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Petrosillo in una litografia di Mandel |
(In appendice: ALEA-ALEA, A’ RREVAT’A FESTE DE SAN CATAVETE(Filastrocca di Presicci come omaggio al cognato Dino, che sta in cielo).
ALFREDO
LUCIFERO PETROSILLO
POETA, COMMEDIOGRAFO, SAGGISTA
Molti
lo considerano un mito.
Ha vinto Premi,
ha scritto libri, ha
diretto giornali tra
cui
“’U Panarjidde”, periodico satirico
edito
da Vincenzo Leggeri sin dal
1902.
Strillone
straordinario Marche Poll,
al secolo
Amedeo Orlolla.
Franco Presicci
Ero quasi ancora “’nu uagnòne” quando cominciai a leggere le poesie di Alfredo Lucifero Petrosillo: in casa lo conoscevano e si parlava spesso di questo poeta e commediografo in lingua e in dialetto tarantino, che, nonostante fosse una “firma” di tutto rispetto, seguita e amata, era una persona alla mano. Poco prima delle 16.30, ora in cui suonava la sirena dell’Arsenale per segnalare l’uscita dei dipendenti, un pomeriggio mi piazzai all’angolo tra via Leonida e via Di Palma, vicino all’edicola che stava sotto un grosso albero ad ombrello e aspettai mio padre, che sbucasse tra la folla. Improvvisamente intercettammo don Alfredo.
Per la prima volta potei scambiare due parole con lui, che camminava con passo spedito, quasi ballando. “Questo è mio figlio”, gli disse papà. E lui mi regalò un sorriso amabile, ponendo una mano sulla mia spalla. Poi mi fece tante domande: sulla scuola, sulle materie che mi piacevano di più, sugli insegnanti e su che cosa avrei voluto fare da grande. Mi fece un’ottima impressione. Non aveva un tono paterno e mi trattava come fossimo amici da tempo. Avevo 13 anni? Qualcuno in più?
Con il passar del tempo incontrai uno dei suoi figli, Pierino, che frequentava il liceo scientifico, dov’era in classe con mio cugino Enzo, che da medico in pensione è da anni “cittadino” di Lecce, la città che stando alla leggenda fu edificata un secolo prima della guerra di Troia. Un giovane che abitava nel mio stesso palazzo ed era come me un appassionato della lettura mi dette in dono altre poesie di don Alfredo, dicendomi che per lui l’artista era un mito. Le divorai e qualche giorno dopo le ripresi in mano e mi appassionai; quindi cercavo di sapere qualche frammento della sua vita privata sollecitando l’omonimo di San Pietro, che collezionava il “Giorno Ragazzi”, ma la curiosità naufragava nel silenzio.
Ero “’nu uagnòne cchiù grànne”, una ventina d’anni, forse più, quando ebbi la possibilità di scrivere su “La Tribuna del Salento”, settimanale di Lecce dell’onorevole Ennio Bonea, che insegnava all’Università della città che fu nel cuore di Federico II e per il suo splendore venne esaltata come la “Firenze del barocco”. La redazione era in via Ammirati, 12. Mi venne l’idea d’intervistare il poeta tarantino; ne parlai a Totò Vergari, pilota del giornale, che mi rispose subito di sì. Petrosillo mi ricevette in casa sua, dove mi accolse von una cordialità che alleviò il mio imbarazzo.
Mi sentivo importante mentre don Alfredo si raccontava con scioltezza, guardandomi con quegli occhi come olive tonde, lucide. Ripercorreva i suoi primi versi; descriveva il piacere che provava quando li componeva; il suo amore per Taranto, dove era nato il 16 giugno del 1905 da un impiegato del Comune… M’incantava quando “accarezzava” la Bimare, le sue preziosità, le caratteristiche architettoniche di certi edifici, la sonorità di alcune parole dialettali. Il dialetto, che masticavo con gioia di nascosto da mia madre.
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La Dogana
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Amavo il Mar Piccolo, le lampare, le paranze, i venditori di pesce che urlavano la freschezza della loro merce, le scalinate dai gradini corrosi, la via di Mezzo, poi da me attraversata tante volte, le “strìttele”, e mi amareggiavo nel vedere le facciate puntellate di certi stabili con gli occhi tappati, perchè all’interno non c’era più nessuno. Non lo dissi a don Alfredo: tenni a cuccia la presunzione. Io dovevo soltanto ascoltare: ero ancora “nu mezzòne” e lui un monumento. Gli chiesi dei suoi lavori, e lui mi citò “Trasparenze”, versi del 1925; “Gente latina”; “I canti”… le commedie “Lo spettro del tempo andato”; “’A fumèche”, andata in scena al Teatro Orfeo nel 70 ; “Tarantine so”, applaudita sempre all’Orfeo due anni dopo, “ ‘A sorte d’u penziunàte”, che ebbe le luci della ribalta nello stesso anno, e altro ancora.
