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mercoledì 16 luglio 2025

Celebrato Nunzio Schema a Fasano

UN ILLUSTRE EDITORE CHE FECE ONORE AL SUD

 



Nunzio Schena

Nella sua tipografia ricevette Giovanni Spadolini,
il Dalai Lama... Fu ammirato da Paolo Grassi; si fece stimare anche al Nord. Pubblicò migliaia di volumi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI

 

Non si può dimenticare Nunzio Schema: l’editore di Fasano che anni fa aveva uffici e tipografia in via Della Stazione, dove riceveva personalità prestigiose.
l'editore Schena con Spadolini

Dalla sua finestra poteva ascoltare il fischio del treno che andava e veniva da Milano. Qualche volta quella locomotiva ha tirato il vagone in cui era seduto anche lui, diretto a Pavia, dove ha lasciato un segno incancellabile. Nunzio era un gentiluomo che dialogava con grande rispetto dell’interlocutore. Sapeva raccontarsi tenendo sempre sveglia l’attenzione di chi l’ascoltava. La sua storia è affascinante: quella di un imprenditore librario che ha fatto tanto e bene il suo mestiere. E’ stato celebrato un paio di mesi fa nella sua città come “il ragazzo che amava leggere i libri”. Ricorrono cento anni dalla sua nascita; e sicuramente numerose persone sono andate da altri angoli della Puglia per assistere anche alla “pièce” a lui dedicata.
Edificante rispolverare la vita e le opere di Schena, che evoca i tanti personaggi che gli fecero visita nella sua città collocata fra il mare e la collina, nella sua Grafischena a un tiro di schioppo da un ulivo saraceno così antico da essere piegato come la schiena di un vecchio bracciante. Nell’elenco, spiccano i nomi di Giovanni Spadolini - la cui biografia comprende incarichi di docente universitario, di ministro e di presidente del Consiglio di direttore prima del “Resto Del Carlino” di Bologna, poi del “Corriere della Sera” - il Dalai Lama...
Nunzio e Angela Schena

Durante l’incontro con Schena, Spadolini disse che “essere qui a Fasano, da un editore del Mezzogiorno, Nunzio Schena, che ha il coraggio di alimentare la pianta della cultura al di là della convenienza economica; che è impegnato in tante imprese anche appoggiato dalle Università della Puglia, compresa quella di Bari, è per me motivo di soddisfazione e di orgoglio”.
Tanti anni fa ebbi il piacere d’intervistarlo, Schena, alla presenza della figlia Angela, di Vinicio Aquaro, che scrive sulle pagine della “Gazzetta del Mezzogiorno”, e dell’assessore milanese Siro Brondoni. L’editore era un uomo spiritoso e lo dimostrò anche in quel colloquio, dicendomi che era del ‘25, ma non poteva morire “perché mi riferiscono che all’inferno hanno fatto il pieno”. Angela, manager dell’azienda, che stava in piedi di fianco a lui, aprì un sorriso dolce e divertito. Era evidentemente orgogliosa di quel padre generoso, ospitale, intelligente, affabile, grande lavoratore, oltre che ricco di idee. Lo conoscevano tutti, non soltanto in Puglia, ma anche al Nord, nella città della Certosa, del Castello Visconteo, del ponte coperto: Pavia.
Mi appassionava la vicenda di quest’uomo, che per costruire il suo opificio aveva lavorato 12 ore al giorno. Mi colpiva la passione, la tenacia, l’energia con cui aveva raggiunto il luminoso traguardo. Schena non era stato bene, ma aveva accettato ugualmente d’incontrarmi. Amava parlare con voce bassa, senza retorica, senza termini superflui. Sapevo che non gradiva le domande che rasentavano il pettegolezzo e quelle inutili, banali, superflue. Se costretto, si manteneva sul vago, tagliava le frasi, fingeva: “La mia memoria fa cilecca”. Un’intervista può anche essere un duello, ma con argomenti sostanziosi, costruttivi, in modo che chi ha in mano il taccuino e chi lo fa riempire si sentano arricchiti.
Nunzio Schena con Giovanni Paolo II

Tommaso Fiore lo avrebbe definito un “formicone di Puglia”, che ricevette elogi anche da Papa Giovanni Paolo II, che aveva espresso il desiderio di conoscerlo. Grande Nunzio: ha davvero dato lustro alla sua città, alla nostra Puglia. E’ stato sempre puntuale, tempestivo. Nel ‘90, per la visita del Papa a Taranto – mi riferì l’avvocato Elio Greco – pubblicò il libro “Una vela di speranza”. E il Santo Padre lo invitò in Vaticano e l’abbracciò, dicendogli: “Da quando giro il mondo tutti sfornano libri, il tuo è il più bello”. Che soddisfazione! Che gioia! Vero Nunzio?
I volumi usciti dalla Grafischena non erano, e non sono, soltanto interessanti, ma anche ben curati, eleganti, con copertine ammirevoli, in cui c’era lo zampino del cognato, che, partito da Benevento e approdato a Fasano, nella tipografia di Nunzio ebbe il colpo di fulmine: “Addio al lavoro di ragioniere, scelgo quello di grafico in quest’azienda” che ha il sacrificio nelle radici.
Schena con il professor De Marsico

Quando scendevo in Puglia per bere l’aria pura e ristoratrice di Martina Franca e assaporare il profumo del Mar Piccolo a Taranto, ascoltando il dialetto dalle labbra screpolate dei pescatori, trovavo sempre qualcuno che mi parlava di Nunzio Schena: Nico Blasi, Piero Mandrillo, Francesco Lenoci ... In una delle mie solite corse a Crispiano, un giorno, conversando sulla ricchezza di testi, molti, di Schena, nella Biblioteca “C. Natale, il direttore Michele Annese, che era contemporaneamente segretario generale della Comunità Montana, mostrandomi un’opera piena di immagini di Santi, commentò, sfogliandola, che Nunzio era un editore di alto livello, di grande professionalità e serietà. “In occasione dell’inaugurazione del nostro Centro Studi Montaliani – aggiunse – Schena pubblicò un testo di Giuseppe Milano sul Premio Nobel autore di “Ossi di seppia”: Montale. E deragliando ricordo che dopo tanti anni dalla morte del padre la figlia Angela ha pubblicato, nel 2020, “La Biblioteca di Crispiano”, opera dello stesso Annese, contenente documenti, testimonianze, ritagli di giornali, foto di un’esperienza di promozione culturale, sociale e turistica del territorio.
Altri giudizi raccolsi a Martina Franca, dove Franco Carrozzo, allora comandante dei vigili urbani (scomparso da qualche mese), autore di un libro sulla polizia locale, esaltò l’impegno, lo zelo, l’accuratezza, la sensibilità dell’editore Schena e il suo gusto grafico. Vinicio Aquaro, che è pure presidente nazionale del Premio Valle d’Itria, ebbe anche lui parole esaltanti per Nunzio. “Nunzio Schena è stato un anticipatore, non ha mai guardato ai soldi ma al prodotto. E’ nato editore, non lo ha deciso in corso d’opera. Tra l’altro ha curato con dedizione e maestria ‘Lo scudo’, il primo periodico pugliese, e le opere di Alfredo De Marsico (1888-1985), principe del foro, dominatore della parola e ministro, che lo apprezzava tantissimo”. Per la cronaca, nei salotti di Napoli all’epoca le signore amavano passare il tempo leggendo e commentando le arringhe dell’oratore napoletano, che non apprezzava; e non ne faceva mistero.
Nunzio Schema già ragazzo rileggeva libri. Con il passar del tempo cominciò a prendere dimestichezza con gli strumenti tipografici nello stabilimento di Callisto De Robertis a Putignano. E confezionava due giornali: uno, “Il seggio”, ricavava il nome da un’antica piazza di Fasano. Spenti i bagliori della guerra, a Milano frequentò la tipografia dell’Opera di don Guanella, dove si guadagnò la simpatia, la stima e l’affetto di tutti al punto che fecero di tutto per non lasciarlo andare. Ma lui pensava a un impianto tutto suo.
Schena, a sinistra, con Paolo Grassi

