Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 15 maggio 2024

Conversazione con l’ispettore Luigi Negro

I GIORNI TORMENTATI DI MILANO FRA DELITTI, SEQUESTRI, RAPINE

 

A sinistra Luigi Negro
L’ho incontrato dopo più di trent’anni a due passi da casa mia e ci
siamo lasciati prendere dai ricordi di persone, episodi, investigatori che fanno parte della storia della polizia meneghina e dintorni.




FRANCO PRESICCI


Al tempo in cui frequentavo per “Il Giorno” i commissariati di polizia, gli avamposti della lotta alla criminalità, l’ispettore capo Luigi Negro fu uno dei primi “detectives” che incontrai. Allora prestava servizio a Greco Turro, dopo essere stato al quarto distretto, in via Poma. Ebbi l’impressione di trovarmi di fronte a Frank Serpico, il poliziotto italoamericano che mostrò il suo impegno e la sua abilità anche in una vicenda di corruzione nella polizia nuovayorkese: raccolte le prove, presentò la lettera di dimissioni. Era nato a Brooklin nel ‘36 da immigrati italiani, era coraggioso e intraprendente, eroico, tanto da ispirare, nel 1973, un film, regista Sidney Lumet, con protagonista Al Pacino, che con quella pellicola per poco non vinse l’Oscar.
Al centro Negro e il vicequestore Capecelatro
Negro aveva ed ha la stessa barba e gli stessi baffi del collega americano, la stessa determinatezza, la stessa forza, la stessa audacia, lo stesso fiuto. E’ alto, robusto, inflessibile sul lavoro, a volte un tantino brusco, schivo, distaccato. Ma simpatico. Quando andavo a Greco, in zona Niguarda, trovavo Rossi, Giuliani, Santoro ed altri, seduti ciascuno al proprio tavolo, ma lui di rado: era sempre a caccia di malavitosi da mettere al “gabbio”, come il gergo della mala chiama la galera. Lo ammiravo per lo spirito di sacrificio, anche se avaro con il povero cronista avido di notizie. La vecchia volpe adesso, arrivato al traguardo della pensione, vive in una cascina, tra galline che starnazzano e il cane che saltella, abbaia per affetto, giocherella, corre.
L’ho rivisto dopo trent’anni. Tanto è il tempo che è passato dall’ultima volta che andai nel suo commissariato, collocato in una zona riposante, ricca di verde, di villette, di stradine, a pochi passi dal Villaggio dei Giornalisti, a un tiro di schioppo da “Il Giorno”.
Negro vicino la cascina

Negro, come detto, era sempre sulle tracce di rapinatori di banche, latitanti, pellacce convinte di riuscire a farla franca. Ne acciuffò una, all’uscita di un supermercato, e la tenne a freno per una ventina di minuti. “Metti giù la pistola, altrimenti sparo”, diceva, mentre uomini, donne, bambini, terrorizzati, fuggivano o rimanevano impietriti vicino all’ingresso del grande magazzino. L’ispettore usò tutta la sua esperienza, evitando che la situazione degenerasse. Alla fine, gli avventori, tirarono un respiro di sollievo, esplodendo in applausi liberatori. Pur non amando lo spettacolo, il caso gli aveva assegnato il ruolo del temente Sheridan, al secolo Ubaldo Lay, o di qualche altro mastino televisivo o cinematografico.
Ne ha di episodi da raccontare, Luigi Negro, fisicamente una sorta di Bud Spencer che però non ha mai mollato schiaffi, non ha mai fatto volteggiare chi reagiva all’arresto. Non so se ora, vivendo nella sua struttura rurale, in una pace idilliaca, in un silenzio inimmaginabile nel caos della città, gli capiti di meditare sui giorni trascorsi in via Poma o a Greco Turro, quando a Milano si susseguivano i regolamenti di conti, i sequestri di persona, i delitti del terrorismo con code di telefonate alle redazioni dei giornali per il recupero dei volantini lasciati nei cestini portarifiuti. La cascina, un tempo fulcro del lavoro contadino, è un luogo che consente sane letture e passeggiate solitarie o in compagnia, tra alberi e sentieri, fruscii di rami, canti di uccelli e rombi di trattori.
Negro in campagna

Il pensiero non ha soste; e, camminando tra il profumo delle piante, sicuramente, ogni tanto, l’ispettore capo Luigi Negro ricorda almeno qualcuna delle imprese di cui è stato protagonista. Soprattutto quelle pericolose raccontate dai giornali.
Io, pur prossimo all’ultima scadenza, sono rimasto cronista puntiglioso e invadente, curioso e mai soddisfatto; e quale occasione migliore di questa per esplorare nella carriera di un poliziotto che veniva considerato un cane da tartufi. Inflessibile: “Se uno sbaglia, se ha scelto di assaltare le banche o di violare la sacralità di un appartamento, di sfilare un portafoglio da una borsa sul tram o sul metrò, è giusto che paghi”.
Sarebbe stato un ottimo collaboratore per Mario Nardone, a cui la televisione, nel 2010, dedicò una serie televisiva di una decina di puntate con Sergio Assisi nei panni del “Gatto”, come il commissario più famoso d’Italia veniva soprannominato, anche a causa del suo olfatto e dei suoi travestimenti. Tra l’altro arrestò e interrogò Rina Fort per il gravissimo fatto di cronaca nera di via San Gregorio, a Milano, che mobilitò anche la penna di Dino Buzzati.
Luigi Negro non cerca biografi, ma se gli capita d’imbattersi in un cronista che in molta parte della sua vita ha ingoiato polvere e consumato scarpe per guadagnarsi la notizia quotidiana, dopo qualche resistenza, cede. E gli si sciolgono i ricordi. Deve solo scegliere fra quelli più rilevanti. Allora snocciola nomi e cognomi, date, circostanze, storia e caratteristiche e tecniche degli esponenti della malandra che ha spedito in piazza Filangieri.
Ninni

Ha un altro pregio: una buona memoria, di quelle che si definiscono inossidabili, e la utilizza con misura, a seconda dell’interlocutore. E’ intelligente, preparato. Ascoltarlo è un piacere. E’ sintetico, e nelle sue sintesi racchiude tutto. “Arrestai il rapinatore dei parrucchieri, che prendeva di mira i negozi nel centro della città. Era fulmineo, predava denaro anche ai clienti e spariva. Faceva anche due rapine al giorno. Una mattina, verso la mezza, entrò nel salone di via Cristina di Belgioioso, nei pressi di corso Buenos Aires e a due passi dal commissariato Città Studi, razzolò i soldi; mentre usciva una giovane dipendente, impaurita, gli scagliò contro uno scannetto, lui si girò e fece fuoco, colpendo il titolare. Negro si mise sulle sue tracce e lo intercettò in via Meda, e nella successiva perquisizione trovò gioielli strappati alle signore e una pistola. Sul “Giorno” scrisse un bellissimo articolo il collega Enrico Nascimbeni, giornalista e poeta (un suo libro di versi è stato recensito sul “Corriere della Sera” da Roberto Vecchioni), poi cantautore.
Oscuri, Nardone e Caracciolo

Una vita molto movimentata, quella di Luigi Negro. Al suo attivo ha fra l’altro la soluzione di cinque omicidi, compreso quello commesso da una donna sudamericana, che aveva gettato nel Lambro il suo bimbo appena nato. Nel 2008, grazie ad un confidente, individuò il luogo in cui era stato sepolto un tale ucciso sette anni prima (ne aveva parlato anche “Chi lo ha visto”, la trasmissione televisiva condotta da Federica Sciarelli su Rai3). Si dette da fare e con la Squadra Mobile di Milano e quella di Como trovò nel seminterrato di uno stabile nel pressi del capoluogo lombardo il corpo della vittima. Continuando le indagini, emersero i nomi dei due assassini, che avevano compiuto il fattaccio per quattro chili di droga.
Luigi Negro è nato 64 anni fa nel Salento. Entrò in polizia nel ‘78. dopo aver seguito il corso ad Alessandria. Arrivò a Milano e fu assegnato al Reparto Mobile, dove già prestava servizio Filippo Ninni, futuro capo della Squadra Mobile di via Fatebenefratelli. Ninni è di Talsano, cittadina in provincia di Taranto, e la caserma era allora diretta da Aldo Gianni, futuro questore di Bologna. In seguito Negro fu assegnato al Reggimento di piazza Sant’Ambrogio e nell’80 al Quarto Distretto di via Poma, dove per un po’ di tempo fu commissario Antonio Di Pietro, poi protagonista di “Mani Pulite”, e dirigente Vito Plantone, nominato nell’85 questore, prima destinazione Catanzaro, regina tra due mari, lo Jonio e il Tirreno, ricca di centri balneari. Plantone era di Noci, che ha uno dei centri storici più belli della Puglia.
Vito Plantone

