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mercoledì 7 maggio 2025

Il ricordo di un grande Artista


Il monumento ai caduti il gioiello di Taranto

 

 

 


Francesco Paolo Como

Francesco Paolo Como sarà sempre nel ricordo dei suoi cittadini, uomo di tempra forte affrontò sacrifici, umiliazioni e ingiustizie per realizzare i suoi progetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI

 

 

Il monumento al centro della Vittoria (foto Antonio De Florio)
La gente che fa la ronda in via D’Aquino, sfiora piazza della Vittoria e qualche volta vi svirgola continuando a fare avanti e indietro dondolando come i “perdoni” alle Poste, o fermandosi infervorati spalleggiando una tesi, alzano qualche volta lo sguardo a quel maestoso monumento, che è uno dei gioielli della città?
Conoscono il nome dell’autore, che fu grande nel pubblico e nel privato, coerente nella sua fede repubblicana, inflessibile sostenitore della libertà e grandissimo artista? Io sono un tarantino pellegrino da tempo e ho perso il diritto di spargere giudizi sulla mia culla, alla quale sono comunque legato come le ostriche allo scoglio; ma da quello che mi dicono amici schietti e studiosi della terra di appartenenza l’indifferenza serpeggia in modo trasversale, e l’indifferenza è l‘anticamera dell’ignoranza.
Ma il professor Francesco Paolo Como, che vive e opera altrove, in un mondo che non ci è dato neppure immaginare, sicuramente non se ne cura. Li ho ammirati tantissime volte, quei soldati, che combatterono e morirono o rimasero feriti per difendere quella che una volta si chiamava Patria: Francesco Paolo Como li ha resi nelle forme e negli atteggiamenti in modo icastico. Se uno si accosta a quegli eroi può avere l’impressione che stiano per parlare, per muoversi, per dare risposte. Sono il risultato di un’arte alta, autentica, grandiosa; sembrano voler abbandonare lo spazio loro assegnato per venire incontro alla gente, immergersi nel flusso e riflusso di via D’Aquino, di urlare contro chi dimentica, ignora, si distrae.
A manovrare scalpello e martello per eseguire quei colossi è stato un artista che ha affrontato sacrifici, subito umiliazioni, angherie senza mai cedere, senza mai rassegnarsi. E’ stato un esempio, un modello. Eppure ho esplorato tante carte e non ho trovato a Taranto una via a lui intestata. Esiste a Talsano – mi ha detto Antonio De Florio, che studia la Bimare con scrupolo e passione – . Il nome di Como dovrebbe apparire in centro, dove invece scopro via della Livoria, un gioco di origine spagnola molto diffuso tra i ragazzi negli anni Cinquanta e anche prima.
La parte alta del monumento ai Caduti (foto Antonio De Florio)


Taranto è bella, adorabile, splendente, vanta parecchi cervelli, che però (detto con rispetto) affogano nel lasciar fare, nel “va bene, ci pensiamo domani” e il domani non arriva mai come quello di Totò. E così i geni prendono altre strade. E infatti negli anni Cinquanta il professor Francesco Paolo Como se ne andò a Roma con tutta la famiglia. Con un bagaglio pieno di brutti ricordi: l’ingratitudine atavica, lo scotto imposto per il rifiuto della tessera del fascio... Una riprova? Per realizzare l’opera di piazza della Vittoria prese in affitto un mezzo da una ditta, per andare a prelevare il materiale necessario; ma era il 28 ottobre del 1922 e l’autista abbandonò il volante in una strada di campagna per andare a fornire il suo contributo per l’ascesa del duce al potere. Il professor Como restò ore e ore a sperare in un miracolo, che arrivò dal titolare dell’azienda, preoccupato delle sorti del proprio dipendente. Il conducente lo fece per dispetto, odio, vendetta per l’antifascismo dell’artista?
Ho sempre avuto la voglia di superare i midi limiti e di apprendere qualcosa di pi della vita di questo artista che innalzò il capolavoro in piazza della Vittoria, che come tutte le piazze è stata ed è teatro di grandi avvenimenti, proteste, manifestazioni religiose, politiche (forse echeggia ancora l’oratoria di Almirante, Togliatti, Prodi...)... E ho chiesto al mio santo protettore Antonio De Florio, che mi ha procurato il numero di cellulare di Emma Como, liglia di Francesco Paolo, che di figli ne aveva cinque, tutti ancora in vita.
Un aspetto del monumento di Como (foto Antonio De Florio)

E’ stato per me un piacere e un onore conversare per un’ora con la signora, che vive con il marito, ex bancario, a Mantova, la città di Virgilio, dei Gonzaga, dei Tre Laghi e di Palazzo Te. Ho ricevuto tante risposte impreziosite da dettagli anche muniti. A volte l’interlocutrice mi ha anticipato. “Quando eravamo piccoli papà ci faceva il bagno. Poco presente, perché impegnato nell’insegnamento, alla Thaon de Revel, di disegno e poi di scultura. Terminate le lezioni, andava nello studio, in via Peripato, a modellare. Aveva degli allievi, e a chi non era capace di plasmare la creta suggeriva di intraprendere la via della scrittura, probabilmente perché ne aveva intuito il talento. Altri hanno preferito la pittura, arte che anche papà professava”.
Negli anni 50 Como si trasferì a Roma con tutta la famiglia e lì fu allievo prediletto di Ettore Ferrari, il cui monumento più famoso fu quello a Giuseppe Mazzini sull’Aventino. “Mi ricordo che quando morì (nel 1929: n.d.r.) mi dissero che Mussolini aveva suggerito ai suoi di disertare il funerale e che dietro il feretro c’era solo il cane.... Ripeto, non è una mia fonte diretta”. Como non potè partecipare, ovviamente non per obbedienza.
Altro elemento dell'opera di Como (foto Antonio De Florio)


La signora Emma parla con dolcezza, con calma, a voce bassa. Ha una memoria limpida, scorrevole. “Tutti in famiglia abbiamo amato quest’uomo, per la sua coerenza. Ci ha inculcato il valore della libertà. Quando stava modellando l’Aquilifero, uno degli elementi del monumento di piazza della Vittoria, la Giunta della Bimare insinuò che fosse cieco e che quindi era meglio affidare l’opera ad altri. Papà, che aveva soltanto un piccolo calo alla vista, reagì con energia: ‘Io l’ho fatto e io lo distruggo’. Papà e soprattutto la mamma, non ci davano mai ordini e non ci proibivano nulla. Ci consigliavano, tenendo sempre aperto il dialogo. Alla fine ci convincevamo che avevano ragione. I miei fratelli erano tutti affermati; Luigi era laureato in matematica e fisica ed era andato in America, poi tornò e si mise a girare il mondo per il suo lavoro; un altro fratello era un fotografo d’arte e fece il ritratto di papà...”.
La mamma Olga Gasperi, che era di Firenze, trasmigrò a Taranto, dove insegnò il ricamo di seta, oro e bisso al Magistero delle donne. Realizzò molti lavori pregevoli, tra cui un bellissimo volto della Venere Nascente, “anche quella in seta, oro e bisso. Tutti i lavori finirono nelle mani dei tedeschi”.
L'opera svetta nel cielo (foto Antonio De Florio)


