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mercoledì 30 maggio 2018

Da anni impegnati a ”La Stele”



MADONNE E FIGURE DEL PRESEPE

INCREMENTANO LA LORO PASSIONE



La bottega si trova in viale Certosa,
a Milano. I manufatti, da 10 a 180
centimetri, più richiesti: Santa Rita,
San Pio, San Francesco, Sant’Antonio,
San Giuseppe, i Bambinelli grandi come bambole. Molti sono destinati all’estero America Latina, Francia… Gianluca: “Stiamo già lavorando per il prossimo Natale”.





Franco Presicci 
 

Seregni restaura una Madonna
ll secondo nome di Manola Artuso è Maria; quello del marito, Gianluca Seregni, Giuseppe. Entrambi confezionano statuine per il presepe, nel loro laboratorio, “La Stele”, in viale Certosa 91, a Milano, dove, dopo la scuola e i compiti spesso li raggiunge il figlio, il cui terzo nome è Magio Betlemme, per apprendere i rudimenti del mestiere. La mamma, 50 anni, diplomata a Brera in scultura e pittura; il papà, 54, diplomato in restauro e conservazione dei beni culturali, pittore contemporaneo, da sempre nell’artigianato con varie esperienze, soprattutto nella ceramica. Li intervistai anni fa per il volume “Natività e presepi”, della casa editrice Celip, e per il “Il Giorno”, il cui direttore, che arrivava da Firenze, avendo trovato chiuso il negozio di via Montebello, mi chiese notizie di un altro esercente del settore. Gli segnalai “La Stele”, anche bottega storica laboratorio di statue di Madonne ad altezza naturale su matrici antiche. “Sono davvero bravi”. “Allora meritano una pagina”. Fu così che una quindicina di anni or sono visitai Maria e Giuseppe, cordiali, disponibili, dalle mani d’oro, di una ospitalità quasi familiare.

Manola al lavoro
Manola, una bella ragazza non molto alta, mora, un sorriso eloquente, si alternò, nel darmi informazioni, con il marito, che tra l’altro sa tutto della storia del presepe in Lombardia, delle tecniche adottate nel tempo, degli artisti impegnati in quest’arte e degli opifici, che quando nell’Ottocento i presepi, sino ad allora esclusivi dei conventi, delle cappelle e delle case patrizie, ebbero una diffusione popolare si moltiplicarono, grazie anche al basso costo dei materiali. lI più noto era quello dei Panzeri, che sfornarono migliaia di pastori. Gli originali erano in legno intagliato, maestri gardesani e valtellinesi…”. Proprio in questi giorni mi è tornata alla mente “La Stele”, e ho telefonato a Manola. “Sentiamoci stasera alle 6, ci sarà Gianluca”. E Gianluca pronto e instancabile, esauriente: “Da ragazzo mi ha investito questa passione per la scultura e per il restauro; e non si è mai appannata.
Santa Agnese
Mi appassiona modellare Madonne, santi e martiri, Bambinelli grandi come bambole, figure per il presepe”. Che negli anni passati in Lombardia non prevedeva il pizzaiolo, il pescivendolo ambulante e altre figure sempre presenti nelle ”architetture” napoletane. Poi i tempi sono cambiati, grazie anche all’emigrazione; e sono comparsi i forni con la pizza, il carretto con il pesce… accanto allo spazzacamino, allo spaccalegna, all’arrotino, all’ombrellaio, al calderaio…, mestieri in voga una volta, e ad elementi ispirati alla vita quotidiana milanese legati a un periodo storico compreso tra il ‘700 e l’800, di cui la bottega custodisce gli stampi. “I materiali utilizzati per le matrici una volta erano le gomme a base di caucciù, che venivano vulcanizzate; oggi ricorriamo alle gomme siliconiche o ad altro. Per realizzare l’opera, in gesso, adoperiamo impasti con polvere di alabastro (molto pregiato). Anche l’acqua, necessaria nella lavorazione, ha i suoi segreti, con l’aggiunta di sostanze naturali che le conferiscono durezza, lucentezza, candore”. I manufatti esigono molta cura; e altrettanta il restauro, soprattutto degli esemplari antichi. “I committenti, religiosi o privati che siano, sono molto attenti, guardano i minimi particolari; e noi facciamo precedere l’intervento da uno studio: cerchiamo di capire chi ha prodotto l’opera per risalire alle modalità che ha osservato. A volte, se il prodotto è recente, intravvediamo subito la mano del maestro, attraverso una finitura, una pennellata, una doratura”. Che cosa muove il mercato? “La devozione”. C’è chi ci chiede un san Francesco alto un metro e settanta da regalare a una parrocchia, a un ente di beneficenza o da tenere in casa, da collocare in un’edicola rimasta vuota.. I sacerdoti sanno che sistemando in chiesa, per esempio, una Madonna di Lourdes o di Fatima o un’Immacolata i fedeli aumentano”. A Milano si preferisce il presepe o l’albero? “Dal mio punto di vista entrambi, magari l’uno vicino all’atro. Quella dei panorami natalizi, con pianure disseminate d’erba, che si elevano a poco a poco sino a diventare colline, montagne innaffiate di neve, tra scale e scalette, passaggi ripidi, fonti di luce… (un ambiente favoloso, magico) è una tradizione irrinunciabile.

Pastori
Alcuni clienti mi descrivono i loro presepi con entusiasmo: le grotte, gli anfratti, i sentieri che s’intersecano, i canali, i ruscelli, le pecorelle, i Magi fatti in gesso”. C’è chi acquista in negozio anzitempo un guardastelle o un dormiente, una lavandaia, un pecoraio con il gregge…? “Sì. Molti pensano al presepe tutto l’anno e temono di non trovare all’ultimo momento l’asinello con il carico di legna, lo zampognaro, l’attrezzo desiderati. Noi stiamo già lavorando per il prossimo Natale”. Maria e Giuseppe, cioè Manola e Gianluca, uniti dalla fede e da un amore profondo, lavorano con gioia. La passione compie miracoli. Manola si occupa prevalentemente della decorazione e anche, come il marito, del restauro di porcellane, ceramiche, vetri antichi…
San Giuseppe col Bambino