Ho domandato a Luigi Negro se abbia nostalgia della sua città natale, inondata dal sole e da tanti colori, ma le risposte erano tante e quella è rimasta intrappolata. Conosco il paesino del Pavese che ha scelto tempo fa e posso dire che anch’io, pur amando la mia “culla”, Taranto, e Martina Franca, la città dei trulli e del Festival, noto e apprezzato nel mondo, una quarantina di anni fa cercai un terreno da quelle parti. Lo trovai su una collina costellata di viti, ma era parecchio inclinato e non consentiva passeggiate agresti che fanno tanto bene alla salute.

mercoledì 8 maggio 2024

A luglio il grande evento


LA MILANO TARANTO PARTIRA’ DA NOVEGRO



La partenza
Il segnale verrà dato al Parco Esposizioni, sicuramente con l’incoraggiamento di una
folla entusiasta, Arrivo a Taranto il 14 luglio sul lungomare, vicino al Palazzo del Governo.













FRANCO PRESICCI

Della Milano Taranto ho ricordi giovanili. Vedevo spuntare i motociclisti da viale Virgilio e mi entusiasmavo. Quando tutti i concorrenti toccavano il traguardo fissato in quel tratto di strada tra il Palazzo del Governo e la Rotonda, me ne tornavo a casa, sognando: avrei voluto occupare il sellino posteriore di una di quelle moto d’epoca in corsa come il vento dal capoluogo lombardo fino alla Bimare, attraversando città e paesi, ammirando panorami stupendi, ampie distese di verde, pianure, colline modulate come il corpo di una donna, montagne, piazze, costeggiando laghi, fiumi, cascine; e ad ogni tappa godere sapori, odori, con la gente che ti accoglie a braccia aperte.
L'arrivo

La Milano Taranto è esaltante. In una conversazione con il mio compianto amico Mimmo Vacca, già carabiniere tutto d’un pezzo, dovere, fedeltà, sacrifici anche nella vita di ogni giorno, “Comandi” alla sola vista di un superiore, espressi il desiderio che covavo da tempo. Lui non mi dette tempo di concludere la frase: “Ti porto io. Al prossimo appuntamento vieni a Bologna in treno e poi via per mezza Italia fino alla tua città per circa 1400 chilometri”.
Eravamo in casa di un suo collega degli anni giovanili, che era rimasto ad ascoltare, senza dire che anche lui ci avrebbe seguiti volentieri. Mimmo non parlava a vuoto. Era un grottagliese tenace, viveva nella meraviglia felsinea, che ha i portici più lunghi del Naviglio Grande a Milano. Aveva una memoria inossidabile, poteva raccontare lo splendore di Martina Franca, che conosceva bene, come pochi assidui visitatori, e se faceva una promessa la onorava. Così, quando una notte mi telefonò al giornale per dirmi di preparare il bagaglio, fu grande l’imbarazzo nel rispondergli la mia impossibilità, essendo impegnato su un grosso fatto di cronaca. “Sarà per un’altra volta. Che diavolo, proprio questo mestiere dovevi scegliere, con tutti quelli meno assorbenti che esistono al mondo? (disse proprio così). Già immaginava di divorare la strada con me seduto dietro di lui, manifestando la sua abilità di percorrere la strada sfrecciando. Povero Mimmo, la sua moto, che curava con la passione di un medico al capezzale di un paziente, ora giace nel box, coperta da un telo.
La curva

Lui non c’è più. Se alla Milano Taranto vanno a spulciare in archivio forse lo trovano, il nome di Mimmo Vacca, concorrente appassionato e fedele. Mimmo, ripeto, ha cambiato mondo, ma io continuo a vagheggiare la partecipazione a quel grande, seducente, inebriante evento, magari su una moto con sidecar. Ma ormai ho molti anni sul groppone e mi accontenterei di rivedere da viale Virgilio i centauri mentre trafiggono l’aria. Li vedrò palpitando in televisione.
La figura di Mimmo balugina: rieccolo a Bologna o nella mia campagna di Martina Franca, mentre mi parla delle tavolate con piatti locali, delle allegre conversazioni, delle risate, della gioia di stare insieme nelle soste e del momento in cui ruggiscono i motori. “Parti e raggiungi Piacenza, Parma. Reggio Emilia, Modena, Pistoia, Firenze, Poggibonsi…” e celebrava l’equilibrio architettonico delle facciate di alcuni edifici, aggiungendo l’Acquedotto Romano, il canale navigabile, la Concattedrale, la città vecchia, il Mar Piccolo della mia città, con le lampare e le paranze, piazza Fontana, la ringhiera, il castello aragonese... gioielli, che dalla sua Grottaglie e dalla mia Martina distano un volo di uccello.
La Milano Taranto si svolge da quasi 90 anni. Fu sospesa e ripresa più volte. L’itinerario subì delle modifiche con l’intervento del tarantino Mario D’Eintrona, 1400 chilometri da coprire in una notte. Grande fatica? Ma no. Questi piloti hanno le ali e sono in grado di affrontare qualunque tipo di strada, larga o stretta, sentieri che si snodano fra ulivi saraceni dal tronco scolpito da un artista anonimo proveniente dall’Olimpo della categoria, cipressi, pini, querce, strade soleggiate o bagnate di pioggia: una benedizione.
Moto e paesaggio

La Milano Taranto è unica. Mi rispecchio nei miei vent’anni fermo all’ombra delle palme in viale Virgilio ad attendere la prima moto. Ecco una Guzzi fiammante, mamma come corre, una saetta, la vedo rimpicciolirsi, ridursi a libellula, è già sotto il fascione con la scritta “Arrivo”. Segue una Gilera, un mito. Che emozione! Sì emozionante è la Milano Taranto, già “Freccia del Sud”. Irrompe una moto guidata da un tarantino. Moltissimi urlano il nome: “E’ lui, è lui, ce l’ha fatta. Che bella moto, la cura più della moglie”. L’urlo si moltiplica, si diffonde come l’onda. Un tarantino che corre dà onore alla città e la città lo osanna. Nella mia immaginazione, scorgo Benvenuto Messia, velocista martinese, che segue in sella alla sua eroica bici i centauri come un fulmine. “Corri, Ben, non otterrai il traguardo, ma farai la tua bella figura”.
Per Mimmo Vacca le figliolanze non contavano: bolognese o anconetano, modenese o fiorentino, pugliese o calabrese erano tutti uguali. Contava lo sport, la Milano Taranto, che è anche libertà. Aveva fatto servizio in divisa (pantaloni con striscia rossa) anche a Cento di Ferrara, e viveva a Bologna, che vanta il pasticcio di maccheroni con pasta frolle dolce, le lasagne verdi, i tortellini, e ha avuto cittadini illustri, tra pittori, scultori, docenti, inventori, da Guglielmo Marconi a un papa, Benedetto XIV, a Lucio Dalla. “Credi che io la esalterei soltanto perché un felsineo ha vinto la Milano Taranto, che pure adoro?”.
Una sosta