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Piero Mandrillo, a destra
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Ero già a Milano quando Piero Mandrillo, uomo dalla cultura senza fine, mi parlò a lungo del poeta e commediografo, soffermandosi su “’A fumèche”, che aveva visto e apprezzato. Amava anche il teatro, Piero, e il nostro dialetto, pur essendo nato a Pulsano, dove gli hanno intestato la biblioteca.
E sempre a Milano Alfredo Lucifero Petrosillo, a cui non ho mai smesso di dare del lei, mi mandò una copia di “’U travàgghie d’u màre” con dedica: “Al chiar.mo giornalista Franco Presicci la voce e il cuore della nostra città natale, nostalgico ricordo, là, nella bruma della babelica Milano, con fraterna, sincera amicizia”. Nelle prime pagine s’informava che il Premio “Vincenzo Leggieri” era stato assegnato proprio a lui; Il secondo premio, raddoppiato, assegnato, ”ex aequo”, a Cataldo Acquaviva e a Diego Marturano. La notizia era stata pubblicata da “’U Panarijdde”, il periodico satirico tarantino che don Alfredo diresse con saggezza. In un’altra pagina Cosimo Palumbo faceva il ritratto dell’autore: “Mùse pezzùte, uècchie vìvele e chiare/ irte e suttìle cume ‘u calaprìce : ‘u irre e orre fàce cu l’amice/ e ssèmbe fuce cunme a ‘na jumare/ Ma tene ‘u core po’ ‘na cosa rare…”. Lessi subito i primi versi “d’u Travàgghie”: “’A vie d’u cìele luce de tand’uècchie/ Appezzecàte ammìccene, se stùtene/ E’ segnore de rìghe d’ore e argiènde/ A cupele turchine granna-granne. E ind’u prufonde abbisse chète ‘a terre/ Se vonne a sprufunnà le stedde morte/ ‘U mare cittecitte stè abbattute…” e mi commossi.
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U Panarjidde del 5 luglio '48 |
Il mare ammalia, rapisce, incanta, abbaglia. Il mare “quànne rùsce” sembra avere voglia di comunicare. Il mare ha una sua magia. Io sono nato al borgo ma appartengo a “Màre Pìcce”; e ancora oggi, dopo tanti anni in Lombardia, nei momenti di depressione, trovo compensazione nel ricordo dei giorni trascorsi sotto la tettoia della dogana ad osservare i pescivendoli che spruzzavano acqua su scorfani e dentici o su cumuli “de còzze gnòre” e proponevano una miriade di frutti di mare in piatti concavi di terracotta.
Ricordo tanti scritti di don Alfredo. Per esempio “Uomini e libri”, “Visioni ebaliche... E ricordo anche i saggi. E tanti versi. “Nuovo Sisifo”, del’46, che custodisco gelosamente anche perché datomi da mio padre mentre parlavo con la nonna, che sferruzzava stando dietro la persiana che dava sulla strada.
Era da tanto tempo che pensavo di scrivere dei poeti di Taranto: Diego Fedele, che mi aveva conosciuto bambino, mentre osservavo un mio parente intendo a fare gli orli di cemento attorno alle aiuole nel cortile di fianco al suo (mi vengono spesso in mente alcune sue poesie: “’U rafanìedde”, con doppio senso, “’U conzagraste”, “’U caggiuniere”…); Diego Marturano (“’U relògge d’a chiàzze”, che emoziona fortemente soprattutto nella recitazione di Amelia Ressa in un video realizzato dall’Associazione Vito Forleo); Alfredo Nunziato Maiorano, Claudio De Cuia… E non perché sui social si susseguono appunto i video, come quello con la poesia “’U fatiatòre” dello stesso Petrosillo in occasione della giornata del dialetto.