“Abbiamo, oltre a centinaia di stampi, una collezione personale di oltre 300 pezzi che risalgono ai primi dell’800”. E’ riposante trovarsi qui, tra simulacri di varie altezze: dai 10 ai 180 centimetri. “Di ognuna abbiamo il modello originale, anche antico”. Su “La Stele”, che ha origini lontane (come bottega nacque nella metà dell’800 nel quartiere di Brera e successivamente, dopo vari traslochi, si trasferì in viale Certosa), in Giappone è uscito un corposo libro con oltre 100 mila copie in libreria. I nipponici conoscono molto bene il l’indirizzo di viale Certosa. Vi arrivano soprattutto per vedere le varie fasi della lavorazione. E a novembre è attesa la visita di un gruppo di cittadini del Sol Levante che hanno tratto impulso dal libro.Gianluca deve interrompere la conversazione più volte per accogliere i clienti. Nel frattempo ci guardiamo intorno, ammirando il Bambinello a braccia aperte, grande più o meno 30 centimetri, sorridente, con l’incarnato roseo, con l’espressione gaudiosa, la sua bellezza soave. Ha avuto ottimi maestri, Seregni. “Sì, Nardini, Bassi, Vismara. Soprattutto Giancarlo Borroni, che mi ha trasmesso anche valori umani”. Io lo conobbi nell’ottobre del 2007. Aveva 76 anni, un modo di fare discreto, quasi timido.
Giancarlo Borroni
“Ormai sono in pensione - mi disse - vivo solo, vengo in bottega soltanto per ritrovarmi in un luogo a me molto caro. Fra tutte queste Madonne ripercorro a volte gli anni passati, impegnati a farne di gesso, e non di rado di argilla. Ne avrò fatte 50 mila”. Parlava sottovoce, Borroni. ”Cominciai nel ’43. A ‘La Stele’ di corso Garibaldi 40, guida Annibale Cerruti, pittore e scultore molto apprezzato. Nell’agosto di quell’anno il laboratorio venne distrutto dalle bome e noi raccogliemmo quel poco che si poteva raccogliere e con il carro tirato dai cavalli lo portammo in via Candiani, alla Bovisa. Borroni mosse i primi passi come garzone, e con il furgoncino andava a piazzale Loreto, “dove in una ditta prelevavo le casse che ci servivano per spedire i manufatti, i cui modelli erano realizzati in plastilina anche da un altro scultore, Remo Brioschi. Il formatore prendeva l’impronta in gesso, facevamo lo stampo in para cotta a 60-70 gradi per 12 ore, quindi le copie.

Elementi del presepe
A Milano erano parecchi gli artigiani che trattavano il gesso, ottenendo figure anche di un metro e mezzo e statuine del presepe di diversa grandezza. Nel ’50 conobbi Carlo Confalonieri, uno degli artigiani più noti e prestigiosi di allora, con “atelier” in via Copernico 8 (dapprima si serviva del legno; poi mise a punto una pasta di gesso con farina, colle e segatura, che colava in stampi di bronzo). Imparai a fare gli stampi, sia in gesso, sia in para, e a modellare anche la creta, che a quell’epoca di tanto in tanto si usava”. Borroni mi raccontò anche i sacrifici, le fatiche e la paura degli ordigni che piovevano dal cielo, facendo disastri. Quando suonava la sirena correva, se si trovava da quelle parti, al rifugio scavato sotto il piazzale del Cimitero Monumentale, lasciando fuori il furgoncino. “E nessuno si permetteva di rubare le Madonne”. Adesso Manola e Gianluca esprimono molta ammirazione per Borroni (e per il Confalonieri). Lo rivedono di tanto in tanto, il vecchio maestro, e sempre con molto piacere. Ogni suo arrivo è un evento. Si sente che gli sono affezionati per la sua esperienza, la sapienza, le sue qualità umane. Quasi schivo com’è, e poco loquace, non snocciola spesso la propria storia umana e professionale: “Ricordo Milano con poche auto; il tram 10 che prendevo per andare a casa o al lavoro; la città spopolata dopo il tramonto; le distrazioni, chi poteva, al Teatro Olimpia con Wanda Osiris che cantava ‘Vi parlerò d’amor’; o al Nuovo, dove Remigio Paone presentava ‘Una notte al Madera’ con Natalino Otto e il Quartetto Cetra…. Nel laboratorio di Cerruti non si contavano le ore…”. Erano in quattro ad affrontare le richieste che arrivavano tramite i missionari anche da Hong Kong. Manola e Gianluca conoscono quella fatica. E le loro Madonne, i loro martiri, i loro san Francesco, san Pio, sant’Antonio, san Giuseppe, santa Rita… prendono anche la via dell’estero: Francia, America Latina…









mercoledì 23 maggio 2018

Il linguaggio degli ombrellai ambulanti


 

PER NON FARSI CAPIRE DAGLI ESTRANEI

CONVERSAVANO USANDO IL “TARUSC”




Conducevano una vita da fame: la sera

polenta e vino all’osteria, e per dormire

un letto di paglia in una catapecchia.

A Gignese in loro onore aperto il Museo

dell’Ombrello e del Parapioggia.










Franco Presicci

ll “tarùsc” non è un medicinale, e non è neppure una marca di biscotti. Chi pensa al nome di un’auto ancora sulla catena di montaggio sbaglia. E’ la parlata che gli ombrellai ambulanti (“lusciatt”), ma anche i “magnan” (calderai), i “cadregatt” (riparatori o fabbricanti di sedie) e compagnia adottavano quando s’incontravano fuori sede per non farsi capire dagli estranei.

L'ombrello in un'opera di Giuseppe Solenghi
Uomo sotto la neve a Martina F.




















Infatti qualche studioso fa derivare la parola dal tedesco “tarnen”, mascherare; e “tarnung”, mascheramento.
Sul Vergante, da cui scendevano in Lombardia molti ombrellai, i braccianti chiamavano “tarùsc” quello strato di terra da cui occorreva rastrellare letame o fogliame. P. E. Manni, nel suo libretto dedicato all’argomento, spiega le origini, le etimologie, le varie pronunce e le diverse forme di questa specie di vernacolo, chiarendo che un “lusciatt” di Stresa parla un “tarùsc” di quella zona, alla “stresiana”; e uno di Massino si attiene alla forma in voga nel proprio paese. E ognuno vi porta un proprio contributo, innestando parole pescate in questo o quel dialetto o scaturite da una fertile fantasia.

Ombrelli chic
Così si sentiva dire “bergna” per denaro; “pisela per lira; “squadras”, per confessarsi; “patìn” per letto; “vasciag” per maiale; “gravisma” per sigaro (a Massino è il torsolo del granturco)… Strausciògn” indica i pantaloni, facili a logorarsi perchè il lusciat armeggiava stando seduto su un gradino o sulla cassetta dei ferri. “Batagin” era l’orologio, quello da tasca, con la catenella tra un occhiello del gilè e la “gnata”, la saccoccia in cui lo strumento era infilato. Ma gli orologi all’epoca non erano a disposizione di tutti, men che meno degli ombrellai, dei “magnan”, dei “mulita” (gli arrotini: a proposito giorni fa uno di questi ha fatto sentire la sua voce al Giambellino)… A indicare l’ora era il “batènt” della campana. Insomma per un meneghino era un rompicapo cercare di capire una conversazione fra “ombrellee”, che ispirarono anche un brano. “Anca l’ombrellèe come tucc ij ambulant/ el ghè dà de vos per reclama la gent/ ona stecca rotta, on puntal mancant/ on manegh ch’el dondola, in sul moment/ l’ombrellèe a ogni besogn el proved…”.