La Milano Taranto è anche cultura. Ti offre l’occasione di percorrere località nuove; di ammirare panorami suggestivi che danno gioia, di conoscere persone che rimarranno amici per la vita; fette di bellezze, armonie festose, di rallegrarti nel vedere qua e là persone in attesa con la voglia di applaudire, di gridare “Vai, vai, vola, centauro, sotto il vessillo della Milano Taranto”. Tripudio di battimano e di belle vedute, un modo diverso di osservare il nostro Paese. La Milano Taranto è allegria, velocità inebriante, ristoro per il corpo e per lo spirito. E’ tante cose messe insieme. La si aspetta con ansia. Mimmo Vacca teneva a lucido la sua moto, che gli aveva procurato qualche coppa, che custodiva bene in vista su una mensola del soggiorno di casa.
Adesso si è in attesa del segnale dello “starter”, il 7 luglio la corsa prende il via dal Parco Esposizioni di Novegro. Il 14 io come altre volte sarò a Taranto per le vacanze estive e potrò ancora una volta spellarmi le mani alla vista di quei razzi. Sarò sulla rotonda spero in prima fila e vivrò i miei brividi senza farmi contagiare nemmeno per un attimo dal fermento del pubblico, riuscendo a contenere la palpitazione. Se la rotonda non avrà uno spiraglio, allora mi accontenterò di un posto vicino alla fontana multicolori di piazza Ebalia , oppure mi aggrapperò, se possibile, al cancello dei Salesiani, dove spero arrivi ancora il profumo del mare. Sarà una bellissima giornata di festa, magari baciata dal sole.
Milano Taranto in vespa

La Milano Taranto è una leggenda. Se una persona abile con la penna decidesse di scrivere un racconto su questa manifestazione, tratteggiando le figure dei vincitori, degli organizzatori, dei concorrenti, animati da un profondo spirito sportivo, che li induce a divorare chilometri e chilometri senza cedere alla stanchezza, leggeremmo pagine galvanizzanti. Mimmo Vacca, che fremeva per la Milano Taranto, quando si lasciava andare ai ricordi, ripescava, sì, gli anni di carabiniere inflessibile e ligio agli ordini, ma pensava anche a tenere desta l’attenzione della comitiva sui momenti più belli della corsa, che fra l’altro riproponeva al suo sguardo ori paesaggisti indimenticabili e al suo cuore di uomo affabile e leale amicizie intramontabili.
Un ragazzo sveglio e curioso mi chiede notizie sugli albori della Milano Taranto. Io prendo tempo, m’informo e faccio qualche accenno, ricavandolo da ciò che l’ufficio stampa ha diffuso. Sorse nel 1919 ed è passata alla storia come “Freccia del Sud”, percorso Milano Caserta, palma a Luigi Girardi, a cavallo di una Garelli 350cc. alla media di 38,96 chilometri orari. Fu sospesa dal 1925 al 1932, anno in cui nacque la Milano Napoli, con partenza notturna dall’idroscalo del capoluogo lombardo.
Si parte

Poi ecco la Milano Roma Taranto. Nel ‘50 prese il nome attuale. In quell’anno nessuno aveva ancora dimenticato la guerra, i suoi disastri, le ferite che aveva lasciato in chi l’aveva combattuta e in chi l’aveva vissuta stando a casa con la trepidazione per la sorte di un figlio, del marito, del fratello al fronte. Quindi si avvertiva il bisogno di rinascere, allontanando da sé ogni ricordo delle bombe, della sirena, che le annunciava, dei palazzi polverizzati, delle navi affondate, come a Taranto la notte dell’11 novembre del ‘40.
Per una settimana mettiamo da parte i ricordi. Ci vediamo a luglio, quando la Milano Taranto partirà. Festosa, con concorrenti provenienti da 11 regioni.

mercoledì 1 maggio 2024

Tra i mille ricordi di Taranto

UNA VOLTA SI DICEVA AGLI AMICI “STASERA CI VEDIAMO AL ‘CIN CIN BAR’”




E’ lì che c’incontravamo il sabato sera ai tempi dell’Università. Erano gli anni 50.
Ballavamo, conversavano, scherzavamo. Qualcuno cantava al microfono. Ci venne a salutare Silvio Noto, attore, doppiatore conduttore di Radio Bari, che aveva iniziato la carriera a “Telematch” con il grande Enzo Tortora.




FRANCO PRESICCI






Se dovessi scrivere tutti i miei ricordi di Taranto, la mia amata culla, dovrei cercare una pagina di gomma. E non l’hanno ancora inventata. Tanti anni fa qualcuno in cerca di novità con l’intento di dare il meglio ai lettori, e di aumentarli, ebbe l’idea, se la memoria non ha qualche vuoto, di un periodico di plastica, ma durò poco.
Piazza Maria Immacolata
Comunque, io continuo a battere i miei tasti sul computer, finché lo spazio necessario al flusso dei miei racconti me lo concedono. Oggi, per esempio, ho voglia di rinverdire le serate al “Cin cin bar”, che stava in piazza Maria Immacolata, dove poi ha aperto la sua sede “ll Corriere del Giorno”, storico quotidiano della Bimare, di fianco ad un altro luogo storico, la Libreria Filippi, che mi forniva i libri della Bur. 
Erano i tempi dell’università e al “Cin cin bar” gli universitari si riunivano il sabato sera per ballare, conversare, bere una bibita, snocciolare, chi era disposto, storie e barzellette al microfono. Io preferivo far divertire gli amici seduti al mio stesso tavolo. E lì che convogliammo allegramente dopo aver “celebrato” il processo alla matricola in un’affollatissima piazza della Vittoria, presenti Clemente Salvaggio, Italo Capitanio, Minguccio Montrone e altri.
Silvio Noto e Presicci

Tra noi si usava dire “Ci vediamo al ‘Cin ci bar’”. Un sabato sera comparve Silvio Noto, attore, doppiatore, conduttore televisivo di successo. Aveva conseguito la laurea in Legge nel dopoguerra con Aldo Moro all’ateneo barese ed era un personaggio televisivo amato e stimato. Aveva cominciato alla Rai nel ‘56, conducendo con Enzo Tortota “Telematch”, che gli assicurò il primo grande trionfo. Mi disse che era venuto da Bari con un amico e avendo avuto il desiderio di una bibita, era entrato nel “Cin cin bar”. La musica e la goliardia lo avevano incuriosito. Il clima gli ricordò i suoi anni di studente universitario e si sentì quasi coinvolto. Era molto simpatico, spiritoso, si comportava come se fossimo amici da sempre. Chiacchierò amabilmente un bel po’; lo invitai a salire sulla pedana per presentarlo a tutti e per fargli un’intervista; ma tentennò con grande eleganza. Insistetti e disse che non voleva sottrarre il microfono ai giovani. Stette ancora un po’ con noi, poi, cominciando a farsi tardi, ci salutò, promettendo che sarebbe tornato.
Clemente a quei tempi era una firma autorevole di “Bari Sport”, che usciva nel capoluogo pugliese e io collaboravo al “Corriere del Giorno”, che vantava penne prestigiose, tra cui Piero Mandrillo, Giuseppe Barbalucca, Franco De Gennaro, Ventrella, Di Battista, Petrocelli. E anche Pasquale Scardillo, in seguito trasferitosi a Milano, dove entrò alla Rizzoli e poi, con Egidio Stagno al vertice amministrativo di via Solferino, al “Corriere della Sera, come collabaratore sportivo.
Al “Cin cin bar” veniva spesso Giuseppe Barbalucca, che per un periodo fu anche capocronista del giornale nato nel ‘47 in piazza Garibaldi, con Giovanni Acquaviva direttore. Tra i fondatori, lo stesso Acquaviva, Franco de Gennaro, Luigi Ferraiolo, Egidio Stagno.
La giuria del Festival