E per realizzare il sogno fece il rappresentante di cartiere, tra cui la Cressati di Noci. Ma ci andava soprattutto per osservare, studiare, impossessarsi dei metodi che ispiravano il lavoro nelle tipografie.
Schena è noto anche per le sue decisioni-lampo, per il rispetto dei tempi. Era il 1983 quando stampò “Gli studi di cultura francese ed europea” in onore di Lorenza Maranini. La richiesta era arrivata dall’Università di Pavia. L’ateneo elogiò la tempestività e concesse a Schena la laurea “honoris causa” in Lettere e organizzò una mostra del libro su Garibaldi. Successo meritatissimo per Schena: aveva consegnato gli “Studi” a tempo di record, onorando la sua parola: l’Università aveva fretta e case editrici più famose si erano tirate indietro. Non se l’erano sentita di eseguire il prodotto in un mese e Schena lo fece in 25 giorni.
Quanta strada, quanta polvere mandata giù. E quante chicche nel suo “curriculum”. Eccone una: nei primi tempi, per andare da Fasano a Putignano in sella a un trabiccolo, lungo la strada si agganciava a un bugno del pullman di linea, superava il mezzo a Laureto, lo anticipava a Locorotondo, proseguiva per Alberobello, quindi per Putignano, per fare il giornale.
Oltre che grande lavoratore era geniale. Tra l’altro era stato lui a dare il nome al Premio della Fondazione Nuove Proposte Culturali di Elio Greco, che si svolse più volte anche a Milano al Circolo della Stampa (un’edizione fu assegnata ad Emilio Pozzi, giornalista della Rai, esperto di teatro e autore di libri sull’argomento).
Nunzio Schena ha mietuto, oltre a tanti consensi, anche onorificenze: nell’87 il governo francese lo nominò “chevalier dans l’ordre des artistes e des lettres; nell’88 il capo dello Stato gli conferì il titolo di grand’ufficiale al merito della Repubblica italiana...
Schena, a destra, con il Dalai Lama

Sempre nell’88 e oltre la Grafischena partecipò alla Buchmesse di Francoforte e al Salone del libro di Torino. Alcuni suoi volumi furono presentati alla Terrazza Martini, in piazza Diaz, a Milano, a pochi passi dalle guglie del Duomo.
Fu un piacere per me incontrare quest’uomo che, ripeto, fu lodato anche dal Dalai Lama, che nel ‘90 gli volle donare la sciarpa di lino, segno di eterna amicizia. Schena aveva pubblicato fra le sue migliaia di libri “Tibet in fiamme”, con intervista esclusiva al capo supremo della religione lamaistica e già capo teocratico del vasto altopiano dell’Asia Centrale.
Si fece mezzogiorno e Nunzio si alzò in piedi, sussurrandomi: “Diamoci del tu, è più semplice”. “Onorato, Nunzio”. Ora “il ragazzo che amava i libri” nel centenario della sua nascita è stato celebrato con significative manifestazioni a Fasano. Mi associo al ricordo, pensando che Nunzio Schena fondò la casa editrice nel ‘63, dopo aver eretto lo stabilimento tipografico nel ‘47. Sia gloria a Nunzio Schema.

 

 

 

 

mercoledì 9 luglio 2025

E’ morto il pittore Emilio Marsella


CON LE SUE DONNE DI MARUGGIO HA RACCONTATO UN PO’ DI STORIA

 

 



Emilio Marsella
Arrivò a Milano negli anni 50, cominciò a fare mostre, ad essere apprezzato. Scriveva poesie e andava a leggerle nelle scuole del suo paese, che non imenticava mai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI

 

 

"Opera di Marsella"
E’ morto il pittore Emilio Marsella, noto per le sue donne di Maruggio, donne forti, possenti, superbe, abituate alla fatica della campagna, dove sostituirono i mariti durante il salasso dell’emigrazione. Le rivedo, quelle donne, nei quadri di Marsella, con grappoli di figli e nipoti e una zappa sulle spalle o inginocchiate a un’edicola a pregare o in corteo dietro un simulacro. Ho sempre ammirato quelle donne, come ho ammirato quelle di “Fontamara” di Ignazio Silone. Marsella conosceva le “sue” donne e le amava, tanto che le impresse anche nell’argilla cotta alla Fornace di Alberto Curti.
Scrissi molto di lui, della sua arte, della sua vita quotidiana, delle sue mostre: Nella galleria di Malagnino, nell’hinterland milanese, lo presentò nel catalogo e a voce Ugo Ronfani, vice-direttore del quotidiano “Il Giorno”, uomo coltissimo, per anni corrispondente da Parigi, dove intervistò Rostand, Sartre e tante altre personalità e mandò in stampa libri sul teatro parigino, su monsignor Lefebvre, che fece tanto parlare di sé..., un romanzo, “La toga rossa”.
Ronfani ammirava le tele di Marsella, che in una delle sue prime mostre imbandierò il capoluogo lombardo di manifesti. Ricevette un premio a Maruggio e in una serata affollatissima fu presentato dal professor Paolo De Stefano, preside del liceo classico “Quinto Ennio” di Taranto. Sempre a Maruggio espose nel castello dei “Cavalieri di Malta” e un critico locale impegnato nella illustrazione dei quadri paragonò le donne di Marsella alla prefiche, che piangevano a richiesta i morti degli altri. Prefiche? Ebbi l’impulso di prendere la parola per contraddirlo, ma ci rinunciai per non provocare una polemica. Marsella era molto legato al suo paese. Ci tornava non solo d’estate restandovi a lungo, ma anche d’inverno per leggere le sue poesie nelle scuole. Era dominato dal “nostos”., il desiderio del ritorno.
Aveva sempre nel
Liceo Classico "Tito Livio" a Martina

cuore Maruggio, la sua piazza, dove incontrava gli amici della giovinezza e conversava con loro sul tempo andato, sulle figure di Maruggio di una volta e sugli usi, i costumi di una volta . Era solito parlare del lavoro fatto prima di studiare da tecnico di radiologia (professione che esercitava al Centro diagnostico di Milano). Era stato garzone di falegname, con un maestro severo e puntiglioso che lo voleva bravo nel fare porte e cassettoni. Ma lui voleva diventare artista.
Un giorno il padre, soprannominato “Musuline” per la sua severità, lo sorprese a disegnare con un rametto sul terreno; e gli disse che se proprio “gli piaceva fare quelle cose”, lui gli avrebbe comperato una scatola di colori. Emilio venerava il padre e la madre e ubbidiva. Quando in famiglia si convinsero che quel figlio aveva talento lo lasciarono andare. Con il pullman andava a Martina Franca, alzandosi molto presto, per frequentare il liceo classico “Tito Livio”, e con lo stesso mezzo rientrava a casa. Nei momenti liberi teneva in mano la matita o il pennello.
Marsella nel suo studio