Ombrellaio

 
Gli ombrellai ambulanti calavano per lo più dal lago Maggiore, come detto dal Vergante, compreso tra Arona e Stresa. Nel libricino curato da Franco Fava per la Meravigli, “Vecchi mestieri milanesi”, tra l’altro ricco di disegni molto espressivi di Sergio Vigna, Gabriele Musante, Mario Castellani, Pasquale Russo, si riportano alcune righe di una lettera inviata dall’ombrellaio Minola a un suo collega per fargli sapere di essere caduto prigioniero dei tedeschi. “A stansci catufàt de marèta de sciugatògn e pensi che el seu toni al ficarà e la biosma ad la soa bula per al prim dal lungòs”. Tradotto: Sono prigioniero di guerra dei tedeschi e penso che lei andrà alla festa del suo paese per il primo dell’anno. I “lusciat” si sparpagliarono, non soltanto in Lombardia. Comparivano con la “barsela” sulle spalle, una cassetta a forma di faretra da cui facevano capolino i “ragozz”, le stecche di ombrelli appoggiate sul fondo, sopra gli attrezzi: bastoni di legno, forbici, refe… Passavano da una strada all’altra urlando “Om brellèe! Om brellèe!” per avvertire le donne che se avevano parapioggia da restituire all’uso quello era il momento. Le casalinghe si affacciavano alle finestre, facevano segno o davano voce, scendevano, si aggruppavano all’ingresso dello stabile e consegnavano il loro ombrello mutilato all’ambulante, che in breve tempo eseguiva il lavoro.
Ombrellaio
Questi ambulanti erano taciturni e facevano una vita di sacrifici. La sera una cena all’osteria con polenta e un bicchiere di vino e poi a dormire in una catapecchia. Il ritorno a casa solo a Natale, con la soddisfazione di un piccolo regalo preparato dalla moglie. Cominciavano l’apprendistato a 7 anni, seguendo un maestro, che se fortunato riusciva poi ad aprire una bottega, in Italia o altrove: a New York, a Sidney, dato che molti di loro si erano spinti così lontano, e smettevano di mangiare polvere, di fare la fame, di stare distanti dalle famiglie, che lasciavano appena il tempo cominciava a imbronciarsi, accompagnati dal garzone, scelto nella propria zona di origine. A Gignese, il più alto comune del Vergante e tra i più antichi (viene citato in un documento del 1069 conservato nell’Archivio storico di Torino), da cui partirono la gran parte degli ombrellai, nel 1939 Igino Ambrosini, che era del mestiere come il padre e il fratello, inaugurò con alcuni collaboratori il Museo dell’Ombrello e del Parasole, creando un’Associazione del settore. Da tempo per le strade di Milano e della Lombardia non si vedono più “lusciat” né cestai né calderai né impagliatori di sedie… Spariti da anni anche i lustrascarpe, l’ultimo dei quali lucidava le calzature dei signori nella galleria delle carrozze della stazione Centrale. Se ne cerchi uno per conoscere la sua storia consumi inutilmente le suole. Erano figure amate dai milanesi. I loro richiami erano graditi anche a chi non aveva bisogno delle loro prestazioni.
Con l'ombrello sotto la neve
Bazzicavano soprattutto la zona di Porta Genova, dove c’è la darsena in cui si congiungono il Naviglio Grance che viene dal Ticino e il Naviglio Pavese che a Pavia. Poi la crisi, dovuta prima all’invenzione dell’impermeabile, più comodo di quella cupola di stoffa che nelle giornate di vento si rovescia, a volte lacerandosi; e poi all’abitudine della gente di disfarsi di ciò che invecchia, ritenendolo più economico sostituirlo. La pioggia ti sorprende in strada? Per poche lire oggi nei mezzanini del metrò ambulanti extracomunitari offrono un buon campionario. “Diecimila, va bene?”. “Facciamo otto”. E l’affare è concluso. Non c’è neppure il fastidio di allungare il percorso per andare in un negozio, dove magari il prezzo è più alto. Una volta l’ombrello “made in Italy” era molto apprezzato e richiesto dappertutto. Alcuni esemplari erano autentiche opere d’are. Nell’800 i maggiordomi, che avevano fra i loro compiti quello di accompagnare i signori dal palazzo fino alla carrozza, nelle giornate piovose lo facevano facendo fiorire gli ombrelli sulle loro teste. Gli ombrellai più fortunati che oltre ad inaugurare punti-vendita ovunque, fabbricandoli anche, gli ombrelli, hanno scritto con le loro fatiche una bella storia. Accuratamente condensata nel citato Museo di Gignese, che nelle diverse sale comprende veri capolavori.

L'ombrellaio-disegno del libro della Meravigli
Lo visitai nel 1965 durante una manifestazione canora a Stresa, ma da allora l’esposizione si è ampliata, accogliendo, per esempio, parapioggia con copertura di seta decorati con motivi floreali o geometrici e con colori vivaci; con impugnature in legno nobile o in metallo o in avorio tornito; testimonianze di scenette di strada londinese con ombrelli del tipo a pagoda; ombrelli del XIX secolo; ombrelli per la villeggiatura in uso nell’8oo e nel ‘900:; ombrelli dipinti nelle tele di grandi artisti (Adam Klein, Francisco de Goya…); foto di ambienti, come le abitazioni di famosi ombrellai, le fabbriche in case di ringhiera; l’ombrello nell’antichità su un vaso del Museo nazionale di Taranto; l’ombrello nella moda femminile; ombrelle “à la chinoise”; ombrelli con la cupola di merletto foderato di seta… Cesare Comoletti, laurea in ingegneria, presidente della sezione dialettale del Circolo Filologico milanese, profondo cultore di letteratura, storia e folclore meneghino, è autore del volume “I mestee de Milan”, dizionario etimologico illustrato dei termini in vernacolo riguardanti le professioni, le arti e i mestieri praticati nel Milanese dal Medioevo ai giorni nostri. Vi si incontrano anche le voci delle zone rurali dell’alto e basso milanese, brianzoli, lodigiani…Un’opera interessantissima, che offre anche la storia di molte attività. Ecco che cosa scrive del “brumista” (il vetturino, il cocchiere di piazza): “Il primo gennaio del 1870 tutti i conducenti di pubblica vettura vennero obbligati dalla giunta municipale a vestire l’uniforme…”, cappello a cilindro compreso. E non elenca soltanto il vestiario, descrive li personaggio, che fumava la pipa stando a cassetta sulla sua carrozza chiusa, a quattro ruote per due persone. Aggiunge che “gli ‘ombrellee’ provenivano da secoli dai paesi posti alle false del Mottarone, tra il lago Maggiore e il lago d’Orta”… E cita il Museo di Gignese, che nel ’49 venne ristrutturato dallo stesso Ambrosini; e nel ’76 trasferito in una sede edificata apposta, grazie ai contributi della Regione Piemonte, del Comune e degli amici dell’istituzione, com’è attestato nel catalogo del 1989, dotato di numerose, significative immagini, alcune delle quali fornite da appassionati. Viene in mente una scena della vecchia Milano: il corteggiatore attempato colto sotto i portici mentre incalza una signora con l’ombrello.





