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mercoledì 27 settembre 2017

In “Jère ‘na vòte…Martine”



LO SCRITTORE MARTINO SOLITO

ESPLORA LA VITA DI UNA VOLTA




Martino Solito nel suo studio

Un libro interessante che ricorda i costumi, gli usi;   i mestieri, dal maniscalco al vasaio; i negozi, i mulini; la fillossera che affliggeva le viti; i matrimoni; le galline fuori degli usci;
il divieto del podestà di stendere i panni sulla
strada; la tavola dei braccianti.             L’autore, che è anche poeta, in dialetto e in lingua, racconta un passato a tanti sconosciuto. 
Le bellissime illustrazioni sono di Mariella Spinosa






 

Franco Presicci 


E’ una galoppata nel passato il libro “Jère ‘na vòte… Martine” di Solito, corredato da immagini di vita familiare realizzate con abilità e finezza da Mariella Spinosa: una famiglia raccolta attorno al camino; una giovane che lava il pavimento, inginocchiata come in preghiera; nonne al telaio o intente ad alimentare la fiamma sotto la pentola; braccia al lavoro nella vigna; un carretto carico di botti; il cavallo sull’aia; ragazze con anfore sulla testa protetta dal cercine… E’ molto interessante, e attrae, la fatica di Martino Solito, che di professione fa l’enologo e il geometra e nelle ore libere scrive in prosa e in poesia, in vernacolo e in lingua.

Copertina del libro di Martino Solito
“Jère ‘na vòte…Martine”, in dialetto tradotto in italiano, offre tantissime informazioni sui tempi andati, evocando lontane atmosfere, personaggi, usi, costumi, “con occhio attento ed impietoso, senza cedere al sentimentalismo…”. Allora la città era diversa, più tranquilla e riposante. L’avvisatore acustico, spesso rabbioso o impertinente e irritante, blasfemo, installato sul volante delle auto, era strumento ancora da inventare; in città circolavano i traini e nelle campagne si sentivano il raglio dell’asino e il nitrito del cavallo, oltre al canto del gallo che dava la sveglia. Solito racconta con ricchezza di dettagli la civiltà contadina e il suo lento scomparire; la nascita dell’attività industriale; il cambio delle abitudini e della mentalità. E osserva con amarezza, come nella poesia “Paese mio”, gli ampi spazi fagocitati dall’avanzare del cemento; il vecchierello “stanco di andare sotto la fascina”, e “chi siede sull’uscio per godere il fresco della sera e narrar storie antiche ai fanciulli di questa terra ricca di miseria”. Rappresentazione che andava in scena nel centro storico, dove case, “nchiostre”, vicoli, fontanelle, spiazzi… erano, e sono, elementi di teatro. Qualche atto di quel testo si svolge ancora, ma, se per licenza concessa dal Signore, il patriarca potesse alzare la testa, non riconoscerebbe più il luogo in cui trascorse la sua esistenza. A quei tempi la città era piena di braccianti e artigiani, le strade erano pavimentate con masselli di pietra; la fillossera affliggeva le vigne; le galline cantavano nelle gabbie fuori dai bassi; le massaie sciorinavano i panni sulla strada, abitudine poi troncata dal podestà Davide Carrieri, incurante del malumore delle interessate, che dovevano anche rispettare l’ordine di non tenere animali in casa. Il sabato davano il bianco alle facciate e tiravano a lucido la parte del marciapiedi antistante… Erano aperti tanti negozi, e laboratori: osterie, che per insegna avevano un ramo d’edera appeso; pizzicherie, che non negavano il credito a chi non disponeva di molti mezzi; mulini (i più antichi in piazza della Cipolla e delle Erbe).
Asini di Martina Franca
I cestai, il più noto “Raffaele il panieraio”, intrecciavano vimini in più angoli. In via Taranto lavoravano i carradori e i maniscalchi; in via Massafra i vasai. Nelle feste non si gozzovigliava: si andava ad ascoltare la messa e poi in piazza la banda che suonava sulla cassarmonica. La candelora era la fiera degli animali. Per acquistare gli asini, che a Martina erano dei campioni, e tali continuano ad essere i pochi esemplari rimasti, arrivavano da altre regioni e addirittura da oltreconfine. Per chi nasceva in una casa contadina i problemi comparivano con i primi vagiti: le mamme dovevano dare una mano ai mariti nei campi e li seguivano con il neonato in braccio, parcheggiandolo “sott’a ‘nu ceppòne”. Quando il marmocchio cresceva, qualche giorno di scuola, se era fortunato, e poi la zappa o l’incudine o la pialla. Se faceva il bracciante, si alzava all’alba e rientrava al tramonto. A mezzogiorno, un pezzo di pane fatto in casa e portato al forno a legna per la cottura…

