ottobre abbia lunga vita. I protagonisti sono persone entusiaste e preparate e sono convinto che scopriranno altri “flash” sulla criminalità di un tempo, diversa da quella di oggi. La differenza me la illustrò a Catanzaro il questore Vito Plantone in un’intervista. Una sera con alcuni colleghi e rispettive mogli andarono in un ristorante del centro di Milano, dove a un tavolo erano seduti quattro o cinque capibanda. Alla vista dei poliziotti, passati cinque o sei minuti, si alzarono e uscirono. Poco dopo un giovane si presentò ai poliziotti con un grosso mazzo di rose rosse per le signore. “Noi restituimmo al mittente. Dunque ieri la malandra aveva rispetto per le forze dell’ordine, oggi spara anche contro di loro”.