mercoledì 16 maggio 2018

Presentato al Piccolo Teatro il Festival di Martina


UN’AUTENTICA ECCELLENZA PUGLIESE

CHE MILANO ED ESCOBAR AMMIRANO
Alberto Triola, Fabio Luisi, Franco Punzi, Escobar


L’evento il 7 maggio in via Rovello.

Pubblico numeroso, interessato alle

parole di Franco Punzi, Alberto Triola 

Sergio Escobar, Fabio Luisi, Aldo

Patruno, Antonio Scialpi.

Trionfo della musiva e

del capocollo della città dei trulli.





Franco Presicci


“Questa sala va allargata, dato che siamo diventati tanti - ha cominciato scherzosamente Franco Punzi -, i nostri amici si stanno moltiplicando. Stamattina sono venuti qui da più angoli della Puglia. Ecco lì quelli di Crispiano”, riferendosi anche a Michele Annese, a sua moglie Silvia e al genero Donato Basso, che è di Milano.
Sala gremita di ospiti e giornalisti
La sala era strapiena, frange di pubblico lungo la vetrata e altre straripanti nell’atrio. Giovani, meno giovani, melomani, cantanti, orchestrali, critici musicali, giornalisti, semplici cittadini interessati all’evento: la presentazione, il 7 maggio alle 11 - del Festival della Valle d’Itria, di cui Punzi è il presidente. Un giovanotto è arrivato con il sassofono e lo ha sistemato sotto la sedia. Fotografi, operatori televisivi facevano la ronda per catturare le personalità del bel canto. E’ arrivato Escobar, e Franco Punzi lo ha accolto festosamente, ampiamente ricambiato. Il presidente del Festival della Valle d’Itria, con il suo eloquio fluido, spesso frizzante, familiare, ha introdotto la mattinata al Piccolo Teatro di Milano - intervallando i discorsi seri alle battute sagaci, divertenti.

Il saluto del Presidente Punzi
Si è subito detto felice dell’ospitalità cordiale, affettuosa che ogni anno riceve in via Rovello; e Sergio Escobar con evidente schiettezza ha risposto che apprezza l’impegno, la bravura, le fatiche, i sacrifici che i martinesi compiono per rendere sempre più grande il loro capolavoro; e i risultati di altissimo livello che conseguono. “Ci sono occasioni che finiscono in consuetudini e ci sono anche ottime abitudini. Siamo più che lieti di collaborare con il Festival e con Martina anche per le celebrazioni dei 100 anni della nascita di Paolo Grassi, non con dovizia di aneddoti, ma con un progetto di studi che aiuti la riflessione sulla sorte del teatro….”. E ha sottolineato la differenza “tra il salotto culturale e chi si sporca le mani nel fare”, completando il suo pensiero con l’affermazione che “la ricchezza da tramandare è il rapporto umano”.

Ingresso del Teatro
A qualcuno è venuto in mente il discorso tenuto da Grassi il giorno del suo insediamento alla presidenza della Rai: “Guardo all’azienda e a coloro che vi lavorano con sentimenti di simpatia, di intensa speranza e fiducia in una fertile collaborazione, che esalti i singoli talenti, le singole professionalità, le singole disponibilità umane in una responsabile coscienza della funzione sociale del monopolio, inteso come servizio pubblico, che la Rai deve rendere ai cittadini, nel quale possano avere ragione solo le idee maggiori…”. Paolo Grassi, che diresse il Piccolo per 25 anni fino al maggio del ’72, quando assunse la sovrintendenza della Scala, è un simbolo, un esempio, un maestro, che ha aiutato molto il Festival, tanto che la vedova Nina Vinchi ha a suo tempo regalato alla Fondazione a lui dedicata a Martina la sua biblioteca. Punzi non si lascia scappare alcuna occasione per esaltare la figura di quest’uomo che tra l’altro rinnovò il modo di fare teatro. Lo ha fatto anche il 7 maggio, durante la presentazione del 44° Festival della Valle d’Itria, che si svolgerà dal 13 luglio al 4 agosto prossimi. “La memoria di Grassi – ha dichiarato – alimenta il Festival, è ossigeno della cultura, del turismo di Martina… Quest’anno la manifestazione si ringiovanisce nelle opere, nelle iniziative…”. E ha accennato alle novità, tra le quali la collaborazione con il Petruzzelli di Bari, con il Giappone… l’incontro, il 30 luglio a Martina, con critici musicali e giornalisti “per confrontarci”.

Prof. Antonio Scialpi in rappresentanza del Comune di Martina F.
Una pausa breve – il tempo di presentare l’assessore alla Cultura della sua città Antonio Scialpi, persona saggia, di poche parole, docente di filosofia al Liceo – e ha ripreso: “Noi diamo spazio alla cultura, perché dove c’è cultura c’è civiltà, progresso, speranza…”, rivolgendosi soprattutto ai giovani. Ha preso la palla al balzo Alberto Triola, direttore artistico del Festival, per ricordare che i giovani talenti che planano a Martina prendono il volo per i teatri più prestigiosi al mondo. Il Festival è anche un trampolino di lancio, oltre che una fucina di idee, di proposte che tra il dire e il fare non hanno di mezzo il mare: affronta nuovi percorsi “con la fantasia e la curiosità d’inoltrarsi su sentieri anche molto divergenti fra loro”. E anche in questa 44.ma edizione “nel sorprendente incontro fra Handel e la Scuola napoletana si esalta la più pura tradizione belcantistica italiana”. Dopo Punzi, Aldo Patruno, direttore generale Turismo, Cultura, Valorizzazione del territorio presso la Regione Puglia: “E’ bello rinnovarsi non solo negli appuntamenti”; e ha rievocato “il programma triennale di finanziamento della cultura; i 100 milioni che si stanno utilizzando per fare cultura in Puglia; la grande alleanza fra le sette fondazioni di Puglia; il carnevale di Putignano.”, aggiungendo che “il Festival della Valle d’Itria è un’eccellenza, che s’inquadra nel cuore della regione con un programma che ogni anno stupisce.