Nel ‘50 venne a Milano (“Da Maruggio venni…” (così comincia una sua poesia), dove cominciò a conoscere gente, avere qualche contatto importante, come quello con il critico Carlo Franza. Appese i suoi quadri alle pareti del ristorante di Nadia e Aimo e lì rimasero per anni fino a quando Aimo non cedette le redini del locale. Sue opere erano in bella vista anche al Centro Diagnostico.
Dipingeva anche nella sua villa di Campomarino, che si affaccia sul mare con le sue dune, l’acqua limpida, la spiaggia pulita. Lì riceveva gli amici e li teneva a pranzo, mostrando loro il suo pezzo di terra, le sue vigne gravide, gli ulivi. E anche le opere esposte nel salone. Era un uomo generoso, socievole, dotato del senso dell’ironia. A Milano aveva casa in periferia e lo studio nello stabile in cui abitava la mamma di Silvio Berlusconi, che si faceva aggiustare le scarpe dal calzolaio con il deschetto di via Lorenteggio.
A Maruggio ebbe la visita di Achille Serra, allora capo della quadra Mobile di Milano e poi questore della stessa città e prefetto di Roma. Il poliziotto era accompagnato da un giornalista amico di entrambi. Era amico del questore Vito Plantone e di sua moglie Emma: si scambiavano spesso inviti a cena, a cui si associavano parenti e conoscenti. Era amico d’infanzia di Gildo Bandelli, famoso industriale di Merate - di Maruggio anche lui - che aveva fatto rilevanti invenzioni anche quando stava in Costarica. Gildo ricevette un premio della Fondazione Nuove Proposte di Elio Greco al Circolo della Stampa di Milano, presente fra gli altri Livia Pomodoro, presidente della Corte d’Appello e sorella del grandissimo Arnaldo, deceduto in questi giorni.
Opera di Marsella
Opere del pittore maruggese vennero presentate alla Cripta del Bramantino nella basilica di San Nazaro. Nel catalogo Wolfango Pinardi scrive: “La sua arte, quasi una sintesi espressiva che sa di romantico esprime con una originale tavolozza la semplicità di una narrazione suggestiva ed efficace che avvince e conquista anche l’osservatore più esigente e culturalmente preparato… Il cromatismo delle sue composizioni sa raggiungere momenti di intenso lirismo, che trasmettono l’emotività schietta che l’autore ha provato in tutti i suoi dipinti…”. Un altro commentatore: “Le donne di Maruggio, i ragazzini e i vecchi di questo paesino fatto di tufo sono i protagonisti anche nei giorni della raccolta delle olive...”. E delle vendemmie.
Quasi sempre donne: davanti alla vedovella per raccogliere acqua nei secchi o nei bottiglioni o accosciate all’ombra di un albero negli attimi di riposo. In questi c’è aria di una lunga attesa fra il biancore evanescente delle case: case povere, di contadini, che si nutrono di “fave e fògghie”. E c’è il sole che avvampa. Le vedevo, quando ero bambino, le donne come quelle di Marsella, come scolpite in un tronco di quercia o un pezzo di marmo. Le vedevo così enormi, energiche. Sempre vestite di nero come monache di clausura”.
Con le sue tele Marsella racconta storie di miseria, sacrifici, lavoro pesante dall’alba al tramonto per rendere fertile la terra e la vigna e gli orti. Donne e vecchi seduti su sassi imbiancati come sepolcri. Guardi quelle pennellate ed evochi “L’uva puttanella” di Rocco Scotellaro.
Marsella scolpisce

Nacque così il “ciclo del vinti”, personaggi pieni di ferite, ma saldi, la cui esistenza è magra, ma non manca il coraggio di andare avanti a dispetto del camino troppe volte spento, delle delusioni, delle speranze mai realizzate, degli orizzonti neppure immaginati. Pittore della memoria, traduce i ricordi con pennellate ampie, carezzevoli e impianti cromatici ricchi di luce. “Quando ero piccolo vidi tre morti di broncopolmonite nella mia famiglia. Una sera chiesi: ‘Papà...’. Mi fermai a quella parola, perché lui non rispose, ma lessi nel suo sguardo la disperazione: era morto mio fratello”. Questo evento è vivo in alcuni quadri di Marsella, spalmati di giallo tenue e verde e scialli neri in segno di lutto.
Amo la pittura di quest’artista; amo le sue vedute del Cristo. Le donne che si stagliano come colonne con i figli acculati ai loro piedi, il mare calmo e piatto come una lastra di acciaio, il mare che lecca la battigia e si ritira, mormorando una musica dolce e riposante. “Ami il mare?, Emilio”, gli domandai una sera in un ristorante di Crispiano, invitati dall’indimenticabile Michele Annese, direttore della locale biblioteca. “Mi piace vederlo, osservare i suoi movimenti, i suoi cambiamenti di umore; mi piace la sera quando si riempie di stelle d’argento. Il mare è buono, terribile quando s’imbroncia, capace di travolgere un’imbarcazione e d’inghiottirla”.
Marsella al Piccolo Teatro

A volte puntava lo sguardo su un suo quadro e sorrideva compiaciuto. Quando usciva su un giornale un articolo che parlava di lui non nascondeva la gioia. Peccato che non abbia voluto esporre le sue sculture, che teneva allineate su un lungo mobile di casa. Il professor Francesco Lenoci, uno dei tanti suoi amici, dice che era un femminista convinto. Nei suoi quadri ha celebrato, esaltato le donne. Era buono, ospitale, innamorato di Maruggio e di Martina Franca, dove andava spesso. “I suoi amici Aimo e Nadia, che lo stimavano e gli volevano bene, nel loro ristorante, attaccato allo stabile in cui Marsella aveva allora lo studio, riproducevano nei piatti i colori dei suoi quadri; e quando Aimo andò il Cina per lavoro portò con se una sua opera tra le più toccanti.
Emilio Marsella se n’è andato in silenzio, dopo aver detto alla moglie Franca che voleva tornare a Maruggio. E’ sepolto nella cappella di famiglia.

 

 

 

mercoledì 2 luglio 2025

Le bellezze della val d’Intelvi

LAINO E I SUOI GIARDINI SULLE COLLINE DI COMO

 



Laino
Ci si arriva fiancheggiando il lago e da Argegno salendo tra Dizzasco, Castiglione... San Fedele, tra boschi e schizzi di paesaggio meraviglioso.

