TRASFORMAVA IN OPERE D’ARTE
I TRONCHI DEGLI ALBERI SECCHI
Ha smesso perché le sue sculture venivano sfregiate o trafugate.
Scomparve anche un San Francesco che tira Gesù giù dalla croce.
La Zona 9 lo ha insignito dello “Zonino d’oro”; e lui lo dice con orgoglio.
Franco Presicci
Nell’aprile del 2005 un giornale scrisse che Milano doveva prendere esempio da Lugano, “dove le piante morte non le tagliano, ma le scolpiscono”. E’ quello che stava facendo Giuliano Folcia, oggi ottantasettenne, in quell’oasi di verde che è il Parco Nord. Ogni santo giorno lo raggiungeva in bicicletta e trasformava in un cane, in uno scoiattolo, in una tartaruga, in una figura umana i tronchi mozzati degli alberi stroncati dalla malattia.
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Giuliano Folcia |
Nato a Cinisello Balsamo e subito trapiantato a Milano, dal ’64 Folcia sta di casa in via Monterotondo, al quarto piano del civico 8, nel quartiere Niguarda, a due passi dalla chiesa di San Martino, del XV secolo, e dalla cascina, sede decentrata del Comune e dei “ghisa”. Al Parco ci va ancora, non più sulla “due ruote”, ma in tram: e osserva il paesaggio, seduto sempre sulla stessa panchina, quella piazzata subito dopo l’ingresso da Cinisello . “E penso al mio alpino, al quale di notte qualcuno staccò la penna del cappello e all’uccellino segato e trafugato”. Stessa sorte toccata allo gnomo con il piffero seduto su un fungo; e al San Francesco che tira giù Gesù dalla croce… “Io volevo abbellire il Parco, e avevo ottenuto l’autorizzazione ad adoperare scalpello e mazzuolo. La gente apprezzava i miei lavori, tanto che li fotografava e mi regalava la copia. Guardi qua le immagini dello scoiattolo, dell’elfo che suona la fisarmonica, della fontanella, della conchiglia. dell’arrotino… Con l’età, artisticamente ho acquisito maggiore manualità…Il mondo è cambiato. E’ cambiata in tutti i sensi anche la nostra zona. Tra l’altro si è riempita di case. Una volta c’erano gli orti ed era meno popolata; si assaporava un’aria da borgo antico, con il fabbro, l’arrotino, il falegname. Tante cose sono venute a mancare a Milano, voci, spazi, figure…Non la riconosco, la mia città”. Parla a raffica, si alza, gesticola, si commuove. Ne ha da dire, di cose, quest’uomo alto, dalla bella faccia tonda, dal sorriso dolce.
L’dea di creare al Parco Nord una sorta di galleria d’arte tra i viali e sull’erba gli venne ammirando la natura. “Già da ragazzo, alla scuola elementare, nel disegno mi distinguevo”. Il padre lo mandò a Brera per un corso, ma lo frequentò per pochi mesi. “Sa, c’era la guerra, con i bombardamenti… massacrarono la Scala, la Galleria, piazza San Fedele, il quartiere di Greco…; e c’era la miseria. Così dovetti andare a lavorare. Imparai a fare il tappezziere, l’imbianchino, il verniciatore e a rivestire le pareti di carte da parati”. Verso i 40 anni cominciò a dipingere. “Facevo mostre, partecipavo a collettive, vincevo premi; ma i compratori latitavano. Poi presi a cimentarmi con la scultura. Realizzai un paio di scarponcini, piacquero a uno che se ne intendeva e mi sentii stimolato a continuare”.
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Mentre parla mi indica pregevoli esemplari collocati su un mobile in cucina: eseguiti in una stanzetta, occupata dal bancone, da sgorbia, pettinella, subbia, gradina… E mi mostra i riconoscimenti ricevuti: uno dei tanti lo “Zonino d’oro” assegnatogli dal consiglio di Zona 9 come “scultore del Parco Nord”. Nel 2003 a Villa Litta ha vinto il primo premio per le opere in legno. “Usavo il tiglio, soprattutto il cirmolo, che non hanno venature, e qualche volta anche il ciliegio e il nocciolo. Acquistavo le travi da un falegname di Civenna, sul lago di Como, le facevo tagliare e le depositavo in cantina. Sono cresciuto nell’arte. Il medico mi ha detto che mi fanno più bene le mie sculture che le medicine. Nel farle, provo un’emozione forte, difficile da descrivere. Più forte quella che provavo al Parco Nord. Era come se, incidendo quei tronchi secchi, dessi loro un’altra vita. Non ho titoli di studio, non ho potuto conseguirne, ma ho sensibilità”, aggiunge Giuliano, il “nonno del Parco Nord”.
