I NONNI RACCONTAVANO
SEDUTI VICINO AL BRACIERE
Taranto vecchia |
I tempi della guerra, le bombe, i
disastri, le persone incontrate, i
paesi visitati, gli utensili.
I nipoti domandavano notizie
“d’u strecatùre”,
“d’u scarfalìette”, di tanti altri
oggetti, e avevano risposte.
Franco Presicci
Ci sono momenti in cui non si riesce a frenare i ricordi. Baluginano, incalzano, si ritraggono, ritornano, scorrono come l’acqua dal rubinetto, procurando piacere o rimpianti. Ed ecco, nelle pause delle partite a tombola, aprirsi il sipario sulle vie più battute, i paesi visitati, le persone incontrate o frequentate; gli oggetti usati: il braciere; il lume a petrolio, in uso fino al 1930 e oltre; a “fracère” in rame, da alcuni incastrata nel vano di una pedana, dove si appoggiavano i piedi. Nel braciere si accendeva la carbonella, e quando la cenere ammantava la brace la si rimuoveva con una paletta di ottone. “Non state troppo vicini al fuoco”, era l’esortazione diretta ai ragazzini; “scenò v’avènene le ‘sazizze’ a le jàmme”. Nella cenere si affondavano i ceci e le fave da mangiare “arrustùte” appena raffreddate. I nonni raccontavano storie antiche, ricorrendo alla fantasia quando il magazzino si svuotava. E ancora oggi alcuni vegliardi sono fonti ricche e limpide per nipoti interessati.
'U brustelatùre e 'a statère. |
Tieni a mente il ferro da stiro che si riempiva di carboni? Stuzzica Manuèle, un vecchio che può considerarsi ambasciatore del passato. E ‘u brustelatùre d’u cafèje; “’a statère” (la bilancia a molla); l’”assucanghiòstre”, il tampone; “’u scarfalìette”; il grammofono a tromba; “’u macenìne”; “’a cadàre”…? “Fermo lì! – lo blocca simpaticamente la sua pupilla ventenne, versando l’olio “indra ‘a tièdde pe’ le sannacchiùtele e le pèttele” -. “Nella caldaia, ‘a cadàre’, ben sistemata nel buco della cucina in muratura, si bolliva l’acqua per il bucato, si cuocevano i pomodori per la salsa, le cime di rapa nelle famiglie numerose…”. Risposta esatta.
Ferro da stiro e lumi a petrolio. |
Tra i “Mi ricordo” chi non vuole essere da meno elenca le ‘caccavèdde’, le ‘rezzòle’, il trapano a mano per ricucire i capasoni crepati; il cilindro di vetro con la pompa utilizzato “p’u ‘nderoclìsme’”…E allarga il campo aggiungendovi i giorni della guerra, la miseria, la fame, la paura; la carta annonaria da presentare anche per i quotidiani 50 grammi di pane a testa; la maschera antigas del capofabbricato. Che – come ricorda Giacinto Peluso in “Taranto: dall’Isola al Borgo” – tra i suoi vari compiti aveva quello di guidare al rifugio assegnato i propri coinquilini, in caso di allarme; e “di adoperarsi perché non filtrasse mai la luce dai balconi”. Peluso, appassionato storico della Bimare, descrive anche i disastri provocati dal conflitto, in via Anfiteatro, in via Pupino, in via Pisanelli…: e la gente che abbandonava le case per trovare riparo a Crispiano, a Martina…
Misurini per l'olio o il vino. |
Nella riunione natalizia con i parenti Cosimino, che per l’età biblica è alquanto ascoltato, ha ricordato il soffitto puntellato al piano terra per renderlo resistente (speranza debole) a un “pacco” micidiale che poteva cadere dal cielo; il cassone riempito di sabbia nell’androne, a un metro dal portone, “per difendersi da eventuali schegge distruttive”; le persiane da tenere rigorosamente chiuse al calar del buio per non esporre la zona a un agguato dall’alto; la sirena e il tuono dei cannoni; i palloni frenati sul Mar Grande a protezione, si pensava, delle navi che vi erano ancorate; le strisce di carta incollate con la “coccoina” o con la colla arabica sulle vetrate per scongiurare un altro pericolo: i frammenti di vetro in caso di spostamenti d’aria creati dallo schianto di un ordigno.
Giacinto Peluso |
“Nonno, che cos’era ‘‘u strecatùre’”, domanda il marmocchio. E il nonno impartisce la lezione: “Era una tavola scanalata su cui si strofinavano i panni intrisi di sapone. La si teneva immersa ‘indr’a l’acque d’u lìmme’, un vaso piramidale mozzato. La fabbricava un artigiano ambulante, detto ‘strecaturàre’”. “E l’”assucapànne”? “Un intreccio di nastri di legno a forma di cupola che si sistemava sul braciere per asciugare la biancheria”.