Il professor Como in casa ha sempre parlato di politica, acquistava un sacco di giornali, compresi quelli d’arte. “Io poi ho seguito molto Eugenio Scalfari mi piaceva molto anche come parlava e ho letto i suoi libri. Da 53 anni vivo a Mantova e ho fatto il giro d’Italia per il lavoro di mio marito, Luciano”.
Emma è molto orgogliosa del suo papà, come anche i suoi fratelli. “Io stavo molto vicino a lui, lo vedevo lavorare il marmo con lo scalpello e il martello. Gli chiesi perché non usasse lo scalpello elettrico e mi rispose che doveva sentire nelle mani la materia”.
Quando passava davanti al monumento che signoreggia al centro di piazza della Vittoria, trasmettendo brividi per la sua potenza espressiva, Emma si commuoveva. Adesso non ci va più. Il XXV Aprile e per le feste delle Forze Armate le autorità continuano a deporre la corona d’alloro, la tromba a suonare il silenzio, i fotografi, durante la cerimonia. a formicolare con l’armamentario a tracolla. Emma riprende: “Sono stata presente alla commemorazione del 21 settembre del 2007”. E chiudendo questa edificante conversazione mi ha dato una notizia: “L’Università di Lecce ha fatto scrivere una tesi dei laurea su Francesco Paolo Como e sul monumento tarantino a una studentessa che vive a Parma, Azzurra Di Pietro. Per farla, lei ha parlato con tutti noi, per raccogliere fatti, momenti di vita e di lavoro, gusti, comportamenti, idee, tutto ciò che potesse servire, e ha consultato anche documenti, per descrivere in pieno l’artista e l’uomo”.
Via D'Aquino (foto Antonio De Florio)

Ho letto molte pagine su Francesco Paolo Como. Giacinto Peluso, il docente di francese che nelle aule fingeva di essere un orso, accenna alle “sofferenze morali inflitte ad un uomo che onorando con la sua arte i suoi gloriosi Caduti, ha onorato la città e l’ha arricchita di una pregevole opera che resterà nei secoli a venire”. E in altre pagine ho appreso che Francesco Paolo Como era secondo di otto figli ed era nato a Taranto il 6 aprile del 1888, in via D’Aquino, da papà Pietro Luigi, capomastro muratore, e da Grazia D’Alessandro, sarta e donna meravigliosa. Tutta la famiglia era di fede repubblicana.
A vent’anni alla scuola di Tommaso Antonucci iniziò il suo cammino artistico e poi partecipò a tanti concorsi, ottenendo ovunque successo. Nel 1912 entrò nell’Istituto di Belle Arti della Capitale, dopo aver superato brillantemente gli esami di ammissione; e vinse il posto nelle Ferrovie dello Stato. Era stato in guerra, guadagnandosi il grado di temente, tornò, continuò ad affrontare sacrifici, delusioni, fino al bando del concorso per il monumento, per cui dovette riempire lo studio di argilla pronta a ricevere l’alito dell’arte.
Ho meditato su un lungo testo di Raffaele Carrieri, poeta e critico d’arte, pubblicato sul “Poliedro” del 1° maggio 1924: “Non saprei parlare di questo semplice e pensieroso Artista senza mettere in primissimo piano la sua bella fibra d’uomo: moralmente e artisticamente parlando. Di Como ben si può dire che lo stile è l’uomo. Carattere fiero e animo gentile, sono le doti che formano la base granitica di tutta la sua vita intensa di passione e fede, oscuramente e silenziosamente combattuta…” E ancora: “L’Arte nel Como non trova un paladino ciarliero e zazzeruto che discute di estetica dinanzi ad uno sporco tavolo di caffè, ma il fervente artefice, l’instancabile lavoratore che tra quattro anguste pareti si cimenta per più ascendere… Nell’opera balzata fuori tutto è glorificato e ricordato: l’Apoteosi del sacrificio e la difesa della vittoria, i conduttori fidenti e i difensori accaniti, simboli dell’antica grandezza classica e romana, l’austera colonna Dorica con l’agile Nike tarantina, vetuste opulenze e glorie nuove…”. Gloria a Francesco Paolo Como.


 

mercoledì 30 aprile 2025

Del Circolo Italsider

FECE UNA FUCINA DI IDEE UN CANTIERE SEMPRE APERTO

 

Giuseppe Francobandiera - collezione De Florio

Intelligente, coltissimo, bravissimo, organizzò centinaia d'iniziative di alto livello, come il Teatro sull'erba, Era anche uno scrittore dallo stile attraente

 

 

 

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI

 

Ci sono intellettuali che hanno realizzato importanti imprese e hanno lasciato traccia nel cuore della gente. Il ricordo che si continua ad avere di loro è limpido: le opere da loro compiute appartengono non a tanti anni fa, ma all’altro ieri. E indimenticabile è il nome di Giuseppe Francobandiera, che per anni ha pilotato in modo eccellente il Circolo Culturale Italsider, acquartierato nella masseria Vaccarella, a Taranto.
Masseria Vaccarella - collezione De Florio
Stavo sfogliando un poderoso e bellissimo libro edito dalla casa editrice Mandese, “Taranto da una guerra all’altra”, e tra i nomi di Piero Mandrillo, Roberto Nistri, Cesare Giulio Viola... ho ritrovato quello di Giuseppe Francobandiera in calce ad un intervento che ho avuto gran piacere a rileggere. E come ogni volta che ho letto e riletto quelle pagine mi sono subito appassionato anche per lo stile nobile, affascinante: “Il misterioso fluire delle storie private nel fiume grande della storia. Il rapporto stretto, l’intreccio di episodi, di ‘eventi’. Il susseguirsi degli avvenimenti fatali: fascismo, guerra, armistizio, liberazione e le ripercussioni nelle case della gente, più che negli echi delle piazze. L’apparente occasionalità dei giorni, la trama fitta del quotidiano; tutto questo ci interessa di più che coniugare il tempo con le date e tentare di spiegarlo”. E’ solo l’inizio del testo di “una storia di Taranto origliata dai buchi delle serrature, guardata dal piano terra delle botteghe, dalle edicole dei giornali, dalle strade; ricostruiti dagli annunci economici, le canzoni, i giornali, le cronache nere e rosa, le locandine del cinema e del teatro; le divise e gli abiti, le foto familiari, le cartoline coi saluti, i ricordi di chi c’era. Questo tenteremo di raccontare, facendo ricorso a quei materiali minuti che gli storici veri lasciano agli scrittori di costume: una tessera annonaria, ad esempio, per quel tanto di vita ‘normale’ che le è passata sopra possiede più potere di evocazione di un dettagliato rapporto sui disagi alimentari patiti durante la guerra: più presa che non le reliquie di Sarajevo”. E continua con l’affermarsi della dittatura e con tutto ciò che l’ha seguita. Un racconto, il suo, ricco di fatti, con il manganello che colpiva anche un respiro male interpretato, gli inni, i simboli, le architetture colossali, emblemi del potere. Ricordi che fanno sussultare ancora.
Leggendo Francobandiera si rivivono quei giorni funesti. E’ come stappare una bottiglia di gazosa con la pallina di vetro. E’ stato davvero un personaggio di grande rilievo, non soltanto come scrittore. Nel giugno 2024 Alberto Altamura su “Taranto Sera” ha scritto che “Peppino è stato un validissimo operatore culturale, anzi uno stratega culturale che si è adoperato tanto per svecchiare la cultura locale e promuovere quel salto di qualità che facesse di Taranto una città moderna, aperta alle novità e sensibile. Il suo merito è stato quello di guardare alla cultura in maniera globale, mostrando interesse per l’arte, il teatro, la musica, la letteratura, lo sport…”.
Peppino Francobandiera aveva origini potentine e non solo a Taranto godeva di grandissima stima. Piero Mandrillo, il giornalista Vincenzo Petrocelli, il professor Franco Zoppo, di cultura sconfinata, abile narratore (“Belmonte” e altro) e conferenziere di profonda esperienza, lo apprezzavano moltissimo. Quando Peppino morì Franco mi confidò che la città aveva perso un ottimo possibile sindaco. E con le sue idee, le sue capacità organizzative, la sua abilità nel far funzionare il motore, Giuseppe avrebbe saputo davvero guidare la città, facendola migliore.
Ibrahim Kodra e Filippo Alto
Nonostante il suo enorme patrimonio culturale, le sue virtù di narratore attento e scrupoloso, Giuseppe era un uomo alla mano, simpatico, schietto. I suoi discorsi, sempre ricchi di contenuti, si dipanavano con una sveltezza mai dilagante. Me lo presentò una sera al “Corriere del Giorno”, al primo piano di uno stabile in via Di Palma, sul Teatro Odeon, tantissimi anni fa, Vincenzo Petrocelli, che al giornale curava la pagina letteraria. Mi chiese se potevo fare da tramite con Morando Morandini, critico cinematografico del quotidiano “Il Giorno”, dove lavoravo, e gli risposi di sì. Giuseppe lo voleva per una conferenza. Aveva già avuto Gianni Brera, che gustò poi squisite orecchiette preparate dalla moglie del custode della stessa masseria. In seguito andai a far visita a Peppino nel suo ufficio e mi invitò a pranzo, ma avevo un impegno che non potevo rimandare.
L’ho incontrato spesso a Figazzano, a un tiro di fionda da Martina Franca, nel palazzetto del pittore Filippo Alto, che aveva spesso ospiti illustri, tra cui il critico d’arte e docente all’Accademia di Brera Raffaele De Grada. Nel cortile che fascia parte della sua casa ogni anno Filippo organizzava una serata culturale, a cui a volte prendevano parte Giuseppe Giacovazzo, il poeta Egidio Pane, Vernola e tante altre personalità... Non ricordo il tema della serata in cui incontrai Peppino Francobandiera e la moglie Marisa, docente di chimica.
Filippo mi parlava tanto di Giuseppe; e anche Piero Mandrillo. Quando il pulsanese geniale ribattezzato tarantino, il saggio conduttore di rubriche letterarie su un’antenna locale, Piero appunto, veniva a Milano, andavo a prelevarlo alla stazione Centrale, lo portavo a pranzo a casa mia e poi a Monza, dove viveva e insegnava Maria Teresa, la figlia:
Serata milanese per Giuseppe Francobandiera