Triola, Luisi, Punzi
Beato colui che è in grado di dare ai propri figli radici e ali”. Attraverso l’opera svolta dalla Fondazione Paolo Grassi anche i talenti pugliesi hanno messo le ali, è intervenuto Alberto Triola. Ha ripreso Punzi: “Proprio stamattina mi hanno comunicato che la biglietteria ha raggiunto il 25 per cento delle prenotazioni, la maggior parte dall’estero”. Lo ha ribadito il direttore artistico: “La famiglia si allarga, ha più respiro, ha ritorni e arrivi, rilevanti novità, nuovi percorsi. Il festival è impegno, coraggio, provocazione nel senso più positivo del termine; è una realtà pulita, sana, trasparente...”.

Manifesto del Festival
E giù scrosci di applausi per una giovanissima e bravissima artista, Francesca Cosanti, autrice anche quest’anno del manifesto del Festival, che campeggia anche sulla copertina del programma. Il Festival valorizza chi merita. Rientrando nella sua veste, Alberto Triola è passato a descrivere le opere e i concerti che verranno eseguiti in diversi luoghi di Martina: Palazzo Ducale, Atrio dell’Ateneo Bruni, masseria Palesi, Basilica di San Martino, chiostro di San Domenico... Il Progetto Rossini, con “Tra dolci e cari Palpiti”, “Soirèe Rossini”, Concerto per lo Spirito, “Gatta canta, Gatto danza” (sarà anche al Teatro Paolo Grassi di Cisternino, a Matera, a Ceglie Messapica), “Notturno”, “Cera una volta…Cenerentola!”…, rende omaggio all’immensa figura del compositore pesarese. I Concerti del Sorbetto, alle 17 del 14, 21, 28 luglio, e “Canta la notte, alle 23 del primo agosto, al Chiostro di San Domenico. “All’Ora Sesta”, alle 12 del 15 luglio, nella Chiesa di Sant’Antonio ai Cappuccini, e alla stessa ora nelle chiese Chiese di Santa Maria della Purità e di San Francesco da Paola. La rassegna si aprirà con “Giulietta e Romeo”, dramma in due atti di Felice Romani, revisione sull’autografo di Ilaria Narici e Bruno Gandolfi, regia di Cecilia Ligorio (13, 15, 31 luglio); proseguirà con “Rinaldo”, dramma per musica di Giacomo Rossini su una sceneggiatura di Aaron Hill della “Gerusalemme liberata” del Tasso, versione di Napoli 1718, prima rappresentazione in tempi moderni, regia di Giorgio Sangati, direttore Fabio Luisi.

Silvia e Michele al "Piccolo"
Il 21 e il 23 luglio, “Figaro su, Figaro giù…!”, libera rivisitazione da Gioachino Rossini, regia di Giamaria Aliverta (replica il 3 agosto a Otranto-via delle Torri). Il 22, il 24, il 26, il 28 luglio “Il trionfo dell’onore”, di Alessandro Scarlatti, opera comica in tre atti di Francesco Antonio Tullio, revisione sulle fonti originali di Jacopo Raffaele in collaborazione con Fabrizio Longo, l’Accademia di Belcanto “Rodolfo Celletti” e l’Accademia di Belle Arti di Bari. Il 20 luglio progetto Rossini 1868/2018 con “Tra dolci e cari palpiti” dedicato alla memoria di Alberto Zedda, il 20 luglio; il 18 luglio “Soirèe Rossini” al Chiostro di San Domenico; il 30 il Concerto per lo spirito nella Basilica di San Martino; e ancora il 14 luglio “Gatta canta Gatto danza” a Palazzo Ducale, replica nel Chiostro di San Domenico il 17 e l’1 agosto. Nello stesso ambito, il 30 luglio “Notturno” e il 19 “C’era una volta Cenerentola!” (Festival Junior), con in cantanti dell’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti”, progetto e regia di Marco Bellocchio.

Costantini con Annese
Il capocollo fa gola ad Arlecchino
Alle 13 la presentazione del festival della Valle d’Itria si è conclusa con l’annuncio, fatto da Escobar, della scomparsa del regista Ermanno Olmi. Sia pure con amarezza la gente si è avviata verso un altro salone, dove Angelo Costantini, araldo di sua maestà il capocollo, la cui virtù è assicurata tre secoli, aveva allestito, insieme al Caseificio La Valle, un ricco “bouffet” con delizie portate dalla città dei trulli e del Festival: friselle, mozzarelle, taralli, olive, burrata, biscotti… dominati dal capocollo, che quella mattina al Piccolo faceva gola persino ad Arlecchino che occhieggiava da una gigantografia appesa alla parete proprio di fronte ai vassoi con la prelibatezza martinese nota e apprezzata dappertutto. Tutti hanno gradito questi sapori di Puglia: i giornalisti, numerosi, come sempre, ma anche le glorie della musica. Mentre li gustava, il professor Francesco Lenoci confessava di aver suggerito agli artefici del Festival di preparare dei “gadget” (medaglie, magliette, portachiavi…) con l’immagine di Giulietta e Romeo, simboli dell’amore vero.











mercoledì 9 maggio 2018

“LE COMUNITA’ MONTANE DI GIOIA E DI MOTTOLA” di Michele Annese




PRESENTAZIONE DEL DOTT. ANTONIO SILVESTRI,
già Presidente della Comunità Montana della Murgia Sud Orientale e Assessore regionale


Ad iniziativa della Fondazione “Nuove Proposte” di Martina Franca, è stato presentato il libro di Michele Annese “Le Comunità Montane di Gioia e di Mottola-L’avventura degli eterni Giovani della 285”. (BookSprint Edizioni,2017,pp.144, copertina di Marzia Annese).                                                                     


 

Il Presidente della Fondazione avv. Elio Michele Greco, ha espresso la sua soddisfazione per l’evento organizzato con la valida collaborazione della figlia Cinzia e del nipote Gianluigi Ancona, sottolineando l’amicizia e la collaborazione con Annese, in qualità di direttore della Biblioteca “C. Natale” di Crispiano e di segretario generale della Comunità Montana di Gioia del Colle, nell’attuazione di progetti di diffusione della cultura in Puglia, in Italia e all’estero, attraverso varie iniziative dal premio Ciaia (Un libro in premio e un premio in libri) alla biblioteca in vetrina, alla biblioteca in condominio, agli incontri con artisti e letterati; ecc.