Un altro nonno, 83 anni mascherati: “Quando terminò il conflitto, il braciere continuò a lungo il proprio ruolo”. L’alternativa era “‘u uacìle”, la bacinella destinata alle abluzioni. Un episodio raccontato con malcelato scherno aveva come protagonista un giovanotto, che, mandato a prendere ”u uacìle” a casa dai genitori impegnati in una veglia funebre nell’abitazione di un congiunto, ingannato dalla cenere all’apparenza innocua, avvolse l’ingombro in un giornale per nasconderlo durante il trasporto. Il movimento fece riemergere la brace che investì il foglio e il malcapitato fece appena in tempo a non bruciarsi. Chi notò la scena ne fece la cronaca dettagliata con qualche aggiunta ed esplose lo sfottò, sport molto praticato.
“Abbiamo sempre scritto – ricorda Giacinto Peluso in ‘Taranto, da un ponte all’altro’, edito da Mandese - che per un certo periodo della nostra vita abbiamo considerato l’area dove abitavamo (la città vecchia: n.d.a.) un vero e proprio palcoscenico sul quale si avvicendavano ad ore quasi immutabili e nei giorni non festivi personaggi che oggi ci appaiono singolari per le attività che svolgevano. Ad orario fisso, quotidianamente, passava ‘’u conzalùme’”.
'U lìmme. |
Chi era costui? “Una figura che aveva un parte importante… per quanto concerneva l’illuminazione”. Sostituiva “’u tùbbe” rotto o riparava “’u bècche”, dentro il quale era infilata “’a gazzettèlle”, lo stoppino che dallo stesso becco affondava nel petrolio. Se “’a gazzettèlle facève ‘u cuèrne”, cioè difettava generando fumo, tagliava la parte annerita. Il mestiere scomparve con la defenestrazione del lume, che si trasferì nei depositi dei rigattieri e a volte in quello “d’u pezzàre”, al quale Diego Fedele ha dedicato una delle sue brillanti poesie: “Scève gerànne d’a matine ’a sère/ cu ‘na carrètta ttòtta sgangaràte; / tenève ind’a ‘nu sàcche le mestère/ c’arrabbattàve pùre/ ce ‘nu vestìte jève già strazzàte”… Chi ha dimenticato “u zepèppe” alzi la mano. “Nà, ‘u zepèppe’, il vaso da notte, detto anche “prìse”, “càndere”, “necessàrie”, “servezziàle”. Sagoma a tuba, oggi ha una sua dignità, assegnatagli dagli amanti delle sopravvivenze di quell’epoca, che vi piantano i fiori.
'U prìse'. |
Occorre fatica per non debordare, commentava un amico molto anziano dalla memoria inossidabile, che faceva balenare il vecchio barbuto, scorbutico che era solito a raccogliere i mozziconi delle sigarette Popolari, Macedonia, Nazionali; il postino che urlava negli androni dei caseggiati i nomi dei destinatari della corrispondenza e si fermava a chiacchierare con le massaie; “mèst Necole” che tutti i giorni passava con il carretto carico di frutta; il venditore di “gràtta-gràtte”, bibita colorata ottenuta trascinando una sorta di pialletto su una stecca di ghiaccio (strumento e prodotto portavano lo stesso nome); l’“aùre” e “’u munacjidde” (folletti birichini); lo spazzino che con un sacco in spalla saliva fino ai piani alti per prelevare l’immondizia lasciata fuori della porta; i ragazzini più fortunati che avevano la rana a corda che correva sul ciglio di una pista senza sconfinare; la farfalla che a comando muoveva le ali, il trenino, il motociclista: tutti di latta; e quelli che possedevano sì e no un Pinocchio di legno, e giocavano con una vaschetta piena d’acqua, in cui varavano navi di carta che bombardavano con cinque o sei mollette in funzione aeronautica. Una specie di battaglia navale.
Il braciere. |
A Enzo, oggi ottantaquattrenne e medico in pensione, la Befana portò cinque soldatini di piombo. Uno scomparve; e Enzo pensò che avesse deciso di disertare. Invece era stato catturato a tradimento da un discoletto che gli girava attorno. Non potè riprenderlo: vinse la tattica del nemico. Tra le reminiscenze, la guardia Fumarola, un tutore della legge tanto severo da far sorgere la diceria di aver elevato una contravvenzione persino alla moglie colpevole di aver steso i panni sul balcone? “Non è vero”, spiegò il vigile scelto all’autorevole storico Nicola Caputo, tra l’altro autore di “Vieni, c’è una strada nel Borgo”, editrice Scorpione. “Eseguivo soltanto il mio dovere”. Ed eseguendolo aveva perseguito un esercente furbacchione, che lo accusò di maneggiare la penna come uno stiletto; e rincarò la dose inserendo la signora nell’elenco delle “vittime”. Si sa che quando una voce irrompe riesce difficile spegnerla. Eduardo Fumarola faceva onore alla divisa.