 

 

 

 

 

 

 



FRANCO PRESICCI
 
 
 
Le campane di Ramponio suonano più volte al giorno. Alle 6 del mattino. a mezzogiorno e alle 4.30 del pomeriggio.
Il municipio di Laino
Sono rintocchi veri, emozionanti, che fanno bene all’anima: non sono “din don” registrati. Ramponio sta sulle montagne di Como. Quasi legato a Verna e a poca distanza a Lanzo, il balcone d’Italia. Molte case sono chiuse, in vendita o non animate perché i padroni vivono spesso altrove. Al municipio si arriva dopo una brevissima salita, dove, se si vuole parcheggiare l’auto, occorre piazzare due cunei dietro le ruote posteriori, per evitare che con un colpo di vento il mezzo scivoli verso la piazza, che è piccola e ospita la chiesa. Di persone in giro non se me vedono tante; e quelle poche credo diffidano di chi non conoscono.
Un giorno ci andai alla ricerca di un ottantenne che faceva ottimi lavori in legno: un maestro, quasi un artista. Realizzava anche presepi suggestivi. A farmelo conoscere fu un uomo massiccio e sollecito,
che si offrì di facilitare il contatto. Lo avevo incontrato in una saletta del Comune, dov’ero in attesa del sindaco, per avere notizie sul paese. C’erano anche altre persone, di cui una aveva smesso da poco la divisa di guardia forestale; e mi raccontò com’era delicato l’impegno di difendere gli animali dai bracconieri, che sanno come superare gli ostacoli.
A Ramponio, a Verna come a Laino, che è a dieci minuti di macchina, può capitare di trovarsi davanti un cervo grosso quanto un cavallo, un daino. Qualcuno afferma di aver visto anche i cinghiali. I primi li ho sorpresi e fotografati, appostandomi per un paio d’ore verso le 4 del pomeriggio ai margini di un terreno erboso. Arrivano e fanno colazione; e bisogna stare attenti a non disturbarli, altrimenti scappano. La volpe passeggia tranquillamente sul mio balcone, incurante del padrone che la riprende con il telefonino; e quando ha sgranchito le gambe andando più volte avanti e indietro, salta sul muretto e mi osserva con curiosità. Un po’ di tempo fa veniva a trascorrere la notte dietro la porta del portico.
Laino
Laino è un paese di quasi 500 abitanti, che d’estate con i turisti diventano 3mila e passa. E’ dotato di campo sportivo, campo da tennis, da bocce e di altre attrezzature sportive, di una chiesa con il cimitero di fronte, del bar con il biliardo e i tavoli dentro e fuori. Il titolare, Giancarlo, è un uomo giocoso, che per un periodo ha tenuto il computer su un banchetto a disposizione dei clienti. Gli abitanti sono molto riservati, di poche parole, ma se si ha bisogno di qualcosa li si trova a disposizione. Tempo fa Giancarlo sistemò delle assi di legno sul biliardo, trasformandolo in palcoscenico per un’orchestra; e così vi calamitò un bel po’ di gente.
Laino
Proprio a due passi da Laino c’è Ponna, dove un signore fa degli alberi rinsecchiti vere e proprie sculture. Ma non ama finire sui giornali: la ribalta non gli appartiene.
A Laino, venendo da Milano, si arriva dopo aver attraversato San Fedele, più abitato, più negozi, più bar, l’edicola, il fotografo, il supermercato; e poi Castiglione d’Intelvi, Casasco, il paese che ospita il museo etnografico della civiltà contadina. Questa era terra di contrabbandieri, che, quando intercettavano l’ombra dei finanzieri con il falcetto tagliavano lo spallaccio fatto con i polloni di castano e nocciolo, abbandonavano la briccola, che pesava 30 chili, e fuggivano.
A Castiglione anni fa visitai Francesco Pala, che realizza bellissime casette per gli uccelli, Sul suo ampio terreno domina una grande voliera, intorno alla quale si rincorrono conigli, mentre un pavone saluta gli ospiti con ripetute ruote; e i polli si divertono saltando addosso al padrone, passeggiando sulle sue gambe, mentre lui è disteso su una sdraio. Nel suo laboratorio Pala faceva spallacci che distribuisce come portachiavi agli amici e ai conoscenti, a ricordo di un periodo ormai lontano, di contrabbandieri che la notte andavano in Svizzera, affrontando ostacoli e pericoli, per rifornirsi di sigarette. Il museo di Casasco è ricco di testimonianze, che Giulio Zanotta, vice-sindaco del paese, persona davvero squisita, illustra sapientemente. E’ persona squisita, disponibile, ospitale, ancora pronta a a farmi fare un giro nei dintorni. Lo faremo.
Da Laino il lago di Porlezza
Peccato che a causa dell’età ho lasciato il volante e non posso più fare un salto da Laino a Porlezza, paese-bomboniera, pieno di vivai, di esercizi commerciali, un bellissimo lungolago e una galleria che porta in Svizzera. Che delizia il gelato servito dal bar del paese! A Natale con le luci distribuite dappertutto sembra di vivere in un sogno.
Questa zona è un altro mondo. Tra un bosco e l’altro, un campanile, poi un altro, una casa patrizia appollaiata in alto. Quando, venendo da Milano, si arriva ad Argegno già la piazzetta è da ammirare, di fronte il lago di Como e l’attracco dei piroscafi. Si svolta a sinistra ed ecco una casa tinteggiata con colori vivaci. E si comincia a salire. I paesi si susseguono:; Dizzasco, con il suo ricco vivaio; poi Castiglione, San Fedele, cinque minuti dopo, Laino. Per entrarci si deve percorrere una strettoia, poi a destra un vecchio lavatoio, a sinistra il municipio, dove il sindaco Cipriano Soldati, oltre agli impegni istituzionali, non si tira indietro se è necessario prendere in mano la cazzuola, A Palazzo Scotti (secolo XVII, salone affrescato con “Trionfo di Apollo” da C, Scotti, ha creato la biblioteca corredandola con un tavolo e sedie per la la lettura dei volumi tutti interessanti, di storia, di arte, di narrativa… Il camino dà più tono all’ambiente.
San Fedele
perso il nome. A Laino si svolgono sagre e feste, soprattutto d‘estate. Anche grazie alle associazioni che tengono vive le tradizioni locali e le fanno conoscere.
Laino è bella, vi si possono fare passeggiate a cavallo e a piedi. Il vicesindaco ogni giorno marcia da casa al municipio a piedi, come un maratoneta alla Stramilano. E ogni giorno è percorsa da ciclisti, uomini e donne, affermando il principio che la due ruote è libertà, velocità, amore per il paesaggio, che è splendido in questa costellazione di paesi.
La gente s’incontra al bar di Giancarlo o al piccolissimo supermercato aperto nella via che va a San Fedele., ritenuto il centro della Val d’Intelvi. San Fedele dispone anche di una piscina e di una palestra. Ha la sua bella chiesa nella piazza, che è sempre piena di gente seduta ai tavoli dei bar, che si fronteggiano, o a passeggio sui marciapiedi su cui scorrono le vetrine dei negozi. Basta mettersi in auto, percorrere pochi chilometri e si arriva a Lanzo e da lì alla Sighignola, detta Balcone d’Italia, dal quale con lo sguardo si arriva in Svizzera. Che suggestione fra fiori, alberi, aria salubre, boschi e montagne.
Vista del lago di Lugano da Sighignola, detta Balcone d’Italia


Nella bella Laino ci sorprende la voce di un poeta sconosciuto. Me la suggeriscono Gloria e le altre curatrici della biblioteca (Manuela, Rosanna e Francesca): ”Il mio paese è piccolino/ potrebbe stare dentro un taschino/ inutile cercarlo sull’enciclopedia; ma lo vedrete tutto dal Monte Loria/ Lo sguardo lassù spazierà lontano/ fino all’azzurro lago di Lugano / Avvicinando lo sguardo un po’ più da vicino/ su un bel pianoro sorge Laino”. Sono davanti a Palazzo Scotti. La biblioteca è chiusa: anche quella deve rispettare gli orari. Avrò tempo di vedere anche Palazzo Quaglio con portale e affreschi (“Deposizione” di G. Quaglio, del 1693) e Casa Spazzi e Casa Frisoni con “Madonna” di G.B.Barberini.  