Il dott. Silvestri, già presidente della Comunità Montana Murgia sud orientale e assessore regionale di Gioia del Colle, ha ricordato l’esperienza con Annese a livello politico e istituzionale, sottolineando la sincera e proficua amicizia e si è detto onorato di aver operato all’interno della Comunità Montana dal 1981, quando Annese fu chiamato a ricoprire l’incarico di segretario generale dell’Ente (incarico ricoperto per oltre 30 anni, di cui i primi 6 condivisi con la presidenza Silvestri). Il titolo del libro, ha detto Silvestri, dà il segnale di qualcosa di anomalo. Si parla di due Comunità Montane, prima era l’unica Comunità Montana interprovinciale in Italia, poi per legge regionale è stata sdoppiata nell’ambito delle rispettive province. Le Comunità Montane sono sorte come Consorzi tra Comuni, soggette purtroppo alle modifiche delle leggi e alle conseguenti modifiche del lavoro e degli interventi avviati. Nate come Ente cerniera tra Comuni e Regioni, di fatto le Comunità Montane non hanno mai espletato questa funzione, sono rimaste le cenerentole degli Enti locali, perché non c’era una linea di congiungimento tra Comuni e Regione. Esse dovevano inventarsi un ruolo, subendo continuamente un martirio legislativo. Le leggi successive hanno modificato il funzionamento delle Comunità, fino alla loro soppressione e sostituzione con le Associazioni dei Comuni. Tutte queste difficoltà Annese le evidenzia nel suo racconto, difficoltà da lui vissute nel ruolo di segretario generale; ha avuto il pregio, però, di dare all’opera un taglio giornalistico, grazie alla sua attività di giornalista di ricerca non di attacco.
E’ stata una scelta culturale, non esprime mai un giudizio sull’operato degli amministratori, nel rispetto dei ruoli; con linguaggio moderato ed essenziale, Annese riporta l’attività di tutte le Amministrazioni che si sono succedute nei 30 anni di vita della Comunità. Non è uno spaccato della vita amministrativa, ma una summa, l’insieme delle attività svolte; è un “libro-documento”, un libro prezioso per capire come si sono evolute le espressioni legislative europee applicate ai rapporti tra Enti nazionali, regionali, provinciali e comunali. Il principio di montanità non è stato mai consolidato in una definizione, è stata una materia fluttuante sempre alla mercé dei legislatori. Con ogni nuovo presidente si correva il rischio di perdere ciò che era stato realizzato in precedenza.
A differenza di quanto avviene nei Consorzi, i rappresentanti dei Comuni che entravano nel Consiglio della Comunità Montana avevano un ruolo di responsabilità nella gestione, ne rinnovavano la struttura e spesso i Comuni non erano votati alla collaborazione, ma al confronto orgoglioso tra loro. Era quindi necessario tenere legati i segmenti, per fare un unicum, era necessario adoperarsi per tenere salda la maggioranza, che doveva procedere nella programmazione e nella prosecuzione dei progetti avviati. Annese, senza esprimere valutazioni politiche sulla gestione amministrativa, mostra in tutti i passaggi competenza e conoscenza del modo di operare negli organismi amministrativi; ha vissuto il dramma legislativo, ma ha rappresentato la continuità della Comunità Montana. Soprattutto quando, con legge regionale, fu necessario rideterminare i perimetri delle due Comunità Montane, specificando che gli Enti dovevano risiedere all’interno del territorio provinciale e nell’ambito del territorio montano, si rese necessario lo sdoppiamento: la Comunità Montana della Murgia Barese Sud Est, 7 Comuni, con sede a Gioia del Colle e la Comunità Montana della Murgia Tarantina, 9 Comuni, con sede a Mottola.
Annese mostra, nel raccontare, che il provvedimento non è stato gradito, visto che il modello di organizzazione del lavoro, il clima di collaborazione e di amicizia presenti nell’Ente, veniva sconvolto. Il processo di smobilitazione e di scissione comportò la vanificazione di tanti progetti avviati; con una ulteriore disposizione legislativa (T.U. 267/2000) usciva dalla Comunità Montana il Comune di Martina Franca, perché superiore a 40 mila abitanti e veniva garantita l’entrata di Comuni non classificati montani. Il principio che si era consolidato, secondo il quale per lo sviluppo di un territorio è necessaria la collaborazione e la sinergia tra Comuni ed Enti esterni, veniva compromesso; diventava difficile coordinare paesi con economia di montagna e paesi con economia di pianura. (ricordiamo la polemica, a livello nazionale, suscitata da Rizzo e Stella con la pubblicazione del libro “La Casta”, nel quale la Comunità Montana di Mottola era diventata il simbolo di tutti gli sprechi della politica in Italia). E infine lo scioglimento, con cui la Murgia ha perso tanto, in termini di valorizzazione del territorio, fruizione di aiuti economici per il completamento di progetti e infrastrutture avviate. Quale quindi l’obiettivo che Annese si è posto nel ricostruire la vita delle Comunità? Si chiede Silvestri. Ringraziare gli ex giovani della 285, divenuti col tempo dei collaboratori. Inizialmente erano 126 i soci facenti parte di una cooperativa barese che si recavano a Gioia del Colle per interessarsi di problemi di forestazione, prevenzione incendi, irrigazioni, seguiti dalla nascente Comunità Montana, con i rappresentanti dei Comuni, riunitisi per la prima volta a Martina Franca, sotto la presidenza dell’avv. Nino Caroli Casavola. Non avevano un programma, un piano di sviluppo socio-economico, elaborato per la prima volta sotto la presidenza Silvestri con il coordinamento tecnico del dott. Nino Simeone; in pratica questi giovani non avevano niente da fare e non avevano nessuna garanzia di uno stipendio regolare.