“Ho grande rispetto per Francobandiera, non soltanto per tutte le iniziative di altissimo livello che allestisce, facendo del Circolo un serbatoio di cultura; ma anche per la sua profonda cultura”. E mi raccontava un episodio dietro l’altro. Così io ricevevo ventate della mia città.
Peppino Francobandiera organizzò anche il “Teatro sull’erba” e io assistetti a uno spettacolo di Luca De Filippo, figlio di Eduardo, su un palcoscenico allestito su una distesa di verde formicolante di spettatori. Non mi pesò rimanere in piedi dall’apertura del sipario alla chiusura finale. Ero arrivato in ritardo per un imprevisto sulla strada da Martina a Taranto e ogni posto era già occupato. Un conoscente voleva cedermi il suo, ma cortesemente rifiutai.
E i concerti nelle chiese? E le mostre degli artisti più consacrati? Ad esempio, Domenico Cantatore, residente a Milano, ma radici a Ruvo di Puglia, dove nel ‘76 Giuseppe Giacovazzo lo colse e intervistò passeggiando sotto gli ulivi nel primo documentario a colori della televisione nazionale. I nomi più importanti dell’arte italiana passarono dal Circolo condotto da Giuseppe Francobandiera. Giò Pomodoro, tra questi. Anche i poeti approdarono in questo fabbricato rurale, che a suo tempo fu fulcro del lavoro contadino. Ricordo Alfonso Gatto, di cui lessi pagine toccanti su Milano, “dove venni da ragazzo con un libretto di versi in tasca, con due lettere, una per Zavattini, una per il povero e caro Titta Rosa e solo a piedi - mi dicevo con il mio entusiasmo imparerò la città – riuscii a trovare piazza Carlo Erba e la Rizzoli dove lavorava Zavattini…”.
Peppino Francobandiera conosceva tanti principi della tavolozza e della penna e tutti accettavano i suoi inviti. Di Filippo Alto, di cui si erano occupati i critici Mario Lepore, Sebastiano Grasso, Mario De Micheli, era amico… E Filippo nella masseria fece una delle sue mostre più appassionanti, con quadri che esprimevano tutto il suo attaccamento alla Puglia. La coglieva attraversando tratturi che ricordano D’Annunzio, osservando muri a secco rosicchiati e trulli, “casedde”, fichi, viti, querce e ulivi, che impreziosiscono la terra rossa. A Francobandiera, che aveva fantasia, cuore, sensibilità, intuito, ricchezza di idee, piaceva questa pittura.
"La Gatta Cenerentola" di Roberto De Simone (La Fratta)

L’ultima volta che incontrai questo messaggero di cultura fu ancora a Figazzano, nuovamente da Filippo Alto, che aveva dato il microfono a un contadino quasi ottantenne, don Oronzo, che aveva una casa incappucciata biancolatte accanto alla sua. La “performance” si concluse con applausi infervorati, perchè don Oronzo con il suo italiano farcito di dialetto e la “verve” scenica aveva calamitato l’attenzione e divertito, raccontando la campagna di una volta, le vendemmie, in cui a volte fiorivano amori duraturi, le raccolte degli ulivi, gli attrezzi, storie succose, che avevano suscitato l’ilarità continua del pubblico.
"La Gatta Csnerentola" (La Fratta)

Al termine Peppino, Filippo e il sottoscritto uscimmo su quella che una volta deve essere stata l’aia e tra l’altro commentammo la storia di don Oronzo e il suo carattere deciso e intransigente.
Un giorno seppi che Peppino Francobandiera era deceduto. Non ci volevo credere, era giovane, pieno di energie, ricco di voglia di fare, non poteva essersene andato così bruscamente. Così pensai per l’ammirazione che avevo per lui.
Adesso lo ricorda anche un premio letterario dedicato a lui. Si dovrebbe fare di più. Per tutto quello che Giuseppe Francobandiera ha dato a Taranto e alla cultura e non solo, una via dovrebbe portare il suo nome. Intanto la mia amica Wilma Laghezza, che ha insegnato storia e filosofia, mi ha inviato un video di un’intervista in cui Giuseppe tra l’altro dice: “… Noi non cerchiamo di far venire a Taranto personaggi noti, come i ‘The Blues Brothers’, ma anche altri non comuni, che ci vengono segnalati dagli amici.
Altra scena de "La Gatta Cenerentola" (La Fratta)
E non insistiamo sempre sugli stessi temi”. Il fotografo Carmine La Fratta a sua volta mi ha fatto avere immagini sceniche de “La Gatta Cenerentola” di Roberto De Simone, con Peppe Barra e Fausta Vetere. E Antonio De Florio, comandate di “Foto Taranto com’era” su “Facebook” un bella immagine di Francobandiera presa della sua collezione.

mercoledì 23 aprile 2025

E se n'è andato Franco Abruzzo

E' STATO PER OLTRE VENT'ANNI PRESIDENTE ORDINE GIORNALISTI

 

 

 

Franco Abruzzo

Coltissimo, coraggioso, determinato, lavorò al "Giorno" e al "Sole 24 Ore"  come capo  redattore centrale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI

 