Martino Solito
Martino Solito, studio in via Verdi, un passo dallo stradone e da piazza Roma, in cui si erge il seicentesco Palazzo Ducale, delinea con garbo e con stile limpido tutti i momenti della vita magra di una volta: la dote per il matrimonio (per i più poveri tre capi di vestiario, due cappotti, cinque lenzuola, due coperte… il sacco da letto portato da lei; la paglia per imbottirlo da lui… ); le ore per la preghiera, i giochi (la campana, la lippa, la trottola, il giro d’Italia, lo schiaffo, la pietruzza…), praticati in strada la domenica e nelle altre feste. Gode, Solito, ad esporre anche i cibi e i modi di prepararli. “La panzanella era la regina dell’estate…”. “I boleti velenosi si curavano prima di mangiarli”. “L’orcio dei fichi secchi stava in tutte le case”... I pidocchi si moltiplicavano con l’arrivo del caldo; il concerto delle campane annunciava una festa, un funerale, l’Ave Maria, il Vespro, mezzogiorno, ed erano rintocchi autentici, prodotti dal batacchio che ritmava nella pancia del calice rovesciato, mentre oggi la fa da padrone un registratore.
Disegno di Mariella Spinosa
Insomma in “Jère ‘na vòte…Martine”, sapientemente illustrato, come detto, da Mariella Spinosa, diplomata all’Istituto d’Arte di Monopoli, putignanese abitante a Locorotondo, Martino Solito, 72 anni, culla in Valle d’Itria, oasi spettacolare benedetta da Dio, riscopre la città della memoria in tutti i suoi aspetti e la illustra come un nonno ai nipoti seduti attorno al camino la sera di Natale. Conosco Martino Solito da diversi anni. Nelle mie frequenti rimpatriate nella città dei trulli e del Festival, sono andato a trovarlo spesso nel suo studio e ho conversato con lui non solo del suo impegno di poeta e scrittore, ma anche di Martina e del suo fascino. E’ uomo sereno, pacato, rispettoso delle idee altrui. Quando è invitato a parlare dei suoi scritti lo fa come se appartenessero ad altri. Non usa enfasi, rifugge dalla retorica, non fa paragoni con l’attività degli altri. E’ ospitale, cordiale e ha un sorriso benevolo. Ha collaborato ai periodici martinesi; con alcuni interventi è presente in “Voci della Valle”, di monsignor Corrente, pubblicato da Schena, noto editore di Fasano (scomparso nel 2004), che per costruire il suo opificio affrontò tanti sacrifici, lavorando fino a dodici ore al giorno. Nato nel ’25, era spiritoso e intelligente, e usava dire che non poteva morire perché all’inferno avevano fatto il pieno. Papa Wojtyla volle conoscerlo e lo ricevette in Vaticano. Ebbe premi prestigiosi e una laurea “ad honorem”.