Il “Cin cin bar” trascina tanti ricordi. Per esempio, il festival di musica leggera, anni ‘50, svoltosi nella Villa Peripato, dove Clemente Salvaggio, Giuseppe Barbalucca, Gianni Rotondo, corrispondente de “La Gazzetta del Mezzogiorno” si accomodarono in prima fila, mentre il sindaco Monfredi si mostrava soddisfatto, ascoltando le voci di Miranda Martino, Paolo Bacilieri, Nuccia Bongiovanni, Anna D’Amico, Betty Curtis e di Joe Srentieri, che cantò “E’ menzanotte, anzi lo era” e faceva il famoso saltello. Una manifestazione canora molto bene organizzata, accolta favorevolmente dalla cittadinanza. Da altre città sciamarono molti appassionati di musica leggera e da Milano venne il critico di musica leggera Mario Casalbore, del “Corriere Lombardo”, giornale del pomeriggio che aveva sede a Milano in piazza Cavour. Mario lo ritrovai poi ad Ancona, dove cantava anche Orietta Berti, a Rimini Little Tony e altrove. Allora scrivevo sul quotidiano storico “L’Italia”, che aveva avuto come direttore Giuseppe Lazzati.
Salvaggio e Presicci, s'intravede a sinistra Barbalucca
Fu al “Cin cin bar” che con Minguccio Mondrone e altri vagheggiammo un teatro universitario a Taranto. L’idea ci venne dopo aver assistito alla rappresentazione di un testo di Anouilh recitato dalla filodrammatica universitaria barese al circolo sottufficiali. Cominciammo a provare, in un locale a un piano superiore della Sem, “I morti non pagano le tasse” di Nicola Manzari, autore barese trasferitosi a Roma. Ma già ai primi incontri capii che era tempo perso, perché il gruppo non aveva voglia di salire sul palcoscenico al di fuori della Festa della Matricola (avevamo già portato in scena “’U cuèrne de mari’a canzìrre” di Diego Marturano e “’A sànda mòneche di Alfredo Nunziato Maiorano. Così tramontò definitivamente il sogno di una piccola compagnia teatrale fatta di studenti, non dico al livello di quella di Falcone, che provava al circolo dell’arsenale e vantava attori di rispettabile bravura, come Giovanni Mirabile, Murianni, D’Andria, Casavola ed altri né di quella dell’Enal, che proprio allora stava provando nella sede di via Di Palma “Trenta secondi d’amore”. Restò deluso anche il poeta in vernacolo ed etnologo Maiorano, che si era detto disposto a sostenere l’iniziativa. Lo stesso Carmelo Imperio, il direttore dell’Enal, che aveva individuato una sala di via D’Aquino da usare come teatro per la sua compagnia ed eventualmente anche per gli universitari nel caso fossero stati capaci di realirizzare il progetto già avviato al Circolo dei Marinai.
Quindi al “Cin cin bar” non ci abbandonavamo soltanto ai giri di valzer, ma ascoltavamo al microfono le voci di qualche compagno di studi dall’ugola promettente, che si era già esibito alla Festa della Matricola, al Circolo dei Marinai, nello spettacolo di varietà seguito alla rappresentazione della commedia di Marturano), conduttori Clemente Salvaggio e Franco Presicci. Una nota di cronaca: calato il sipario, Marcello Ruggieri, studente di Giurisprudenza, salì sul palco regalandomi scherzosamente un cappio, gesto dal significato lampante, che Ruggieri, amico sincero, stimato anche per la sua cultura, non fece con malignità. Era uno di quelli che sfogliavano i giornali all’edicola Fucci in via D’Aquino e si preparava con determinazione per la laurea.
Ritaglio di giornale

Al “Cin cin bar” a volte incontravo amici cari, come l’avvocato Franco Smiraglia, bravissimo civilista, che aveva iniziato a frequentare le aule della Pretura difendendo persone scivolate nel codice penale, e come detto il pediatra Barbalucca, che aveva la passione per il giornalismo e scriveva poesie. Il locale era dunque la seconda casa, il rifugio, la sala ballo degli universitari tarantini. E lì che a volte nascevano le nostre idee per le feste della matricola successive, illudendoci di vincere anche le future elezioni.
Il “Cin cin bar” non l’ho mai dimenticato, come non ho mai dimenticato brave persone come Ninì Vanacore, parente di Virna Lisi, che volemmo nel “cast” della commedia di Marturano. La mamma aveva un piccolo negozio davanti al cinema dopolavoro ferroviario ed era orgogliosa di quel bravo figlio che tra l’altro calcava con sicurezza e abilità le tavole del palcoscenico. Non dimentico Minguccio Montrone, effervescente e cordiale, che riportò in scena “U cuèrne de Mari’a canzirre”, prima al Dopolavoro Ferroviario e poi all’Orfeo. Diventò direttore delle Poste, credo a Varese.
Il salone del Cin Cin Bar

Il “Cin cin bar” da tempo ha chiuso i battenti e altrettanto ha fatto la Libreria Filippi, e prima di loro la Standa, che stava di fronte. Nella via a sinistra di piazza Maria Immacolato, via Mignogna, sorse la galleria d’arte di Mario Ligonzo (passato poi dal “Corriere del Giorno” al “Corriere d’Informazione, quotidiano del pomeriggio del “Corsera”, che dopo qualche anno lo ebbe come redattore alle pagine degli Interni). Nella stessa via in seguito aprì la sede “La Voce del Popolo”, titolo di un vecchio, glorioso settimanale dei fratelli Rizzo, che si stampava in una tipografia vicina a piazza Bettolo. Direttore dell nuovo giornale era Paolo Aquaro di Martina Franca, già redattore del “Corriere del Giorno” e poi del “Quotidiano”.
Il “Cin cin bar” era un locale elegante, che ospitava anche cerimonie per compleanni e matrimoni. Vi si poteva incrociare il giocatore di calcio dalle pedate virtuose e l’avvocato di grido, il poeta e il cronista, lo scrittore, che a volte si accomodavano ai tavoli sistemati all’esterno.



Le foto del “Cin Cin Bar” sono della collezione di Antonio De Florio.

mercoledì 24 aprile 2024

E’ partita da piazza del Duomo

LA MARATONA DELLA SOLIDARIETA’ TRA LA GIOIA DI GIOVANI E ANZIANI





Migliaia di concorrenti e fitte ali di popolo. Una signora di 60 anni in carrozzella,
perché affetta da clerosi multipla, vanta la presenza in manifestazioni sportive in ogni parte del mondo. Molti i partecipanti provenienti da altre regioni.













FRANCO PRESICCI


Il cuore grande
Non era la Stramilano: non sgambavano 50mila concorrenti e altre migliaia sui marciapiedi oltre le transenne. Ma il numero conta poco. Anche se alla maratona corsa qualche domenica fa a Milano, partenza da corso Vittorio Emanuele sotto le guglie del Duomo, il fiume umano era alquanto lungo e largo. Con i suoi colori e la sua allegria, i sorrisi e gli urli di entusiasmo. La compagnia, lo stare insieme con spensieratezza fa bene allo spirito e correre rinforza la salute. La gente ha bisogno di muovere le gambe, soprattutto in gruppo tra la folla scatenata, scambiandosi abbracci, saluti, evviva, con il passo delle scampagnate, soltanto alcuni quasi volando per arrivare almeno tra i primi al traguardo.
Come in una scampagnata

C’è chi si è alzato all’alba per andare a godersi la fioritura dei concorrenti, il loro aggrupparsi, la formazione della fila e poi della moltitudine e poi il momento del via, sempre esaltante, senza infrangere gli argini tempo prima, cedendo al fremito della partenza. “Tutti insieme, qua e là mano nella mano, lì calati in un involucro da mostro, divertente, originale, come altri camuffamenti in queste occasioni, dove ciascuno diventa un altro, guidando un velocipede, una carrozzina spinta da un amico, da un parente, avvolto in una bandiera, con un cappuccio in testa, come in tutte le Stramilano e in altre galoppate.
Ragazze e ragazzi, innamorati, amici, vicini di casa, conoscenti, indigeni e stranieri, si sono ritrovati in piazza, provenendo da ogni regione, “veci” e giovanotti, con pettorali o senza, alpini e bersaglieri, lanciati alla conquista della città, indifferenti alla protesta degli automobilisti, costretti alla sosta dal passaggio festoso del nastro che si snodava, qua veloce, là a passo breve per godere di più e meglio la giornata. “Correte, la corsa vi rinsalda, correte siete i padroni della strada”, urlava un centauro, forse preso dal desiderio d’intrupparsi. E applaudiva da spellarsi le mani. “Che bello, mi sono levata alle 6.30 per essere tra le prime in piazza Duomo”, diceva una signora ad alcune amiche in fila. “Questa giornata è irripetibile, va vissuta in pieno”. “Vero, stanno tanto tempo seduti in ufficio, in casa, davanti al televisore, ma quando c’è da sfrenarsi ‘en plein aire’, facciamolo, tra mille sorrisi. Evviva”., si sgolava un’altra. E i sorrisi trionfavano sui volti di grandi e piccini, tutti verso la meta, non per essere primi. ”Esultate, ragazzi, esultate”, urlava un ottantenne fuori misura con i baffi alla Poirot, che navigava quasi isolato. “Attraversiamo tempi burrascosi – un’altra signora rivolgendosi alla vicina – e non sappiamo dove andremo a finire: la ‘Milano Marathon Charity Program 2024’ ci fa respirare, ingoiare il sole”. Non era il momento del pessimismo, nessuno in quell’esercito di pace, di serenità si preoccupava delle ambasce della vita quotidiana. Persino il nonnino canuto e arzillo, barbuto e un po’ increspato, applaudiva dal ciglio della strada.
Quintetto in piazza Duomo