E anche Franco Abruzzo, asso del giornalismo italiano e già presidente dell’Ordine lombardo della categoria, se n’è andato. Amici e avversari nelle lotte per la conquista dei vertici del settore si sono uniti nel dolore per la sua perdita.
Abruzzo era un personaggio famoso, non soltanto a Milano e al Nord. Ed era ovunque apprezzato per la cultura illimitata, per la sapienza professionale, per l’abilità di pilota del transatlantico che accorpa tutti quelli che scrivono per quotidiani e settimanali. Era esperto di storia, compresa quella del giornalismo, e del diritto. Sapeva moltissimo di economia, finanza, conosceva a menadito le leggi, le date di pubblicazione, i modi d’interpretazione. Quando lui parlava in un convegno su questi argomenti bisognava ascoltarlo attentamente, perché c’era solo da imparare.
Il giornalista Franco Abruzzo

Era informatissimo. Un giorno ero a pranzo a casa del giudice Romeo Quatraro, che diventò presidente del Tribunale Civile nel capoluogo lombardo, e parlando di Franco Abruzzo disse che, cultura a parte, da tutti riconosciuta, aveva una memoria formidabile. Se si piazzava davanti a un’atlante, metteva il dito sui luoghi in cui erano avvenute le grandi battaglie, non soltanto quelle della prima e della seconda guerra mondiale, ed evocava i nomi dei condottieri, lo schieramento degli eserciti, le tattiche, le strategie adottate…
Quando era al “Giorno”, dove aveva il compito di seguire il Palazzo di Giustizia, inanellava spesso “scoop”. S’infilava negli uffici e pescava panieri di notizie. Sollevava il telefono e mieteva. Scriveva articoli sui “summit” mafiosi e dava i nomi di quelli che per sedersi al tavolo avevano evitato le regole del soggiorno obbligato. Se gli si facevano domande su una “cosca” o su una “’ndrina” le risposte non erano mai superficiali, perché anche di quella brodaglia conosceva tutti gli ingredienti. Di Cosa nostra conosceva le gerarchie, i riti d’iniziazione, la storia e le storie. Era abile, battagliero, tenace. Un giorno duellò con un cancelliere, rivendicando il diritto di avere un’informazione. Lo appresi dalla radio.
A sinistra Franco Abruzzo, a destra il ristoratore Chechele

Aveva coraggio, non si fermava mai a metà del percorso. Se aveva in mente un obiettivo, lo conseguiva. Se trafugava una notizia mentre stava sorbendo un caffè al bar con l’amico e collega più caro non la condivideva per nulla al mondo. E non si vantava mai di un “buco” assestato alla concorrenza. Per lui contava la chicca ed era un maestro nell’irrorarla, nel farla crescere. La notizia si sviluppava, perché lui s’impegnava a scoprire tutti i dettagli. Era scrupoloso, non guardava l’orologio. Il suo lavoro ricominciava quando aveva mandato l’articolo in tipografia. Tutto questo quando era in cronaca e s’inventò i commissariati.
Una sera infervorò Enzo Macrì, il capo cronista, dicendogli che bisognava trovare un collega volenteroso, pieno di volontà ed energia e anche un po’ investigatore, da mandare negli avamposti di polizia, dove si riversano storie anche umane che gli uffici della questura non conoscono nemmeno. Macrì, siciliano purosangue, anche lui dal fiuto volpino, gli affidò un sondaggio. E il volenteroso emerse come il palombaro dall’acqua; e si mise a fare il giro della città, da un capo all’altro, da San Siro a Lambrate, da Porta Romana al Ticinese, tornando a casa spesso con il carniere pieno. Questa maratona ogni giorno.
Abruzzo rimase in cronaca con Italo Pietra, con Gaetano Afeltra, Guglielmo Zucconi. Con il terzo direttore passò ai Fatti della Vita come capo redattore. Ed ebbe più tempo per completare gli studi di Scienze Politiche laureandosi con 110 e lode all’Università Statale. E continuò a studiare. Studiava sempre, quando le notti al giornale erano tranquille, dopo avere studiato a casa.
Era serio, onesto, stakanovista, disponibile. Affrontava le situazioni più complesse con determinazione e saggezza. Era una fucina di idee. Aveva amicizie importanti e fonti dappertutto. Era un cacciatore in grado di telefonare alle 2 di notte ad un amico che poteva confermargli una notizia o arricchirla. E se c’era da aiutare un collega non si tirava indietro.
Franco Abruzzo, seduto, e il questore Antonio Fariello
Franco Abruzzo era calabrese di Cosenza e aveva la testa dura (“absit injuria verbis”, anzi) ed era un po’ scontroso, a volte. Ma sapeva anche essere ironico, quando si stagliava davanti a un collega un po’ schivo. La sua gloriosa avventura al “Giorno” si concluse con la chiamata di Gianni Locatelli al “Sole-24 ore” come caporedattore centrale. Sul quel giornale scrisse articoli che tutti leggevano, e apprezzavano: imprenditori, banchieri, finanzieri… e finì nell’elenco dei 5000 personaggi più importanti.
Eugenio Scalfari lo chiamò a “Repubblica”, ma la trasmigrazione durò poco. Riscuoteva titoli di merito ovunque. Insegnava alla Bicocca, pubblicava libri, tra cui “Codice dell’Informazione e della Comunicazione”. Era direttore di “Tabloid”, l’organo dell’Ordine della Lombardia. Insegnò diritto dell’informazione all’Istituto “Carlo De Martino”, per la formazione al giornalismo. Era grande amico di Walter Tobagi, firma autorevole del “Corriere della Sera” e un gran signore. Quando un gruppo di aspiranti brigatisti lo assassinò, lasciandolo sul marciapiede bagnato di pioggia, con l’ombrello di fianco, trovai Franco in casa della vittima. Immobile come una statua, gli occhi umidi, il volto teso, le mani congiunte sotto il naso. Attorno a lui, il vuoto. Arrivò Gaetano Afeltra, poi Giovanni Raimondi e Franco non se n’è accorse neppure. Sembrava una roccia ma era capace di soffrire molto in silenzio.
Franco Abruzzo e Giuseppe Gallizzi, già capo redattore centrale del “Corriere” e calabrese di Nicotera, due campioni in squadre avversarie, alle votazioni per il rinnovo delle cariche all’Ordine e al Sindacato disegnavano geometrie perfette, si spiazzavano, svirgolavano, dribblavano, costruivano il gioco, ma si stimavano e restavano amici.
Gaetano Afeltra in un ritratto al Circolo della Stampa