 

mercoledì 25 giugno 2025

Una grande festa per Pedroli dai Martin

IL RICORDO DEL GRANDE ARTISTA RIMARRA’ VIVO TRA LA GENTE

 



Pedroli alla Fornace Curti
Il 24 dicembre Babbo Natale arriverà sulla gondola di Umberto Pagotto all’attracco di fronte al negozio di Abbigliamento militare e jeanseria, di fianco al Centro dell’Incisione.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI




Le mani che fanno muovere il torchio del Centro delle Incisioni sull’Alzaia Naviglio Grande non sono più quelle del grandissimo Gigi Pedroli, prestigioso acquafortista e menestrello; ma quelle del nipote Alessandro, che ha ricevuto dal nonno in eredità la passione per l’arte.
Alessandro Pedroli
E’ lui che oggi stampa le opere di pittori eccellenti, accoglie gli appassionati in visita e mostra loro come da una macchina esce un capolavoro. E sarà lui che prima o poi, dopo il rodaggio, si affiancherà come insegnante a Marco Cattaneo, uno dei primi allievi di Pedroli, nelle vesti di maestro.
Dopo la scomparsa di Gigi, al Centro sono sempre tante le persone che si accodano per vedere in funzione il torchio. E naturalmente si parla di Gigi, della sua bravura, della sua generosità, della sua umanità”.
L’ho incontrato, Alessandro, mentre era insieme a Graziana Martin, che ha il famoso negozio di abbigliamento militare e jeanseria proprio di fianco al Centro ed è stata amica dell’artista, per il quale, nel cortile dell’azienda, si propone di organizzare manifestazioni che tengano sempre vivo il suo ricordo e continuino la sua opera tesa ad attirare sempre più gente sul naviglio.
Parlando di Gigi si rispolverano i barconi che portarono tanta merce a Milano e il marmo di Candoglia per la Fabbrica del Duomo; il “barchett de Boffalora”; e in anni più vicini a noi il “bateau mouche”, che stava nel cuore di Guido Vergani, e la Viscontea di Empio Malara. Ma anche vicolo dei Lavandai, che il poeta Armando Brocchieri definì una chiesa di pittori; e la Ripa e i cortili spesso a zig-zag... Gigi è stato il cantore di questa vecchia, affascinante Milano. Quando non era vicino al torchio, pizzicava le corde della sua chitarra, cantando le canzoni più belle che andava componendo: “El barbun”, “Adamo”, “Storia lombarda”. “Vegia usteria”, “Viale Ortles”, famoso come dormitorio pubblico per tanti poveri, meno poveri degli altri. Gigi era instancabile nell’allargare sempre più l’elenco dei suoi brani ricchi di ironia garbata, divertente, sapida.
Graziana Martin, che è stata allieva di danza al Teatro alla Scala, ed è amica di “et
Alessandro Pedroli e Graziana Martin
oil” come Luciana Savignano, di personalità non solo dello spettacolo ed è conosciutissima a Milano come donna di talento, gentile, schietta, dinamica, un sorriso dolce e comunicativo, si commuove nel rievocare la figura di Pedroli, “che ha dato tanto al naviglio”. La conosceva come le sue tasche, Milano, Gigi, e aveva in mente i nomi e l’attività degli artigiani e degli artisti che avevano lavorato nei cortili, da Romualdo Caldarini, che fu presidente dei Pittori di via Bagutta dopo Aldo Cortina; ad Angelo Cottino, Guido Bertuzzi, Sarik (Riccardo Saladin). Formenti… i maestri argentieri, che operavano in uno dei primi cortili del vicolo, il fabbro sull’alzaia, la signora Radice, che a suo tempo vendeva la lisciva alle lavandaie, e la vecchietta bassa, i capelli bianchi che nel ‘70 aveva ancora paura del bombe che avevano devastato molti tesori della città. ”Il rumore lo sentivamo anche da qui”.
in fondo, il Centro Incisioni

Gigi Pedroli era un mito, per gli abitanti del naviglio, e non solo. E chi non sa che è scomparso va ancora a cercarlo al Centro dell’Incisione anche per ammirare le sue opere. Graziana Martin - che io adoro per il suo carattere forte, per la sua bravura non soltanto nella conduzione con il fratello Paolo del negozio, ma per la concezione che ha dell’amicizia - ricorda la figura Di Gigi e il suo zelo, i suoi slanci in favore di quel luogo sacro, che è il Naviglio Grande, e prova sconforto per la scomparsa di quest’uomo straordinario, avvenuta il giorno dell’Immacolata dell’anno scorso. Perciò il 24 dicembre, grazie a lei, durante una festa per i bambini Babbo Natale arriverà in gondola, quella di Umberto Pagotto, di Vicenza, che con il suo gioiello porta la gente in gita sul canale. Si pagheranno pochi euro e quello che sarà raccolto nel salvadanaio verrà consegnato alla Fondazione De Marchi per i bambini oncologici. Santa Claus sarà un grande marinaio, accompagnato da Gregorio Mancino, artista che disegna bambini, anche sulle pareti, va negli ospedali, si veste da pagliaccio per farli ridere.
Gigi Pedroli non verrà dimenticato, dunque. E chi può farlo? Sul naviglio tutto parla di lui e tutti parlano di lui. L’alzaia dovrebbe essere intestata a lui, la leggenda del Naviglio Grande. Gigi già in vita era un simbolo. “Mi manca, mio nonno – mi confida Alessandro – Vivendo e lavorando dove si sente il suo respiro, echeggiano i suoi passi, le sue parole è come stare ancora con lui, anche grazie alla gente che entra, osserva le sue creazioni appese alle pareti e parla di lui”. Gigi è stato il maestro di vita e d’arte di Alessandro. Un esempio.
La Savignano e Graziana


Le persone care non muoiono, si trasferiscono altrove e lasciano una parte di sé nel nostro cuore. Vero, Graziana? Conservo una foto con gli zampognari che suonano la cornamusa fuori della sala esposizioni del Centro. “Ogni anno – aggiunge Alessandro, un bel ragazzo alto, educato, discreto - venivano, entravano, soffiando sul becco della ciaramella. Portavano insomma l’aria di Natale sotto il glicine che pende rigoglioso con i suoi grappoli blu.
Il Naviglio, era tutto per Gigi, un gentiluomo di vecchio stampo. Lo si vedeva il pomeriggio passeggiare sull’alzaia, appoggiarsi alla “murela” (la spalletta) e guardare l’acqua che scorre verso la darsena, dove si congiunge con quella che va a Pavia con il nome di Naviglio Pavese. Poi rientrava e riprendeva il lavoro, affiancato da sua moglie Gabriella, che si occupa della parte organizzativa. “Ha fatto davvero tanto per il Ticinello, Gigi – ripete Graziana Martin – Fu lui a fondare l’Associazione del Naviglio Grande, che allora si chiamava Lamon (Libera associazione milanese operatori naviglio). Si riunirono una sera del 1982 in una osteria per una cena a base di pane, salame e bonarda Gigi e due antiquari, Romualdo Caldarini e Giorgio Pastore, e pensarono di fare una mostra con i banchi degli antiquari per rendere più affollati i fianchi di questa via liquida (termine dal poeta Alfonso Gatto), tutto andò bene e sorse il sodalizio, alla buona, come piaceva a Gigi, che non amava gli orpelli, la retorica, i coriandoli.
Lossani e Pedroli