I concorrenti procedevano a siepe o stragliati. Un quartetto di fanciulle cantavano e ballicchiavano, battendo le mani, belle, rosee, capelli sciolti e pronte per offrire i loro sorrisi da primavera al fotografo ingordo. Lungo il tragitto fitte ali di popolo festante, infervorato. Uno ha detto a un bambino: “Vedi quelli? Sono degli staffettisti; un trio con i pettorali, due uomini e una donna, bionda, con gli occhiali. “Sono gli scoppiati”. No, perché? Sono così simpatici, contenti, sereni, uno è baffuto, con gli occhiali, un po’ con il capo potato; lei è bionda, ha un sorriso comunicativo. Poi altri staffettisti, detti quelli delle 7, uomini e donne disposti per la foto di gruppo, quasi sotto un ombrellone. Altro gruppo con il megafono. Le voci arrivano fino alla Madonnina, in cima alla cattedrale, ma anche più lontano: voci di esultanza.

Un gruppo di partecipanti

“Peccato duri soltanto un giorno, questa sana baldoria, che coinvolge tutti e non dovrebbe finire mai. Andando a passo lento alcune signore commentavano la manifestazione, che, dato il successo, sicuramente avrà un seguito. “Sono appassionata delle marce – commentava una signora atletica sui cinquanta – ne ho fatte tante, compresa la Stramilano e ‘Andemm al Domm”. E ho un sogno, quello di partecipare alla maratona di New York, che mi dicono appassionante. Ma non mi va di andare da sola”.
La Milano Relay Marathon è’ stata organizzata da RCS Sports & Events, insieme a Rete del Dono. “E’ un grande progetto di solidarietà che accompagna la competizione sportiva meneghina. Rete del Dono impegna la sua piattaforma di “crowdfunding”, per rendere ancora più capillare e personalizzata la raccolta fondi, oltre a supportare le ONP (associazioni e fondazioni del terzo settore” e i runner nella fase di pianificazione delle attività legate alla stessa maratona”).
Staffette

In un comunicato è scritto che questa corsa permette di dividere il percorso ufficiale in quattro frazioni di lunghezza compresa fra i 6,5 e i 13 chilometri ciascuna. Questa edizione è stata un successo,: grandissima partecipazione di concorrenti e di pubblico; e grazie al suo intento, di esaltare la bellezza di Milano, “è diventato il secondo evento d’Europa per raccolta fondi”, La solidarietà ha le gambe solide. Pochi si tirano indietro, quando si tratta di andare incontro a chi ha bisogno di una mano. “Per il primo anno - aggiunge il comunicato - l’Associazione Aiutiamoli ODV, impegnata nella salute mentale con un gruppo di psicologi, psichiatri, operatori e volontari, ha partecipato alla Milano Relay Marathon con sette staffette, che hanno deciso di sostenere il progetto dell’Associazione ‘Chiedi Aiuto, non sei solo’”.
Tra l'ingresso della Galleria e il Duomo


Nessuno dovrebbe essere lasciato solo: Tutti dovrebbero poter trovare un appoggio per risollevarsi, rinascere. L’indifferenza è un peccato. Aprire la porta all’altro è anche un dovere. Si auspica che questa gara della solidarietà continui, abbia sempre più simpatizzanti, orgogliosi d’indossare il pettorale; di trovare sempre più compattezza.
E’ una soddisfazione anche vedere tante persone che sfilano con gaudio nella vie della città, da molti vantata per la sua bellezza, magari nascosta, pudìca, custodita con cura. Il corridore viene da Bologna o persino da Taranto o da Catania per dare leggerezza alle gambe, ma coglie anche l’occasione, se gli resta tempo, di dare uno sguardo alla città. Come quel vecchio alpino che a 90 anni sognava ancora la Stramilano, come la sognava a 87 Samuele Jannuzzi, già dipendente delle Poste, dov’era considerato uno Speedy Gonzales, per la rapidità con cui trattava la corrispondenza. Era di Molfetta ed era nato correndo. Aveva partecipato alla prima maratona, che partiva da viale Zara e non dal Duomo. La corsa bene, di più se porta con sé un messaggio: di pace, di amicizia, di generosità.

mercoledì 17 aprile 2024

I giorni della seconda guerra mondiale

 LI AVEVAMO QUASI DIMENTICATI MA RIECCO I RUMORI SPAVENTOSI






I disastri, i drammi, il dolore, il terrore raccontati in un volume appena uscito di Vincenzo Di Michele.
Si è  ripresentato il ricordo delle bombe su Roma, Milano, Taranto, Pescara, Palermo... Le atomiche 
su Nagasaki e Hiroshima. “Homo homini lupus”.


















FRANCO PRESICCI




Vincenzo Michele in controcopertina 
La guerra non è un’avventura, come qualcuno ha sentenziato. Non è un’esperienza di vita.
La guerra sconvolge uomini e paesi, li incenerisce, li annienta. La guerra lascia ferite, drammi, traumi che non si dimenticano mai. Il tuono delle bombe, il sibilo delle sirene, le corse ai rifugi antiaerei, le maschere antigas per i capi fabbricato, i pali messi a sostenere i soffitti dei pianterreni per evitare che un ordigno li faccia sprofondare, la paura, il terrore, gli urli delle mamme, i pianti dei bambini, il coprifuoco, le tessere annonarie, le fucilate contro persone innocue, gli stupri.
Sentii dire che la guerra ha una funzione economica, anche perché disincrementa le nascite e assottiglia le popolazioni. Cinismo, disumanità, ignoranza, e magari interessi nascosti in chi durante la guerra fa lievitare il conto in banca.
Ho novant’anni e negli anni della guerra ero in grado di assimilare ciò che stava succedendo. Con i miei familiari ero sfollato a Martina Franca, dove arrivavano le voci dei disastri. E dal piazzale del trullo la notte potevamo vedere l’orizzonte che s’infiammava. Lì c’era Taranto. Da bambini ci dicevano: arrivano gli americani, i liberatori, chissà se passeranno da qui; e se lo fanno che cosa sarà di noi? Sarà un bene o un male? I tedeschi, passati da alleati a nemici, evacuavano, facendo altre distruzioni, altri morti, altri feriti, provocando altre tragedie: per dispetto, per rabbia, per crudeltà.
Gli americani ci “regalarono” prima le bombe, poi le chewing gum, la cioccolata, le sigarette Lucky Strike, il boogy woogie. Alcuni sposarono le nostre donne, altri le lasciarono spegnendo in loro il sogno americano, altre vennero stuprate e lasciate sulla strada. Ricordo la borsa nera, il pane razionato, gli ordigni atomici su Nagasakj e Hiroshima… Terminato il conflitto, la gente sentì il bisogno di distrarsi, di dimenticare, di disperdere l’angoscia, affollando le balere. Dimenticò davvero?
Poi abbiamo vissuto quasi 80 anni di pace, con l’illusione che mai più l’uomo avrebbe perduto i lumi della ragione. E invece ci ritroviamo nell’inferno con l’Ucraina quasi rasa al suolo e la striscia di Gaza infiammata, con la tregua che balugina tra un giorno e l’altro, insanguinati. La televisione manda immagini terrificanti: palazzi crollati, sventrati, scheletri di cemento, gigantesche macerie che seppelliscono migliaia di vittime che i superstiti bagnano di lacrime. Ci domandiamo con paura: E se questa follia coinvolge altri Paesi? E se un potente fuori di testa, andando oltre le minacce, decide di sganciare davvero la bomba atomica? Sarebbe l’apocalisse.
L’uomo dissolve ciò che tocca. Chi odia la guerra e chi la teme sono impotenti, indignati, terrorizzati, disgustati nel vedere chi ordina la distruzione di massa sorridere davanti alle telecamere fra le mimose, simbolo di delicatezza, virtù delle donne, di riscatto da una condizione di ingiusta inferiorità. Che c’entra con la mimosa l’uomo che annulla un Paese con disumana freddezza? E gli altri? Hanno le loro colpe.
La galleria Vittorio Emanuele