Oggi Gallizzi, in pensione, scrive sul suo giornale, “La Voce dei Giornalisti”: “Un professionista serio e un qualificato rappresentante delle più alte istituzioni della nostra categoria. Ma soprattutto un amico, un collega con il quale posso dire di aver condiviso ogni passaggio di una carriera giornalistica accomunate dalle origini calabresi, dagli inizi a Sesto San Giovanni, dall’approdo nei quotidiani milanesi, fino alle battaglie all’ordine e al Sindacato dei giornalisti”.
Quando avevo 20 anni e vivevo ancora a Taranto Franco Abruzzo lo conoscevo di nome e già lo leggevo . Io scrivevo su un giornale della mia terra, su due di Bari e uno di Lecce e lui su altri. A Milano lessi una sua inchiesta molto interessante sulla scuola pubblicata sul “Touring Club”. Erano gli inizi degli anni ‘60. Lo incontrai la prima volta negli uffici di una casa discografica con sede alla periferia di Milano, dove scrivevamo le biografie dei cantanti. Abitavamo io in via Lorenteggio e lui in via Fatebenefratelli sul ristorante frequentato da Indro Montanelli. Il lavoro durò un mese, poi entrambi ci trasferimmo al quotidiano “L’Italia” in piazza Cavour, lui allo sport, io agli spettacoli.
Giuseppe Gallizzi, a destra, e il figlio Pierfrancesco
 Ci vedevano quasi ogni sera, lui, per andare al suo posto doveva passare davanti al mio, dove c’ero poche ore, perché peregrinavo circhi equestri e prime teatrali e conferenze e interviste ad attori alla Terrazza Martini. Dopo qualche mese Franco salutò tutti e andò in via Fava, nel palazzone de “Il Giorno”. Io ci arrivai dopo. Qualche tempo fa sono riuscito a rintracciare il telefono di Graziano Motta, che fu capo servizio all’”Italia”. Sono passati più di sessant’anni e la prima domanda che mi ha fatto, è stata su Franco Abruzzo, che lui apprezzava molto. Motta è in pensione dopo essere stato per anni corrispondente di Radio Vaticana da Gerusalemme. Ha scritto un grosso libro sulla sua vita di giornalista, ma non vuole farlo recensire. Io l’ho letto e mi è piaciuto. Ora lo richiamerò per dirgli che Franco non c’è più. Il giornalismo ha perduto la voce di un tenore, che ha onorato non solo la carta stampata, lottato come un leone per la difesa dei giornalisti, per la libertà di stampa. Dirgli addio pesa.
Io non andrò al suo funerale: le mie gambe non reggono più e non esco più da casa, ma soprattutto voglio ricordarlo vivo, ai tempi in cui dominava la cronaca del “Giorno” dalla sua postazione sotto la finestra al quarto piano o scambiava battute di spirito con Enzo Catania, cane da tartufi mai stanco. Lo ricorderò fare la ronda fra la sua scrivania e la redazione di Aldo Catalani, che confezionava il telegiornale per “Antenna Lombardia”, direttore Enzo Tortora. Ciao, Franco


mercoledì 16 aprile 2025

Le statuine in miniatura di Salvatore Barino


REALIZZA I SUOI ICASTICI LAVORI NEL SILENZIO DELLA SUA ABITAZIONE




Salvatore Barino presepista
Una passione che si accresce sempre di più. Ha iniziato sagomando la Maternità. Ha fatto mostre in molte città, riscuotendo l’apprezzamento dei visitatori. Lavora nel silenzio della sua abitazione.

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

FRANCO PRESICCI
 
 
 

Natale è ormai passato da quasi quattro mesi e adesso si pensa alle feste pasquali, ai riti e alle tradizioni, ai dolci, come il panettone, di cui gli esperti ci stanno riproponendo la storia. Ma agli artisti non si può imporre una scadenza: loro scolpiscono, dipingono, disegnano quando sentono il bisogno di farlo.
E ogni volta che si scopre un virtuoso dell’argilla o del gesso o del sughero o di qualche altro materiale che serve per far emergere una figura, grande o piccola che sia, è giusto farlo conoscere almeno agli appassionati, che amano ammirare, per esempio un presepe e i suoi abitanti, pastori, lavandaie, pizzaioli, pescivendoli, calzolai, falegnami, fabbri, maniscalchi e via dicendo. Li ritrovi nei pressi o lontani dalla grotta della Natività o su un sentiero in alto o in basso, in un recinto oltre il quale c’è il pollaio o in un anfratto con una donna che cuce, non si riesce a staccare lo sguardo dalla questa scenografia sacra.
Ho visto presepi fatti con pane o biscotti scaduti, a Crispiano, per esempio; e presepi realizzati con il cartone o con il sughero. Comunque siano eseguite, le rappresentazioni che ricordano la nascita del Bambinello hanno fascino e sanno di magia. Ci sono persone che il presepe lo tengono esposto tutto l’anno, anche se lo accendono nei giorni di Natale, quando fa trepidare il cuore per le sue luci che illuminano non solo la grotta con San Giuseppe, Maria, il Bambino e i due animali e ogni sentiero, ogni spelonca.
Non c’è bisogno di andare fino a Pietraperzia - borgo nel cuore della Sicilia, in provincia di Enna, animato da tempi remoti - per imbattersi in Salvatore Barino, 50 anni appena suonati (lui lo dice con soddisfazione). Le sue opere campeggiano su Facebook anche nei profili dei suoi amici e di altri patiti del suoi manufatti.
Barino modella soprattutto statuine di 2 centimetri e mezzo o tre e presepi persino nell’incavo di una pietra di qualunque forma, ovunque possa arrivare il suo occhio d’aquila. Non c’è bisogno – precisa – di ricorrere ad una lente d’ingrandimento, “perché i miei lavori si vedono benissimo ad occhio nudo”.
Salvatore ha sempre avuto la passione di sagomare e di dipingere, passione che non ha ereditato da nessuno. Ed evita ogni definizione. Si è cimentato in ogni forma d’arte, affascinato specialmente dal modellato, dalla decorazione, con inclinazione per la scultura in miniatura. Non realizza figure in serie. Nel 2017 ha fatto un presepe nel guscio di una noce e in seguito uno in un cucchiaio. Usa l’argilla o una pasta polimerica. Ha iniziato plasmando la Maternità; poi si è dedicato ai pastori, sempre in quelle misure ridotte. Non ha un laboratorio, una bottega: è a casa sua che dà sfogo alla sua vocazione.
Per 15 anni ha lavorato come formatore professionale di indirizzo informatico, grafico e artigianato artistico. E’ scapolo, quindi non ha bambini intorno che possano distrarlo: crea un guardastelle, personaggio indispensabile nei presepi, un vecchio con una pecora sulle spalle, una lavandaia e poi lo guarda e riguarda. Barino esegue anche Santi (Sant’Elena, Sant’Arcangelo… e San Francesco, a cui si dà il merito di aver inventato il presepe, a Greccio, nel 1209).
Barino al lavoro
Proprio lo scorso dicembre ha partecipato a una mostra di minipresepi a Filottrano in provincia di Ancona - centro in cui signoreggia la moda e si spandono campi di grano e di girasoli, con la vista del Conero, che in molti quadri ha ispirato il grande artista Attilio Alfieri, che usava il rosso dei meloni ammucchiati sulla bancarella da lui preferita. Ha preso parte anche ad altre esposizioni di presepi artistici e scenografici di ogni tipo in un antico quartiere caratteristico di Enna, Fundrisi - organizzata dall’Associazione Amici del Presepe locale - che si svolge a settembre, nella “Galleria Civica” e a dicembre all’aperto.
Si fa fatica a tirar fuori le parole a Salvatore Barino. E’ misurato, sereno, riservato, preciso nelle date e negli eventi, descrivendo quello che fa senza enfasi. “Mi dedico a opere decorative e pittoriche su tela, su pietre, su tavola, stoffa e quant’altro; ed eseguo anche corredi liturgici, tipo balze per altare, tendaggi processionali, casuli dipinti”. Fino al 2015 frequentava attivamente l’oratorio dei Salesiani di Pietraperzia, facendo animazione in gruppi giovanili e corsi di decorazione, pittura per i ragazzi; e lavori di grafica con il computer.
Quanto impegno. C’è una sua architettura in miniatura nel Museo del presepe di Giarre, in provincia di Catania. “I miei presepi sono eseguiti con materiali poveri e le statuine in abito tradizionale. Utilizzo anche il polistirene. Oltre che presepi tradizionali confeziono palestinesi con paesaggi dei luoghi di Gesù e qui i personaggi indossano le tuniche.
Mentre la conversazione volge alla fine guardo i suoi don Bosco, il Cristo con la corona di spine, i dipinti sul pelo delle pennellesse, di quelli che usano i restauratori di mobili antichi.
Salvatore ha poco tempo, eppure risponde puntualmente alle domande senza dare l’impressione di volersi sottrarre. Anzi si sofferma sui particolari, soprattutto quando accenna ai presepi palestinesi, ai suoi panorami e ai materiali che usa nella lavorazione. Gli va bene anche quella pasta che usano i bambini per i loro giochi: il “das”.
Mi è piaciuto conversare con Salvatore Barino, come mi piacciono i suoi pastori così piccoli. Non si trovano da nessuna parte ed è per questo che lui decise di farseli da solo. Un figulo di Grottaglie, in provincia di Taranto, un giorno che mi accolse nella sua bottega nel Quartiere della Ceramica” per un articolo che dovevo scrivere per “Il Giorno” di Milano, mi disse che creare pastori e pastorelli in dimensioni ridotte è molto difficile, a parte il tempo necessario per modellarli; per questo nessuno li produce.
Salvatore Barino ha la mano felice e tanta voglia di fare, la capacità, la tenacia, la pazienza nella creazione dei lavori; e i risultati sono icastici. Se ne sta seduto ad un tavolo per ore, aiutato da una lampada e dal silenzio. Occhiali, barba e baffi neri, dipinge mani che tendono una verso l’altra, a simboleggiare il desiderio di un incontro, di un’amicizia; volti di Madonne, nella tranquillità della sua abitazione di Pietraperzia, luogo che sta in alto con oltre 6 mila abitanti, a un bel po’ di chilometri dalla città, detta la più alta d’Italia, che offre una vista meravigliosa, d’incanto.
Un mio amico che viene a trovarmi tutti i giorni osserva che adorando i presepi e le statuine destinate a quel paesaggio, ne parlo e ne scrivo anche fuori stagione. Gli rispondo che Natale è sempre nel nostro cuore e che, se siamo sempre pronti ad andare verso l’altro, se sappiamo donare, accogliere il povero, si apprezzano i simboli del presepe: l’acqua, la luce, il fuoco. L’altro è tuo fratello. Se la pensi così, Natale è sempre Natale. “Lo vedi quel presepe sulla mensola della libreria? E’ di argilla, che non ha bisogno del forno, come quella che usava lo scultore Giuseppe Gorni, autore del monumento alla donna, in piazza Cavallotti a Mantova, e del monumento al capolega, a San Rocco della stessa città di Virgilio. E’ un regalo ed è sempre lì a testimoniare l’amore per gli altri”.
Barino al lavoro
A Natale Gesù rinasce per ricordare all’uomo l’amore; e l’amore deve essere duraturo”. L’amico non crede alle mie parole; forse addirittura pensa che io vada farneticando. Il mondo non è più quello di una volta. E io forse sono rimasto indietro. Non importa. Amo il presepe e ai primi di gennaio non lo impacchetto per metterlo in cantina. E quando incontro un presepista come Salvatore Barino mi va di parlare di lui, anche in giorni lontani dal Natale. Il presepe mi affascina, mi esalta. Di fronte al presepe m’immagino nel pollaio di fianco al ruscello che precipita a valle o nelle vesti dello zampognaro che dà fiato alla ciaramella. Il presepe è anche spettacolo, fiaba. Nel presepe si sintetizzano secoli di storia.