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Folcia alle prese con un volto |
E’ cordiale, avvincente, orgoglioso dei suoi manufatti, che comprendono le statuine per il presepe. “E ama la pesca”, interviene Marilena, la moglie, che lo incoraggia, colma i vuoti che lui lascia mentre si racconta”. “Marilena è il mio amore da 47 anni – esplode lui accarezzandola – Litighiamo, ma il litigio rafforza il sentimento. Marilena mi ispira, condivide la mia passione. Un’altra moglie non avrebbe permesso che una stanza venisse adibita a laboratorio”. E’ Marilena a tirare fuori del cassetto le foto che ritraggono il marito al Parco mentre cambia i connotati a ciò che resta di un albero rigoglioso. “La nostra vita si snoda all’ombra degli alberi”, commenta Giuliano. E io penso alla poesia di Wang Ya-P’ing: “Un albero secco/ fuori della mia finestra/ solitario/ leva nel cielo freddo/ i suoi rami bruni…Ogni giorno quell’albero/ mi dà pensieri di gioia: / da quei rami secchi/ indovino il verde a venire”. L’albero è un simbolo, un organismo che si sviluppa, un monumento; ha una sua personalità. Mi affascinano l’ulivo e il fico. Il primo nell’”Odissea” è utilizzato per il talamo nuziale di Ulisse; il secondo appartiene a una famiglia numerosa; è di origini remote, robusto, resistente, attecchisce anche nei terreni più avari; ai suoi piedi si rintanarono Adamo ed Eva dopo il peccato. Lo vedo, il fico, sui bordi di qualche viale, al Parco, con le sue palle da albero di Natale, quando è tempo.
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L'alpino sotto la neve |
Anche a Giuliano Folcia piace il fico. Ce n’era uno in un cortile di corso Garibaldi, all’angolo con via Moscova. E’ finito nell’archivio della memoria. Come l’antica via dei Guast (oggi via Anfiteatro), inondata dagli odori delle osterie e formicolante di carbonai, straccivendoli, imbianchini... “Accanto alla mia porta, c’era una trattoria che faceva il castagnaccio. Da ragazzo andavo a venderlo all’Arena, dove giocava anche l’Ambrosiana. Nel 1894 e nel 1906 in quell’”anfiteatro” si esibì il Buffalo Bill’s Wilde West, con William Frederick Cody che “eseguiva volteggi da fare invidia a un clown”, a sentire Emilio Salgari.
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Dal tronco secco l'alpino |
“Adesso sono al capolinea”. “Al capolinea il tram riprende la sua corsa”. “Sì, ma io non sono il tranvai. Mi hanno messo il ‘pacemaker’ e le gambe mi danno problemi…”. E’ anche molto simpatico, il “nonno del Parco Nord”, circondato dall’affetto di centinaia di persone, soprattutto dei bambini che quando lo vedono smettono di dar pedate al pallone per parlargli, chiedergli dov’è finito lo gnomo con il piffero o quando riprenderà a tirar fuori dei tronchi le sue magie. Qualcuno lo prega di vendergli una tartaruga o un riccio, una lumaca; ma lui non gradisce. Qualche volta cede all’insistenza, spinto dai languori della sua pensione. E’ un uomo buono, spassoso, schietto. “Vedo tanta tristezza in giro, e ne soffro. So che la vita non è tutta rose e viole, ma un po’ di serenità non guasterebbe”. Tornerà a scolpire al Parco Nord, magari in una giornata di sole? “Non credo. E poi, ripeto, sono al capolinea”. Ho l’impressione che lo dica per scaramanzia.