L’abbiamo già vissuta, dunque, la guerra in casa: non vorremmo che proseguisse, sconfinasse, accrescendo i lutti e il dolore. Immagino la sorpresa di Arrigo Benedetti quando entrò a Tombolo e incontrò i contadini che si tenevano lontano dai campi che erano stati minati; e nelle baracche degli Alleati erano ammonticchiati farina, birra in scatola, pizza preconfezionata, zucchero… Curzio Malaparte, futuro autore de “La Pelle” (uscirà nel ‘49), descrisse i drammi di Napoli tra “segnorine” e sciuscia, fame, miseria, disastri, tormenti, una città meravigliosa, quasi unica, sconvolta. A Livorno, e non solo, i tedeschi disseminarono le strade di penne stilografiche e altri oggetti trasformati in ordigni che strapparono dita o mani o gambe, la vita a chi ebbe l’imprudenza di toccarli. La malvagità fatta persona. Oltre a Napoli, Palermo, Roma, Pescara, Livorno.... bombardate. A Milano la pioggia di fuoco mutilò la Scala, la Galleria Vittorio Emanuele, piazza San Fedele, demolì una scuola elementare a Greco. Ricordi non in ordine di data, ma lancinanti.
A scatenare la memoria non sono stati soltanto i conflitti in Ucraina e nella striscia di Gaza, ma anche un libro di Vincenzo Di Michele intitolato “Le scomode verità nascoste nella seconda guerra mondiale”, interessante, stile limpido, scorrevole. Di verità nascoste ce ne sono state tante. Un esempio? Le foibe. Occultate per anni. Migliaia di corpi gettati negli anfratti, nelle grotte per sottrarli alla scoperta. Quante donne sono state violentate nella seconda guerra mondiale, in casa, in strada, ovunque. Quanti soprusi sono stati perpetrati contro le donne, ridotte allo stato di schiave anche nei posti di lavoro. Quanti uomini ridotti a scheletri nei campi di concentramento?
Piazza San Fedele

“Sul fronte orientale i tedeschi violentarono le donne russe, mentre in Ucraina e Bielorussia rastrellarono e sterilizzarono le giovani donne e poi le assoldarono per soddisfare i desideri sessuali del loro esercito… La Germania era totalmente distrutta e in una situazione di grave indigenza”. Pagine crude, senza voli stilistici: si inoltrano nei crimini nazisti, negli orrori dei campi di concentramento, dove la vita non aveva alcun valore, dove l’annientamento di massa era fatto sistematicamente: una vita si trasformava in fumo che usciva dai comignoli dei forni crematori. “Tu passerai per il camino”. E migliaia di esseri umani ci passarono. Di Michele dà spazio ai racconti delle donne ebree che sono riuscite a salvarsi dai campi recintati col fil di ferro spinato, con ferite sul corpo e nell’anima che non si cancelleranno più. Pagine ansiogene: “Avrei voluto essere un cane, perché ai nazisti piacevano i cani… i tedeschi non avevano una coscienza o un barlume di ragione… Consideravano subumani i prigionieri: tutti esseri deboli, fisicamente tarati e sempre con le mani alzate in segno di resa, perennemente propensi alla sconfitta e al pianto.... Nel loro comportamento squilibrato i soldati di Hitler non facevano altro che infliggere violenze e umiliazioni… aizzavano i cani che mordevano i genitali agli uomini e il seno alle donne. A seguire premiavano queste bestie con carezze e coccole in maniera smisurata”. E ancora: Uomini e donne per la fame e le scudisciate erano scheletri con gli occhi infossati. Uomini e donne, persone, certi di non sopravvivere fino al giorno dopo. I racconti di chi c e l’ha fatta sono tremendi. Umiliante è il numero che portano ancora sul braccio: numero che sta a testimoniare la condizione in cui erano ridotti: un numero e basta. SeLa guerra non è un’avventura, come qualcuno ha sentenziato. Non è un’esperienza di vita. La guerra sconvolge uomini e paesi, li incenerisce, li annienta. La guerra lascia ferite, drammi, traumi che non si dimenticano mai. Il tuono delle bombe, il sibilo delle sirene, le corse ai rifugi antiaerei, le maschere antigas per i capi fabbricato, i pali messi a sostenere i soffitti dei pianterreni per evitare che un ordigno li faccia sprofondare, la paura, il terrore, gli urli delle mamme, i pianti dei bambini, il coprifuoco, le tessere annonarie, le fucilate contro persone innocue, gli stupri.
La Scala