mercoledì 9 aprile 2025

San Giuseppe celebrato nel Tarantino

IL PROTETTORE DEI FALEGNAMI DOMINA FRA LE TAVOLE IMBANDITE

 



San Giuseppe a Lizzano in fondo alla tavola
Migliaia e migliaia di persone venute anche dai centri vicini hanno partecipato alle feste a Lizzano, Fragagnano, San Marzano di San Giuseppe. Le processioni si sono svolte una ventina di giorni fa, ma l’eco non si è ancora spenta.








FRANCO PRESICCI


 
 
In Puglia San Giuseppe è molto venerato. Addirittura un paese a pochi chilometri da Taranto, ricco di vigneti e di uliveti, abitato dal XVI secolo da cittadini albanesi, che della terra di origine mantengono costumi, tradizioni, lingua, riti, porta il suo nome: San Marzano di San Giuseppe.
Tavola panoramica a Lizzano
A Lizzano compongono tavole devozionali lunghissime con l’immagine del Santo al posto d’onore, sulla parete centrale, addobbata con stoffe, merletti, ricami o tra le portate... Una tradizione antica. Sulla tavola si stendono tovaglie bianche e vi pongono tredici delizie tipiche del luogo. Tra queste, la massa con i ceci, pasta fatta in casa giorni prima e messa ad essiccare (ha la forma delle tagliatelle); il grano “stumpatu” (decorticato) e cucinato dopo essere stato tenuto a mollo per un’intera notte e il giorno dopo bollito, cotto e condito con olio fritto, aglio verde; purea di fave; lambascioni al sugo: baccalà, con lo stesso condimento; rape stufate; dolci (paste di latte; biscotti di vino; “puddiche”, fatte con olio bollente con scorze di arance e pepe; crostate chiamate “fucazieddu”, con un composto di marmellate di zucca, di uva e fichi con l’aggiunta di cannella, chiodi di garofano, mandorle, noci). Non mancano le “carteddate”, collocate in coppe smaltate, di quelle che venivano usate dai nonni. Più coppe smaltate si hanno, più le si usano, dato che sono disponibili anche altri tipi di leccornie. A preparare i piatti sono signore del paese, volontarie e devote… Il 19 marzo la tavola viene “sgarrata”, svuotata e il bendidio offerto ai bisognosi.
Tavola di Lizzano
Sono diverse le famiglie che allestiscono ciascuna la propria tavola. Quest’anno ce ne sono state tre private - mi dice il professor Giuseppe Marino, scrittore ed esperto di tradizioni - oltre a quelle delle associazioni, che approntano le proprie, tra cui la mia, ed esposte in un clima di serenità, devozione, preghiere, giaculatorie e allegria, caratteristiche della festa. Quindi, la processione, che parte dalla Chiesa Madre e si snoda per le vie della città tra una folla di fedeli e la banda musicale, che intona suoni sacri. Al rientro esplodono gli immancabili fuochi di artificio che in cielo si trasformano in fioriture di stelle multicolori. La sera, i falò “costruiti” con fascine, tronchetti di legno, qualche mobile invaso dai tarli o sciancato, con tantissime persone intorno, arrivate anche da Taranto, ad applaudire, elettrizzandosi.
La ricorrenza conta secoli e secoli. Ed è attesa con ansia dai papà e dai falegnami di cui san Giuseppe è il protettore. La visita alle tavole è un pellegrinaggio di fede, che continua anche il giorno dopo, quando si presentano le scolaresche. Ma il Santo che con Gesù e Maria condivide la grotta dei presepi, architetture scenografiche e luminose, viene celebrato in tante parti della Puglia e altrove, anche all’estero, alla grande.
Fragagnano tavola in chiesa
 