Da sinistra: Brescia, Ricci, Palazzo, Palumbo, Annese, Castellano, De Palma, Colacicco
Di questa prima gestione purtroppo non ci sono gli atti. In 30 anni si era creato un gruppo capace di operare in modo coordinato, si era creata un’atmosfera operativa positiva. Successivamente però queste unità lavorative sono state costrette a cercare altri Enti in cui inserirsi professionalmente, per cui c’è stato un fuggi fuggi di persone preparate, verso Consorzi, Comuni, Provincia e Regione, sino alla stabilizzazione finale di 6 dipendenti. Ma non si possono dimenticare, ha concluso il dott. Silvestri, le tracce lasciate nel territorio della Murgia: infrastrutture territoriali, sperimentazioni in agricoltura, sostegno agli allevamenti, promozione turistica, nascita istituto alberghiero a Crispiano e la realizzazione del piano di tutela e di valorizzazione del bosco “Pianelle”, divenuta poi area protetta con legge regionale. Per questo progetto fu incaricata un’equipe formata dall’ing. Giuseppe Ancona, dall’arch. Stella Ancona, dall’esperta forestale Anna Maria Castellaneta e dal geologo Francesco D’Allura; Michele Annese nel suo intervento, ha subito ringraziato Elio Greco, presidente di “Nuove Proposte”, per il suo generoso contributo allo sviluppo culturale di Crispiano, con le brillanti manifestazioni e iniziative trasferite nel territorio crispianese, grazie anche alla collaborazione di Franco Punzi, cittadino onorario di Crispiano e alla vicinanza di Antonio Magazzino, sostenitore delle belle esperienze di gemellaggio con la Grecia, nelle vesti di sindaco, di vice sindaco e semplice cittadino. Un grazie particolare ha rivolto al grande amico Antonio Silvestri, primo presidente eletto alla Comunità Montana e con il quale Annese ha iniziato la sua attività di segretario generale a Gioia del Colle. A Silvestri è stato anche riconosciuto il merito di aver previsto, tra gli interventi dell’Ente montano, il sostegno finanziario anche alle attività culturali sul territorio e istituito l’ufficio stampa, affidato al giornalista Paolo Aquaro per favorire il collegamento con e tra i Comuni, l’attività degli amministratori e la comunicazione con gli operatori economici e turistici del territorio. In relazione al libro presentato, l’autore ha confermato il suo intento di rendere omaggio ai 126 giovani 285, protagonisti insieme agli amministratori che si sono succeduti, delle scelte fatte, dei risultati raggiunti.
La Comunità Montana ha contribuito validamente a rafforzare la speranza di quanti vivevano nelle campagne, a credere nelle loro risorse, a migliorare le proprie condizioni di vita. Le tante innovazioni, sia nell’agricoltura che nell’allevamento e le promozioni turistiche, culturali e sociali, hanno trasformato il volto delle campagne murgesi, ed è con vero rammarico, ha sottolineato Annese, constatare con quanta leggerezza sono state approvate leggi di scioglimento delle Comunità montane, con la conseguente perdita di risorse economiche europee. Il libro documenta pedissequamente quanto è stato fatto con l’entusiasmo degli amministratori e l’impegno dei giovani coadiuvati da validi professionisti incaricati, grazie ai quali sono stati attuati progetti di avanguardia.
Annese ha salutato e ringraziato i presenti in sala, avv. Enrico Pellegrini, già presidente, i consiglieri dott.ssa Antonietta Lella e Antonio Palmisano, i dipendenti Stefano Palazzo, Michele Ricci, Pietro Indellicato, Giorgio Aquaro, Michele Larato, i professionisti Nico Blasi, direttore del gruppo “Umanesimo della Pietra”, all’epoca promotore della rivista di cultura ambientalistica “Verde” e del progetto “Operazione grande albero” (classificazione delle Querce secolari), editi e finanziati dalla Comunità Montana, il rag. Antonio Tagariello, l’ing. Carmelo Schiattone, l’ing. Paolo Scialpi, il geom. Mino Marzulli, il dott. Martino De Cesare, il dott. Vincenzo Chirulli e Vinicio Aquaro, operatore culturale, promotore del “Premio letterario “Valle dei trulli”, la sig.ra Caterina Lofano che ha assicurato la prosecuzione della gestione della Biblioteca di Crispiano, la sig.ra Mariangela Liuzzi, presidente dell’Associazione “Minerva” e gli amici della Biblioteca dott. Martino Giacovelli, dott. Donato Greco, il Segretario generale dott. Donato Plantone e la moglie Ida Del Giudice. Un ringraziamento particolare Annese l’ha rivolto ai fautori dell’opera pubblicata con il “fai da te”, per l’impegno profuso dalla moglie Silvia Laddomada, dalla sig.ra Cristina Cianfarani e dal dott. Donato Basso. Al termine l’avv. Greco ha preannunciato l’assegnazione di una medaglia d’oro al prof. Vito Giampetruzzi, già presidente della Comunità Montana barese, quale premio “per l’opera meritoria di sostegno alle diverse iniziative culturali sul territorio ed in particolare il recupero e la valorizzazione dell’ex convento dei Frati Francescani Riformati di Santeramo in Colle”, che verrà consegnata in una prossima serata di presentazione del libro.