Sentii dire che la guerra ha una funzione economica, anche perché disincrementa le nascite e assottiglia le popolazioni. Cinismo, disumanità, ignoranza, e magari interessi nascosti in chi durante la guerra fa lievitare il conto in banca.
Ho novant’anni e negli anni della guerra ero in grado di assimilare ciò che stava succedendo. Con i miei familiari ero sfollato a Martina Franca, dove arrivavano le voci dei disastri. E dal piazzale del trullo la notte potevamo vedere l’orizzonte che s’infiammava. Lì c’era Taranto. Da bambini ci dicevano: arrivano gli americani, i liberatori, chissà se passeranno da qui; e se lo fanno che cosa sarà di noi? Sarà un bene o un male? I tedeschi, passati da alleati a nemici, evacuavano, facendo altre distruzioni, altri morti, altri feriti, provocando altre tragedie: per dispetto, per rabbia, per crudeltà.
Gli americani ci “regalarono” prima le bombe, poi le chewing gum, la cioccolata, le sigarette Lucky Strike, il boogy woogie. Alcuni sposarono le nostre donne, altri le lasciarono spegnendo in loro il sogno americano, altre vennero stuprate e lasciate sulla strada. Ricordo la borsa nera, il pane razionato, gli ordigni atomici su Nagasakj e Hiroshima… Terminato il conflitto, la gente sentì il bisogno di distrarsi, di dimenticare, di disperdere l’angoscia, affollando le balere. Dimenticò davvero?
Poi abbiamo vissuto quasi 80 anni di pace, con l’illusione che mai più l’uomo avrebbe perduto i lumi della ragione. E invece ci ritroviamo nell’inferno con l’Ucraina quasi rasa al suolo e la striscia di Gaza infiammata, con la tregua che balugina tra un giorno e l’altro, insanguinati. La televisione manda immagini terrificanti: palazzi crollati, sventrati, scheletri di cemento, gigantesche macerie che seppelliscono migliaia di vittime che i superstiti bagnano di lacrime. Ci domandiamo con paura: E se questa follia coinvolge altri Paesi? E se un potente fuori di testa, andando oltre le minacce, decide di sganciare davvero la bomba atomica? Sarebbe l’apocalisse.
L’uomo dissolve ciò che tocca. Chi odia la guerra e chi la teme sono impotenti, indignati, terrorizzati, disgustati nel vedere chi ordina la distruzione di massa sorridere davanti alle telecamere fra le mimose, simbolo di delicatezza, virtù delle donne, di riscatto da una condizione di ingiusta inferiorità. Che c’entra con la mimosa l’uomo che annulla un Paese con disumana freddezza? E gli altri? Hanno le loro colpe.
L’abbiamo già vissuta, dunque, la guerra in casa: non vorremmo che proseguisse, sconfinasse, accrescendo i lutti e il dolore. Immagino la sorpresa di Arrigo Benedetti quando entrò a Tombolo e incontrò i contadini che si tenevano lontano dai campi che erano stati minati; e nelle baracche degli Alleati erano ammonticchiati farina, birra in scatola, pizza preconfezionata, zucchero… Curzio Malaparte, futuro autore de “La Pelle” (uscirà nel ‘49), descrisse i drammi di Napoli tra “segnorine” e sciuscia, fame, miseria, disastri, tormenti, una città meravigliosa, quasi unica, sconvolta. A Livorno, e non solo, i tedeschi disseminarono le strade di penne stilografiche e altri oggetti trasformati in ordigni che strapparono dita o mani o gambe, la vita a chi ebbe l’imprudenza di toccarli. La malvagità fatta persona. Oltre a Napoli, Palermo, Roma, Pescara, Livorno.... bombardate. A Milano la pioggia di fuoco mutilò la Scala, la Galleria Vittorio Emanuele, piazza San Fedele, demolì una scuola elementare a Greco. Ricordi non in ordine di data, ma lancinanti.
A scatenare la memoria non sono stati soltanto i conflitti in Ucraina e nella striscia di Gaza, ma anche un libro di Vincenzo Di Michele intitolato “Le scomode verità nascoste nella seconda guerra mondiale”, interessante, stile limpido, scorrevole. Di verità nascoste ce ne sono state tante. Un esempio? Le foibe. Occultate per anni. Migliaia di corpi gettati negli anfratti, nelle grotte per sottrarli alla scoperta. Quante donne sono state violentate nella seconda guerra mondiale, in casa, in strada, ovunque. Quanti soprusi sono stati perpetrati contro le donne, ridotte allo stato di schiave anche nei posti di lavoro. Quanti uomini ridotti a scheletri nei campi di concentramento?
“Sul fronte orientale i tedeschi violentarono le donne russe, mentre in Ucraina e Bielorussia rastrellarono e sterilizzarono le giovani donne e poi le assoldarono per soddisfare i desideri sessuali del loro esercito… La Germania era totalmente distrutta e in una situazione di grave indigenza”. Pagine crude, senza voli stilistici: si inoltrano nei crimini nazisti, negli orrori dei campi di concentramento, dove la vita non aveva alcun valore, dove l’annientamento di massa era fatto sistematicamente: una vita si trasformava in fumo che usciva dai comignoli dei forni crematori. “Tu passerai per il camino”. E migliaia di esseri umani ci passarono. Di Michele dà spazio ai racconti delle donne ebree che sono riuscite a salvarsi dai campi recintati col fil di ferro spinato, con ferite sul corpo e nell’anima che non si cancelleranno più. Pagine ansiogene: “Avrei voluto essere un cane, perché ai nazisti piacevano i cani… i tedeschi non avevano una coscienza o un barlume di ragione… Consideravano subumani i prigionieri: tutti esseri deboli, fisicamente tarati e sempre con le mani alzate in segno di resa, perennemente propensi alla sconfitta e al pianto.... Nel loro comportamento squilibrato i soldati di Hitler non facevano altro che infliggere violenze e umiliazioni… aizzavano i cani che mordevano i genitali agli uomini e il seno alle donne. A seguire premiavano queste bestie con carezze e coccole in maniera smisurata”. E ancora: Uomini e donne per la fame e le scudisciate erano scheletri con gli occhi infossati. Uomini e donne, persone, certi di non sopravvivere fino al giorno dopo. I racconti di chi c e l’ha fatta sono tremendi. Umiliante è il numero che portano ancora sul braccio: numero che sta a testimoniare la condizione in cui erano ridotti: un numero e basta. Senza un nome. Senza più una storia. Fantasmi in cammino, chi aveva ancora la forza di muovere le gambe per fare un passo.
Alla fine della guerra, davanti ai tribunali i responsabili di questi crimini si difesero dicendo che avevano obbedito agli ordini. Questo li assolve? Kappler fuggì dal Celio, un giorno di agosto. Forse raggomitolato in una valigia? L’ipotesi s’impose. Ma chi fu complice della fuga?. Erich Priebke anche dinanzi al tribunale mantenne la sua boria senza allentarla un momento, sicuro di aver fatto il suo dovere. Così quando lo si vedeva comparire sul piccolo schermo. Chi è stato complice delle fughe dei nazisti che dovevano rendere conto delle loro azioni? Di Michele risponde senza esitazioni, senza dubbi. C’è un uomo – ricorda ancora l’autore - che tenacemente, instancabilmente, cercò ovunque i criminali nazisti, acciuffandone non pochi. Si chiamava Simon Wiesenthal, ed era stato liberato dagli alleati nel maggio del ‘45 dal campo di sterminio di Mauthausen. Di Michele incalza. Episodio dopo episodio, storia dopo storia. Compresa quella della scomparsa di Ettore Majorana, il fisico scomparso la sera del 25 marzo ‘38, a 31 anni. Era molto stimato da Enrico Fermi, che scrisse al duce per sollecitarne la ricerca.
ll libro contiene anche una serie di immagini, tra cui quelle terribili delle bombe su Hiroshima (il 6 agosto) e su Nagasaki (il 9) del 1945. Scorrono anche quelle di Pierre e Marie Curie nel loro laboratorio all’Istituto di Fisica e Chimica di Parigi, e tante scene delle brutalità della guerra. Ce n’è abbastanza. Speriamo di non vedere più affisso sui muri il manifesto con la scritta “Tacete, il nemico vi ascolta”. E speriamo di non vedere più nemmeno la foto della donna anziana vestita di nero che si aggira tra le macerie del suo paese.nza un nome. Senza più una storia. Fantasmi in cammino, chi aveva ancora la forza di muovere le gambe per fare un passo.
Pagina interna del libro

Alla fine della guerra, davanti ai tribunali i responsabili di questi crimini si difesero dicendo che avevano obbedito agli ordini. Questo li assolve? Kappler fuggì dal Celio, un giorno di agosto. Forse raggomitolato in una valigia? L’ipotesi s’impose. Ma chi fu complice della fuga?. Erich Priebke anche dinanzi al tribunale mantenne la sua boria senza allentarla un momento, sicuro di aver fatto il suo dovere. Così quando lo si vedeva comparire sul piccolo schermo. Chi è stato complice delle fughe dei nazisti che dovevano rendere conto delle loro azioni? Di Michele risponde senza esitazioni, senza dubbi. C’è un uomo – ricorda ancora l’autore - che tenacemente, instancabilmente, cercò ovunque i criminali nazisti, acciuffandone non pochi. Si chiamava Simon Wiesenthal, ed era stato liberato dagli alleati nel maggio del ‘45 dal campo di sterminio di Mauthausen. Di Michele incalza. Episodio dopo episodio, storia dopo storia. Compresa quella della scomparsa di Ettore Majorana, il fisico scomparso la sera del 25 marzo ‘38, a 31 anni. Era molto stimato da Enrico Fermi, che scrisse al duce per sollecitarne la ricerca.
ll libro contiene anche una serie di immagini, tra cui quelle terribili delle bombe su Hiroshima (il 6 agosto) e su Nagasaki (il 9) del 1945. Scorrono anche quelle di Pierre e Marie Curie nel loro laboratorio all’Istituto di Fisica e Chimica di Parigi, e tante scene delle brutalità della guerra. Ce n’è abbastanza. Speriamo di non vedere più affisso sui muri il manifesto con la scritta “Tacete, il nemico vi ascolta”. E speriamo di non vedere più nemmeno la foto della donna anziana vestita di nero che si aggira tra le macerie del suo paese.

mercoledì 10 aprile 2024

Facendo due passi ti arricchisci




A MILANO OGNI STRADA
UN BRICIOLO DI CULTURA



Caffè Biffi in Galleria Vittorio Emanuele
In corso Venezia si ammira il
palazzo Castiglioni, del 1901,
costruito in stile Liberty: in via
degli Omenoni, cariatidi enormi
incastonate nell’architettura. Le
cascine, i Caffè, i monumenti.



 
 
 
 
 
 
 
Franco Presicci

Non si contano le strade che a Milano raccontano condensati di storia. Tantissimi anni fa Raffaele Bagnoli li raccolse in cinque volumi, allineando arterie e percorsi di periferia, da via Cesare Correnti alla via Cascina Barocco, detta così perchè a suo tempo conteneva tante strutture rurali, in massima parte scomparse, lasciando il ricordo sulle targhe di marmo incassate negli angoli, in alto.
Il Savini in Galleria

Sono passati molti anni da quando per motivi di lavoro entrai in via Cascina Barocco, all’estremo limite della città: il titolare di un’officina meccanica della zona, portando una sera a spasso il cane, su uno spazio spettinato con mucchi di rifiuti notò una grossa bambola che bruciava; al ritorno guardò meglio e si accorse che era il corpo di una donna., probabilmente uccisa altrove e gettata lì come un sacco di juta. Arrivai verso le 22 e cercai di mietere il maggior numero possibile di particolari sull’accaduto e non badai ad informarmi sull’origine del nome di quella specie di sentiero. Mi proposi di farlo in un momento più tranquillo. Da tempo m’impegnavo nella lettura di “Strade di Milano” di Bagnoli, scrittore prolifico e avvincente, che faceva parte della Famiglia Meneghina. Quei cinque volumi erano una sorta di pozzo di san Patrizio di informazioni sulle vie, le loro caratteristiche, la storia, le curiosità, le preziosità architettoniche, le trasformazioni subite, le demolizioni, che hanno riguardato anche le cascine.