Adesso c’è attesa per la festa del 24 dicembre, quando Babbo Natale approderà con la sua folta barba e i suoi baffi bianchi e l’abito rosso. Tutto bello, iniziativa lodevolissima, ma sul palco che sarà montato nel cortile del negozio di Graziana e Paolo Martin non ci sarà più Gigi Pedroli, che c’è sempre stato fino a pochi mesi prima di morire, quando non stava già bene. Lì, da Graziana, lo vidi l’ultima volta cantare, recitare sue vecchie storie, a volte sollecitato a gran voce dal pubblico, che gli voleva bene e sapeva le sue canzoni a memoria. Lo accompagnava al banjo o alla chitarra Lossani, che fingeva di battibeccare con lui sul pezzo da eseguire, scatenando gli applausi.
Gigi era amato, a Milano e non solo. Anche se non era abituato a squadernare i nomi illustri con cui si era esibito, quelli che lo avevano accompagnato con i loro strumenti, che avevano cantato con lui anche fuori Milano, anche in serate musicali importanti.
Paolo Martin e Lossani, Graziana e Pedroli
“Quando c’era lui, il naviglio era diverso, c’era più milanesità”, commenta Graziana. E io sono convinto che nei pomeriggi dei Martin Gigi non sarà presente materialmente, ma aleggerà dietro le quinte. Anche nella festa in suo onore a dicembre, che si svolgerà con la collaborazione dell’Associazione Marinai d’Italia. Ci sarà anche una mostra delle opere di Gigi, artista dalla fantasia inesauribile, da favola, amico come Giulio Confalonieri (notissimo e autorevole critico e storico della musica) dei “clochard”, che a Milano sono tanti.
“Senza dirmelo mi ha preparato al dopo”, dice Alessandro con l’espressione di chi soffre per aver perduto un pilastro.
Il Naviglio Grande
“Accolgo il pubblico che viene al Centro a vedere funzionare il torchio e i tanti artisti che se ne servono con la sua stessa cortesia”. Era generoso, disponibile. Tra poco uscirà un libro che celebrerà i 50 anni del Centro dell’Incisione, fondato da Gigi Pedroli un “puer aeternus”, come ha scritto un critico. Un uomo che amava la vita e il suo naviglio, la bonarda e i dolci, ma anche la cucina. Per i suoi ospiti preparava personalmente il risotto alla milanese cucinato nel camino e la polenta, tutto seguito dal suono della chitarra - interviene ancora Alessandro, parlando sottovoce - Gigi faceva parte di quella schiera di uomini che lasciano tracce che non si possono cancellare. Speriamo di vedere un giorno scritto sulla targa stradale non più alzaia naviglio grande, ma alzaia Gigi Pedroli, acquafortista eccezionale, delizioso cantastorie in dialetto meneghino, che aveva molto rispetto per gli altri e adorava il Naviglio Grande.


mercoledì 18 giugno 2025

Tra le figure della Taranto di una volta

UELINE “D’U GRATTA-GRATTE” VENDEVA LA BIBITA IN VIA DANTE

 

 

Collezione De Florio
Di chioschetti come il suo si trovavano in ogni parte della città: sui Tamburi, in centro, alle Tre Carrare, a Solito. Qualche venditore per 10 lire riempiva un tegame. Questa bibita rinfrescante ha segnato un’epoca. 

 

 

 

 
 



FRANCO PRESICCI
 
 


In un servizio televisivo ho visto una folla di turisti attorno a un banchetto che serviva “
Il pialletto
’u gràtta-gràtte”. Non ho individuato la città, ma il pensiero è volato subito alla mia. Ai ricordi lontani, che resistono alle dinamiche della memoria. La città è Taranto, detta la Bimare, perché abbracciata appunto da spettacolari distese d’acqua, collegate da un canale navigabile. Basta niente per smuovere i miei pensieri: pur vivendo a 900 chilometri di distanza, io resto attratto da questo gioiello, amato non soltanto da chi vi ha emesso i primi vagiti, ma da tantissimi altri, che venendo da ogni parte del mondo, l’hanno visitata e quindi conosciuta. Taranto per me è il luogo del cuore. Me ne allontanai per cercare il luogo in cui poter esercitare al meglio il mestiere sognato, impedendomi di vivere quotidianamente la mia culla, di poter godere il profumo e la meraviglia “d’a Marine”.
Alla vista “d’u gràtta-gràtte e dell’ambulante che con l’apposito attrezzo, “’u piallètte”, facendo avanti e indietro sulla stecca di ghiaccio, ricava quello che gli serve, lo versa in un bicchiere irrorandolo di essenze di limone o di fragola o di menta... nei periodi più caldi dell’estate, sono andato in visibilio. Quel spezzone televisivo mi ha riportato indietro di almeno settant’anni. E mi ha messo di fronte alla figura di un uomo massiccio, Uelìne, che sistemava la sua attrezzatura in via Dante all’angolo con via Giovan Giovine e ritmando quel pialletto faceva un delizioso “gràtta-gràtte”. Tutto il giorno davanti alla sua postazione si accalcavano decine di persone, ragazzi e adulti. Uelìne era buono, contento di quella occupazione, che non gli faceva guadagnare molto, ma gli consentiva lo stretto necessario.
via Nettuno (Tre Carrare)

Gli volevano bene tutti, lo salutavano tutti quando lo vedevano passare per via Nettuno o per via Oberdan, qualcuno lo chiamava a gran voce. Quando preparava un bicchiere con la sua bibita, canticchiava o faceva garbate battute di spirito; e se qualche discolo usciva dal seminato lui continuava a canticchiare senza rispondere. Non si sapeva niente della sua vita privata: se fosse sposato, se avesse figli. Era riservato, pensava solo ad accontentare i clienti e quando vedeva che non ce n’erano più chiudeva baracca e burattini e se ne tornava a casa.
Chissà se ancora qualcuno si ricorda di lui. Molti hanno la memoria bucata che fa acqua, altri hanno altro da pensare, altri ancora non se ne importano più di tanto. Campeggia invece la figura di Marche Poll, più famosa perché girava per distribuire la schedina del lotto o il periodico “’U Panarjidde”, confezionato nella tipografia Leggieri (il titolare era di Altamura) e per guadagnare qualche soldo in più si prestava a fare da tramite agli scherzi di un buontempone.
Uèlìne no, faceva il suo lavoro con impegno e divertimento e poi via. A volte lo vedevo andare verso via Leonida, dove a quei tempi c’era “’u monde de le vacche”, di fronte a piazza Marconi, che allora ospitava il mercato. Come in tutti i mercati la gen
Nicola Giudetti
te, scegliendo la merce, conversava con il venditore o con un altro acquirente. Il mercato è anche il posto degli incontri e delle quattro chiacchiere.
Ricordo spesso e volentieri Uelìne” e “’u piallette”. Tanto che un giorno, in una delle mie rimpatriate, entrato in un negozio di casalinghi assieme a mia madre, proprio in via Dante, notai su uno scaffale il pialletto; anzi due, e li presi entrambi. “Che te fai?”, domandò quella santa donna, la cui preoccupazione era quella di risparmiare. “Può servire quando meno me lo aspetto. E se non mi capita l’occasione, lo conservo come cimelio”. L’occasione arrivò, a Martina Franca. Avevo invitato a pranzo almeno venti parenti, tutti di Taranto, e pensai di far loro una sorpresa: avevo preparato il ghiaccio versando acqua in un capiente contenitore rettangolare e lo avevo messo nel “freezer”. Quando arrivarono gli ospiti pranzammo e verso le tre del pomeriggio erano ancora tutti a tavola sul piazzale, mi organizzai e cominciai a servire la bibita che suscitò ilarità, piacere e urli di gioia. I pialletti li conservo in bella vista tra le mie anticaglie nel garage della casa di montagna e non manco di mostrarli, descrivendo l’uso che se faceva un tempo.
L'interno del locale di Giudetti