mercoledì 2 maggio 2018

Momenti insoliti sui mezzi pubblici


Il 2
LAMPI DI TEATRO DELL’ASSURDO

SUI TRAM E SUI TAXI DI MILANO


La presunta contessa che si fa
portare a Firenze e non paga;

il falso colonnello della Nato
ospite dell’ospedale psichiatrico
di Mombello;

il gatto che miagola sul metrò, ma è un giocattolo che fa impennare una passeggera.

Il violino che non fa fare cassa e
l’”artista” s’impenna.







Franco Presicci


Sui mezzi pubblici a Milano ogni tanto balenano lampi di teatro: l’anzianotto con in capelli lunghi raccolti a coda di cavallo sulla nuca, che dopo aver suonato in qualche maniera un paio di canzoni ed essere passato con un bicchiere rimasto vuoto improvvisa un sermone infiorettato di imprecazioni; la signora che sente miagolare un gatto, scruta sotto i sedili e sospettando che sia nascosto in una borsa dà in escandescenze e non si placa neppure quando si scopre che a gnaulare è un giocattolo sollecitato dal movimento del metrò.
Tram in via Montesanto diretto alla Centrale FS
“Una marea di alieni sono già arrivati sulla terra- avverte una seconda -, si sono impossessati dei nostri corpi e nessuno si accorge di essersi trasformato in un altro. Anche io sono posseduta da un essere che mi si era rivelato promettendomi un viaggio sulla luna”. La donna, sui cinquanta, bassina, bruna, tunica bianca, si era appostata alle spalle del conducente del tram e sproloquiava, mentre il tranviere, pur attento alle manovre di comando, ascoltava impassibile questo lungo racconto surreale che durò una decina di fermate. Alcuni stavano a sentire guardando con espressione ironica i vicini allibiti; altri commentavano riducendo la voce a un mormorìo; un signore sghignazzò; “E’ davvero un mondo da pazzi”, e fu ricambiato con uno sguardo compassionevole. Io, che andavo e tornavo in tram dal lavoro, accendevo il registratore, che catturava le sparate per la mia rubrica “Microfono segreto”.
Tram in via Albricci
Quando scoppiò lo scandalo del vino al metanolo, che costò la vita a una persona che abitava in viale Sarca, sul “2”, che allora aveva il capolinea in viale Lunigiana, una mattina i viaggiatori intavolarono una discussione accanita che dopo un po’ venne interrotta da un urlo da coyote di un tale dall’apparenza campagnola: “E’ tutta colpa della bomba tonica!”, facendo roteare un bastone con il pomo a becco d’aquila. E calò il silenzio. Un’altra mattina un altro personaggio, calvo, sottile, occhiali scuri, mentre il tram procedeva a singhiozzi verso piazza Cavour, esortava il manovratore a partecipare a un comitato che aveva lo scopo di abbattere le carceri, che “sono inutili, hanno un aspetto triste e offendono il paesaggio”. “Signori, biglietto!”. La voce proveniva dalla piattaforma, i passeggeri si affrettarono a tirar fuori delle tasche i documenti di viaggio, mentre l’agitatore cercava di sfuggire al controllore, ma si trovò di fronte a un gigante falla faccia severa, che non gradì la puzza di alcol che quello emanava farfugliando: “Non sapevo che a Milano per spostarsi bisognasse pagare”.
Tram in via Montesanto
Su un autobus pieno come una scatola di sardine una passeggera piuttosto anziana, un po’ sdogata, occhi stralunati, una siepe di capelli policromi pettinati alla Pippi Calzelunghe, vestita di nero come le donne in lutto nel Sud, un cappellino con la penna da alpino, si rivolse ad un’altra più giovane con residui di una bellezza seducente, e con tono imperioso: “Ehi, straniera, lo hai pagato il biglietto?”. L’interpellata senza fare una piega si alzo, le cedette il posto e le mostrò di essere perfettamente in regola. Sul filobus 90, che percorre come il confratello 91 in senso inverso la circonvallazione, sempre affollato di extracomunitari, un quasi sosia del sacrestano di don Matteo nell’omonimo sceneggiato televisivo, camicia hawaiana e giacca sulle spalle, tuonò: “Dicono che le pensioni le pagate voi, allora fatemi sapere perché a me non date mai una lira”. I presenti lo ignorarono e l’atmosfera non si arroventò, nonostante quello continuasse a blaterare.
Scene frequenti anche sui taxi. Anni fa Luigi Carcano, poeta e paroliere nato a Porta Cicca, descrisse una delle sue: “Un mezzogiorno sale sul mio taxi un tale che autorevolmente mi dice: ‘Sono un colonello della Nato, devo fare alcuni rilievi in Brianza per operazioni militari previste per la settimana prossima”. Luigi, autore di libri divertenti pubblicati dalla casa editrice Meravigli, parte, e appena fuori città viene invitato a fermarsi. Il sedicente ufficiale scende, fa cenno al tassista di seguirlo, gli fa reggere la borsa, ne estrae delle carte e studia il paesaggio, borbottando: “A destra, su quello spazio erboso, sistemiamo l’artiglieria; lì i bersaglieri, no, forse un po’ più avanti, oltre quell’albero è meglio; a sinistra, sul fianco di quella casamatta, i motociclisti…”. Parla e annota, poi si proclama soddisfatto e ordina: ’Possiamo andare, punti verso la provinciale’”. Luigi obbedisce all’ordine di imboccare un vialetto e di fermarsi davanti a una villa, “dove si trova il generale al quale devo riferire i risultati dell’esplorazione. Ritorno al massimo fra mezz’ora”. E va con passo marziale. “Aspetto con pazienza, passa la mezz’ora, ne passa un’altra, quindi vado dal custode per sapere quando potrà concludersi la riunione. Alla risposta Luigi resta senza parole: “Quale riunione? Questo è l’ospedale psichiatrico di Mombello”.
Pietro Carrideo
Al mio amico Pietro Carrideo, oggi sessantacinquenne, sposato con Lidia, tre figli, originario di Torremaggiore, qualche chilometro da San Severo, in Puglia, tassista per una vita a Milano, oggi in pensione, si presentò come contessa una donna di notevoli dimensioni: “Mi porti a Firenze”. Pietro mise in moto e, giunto a destinazione, fatti un bel po’ di giri, dovette proseguire, su indicazione della nobildonna, verso Prato. Dopo aver preso a bordo un’altra donna, indicata come dottoressa. Altri giri e ritorno a Firenze, quindi a Milano. Nessuna delle due aprì la borsetta, ma dettero appuntamento a Pietro il giorno dopo per altre ore di corse. Stesso atteggiamento quel giorno e l’altro ancora. “Poi penai parecchio per avere il mio denaro, che mi venne consegnato dalla dottoressa, che era stata a sua volta raggirata”. Altre vicende mi furono raccontate durante la pausa di un incontro di tassisti organizzato nel ‘90 in un locale dell’Idroscalo da Farina, capo dell’ufficio distribuzione del “Giorno”. In quella serata, Carlo, ex attore di teatro, appreso che ero alla ricerca di storie insolite, aprì il suo album: “Una sera mi chiamano da un ristorante di lusso, vado, ospito un signore distinto, gli chiedo dove devo portarlo, e quello mi fa: ‘Dove vuoi tu, cretino’. Sorpreso, rimbecco: ‘Guardi che la butto giù dal taxi’. Impassibile, lui mi porge 30 mila lire e ripete che sono libero di scegliere il tragitto. Poi i chilometri superano la cifra pagata e lui mi allunga altri 20 bigliettoni. Alla fine si decide a indicare l’indirizzo di un prestigioso palazzo del centro.
Tram che corre verso piazza della Repubblica
Quando ci arriviamo, abbandona l’abitacolo e impone a Carlo di aspettare. Trascorre mezz’ora e più, un colpo di claxon, fa capolino un uomo in divisa da maggiordomo, alto, in carne, con l’aria da generale dell’esercito. ”Desidera?”. “Sto aspettando il signore che è entrato lì dentro”. “Ma il signor conte è già a letto”. Enzo: “Un giovane su una Volvo mi dice di non riuscire a raggiungere l’autostrada per Genova, e mi chiede di fargli da guida’. Accetto, ma appena il furbastro riesce ad orientarsi accelera e sparisce”. Rividi Lugi nello studio-galleria del pittore Aldo Cortina, in vicolo dei Lavandai, Poco prima era andato via Bettino Craxi, di cui Aldo, di Belluno, già allievo di De Pisis, titolare della Libreria Universitaria di fronte alla Statale, presidente del gruppo pittori di via Bagutta, era amico. Si inaugurava una delle sue mostre, ispirata al Naviglio Grande e alla vecchia Milano. Luigi mi fece una strizzatina d’occhi, mi avvicinai e mi offrì un tulipano a stelo lungo con due dita di bianco secco. “Quando possiamo parlare tranquillamente?”. “Molto presto”. Mi sorrise, sorseggiando da intenditore. Era un milanesone del ’20, cresciuto nel quartiere più popolare della città. Autore di tanti brani, come “La metamorfosi di un terrone”, finalista nell’83 al Festival della canzone meneghina. Le sue storie in dialetto sono raccontate con Luigi Carcano da Giovanni Luzzi nei Libri “Parla el Luisin tassista” e “Parla el tassista”, pubblicati dalla Meravigli. Avvocato penalista, studioso di psicologia giudiziaria, cultore del dialetto, autore del volume “Inscì parla la mala”, de “Il giallo della stretta Bagnera”, di commedie, poesie… Luzzi era nato nel 1901 da una famiglia milanese benestante di origine emiliana. Fu il più giovane laureato d’Italia.