Festa anche a Fragagnano. quattro chilometri da Lizzano, piccola finestra sul mare Jonio, dal XVI secolo abitata anche qui da una popolazione di albanesi, che all’epoca vennero trasferiti a Monteparano per troncare i contrasti con gli indigeni. In questo paese, che vanta il Castello Marchesale con gusto barocco dominano i Riti dei Santi, con una tavola sull’altare della Chiesa, attorno alla quale si seggono persone che rappresentano la Sacra Famiglia. San Giuseppe, battendo il bastone sul pavimento, scandisce l’alternanza dei cibi. Anche qui 13 piatti che richiamano la nobile civiltà contadina (cibi che ieri erano poveri e oggi vengono serviti come specialità anche in ristoranti di grandi città come Milano). Esempi, fave con cicoria; bucatini con la mollica di pane; la “massa” (tagliatelle condite con olio, prezzemolo e pepe); ceci, fagioli, “carteddate”… Per provvedere alle vivande gli incaricati si attivano dalla metà di gennaio, stabilendo un copione con le indicazioni di un regista, Alfredo Traverso, ideatore del Teatro della Fede in Puglia, e un’artista locale, Lucia Traetta, che realizza l’immagine rappresentativa dell’evento che campeggia anche sui manifesti.
Cibo per le tavole a Fragnano
Quest’anno alla tavola erano seduti due stranieri: una donna ucraina e un ragazzo del Camerun, che hanno raccontato la propria storia, presentato un piatto e interpretato un canto della propria terra. Tutto messo in piedi con la collaborazione della comunità, della Pro Loco, che gestisce anche la Biblioteca Comunale intitolata a Elena Dell’Antoglietta, e ha come presidente Nunzia Di Giacomo. Segue la processione. La sera in programma il Rito dei Santi, la tavola in chiesa.
Una volta la festa di San Giuseppe a Fragagnano - festa che si fa risalire al 1800 - si svolgeva il 13 e il 14 marzo, prima di quella di San Marzano. Per motivi di competizione fra le due comunità, che con il passar del tempo sono andate scomparendo.
Queste manifestazioni in onore di Giuseppe di Nazareth, umile artigiano del legno, vanno in scena anche in altre zone. Forse perché è ritenuto il paladino della chiesa, forse perché protegge gli ultimi, chi ha fame, chi ha sete, chi soffre, ha milioni di devoti. Nel Salento si celebra a Giurdignano, a Minervino di Lecce… In provincia di Bari, a Modugno, “Sulla via del falò” richiama moltissima gente, che segue il percorso intervallato da musica, canti, balli popolari, urli di gioia. San Giuseppe si solennizza a La Spezia, a Santa Maria di Leuca... Il rito delle tavole fa pensare anche ai monaci basiliani che davano ospitalità, alimenti e protezione agli stranieri.
Anche San Marzano di San Giuseppe nella ricorrenza quasi svuota i centri vicini, i cui abitanti vi si riversano con entusiasmo ad ammirare il corteo, che si snoda con cavalli addobbati, carri, carretti, carriole, un trattore, quadrupedi. colmi di rami d’ulivo derivanti dalle potature. Uno spettacolo grandioso. Persino sui tetti delle carrozzine sventolano i ramoscelli e sulle teste delle donne. Giovani e anziani sfilano avendo tra le braccia fasci di ulivo e addosso collante, cinture, bracciali con steli della pianta che comunica pace e armonia.
A San Marzano le fascine
L’ulivo ha ispirato leggende e si è offerto alla costruzione di opere d’arte famose. Anche il talamo di Ulisse era stato realizzato con quel legno... L’ulivo è un albero possente, capace di resistere alle calamità.. Nella zona di Ostuni, a Savelletri, altrove si ergono ulivi saraceni dalle forme scultoree possenti. “Perché tutte queste fronde? Rappresentano forse gli ultimi momenti di Gesù sulle pendici del monte degli ulivi?”, domandò al suo vicino un tale, stazza di don Camillo e faccia di Eduardo, mentre scorreva il corteo. “So che quest’albero ha radici in Palestina e non solo…. è stato considerato un dono di Dio”, la risposta. Dopo una pausa: “Ricorda la colomba che portò nel becco a Noè un ramoscello come segno di speranza?”. E ancora un pensiero: “L’ulivo è luce. L’ulivo è sacro. Mi affascina la faccia argentata delle sue foglie rovesciate dal vento. L’interlocutore curioso si sentì incoraggiato dalla cultura del vicino e gli domandò se sapesse a quando risale la celebrazione di San Giuseppe. “Sarebbe lungo il discorso”. Evidentemente la persona interrogata voleva godersi quel fiume umano, che si faceva sempre più attraente, e pensava di aver detto abbastanza in una circostanza come quella.
Massa di ulivo
Con la processione degli ulivi e la consegna delle chiavi della città da parte del sindaco, il professor Francesco Leo, quest’anno a San Marzano il copione si è arricchito con il concerto, il 18 marzo, di Antonio Castrignanò, che è stato in “tournèe” in mezzo mondo e – commenta Vito De Cataldo – è anche il principe della pizzica.
Allo scarico delle fascine, esplosioni pirotecniche, falò maestosi, messe solenni e benedizione delle “mattre”, tavole più piccole di quelle di Lizzano donate poi ai turisti e ai poveri. De Cataldo posta su Facebook le immagini dei fuochi d’artificio e delle immense cataste di rami di ulivo in fiamme.
Per dirla tutta, il bravissimo fotografo Carmine La Fratta, artista a sua volta, non si è lasciato sfuggire l’occasione per cogliere con il suo magico obiettivo i momenti più esaltanti di queste manifestazioni di fede e di gioia, puntando anche sui volti, sulle espressioni dei portatori di steli o di masse di ulivo; e come ha già fatto, forse raccoglierà in un libro o su un calendario o su cartoline le sue testimonianze, che diventano storia.
 
(Le foto sono di Nunzia Di Giacomo, Giuseppe Marino, Carmine La Fratta)

mercoledì 2 aprile 2025

Lo hanno definito l’eroe delle Volanti


IL MARCHIGIANO SILVANO GATTARI UN PILASTRO DELLA QUESTURA

 

 

Gattari e il questore Marangoni
La sua attività di poliziotto bravissimo e inflessibile è costellata di arresti e di tante operazioni rischiose. Ha fatto irruzioni in bische clandestine, intercettando latitanti con 25 anni di galera da scontare; ha preso rapinatori di grosso calibro, ladri al lavoro. Un poliziotto intelligente, capace di risolvere qualunque situazione.

 

 


 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI



“Volante Città Studi chiama Centrale”. “Centrale, Volante Città Studi”. Su quella Volante circolava Silvano Gattari, il capopattuglia che aveva il coraggio del leone e la forza di un campione di karate.
La Volante "Città Studi"
Veloce, capace di risolvere le situazioni più difficili, di prendere per il bavero i malavitosi più duri che tentavano di sopraffarlo, di immobilizzarli soltanto con uno sguardo fulminante. Tutta la sua attività di poliziotto tenace, preparato, intelligente, intuitivo è stata improntata alla consapevolezza che la divisa è un fiore all’occhiello, simbolo di onore e fedeltà allo Stato, emblema di missione.
Gattari è stato definito un eroe, un mito. Una leggenda. Il suo mondo erano la strada e la famiglia. Ha mandato al “gabbio” rapinatori, ladri, latitanti con anni e anni di galera sul gobbo; ha fatto irruzione nelle bische, ha sequestrato sacchi di soldi accumulati sui tavoli verdi, ha scovato rapitori e liberato ostaggi. Il lavoro alla Volante – dice – è stato entusiasmante. E con entusiasmo si racconta, sollecitato dal cronista impiccione, curioso, a volte impertinente, che scavando fa emergere chicche. Gattari ha una memoria inossidabile, i suoi ricordi sono come l’acqua di un ruscello che scende gorgogliando a valle. Acqua limpida, non inquinata: non usa artifici dialettici, non è enfatico, non contamina la verità.
Il matrimonio di Gattari