Naturalmente parlo anche di Uelìne, perché mi è rimasto nel cuore. Come Marche Poll, che addirittura gli universitari a una festa della matricola portarono sul palcoscenico con il ruolo di strillone. Anche qui non mancarono i guastafeste, che raccontarono a Marche Poll di essere stato raggirato: “Gli attori del cinema guadagnano milioni e a te hanno dato una miseria”. Non era così: in realtà lo avevamo trattato bene, ma il simpaticissimo, amato, stimato personaggio non si rassegnò.
Di racconti della Taranto di allora ne potrei fare parecchi, ma mi assale il timore di annoiare. Allora mi accontento di ricordare brani, scampoli, frammenti. I ricordi dimostrano che la mente funziona e rincuorano. Io sono lieto di avere in mente tante cose della mia città, oltre a Uelìne, che faceva “’u gràtta-gràtte”.
Non so quanti ricordino questa delizia. Nei primi anni 50 Uelìne c’era ancora. E c’era ancora la bibita, che vantava tanti fruitori. Una volta mi chiesero perché quel nome. Non seppi rispondere, come non saprei rispondere ad altri quesiti. La domanda è d’obbligo, direbbe Antonio Lubrano, perché grattare nel nostro dialetto ha il significato di rubare. Ma definisce anche l’atto di strofinate la pelle con le unghie per far passare il prurito e quello di sfregare il formaggio sulla grattugia. Il pialletto gratta il ghiaccio.
Quello a sinistra in piedi è Giuseppe Francobandiera
Antonio De Florio, mio consulente linguistico, storico e fotografico, o Nicola Giudetti, che in via Duomo nella città vecchia ha una collezione di oggetti antichi e documenti e immagini sulla Taranto di una volta, quella risposta saprebbero darla. Antonio rispolvera un quiz da lui proposto su facebook nel 2018, al quale furono una valanga i tarantini che pescarono nella memoria. E così riaffiorarono tantissimi banchetti o chioschetti o baracche montati in parte lungo le vice che portavano alle scuole; in via Cava nella città vecchia, dove il titolare Angelo per 10 lire riempiva un tegame; in via Duca degli Abruzzi angolo Principe Amedeo; in via Galeso vicino alla scuola Giusti; in via Diego Peluso angolo via Messapia. “’U mè’ mìene cchiù essenze”, diceva qualcuno al gestore. “Io abitavo in via Cavallotti - riferisce una signora - e andavo al chioschetto di ‘zì’ Vicienz’”. Ce n’era un altro in via Iside angolo via Capecelatro, alle Tre carrare.
Un signore che andava a rinfrescarsi da Uelìne afferma che quel gestore era tanto generoso che se un ragazzino non aveva i soldi “’u gràtta-gràtte” glielo confezionava gratuitamente, in disparte per evitare la voglia dei furbacchioni. “Mio padre ci mandava a prendere il ghiaccio senza essenza, perché a quella ci pensava lui”, ricorda un altro. Insomma, “’u gràtta-gràtte” lo si poteva prendere ovunque, e senza dover fare molta strada. Bastava girare l’angolo o fare un passo dal portone di casa.
Nicola Giudetti e Antonio De Florio

Quella bibita ha segnato un’epoca. Vero Antonio? Se mi rivolgo a Nicola Giudetti, e lo farò sicuramente questa estate, farebbe su questo tema una conferenza. E sono certo che a casa o nel suo… museo in via Duomo, nella città vecchia, conserva molte carte anche sulla storia di questa bevanda dissetante e rinfrescante che appena arrivava il caldo attirava migliaia di persone. “Appena racimolavo 5 lire mi precipitavo da Uèline”, mi dice un divoratore di cozze pelose, esperto nella cattura delle granseole, quando era più giovane. Vive a Milano , torna ogni anno a Taranto, va a dare un saluto a Mare Piccolo e poi fa un salto da Cesarino per acquistare le ostriche, le còzze e i tartufi di mare. Se posso, vorrei ricordare un altro ambulante: il gelataio, che passava con il suo carrettino, indossando un grembiule bianco, e urlava “Gelatiiii!”, prolungando la “i”. Non vedo più neanche quello. Anche questo mestiere è scomparso. Il gelato costava sei soldi.

mercoledì 11 giugno 2025

Due personaggi che hanno cantato Taranto

SAVERIO NASOLE E MIMMO CARRINO DUE NOMI DA NON DIMENTICARE

 

Mimmo Carrino

Una delle poesie più commoventi di Nasole è “A ppane mastecate u ste crescìme”. Poeta autentico, che si espresse nel nostro dialetto così armonioso. Carrino con la sua chitarra deliziò il pubblico con le sue canzoni.

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI

(foto di Antonio De Florio)

 
  

I bambini indesiderati o nati da un amore clandestino che avrebbero portato disonore ad una famiglia venivano collocati nella Sacra Ruota o Ruota degli Esposti, che si trovava prevalentemente nei conventi e aveva l’affaccio sulla strada. Provvedevano i monaci ad educarli e avviarli al sacerdozio o affidandoli a qualche coppia che li desiderava. Chi doveva disfarsi del “fagottino” si avvicinava alla Ruota di notte, quando nessuno poteva vederlo; o incaricava qualcuno di compiere il misfatto. Era una pratica che non riguardava soltanto il nostro Paese.
Saverio Nasole

Era dunque la necessità di tenere segreto quello che era considerato un peccato e a volte era la miseria a spingere tante madri a disfarsi del neonato. I monaci venivano avvertiti della nuova presenza dal suono di una campanella, uno di loro si avvicinava alla ruota e apriva la porticella che dava all’interno. Non sempre le madri abbandonavano i figli senz’alcuna sofferenza.
Saverio Nasole, poeta delicatissimo, autore di tanti bellissimi versi e anche di testi teatrali) scrisse una poesia meravigliosa e commovente, “’A ppàne mantecàte u ste crescime”. Bella, davvero bella, ricca di armonia: ogni rigo una lacrima. Scritta in dialetto tarantino, con un po’ di buona volontà la può capire anche chi non conosce la nostra parlata, che è un linguaggio dell’anima. Le pagine di Nasole sono sempre toccanti. E’ poeta vero, attento alle dinamiche della società in cui si vive.
Mille volte grazie ad Antonio De Florio, che ha ripescato i versi che propongo: “Indr’a ‘nu strittelìcchie/ e nu cambàme sule de fatje/ a sorta nostre no’ n’a jastemame/ piccè tenime spèranze e fede a Dje/ cu ne de’ sembe luce e sanetate/ pe’ quiste peccennùdde abbandunate/ a ppane mastecte u ste crescime…”. Quanta passione, quanta sensibilità e quanto amore in questa lirica, per questo dono ricevuto, che dà alla casa gioia e calore, instillando il desiderio di un abbraccio senza fine. Il bimbo è stato accolto in una casa povera, acqua e pane, ma la sua vita sarà serena. Cum’a ‘na chiande ha mmise le radici/ indra ‘stu core nuestre ‘stu piccinne/ e Gesecriste cu nu bbenedice”.
L’abbraccio è grande, la felicità della coppia pure. Il neonato ha una famiglia, non è un pacco da trasportare da una parte all’altra. E’ come fosse il frutto di un amore autentico; l’amore è un miracolo, ricrea, dà conforto e sicurezza. Il vagito di un bimbo può creare un’atmosfera di estasi, anche se dovrà vivere tra le reti, le nasse, le “zoche de le còzze”, nello spazio e nel cuore di pescatori.
Pescherecci e pescatori