E’ antica la mia passione per questi personaggi, tutti scomparsi: don Alfredo il 12 aprile del ’77, quindi quest’anno ricorre il 44esimo anniversario della morte. A Taranto non li hanno dimenticati, anche per merito di gruppi come “Taranto com’era”; “Taranto di una volta”, “Memorie tarantine”…, che su Facebook pubblicano foto e pensieri di Antonio De Florio, Carmen Adamo, Nicola Cardellicchio, Nicola Giudetti, che “cu ‘a zòche so’ attaccàt’a Tàrde nuèstre cum’a le cozze de Mare Picce”...
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Nicola Giudetti
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Quando ho telefonato proprio a Giudetti, artista e collezionista di cose in uso una volta (e fautore della processione dei Misteri in terracotta con “perdùne” fra balconi di palazzi imbandierati, bene esposti in quella specie di museo che ha in un locale della città vecchia), per avere una foto di Petrosillo in pochi minuti l’ho ricevuta.
Petrosillo s’impose presto nell’agone culturale. Aveva solo 17 anni e pubblicò i sui primi versi, seguiti o intervallati dalle commedie, tra cui “Don Giuànne Casavècchie”. E negli anni ha incrementato la sua felice produzione. La sua è stata una vita dedicata all’arte della penna. Uomo schietto, pane al pane e vino al vino, attento nello stringere un’amicizia, un po’ polemico. “Quuan,’ave ‘na parole, mìce-mìce/ se nn’esse cume ‘u cècere ind’a cucchiàre, cind’arte fàce e a tutte ’nge rièsce/ e sse lamènde po’ ca stè ‘mmazzèsce…” (ancora Cosimo Palumbo, nel ’46), che lo conosceva bene.
Quando uscì il mio articolo mi inviò una lettera in cui mi diceva che se avessi voluto mettere giù ancora un articolo su di lui mi sarei potuto rivolgere all’Archivio di Stato, dove avrei trovato tutto il materiale utile. Da allora non l’ho più visto, don Alfredo.
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Foto di Cataldo Albano
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Ma ho continuato a leggerlo: “’U vècchie stè ‘ngandàte ‘m bacci’u mare/ E ‘u mare, ‘ndenerìte,/ t’u tremende/ Le parle citte-citte e ‘u vecchie sènde/ ‘U fiate, quedda vocia mascijare/ Ca tande e ttanda vote l’ha parlate…”. Titolo “Chiudde”, parola sulla quale fece uno studio Piero Mandrillo e Giacinto Peluso ipotizzò un significato etimologico (ciurma) e anche il Rohlfs. Secondo altri è il pescatore della Taranto di una volta, un po’ rozzo.
Rozzo o no, “chiudde” è una parola che mi piace, come mi piacciono i pescatori in cui m’imbatto quando mi faccio pellegrino nel borgo antico: gente cortese, disposta al dialogo, curiosa di sapere chi sei e da dove vieni. Ne ho incontrati tanti “abbàsce ‘a marine”, sorpresi a rammendare la rete o a conversare. Il grande fotografo Cataldo Albano, tarantino verace come le vongole, ha immortalato con maestria “pescatùre” sui pontili e sulle imbarcazioni e il mare che mormora e sciaborda contro gli scafi, esponendo poi i quadretti in una sua mostra al Castello Sforzesco, a Milano e a Verona, con presentazioni di Francesco Lenoci. Anche lui esalta la poesia di don Alfredo Lucifero Petrosillo, che con le sue opere alimentò settimanali e quotidiani, compreso “’U panarijdde”, “quidde peccine ca no lasse de pète a nesciune” o “ca no’ ‘a perdòne manghe a Ccriste”. Quanti tarantini hanno acquistato da Marche Poll, al secolo Amedeo Orlolla, “’U panarijdde”, che Vincenzo Leggeri, nato ad Altamura, in provincia di Bari il 2 febbraio del 1873, fece uscire nel 1902.
Arcidiocesi di Taranto: Giubileo per i 950 anni del ritrovamento del corpo di S. Cataldo
Statua di San Cataldo che si venera nella Basilica
Cattedrale di San Cataldo di Taranto, realizzata da
Virgilio Mortet.