Chi lo ascolta è affascinato dal suo eloquio con risonanze marchigiane, dal suo modo di esporre i fatti, uno dietro l’altro, a volte uno sull’altro per la fretta di dire, d’informare, di essere esauriente e preciso. Ha il piacere della parola, che non è mai scatola vuota. In tanti anni di mestiere ha sfiorato il pericolo, ma ha sempre aperto una breccia nel muro, riuscendo nell’intento. Ha passato dieci anni sulla sua “Pantera”, conquistando elogi, promozioni sul campo, onorificenze, concesse dai presidenti della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi, prima dall’uno, poi dall’altro. Ebbe i gradi di maresciallo dopo aver acciuffato un rapinatore solitario, che faceva rapine in banca sempre alle 13.30, con lo stesso abbigliamento (giacca cammello e pantaloni blu). Lo immobilizzò nel momento in cui il bandito era impegnato nell’assalto all’istituto di credito di piazza Ascoli all’angolo con viale Abruzzi. Il “mito” arrivò con la sua Volante senza sirene e senza lampeggiante. Il malacarne esce e gli punta la pistola; Silvano ha la sua in pugno, può sparare, ma deve frenarla, perché la situazione è delicata: i bimbi che escono dalla scuola e la gente dal supermercato.
Gattari e il questore Lucchese

Il bandito rientra in banca per uscire da una porta sotterranea; Silvano conosce il percorso, con un collega si apposta dietro l’ultima porta e vede apparire il direttore con le mani in alto. Uno scatto fulmineo e punta non l’arma, ma il dito indice alle spalle del bandito e lo aggancia. Due o tre giorni dopo è maresciallo.
“Era bello il lavoro alle Volanti: c’era armonia fra i colleghi, amicizia, stima, rispetto, solidarietà, voglia di fare, di condividere. Una famiglia”. Lo animava il senso del dovere. Ha partecipato al concorso per ispettore ed è andato a dirigere il terzo turno delle Volanti, dove è rimasto 27 anni, dopo 10 da capopattuglia sulle vie più insidiose della città. “Quando eravamo liberi dal servizio ci riunivano attorno a una tavola e gustavamo piatti regionali in allegria. Quella delle Volanti è stata l’avventura più bella della mia vita. Eccitanti le notti, lavoro tanto e ben fatto”. Torna spesso su quei momenti.
E riannoda il discorso degli interventi. Captarono la notizia della bisca di via Savona. Gattari, i suoi uomini, alcuni della squadra Mobile, a mezzanotte, bussarono al primo piano, venne ad aprire un tizio vestito da maggiordomo, che chiese: “I signori desiderano?”. Silvano lo tirò da parte e gli domandò: “Dov’è il salone?“. “Quale salone?”. A un giovane poliziotto scappò un colpo di mitra che infranse la centralina che apriva le porte e scoprirono il salone con le pareti tappezzate e un tavolo lungo una decina di metri circondato da una cinquantina di persone e con mucchi di denaro ai margini della “pista”.
Gattari e il cronista Alberto Berticelli
Riempirono due sacchi della spazzatura e sequestrarono “champagne” a fiumi e liquori di ogni tipo. Partirono i controlli con la centrale operativa della questura, che improvvisamente snocciolò la posizione di uno dei giocatori: 21 anni di carcere da scontare per omicidio. E la “belanda” o bisca che dir si voglia, è smantellata.
Di bische ce n’erano tante: in via Palmanova, in piazza Tirana, all’Arena…, all’aperto; e all’interno di cosiddetti circoli culturali o della duchessa in corso Sempione, in via Panizza..., appartenenti a quelli che si credevano padroni di Milano, cioè la grossa malandra.
Una notte un gruppo di poliziotti guidati da Gattari circondò un palazzo della Bovisa, sfondò una porta ed echeggiò un colpo di pistola. Il grilletto era partito dall’arma di un notissimo, spericolato, sbrigativo, determinato elemento senza scrupoli della “mala”, che tentò di buttarsi sul balcone di sotto in mutande, ma finì in trappola. Mentre nella camera da letto due donne nude dalle forme statuarie cercavano di distrarli. Sotto i cuscini e in un giubbotto appeso all’attaccapanni i poliziotti scoprirono le pistole. Pronta per la consorteria la “casanza” in piazza Filangieri.
Quando il libro della memoria di Silvano Gattari si apre si fa fatica a chiuderlo prima dell’ultima pagina. Libro che rapisce l’attenzione con le gioie e i dolori che contiene. La gioia: la nascita della figlia Debora; il dolore, l’uccisione di un carissimo amico in un conflitto a fuoco. Accadde in piazza Vetra, dove un impiegato dell’Esatri, l’agenzia addetta alla riscossione delle imposte, l’11 novembre del ‘76, notato un movimento sospetto, chiamò il “113”. Scattò la Volante “Duomo” e perse la vita il vicebrigadiere Giovanni Ripani, la cui tomba, ad Altidona, provincia di Fermo, è mèta di un... pellegrinaggio annuale di Gattari. Nella sparatoria perse la vita anche il braccio destro del capobanda, baldanzoso “re” delle evasioni, una specie di Vidocq alla milanese. A Ripani hanno dedicato una scuola e a Milano intestato l’ufficio denunce. “E’ diventato il mio angelo custode”, confida Silvano, commosso.
Silvano Gattari e il compianto prefetto Scarpis

Furono, quelle, ore terribili per Milano, spesso teatro di rapine con sparatorie e corpi sanguinanti sul selciato. Un mezzogiorno di fuoco seguì all’assalto, settembre ‘67, dell’agenzia del Banco di Napoli di via Zandonai. Ci furono morti e feriti, tra cui il maresciallo Siffredi.
“Una grande soddisfazione è stata per me quando con il dottor Raffaele Valentini, primo dirigente della questura poi promosso questore, nell’88 abbiamo messo in piedi l’UPG, l’Ufficio prevenzioni generale, con 650 uomini, 33 Volanti per turno. Oggi Valentini non c’è più, come non c’è più Nino D’Amato, anche lui questore e investigatore eccellente, come Mazza, Marino… “Mai avuto paura?”. “Ho trascorso ore di preoccupazione quando finii nel mirino delle Brigate rosse. Mi rassicurai quando fu smembrato il covo di via Lorenteggio”. Hai nostalgia delle Volanti? “Ne ho. Mi hanno dato momenti elettrizzanti. Tra l’altro Milano di notte suscitava una sorta d’incanto”. Scherzando gli chiedo se devo chiamarlo cavaliere; e lui, dopo qualche reticenza, dice che è cavaliere al merito della Repubblica; e dal 2004 ufficiale al merito della Repubblica...
Poliziotti al matrimonio di Gattari
Ricordo quando fu festeggiato in via Fatebenefratelli per il suo ultimo giorno di lavoro. C’erano i questori Marangoni e Paolo Scarpis poi diventato prefetto, funzionari, dirigenti, giornalisti, tra i quali Michele Focarete e Alberto Berticelli, entrambi del “Corriere della Sera” (il secondo per anni in sala-stampa, di cui era responsabile severo e comprensivo); Paolo Longanesi, del “Giornale”; Piero Colaprico di “Repubblica”; Elio Spada e Marina Morpurgo dell’”Unità”; Umberto Gay di “Radio Popolare”, Milo Infante dell’”Informazione”, oggi bravissimo conduttore televisivo su Rai2.
Per tanti anni, andando nell’ufficio di Scarpis, siamo passati davanti a quello in cui Silvano Gattari era chino sul telefono a dialogare con gli equipaggi delle “Pantere” che sorvegliavano la città. Quando il suo telefono era muto, lui apriva la porta a vetri, ci salutava sempre sorridendo e tornava al lavoro. Era una colonna, l’eroe delle Volanti. Oggi è direttore tecnico e security manager di un istituto di vigilanza privato. Sempre al servizio del cittadino.