E’ tanta la squisitezza di questa poesia, che fa emergere i sentimenti più veri e più profondi. In ogni verso s’annidano i palpiti del cuore del poeta, la sua riconoscenza per quel regalo divino. La poesia coinvolge, trascina, rapisce.
Via Garibaldi


Conobbi Nasole una vita fa, nella città vecchia, una sera in cui si recitava all’aperto, tra le facciate screpolate delle case, le finestre scricchiolanti; i negozi chiusi, i bassi semiaperti con le donne sedute fuori a fare da spettatrici; palcoscenico la via, breve e stretta, da cui si vedeva Mar Piccolo. Saverio Nasole era tra gli spettatori, riservato, come al Dopolavoro Ferroviario quando recitarono “’A stutate”, esaltata anche da “La Voce del Popolo” dei fratelli Rizzo (si stampava in una tipografia in piazza Bettolo). La gente si alzò in piedi applaudendo, mentre Nasole mostrava la sua soddisfazione con un sorriso leggero. Poi chiese un giudizio a Rizzo e il critico gli rispose che avrebbe preferito un altro finale. Solo quello. Il resto era un capolavoro.
Il ricordo di Saverio Nasole è sempre vivo, nonostante siano passati anni dalla sua scomparsa. Tempo fa un artigiano che realizzava “perdune” di terracotta con la calamita di fronte al “museo” di Nicola Giudetti, nella città vecchia, mi parlò dell’esistenza di un sodalizio degli amici del poeta.
Conversando con Antonio De Florio, collezionista di migliaia di foto e documenti sulla nostra Taranto, studioso della storia della città dei due mari, dei costumi antichi, ricercatore di vecchissime storie, è riemerso un altro personaggio, deceduto pochi giorni fa a 77 anni: Mimmo Carrino, che interpretando con la sua voce e la sua chitarra, soprattutto con la sua maestria indiscutibile, la lirica “A ppane mastecate u ste cerescime” ne esalta le virtù che hanno reso Nasole “immortale” . La voce di Carrino e le corde del suo strumento accrescono la commozione.
Mimmo Carrino
Carrino è anche lui un personaggio notevolissimo. Soprattutto negli Settanta si esibì da autentico padrone della scena anche nelle antenne private. La canzone che lo aveva imposto a un vasto pubblico s’intitola. “’A frusckelona mèje”. Una vera folla assisteva alle interpretazioni di Carrino. Lui e Nasole erano legati al dialetto come l’edera che si attorciglia ai tronchi degli alberi, alle facciate dei palazzi, ai pali della luce, ai muri a secco, senza mai abbandonare la presa. Carrino ha dato l’anima a Taranto, questa città regina, abbracciata dal mare e baciata dal sole, amata e decantata sin dai tempi più remoti, da scrittori venuti da lontano, compreso Guido Piovene, che di Taranto scrisse che “vive tra i riflessi, in un’atmosfera traslucida adatta a straordinari eventi di luce”. Il noto autore di “Viaggio in Italia” descrisse i tramonti come “un’isola di fuoco”. Taranto è inondata di poesia. La sua bellezza straordinaria, esaltante riempie l’anima. Purtroppo a volte si è costretti a lasciarla con l’ansia di farvi ritorno. E Carrino se ne andò per ragioni di studio. Si insediò ad Urbino dal 1973 al 1981, dove si laureò. Insegnò disegno, ma sognava la sua città. Sentiva bisogno del profumi di Mar Piccolo, della parlata della gente della città vecchia; sognava le case, le vie, i rumori del borgo nuovo e di tutte le delizie sparse dappertutto.
Barche e  cozze

E ritornò alla culla. Una carriera entusiasmante, la sua. Incise dischi, tra le solite difficoltà, trovò il successo, la stima dei cittadini della sua città. Il valore non può essere trascurato, ignorato, umiliato. Mimmo Carrino emerse come un delfino dal mare. Il suo nome era sulla bocca di tutti, s’imparavano le sue composizioni, lo si applaudiva febbrilmente.
Il cantautore aveva una grande competenza musicale. Entrò nel gruppo locale dei Giom, frequentava personaggi che adoravano il dialetto, a cominciare da Bino Gargano, che io ricordo come persona garbata, fine, rispettosa (se non ricordo male era parrucchiere) e aveva una inesauribile passione per il teatro). I suoi testi si ricordano ancora. I tarantini veraci come le vongole, innamorati del vernacolo, che è l’espressione della nostra anima, non dimenticano. Le nostre radici sono in quella lingua. In una poesia di Saverio Nasole trovai la parola “allecrie”; e se ne prova tantissima nelle passeggiate nel borgo antico, sulla sponda “d’u mare peccennùdde”. Quelle passeggiate inebriano, come tanti versi di Nasole e la voce di Mimmo Carrino, due colonne, due pilastri. Mi emoziono quando sento i titoli di testi come “Arrevò Pirre e spicciò ‘a pacchie” e “’U cuggione d’a regine”.
Tarantini in via Cava

Carrino amava la città vecchia, dove andava spesso per suonare la sera nei locali in cui si vedeva con gli amici. Ascoltava i consigli che gli dava Enzo Falcone, ammirava soprattutto Bino Gargano, per i quali scrisse le canzoni. Familiarizzò, oltre che con Nasole e Gargano, anche con Edmondo D’Auria, uno degli attori, tutti bravissimi, della compagnia dello stesso Falcone, regista e attore stimato. Lo vedevo spesso, al circolo Arsenale, dove confluivano tanti tarantini anche per vedere i film che si proiettavano nelle sale al chiuso e all’aperto. Ah, oltre che con i Giom Carrino suonò anche con il gruppo denominato Showmen, che negli 60 era molto seguito.
Di attori illustri ne ho conosciuti anch’io, in questa mia deliziosa città. Anna Casavola, per esempio. E anche Enzo Valli, al secolo Murgolo, figlio di un graduato vigile urbano, attore a sua volta; il comico Mirabile e la figlia Lina, Murianni, un gentiluomo che lavorava all’arsenale, lo stesso D’Auria e altri.
Un saluto a Saverio Nasole, che tra l’altro fondò il sodalizio “Armonia dei due mari”, e a Mimmo Carrino, ai quali dovrebbe essere dedicata una via, come riconoscimento di tarantini veri che qualcosa a Taranto hanno dato