ALEA-ALEA, HA’ RREVAT’A
FESTE DE SAN CATAVETE
(un
messaggio a mio cognato, che sta in cielo)
Alèa-alèa,
hà’ rrevàt ‘a fèste de san Catàvete
e
a Tàrde, ‘a cetàte ca ‘stu sande defènne
‘na
vòte se facève ‘nu ruète
pruggessiòne,
‘a ‘nzègne purtàte mmìenz’a mmàre
cu
cìende vàrche vùne ret’a l’òtre
fuèche
sparàte d’ògne vànne
‘a
bbànne ca sunàve ’mbrà tànda lumenàrie
pe
fa’ anòre ‘o sànde
ca
passàve sòtt’u pònde ‘ndramènd’a ggènde
‘ngandàte
lucculàve d’allecrèzze
Mò
‘u tradetòre assassìne ca no s’arrènne
vo
cu fàce scurèscere ‘a devuzziòne
cum’hà’
fàtte cu le Mestère
tutt’indr’a
ccàse achiùse cum’a ‘ngalère
o
a ‘nu cumènde
‘ngorchie
lùce appezzecàte sus’a ‘nna lògge
e
tànde priamìende: “Catàvete mije
fàmme
‘na gràzzie
no’nge
penzà sùl’a le furastìere”.
Mò
‘a clausùre l’hònn’apìerte
ma
ama stà’ ssèmbe cauteràte
pur
se ‘na criànze, n’anurànze a San Catàvete
ca
le meretèsce l’hònne penzàte
Canàteme,
ca stè’ ‘mbrà le stèdde
se
mundevàve accùm’u sànde
e
ci sàpe ce dice d’addà ssùse
ssèmbe
pe’ ‘sta recurrènze vulève scè’ a Tàrde
e
quànne no’ge putève p’amore c’a Melàne
ère
abunesìnne ‘nu cape de rròbbe
e
no’nge putève lassà’ ‘u travàgghie
tùtte
mangupàte, ‘a fèste
s’a
facève cundà’ d’o fràte
Je
‘nu zùmb’a Tàrde vècchie ‘u facève
e
accattàve nùce e nucèdde
lupìne
e spassatìembe
e
sendève pùre l’orchèste
ca
stàve sus’a casciarmòneche
ma
no’nge aspettàve tùtte l’amìce mije
ca
rumanèvene ‘nzign’a quànne lucescève
presciànne
indr’a chiàzza Fundàne.
Catà’,
tù’ te l’arrecuèrde ’sta festesciàte
sul’a
fatje te mandenève, fràte mije
e
mo’ t’u dìche chiàre e tùnne:
quànne
arrìve ‘u ggiùrne d’u prutettòre
je
mànne ‘nu penzìere a ttèje
ca
stè’ ssèmbe indr’a ‘stu còre
e
ngorchie vòte a le taulàte
a
le piàtte ca preparàvene le mugghière
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Dino Bucci
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Da
quànne te ne sciùte tùtte s’hà’ stutàte
e
ne chiànge ‘u còre
Je,
mo’ u se’, canàte mije
te
vulève assaje bbène, probbie assàje
quànde
Mare Pìcce e Mare Grànne mmìse ‘nzìeme
e
‘stu bbène no’nge jèsse sulamènde
pe’
l’accasiòne de l’anne c’accòcchie San Catàvete.
Je
m’arrecòrde le seràte
passàte
‘nnànd’a Sandamàte
c’u
càvete e c’u frìdde
astettànne
cu pacènze a ttèje
pe’
po’ scè’ a ccàsa mèjie pàsse-pàsse
tutt’e
ddoje, p’amòre c’addà tenìv’a zìte
e
te tuccàve sciucà’ a scòpe cu l’attàne
Ma
no parlàme cchiù de ste’ fàtte, Catàvete mjie
scenò
facìme menzanòtte
e
addò tù’ jàvete mò no sàcce
se
sòn‘u cambanìedde
e
v’avìta scè curcàre
Ddo’
paròle sùle pa’ nàche
ca
te tenève azzeccàte cum’a l’ètere
Te
l’hònne cundàte ca ’u bùrghe andìche
‘na
‘ndìcchie hà’ cangiàte ‘a fàcce?
Sott’u
pònde de pètre nàzzechèscene vàrche alegànde
sott’a
Duàne no’nge stònne cchiù le pescatùre
tànte
negòzzìe tènen’attappàt’a pòrte
hònne
mise ‘nu pundìle beddefàtte
‘U
Mare Peccerìdde, ‘stu splennòre
ca
tànda vòte n’hà’ fàtte scenucchiàre
mànne
ssèmbe ‘na mascìe
e
m’addrecrèje quànne ‘u vòca a vesetàre
N’ama
parlà’ ‘mbrà ‘ngòrchie tìembe
cùrte
o luènghe ‘u sàpe sùle Dje
‘u
ggiùrne ca pur’je hàgghia passà ‘a fenète
Franco
Presicci
Milano,
29 aprile 2021