Il piccone, per fare spazio a edifici moderni, ha inferto li suoi colpi, per esempio, alla Cascina Merlata, dove, nei boschi, durante la dominazione spagnola, imperversavano i briganti, i cui capi, Giacomo Leporino e Battista Scorlino, vennero poi catturati e condannati alla forca.
Piazza Cavour

Non tutte le strutture rurali hanno fatto la stessa fine: ecco la Cascina Bellaria e la Cascina dei Pomi, questa in via Melchiorre Gioia, a qualche metro di distanza dal punto in cui la Martesana smette di scorrere allo scoperto e si tuffa in un lungo tunnel. Resiste il fabbricato, sia pure pieno di rughe, dove una volta i milanesi andavano a riposarsi e a rifocillarsi, quando facevano le loro gite fuori porta o per recarsi a Monza a piedi, in carrozza, in bicicletta o con i barchetti. C’è stato anche Carlo Porta, di cui sono noti i brindisi.

In via Cesare Corrente, nome di un personaggio che nato a Messina e trasferitosi a Milano nel 1811, prese casa in via della Spiga, alimentò le riunioni segrete che si conclusero con i moti del ‘48; inviò un proclama che sollecitava il governo austriaco a prendere decisioni liberali.
via Della Spiga

Nominato senatore nell’86, ebbe anche incarichi ministeriali. In questa via sorgeva la Pusterla dei Fabbri, che dava ispirazione a molti pittori. Sull’arco campeggiava una scultura che si pensava rappresentasse il dio protettore dei nubendi, e per questo gli veniva tributato omaggio dagli sposi. La decisione di cancellare dal tessuto urbano la Pusterla scatenò molte proteste in Consiglio comunale, ma il destino era ormai segnato e ai primi del 900 venne abbattuta.

Milano ha sempre avuto il bisogno di rinnovarsi, nel bene e nel male. Come oggi tante belle donne si sottopongono a interventi chirurgici, qualche volte addirittura dannosi, nell’ansia di correggersi il naso o le labbra…

A volte la ruspa è stata necessaria, per eliminare qualche bruttezza, come il Bottonuto, via squallida e malfamata, in cui tra l’altro si esercitavano affari di sesso.
Via Dante
La città – affermava Carlo Romussi in “Milano che sfugge” del 1899 … è famosa per le sue vie: il sindaco Belinzaghi soleva anzi dire a questo proposito che al proverbio di raddrizzar le gambe ai cani si poteva sostituire quello di raddrizzar le vie di Milano. Ma è la nostra storia che vuol così: perché Milano tante volte distrutta risorse sempre dalle rovine…”. . Anche Vittore e Claudio Buzzi hanno scritto un bel libro, “Le vie di Milano”, molto interessante, perché racconta le vie, la loro storia, i personaggi che hanno dato lustro alla città, la vita quotidiana, i mestieri che si esercitavano.... Piazza Vetra, a Porta Ticinese, per esempio, è famosa perché in essa venivano giustiziati i condannati che non appartenevano alla nobiltà; via dei Fontanili prende il nome dalle sorgenti di acqua di falda che irrorava i campi; via Della Spiga, che va da corso Venezia in via Manzoni, si chiama così per un’antica insegna a forma di spiga di un’osteria; piazza Belgioioso, celebrata per la sua armonia come la piazza più bella di Milano, ricorda i sospiri d’amore di Stendhal per Matilde Dembowscki Viscontini; corso San Gottardo (da piazza XXIV Maggio a via Meda), le cui case hanno cortili simili a vicoli che sfociano in via Ascanio Sforza, lungo il Naviglio Pavese, viene ricordato come luogo in cui ai primi del ‘900 si custodivano 200.000 “ruote” di formaggio (“Ghe n’è de forma tonda/ quadra e guzza/ Che n’è che sa de bon/ ghe n’è che spuzza...” .
Piazza Belgioioso

Queste pagine sono un racconto lunghissimo, che comprende i monumenti, le chiese, le attività commerciali, i caffè, dove non si beveva soltanto, ma si trascorrevano ore di spensieratezza, conversando, facendo pettegolezzi, discutendo a volte in modo acceso dei fatti accaduti, di politica, di costume, argomenti che calamitavano gruppi di avventori di ogni lignaggio. “La Ca’ de la comaa” apparteneva a una non meglio identificata Caterina de Padroni, che vendeva paglia e fieno ai proprietari di quadrupedi, ma faceva anche la levatrice. Forse perché stanca di fare l’uno e l’altro mestiere, anziché escluderne uno cedette il locale ad Antonio Cova, che dette al locale ben altra dignità e brillantezza, attirando una clientela di altissimo iivello anche per il suo panettone speciale e i gelati insuperabili.

Caffè, teatri, signorili luoghi di ritrovo. Ecco il Caffè Teatro della Scala, frequentato da artisti e uomini politici; il “Gambrinus” in Galleria; il Caffè Greco, di fronte al Duomo, meta di Petro Verri; il Caffè Campari, aperto in Galleria Vittorio Emanuele; il Caffè dell’Accademia, luogo di riunione di critici musicali e artisti; il Caffè dei Servi nell’omonima corsia; il Caffè del Duomo, dai milanesi denominato Caffè dei muti, perchè le parole non dovevano distrarre i lettori di giornali.

I Caffè possiamo ammirarli anche nell’arte. In principio erano aristocratici, poi divennero borghesi e infine proletari. Tutte le città più importanti, Napoli, Torino, Roma, oltre a Milano, hanno avuto i loro Caffè famosi, frequentati da celebrità, dalla Callas a Toscanini, da D’Annunzio a Eduardo De Filippo a Totò.

E’ lunghissima la serie dei Caffè di Milano, ognuno con le sue vicende. Al “Caffè dei Pompieri”, secondo gli esperti, nacque la famosa “Barbaiata”, inventata dal proprietario, che si chiamava appunto Barbaia.

Andrei ancora oggi, potendo, in giro per Milano con il naso all’in su per leggere i contenuti delle targhe e scoprire per esempio che via Della Palla, nei pressi di via Torino, fu battezzata con questo nome, perché a quanto parte vi si praticava un gioco molto in voga nel XVI secolo; che in via degli Armorari, la figlia di un artigiano si vedeva uscire dalla casa di un feudatario, che la sedusse e l’abbandonò togliendole la figlia e lasciandola a piangere e cantare “vezzeggiando” una bambola; (parola di Romussi); che via Olmetto faceva parte di un’antica contrada in cui sorgeva un olmo secolare; che via Caminadella fu battezzata così per un’abitazione munita di camino, allora privilegio esclusivo e diventato comune nel XIII secolo.
Corso Venezia

In corso Venezia si possono ammirare facciate di palazzi affascinanti in stile Liberty, come quella di palazzo Castiglioni; via Sant’Andrea come altre arterie vanta magnifici cortili con aiuole policrome, semiarchi, fontane, sculture, pozzi... Ed ecco via degli Omenoni, nei pressi di piazza Belgioioso, così denominata per le grandi cariatidi, giganti incastonati nell’architettura di uno stabile, costruito dall’artista Leoni Leone ((1509-1590) e obiettivo dei fogli satirici dell’800, che li immaginavano in divertenti colloqui con il “sciur Carera”, l’”omm de preja”, l’uomo di pietra, al quale venivano appiccicati le proteste, le polemiche, le indignazioni, gli sberleffi dei cittadino contro il potere: il Pasquino meneghino. Insomma a Milano ogni strada, a voler guardare bene e avendo tempo e voglia, contiene indicazioni che ci arricchiscono.