Martino Solito ammira la Valle d'Itria
Curò con passione “Lo scudo”, il primo periodico pugliese; la stampa delle arringhe di Alfredo De Marsico, che fu un principe del foro; nell’83, a tempo di “record”, pubblicò gli Studi di cultura francese ed europea in onore di Lorenza Maranini, committente l’Università di Pavia…Martino Solito discute volentieri di queste formiche pugliesi e della sua città, che piacque subito a Cesare Brandi. Quando venne la prima volta in questo splendore il docente rimase colpito “dall’armoniosa distribuzione della città, come un teatrino settecentesco, dove si sentisse musica gustando sorbetti. E musica si faceva”. Lo scrisse in un magnifico volume, “Martina Franca”, edito nel ’68 da un grande martinese amico di Paolo Grassi e del critico Pierre Restany, dello scrittore Dino Buzzati, del poeta Raffaele Carrieri…: Guido Le Noci, titolare a Milano della famosa Galleria d’arte “Apollinaire”, in via Brera, che fece conoscere all’Europa tanti pittori d’avanguardia.

Trulli di Martina Franca
“E’ davvero incantevole, un gioiello, Martina. Baciata dalla luce, ricca di colori”, diceva il pittore barese Filippo Alto, che la dipingeva nel suo studio estivo di Figazzano e in quello milanese di via Porro Lambertenghi. “Non ho avuto il piacere di conoscere personalmente quest’artista, ma ho visto qualche suo quadro”, mi ha confidato un giorno Solito. Io presentai una sua mostra postuma a Cisternino, allestita dalla moglie, Ada. Ogni tela un inno a Martina, in una sintesi armoniosa: una “’nchiostre”, la loggia di un palazzo storico, una casa incappucciata insieme attraversati da un tralcio di vite; una ringhiera spanciata e una finestra a mo’ di cornice ”legate” da un ramo d’ulivo. Martina non è più quella di una volta, la sua popolazione si è infoltita, i contadini sono quasi scomparsi, tanti mestieri pure; nei “passaturi” non si odono più gli strilli dei bimbi; le vicine di trullo non vi si raccolgono più per chiacchierare; qua e là cupole e muri a secco hanno bisogno di un restauro; sugli alberi raramente friniscono le cicale, ma continua a dare gioia a chi la visita. Martina Franca è sempre una magia. Chi la vede una volta ha il colpo di fulmine e non resiste all’idea di tornarci.




mercoledì 20 settembre 2017

Il fascino delle cartoline d’epoca


 
SCORRE LA NOSTRA STORIA
 

SUI CARTONCINI INGIALLITI


Stazione Centrale di Milano




Le signore in barca con l’ammiratore;

in costume da bagno;

a passeggio con il cappello;

in bicicletta; le auto;

gli assi del volante;

il primo volo in aerostato;
 
le locomotive a vapore;

le famiglie reali;

le carrozze; i tram a Taranto;

Napoli dal Vesuvio;

le bellezze delle città.





Franco Presicci

Osservi l’immagine stampata su una cartolina postale d’epoca e mediti sul mondo a cui appartiene. Un’auto storica parcheggiata sotto l’Arco della Pace a Milano, ti rimanda ai patiti dell’autodromo, alle vittorie e alle emozioni suscitate dalle vittorie degli assi del volante, come Yuan Manuel Fangio, Niki Lauda, Alberto Ascari, campione del mondo di Formula 1 nel ’52 e nel ’53.

Auto d'epoca
L’immagine della vecchia stazione Centrale, la prima nel capoluogo lombardo, fronte in piazza Duca d’Aosta, che non era tanto distante da quella attuale, possente, gigantesca, superba, richiama i tempi del regime e magari il prezzo popolare del biglietto del cinema, che non superava i 55 centesimi, e quello delle sale di lusso di una lira e 50. Una donna in abito vaporoso, il cappello piumato, il sorriso dolce e malizioso, un mazzo di fiori tra le mani, seduta su una piccola barca con uno spasimante ammirato e premuroso dirimpetto, fa pensare a giorni romantici e mielosi. Le cartoline illustrate sono dunque fortemente evocative. Molti le hanno conservate come oggetti preziosi, continuando un tipo di collezionismo. Che esplose subito, si estese, si moltiplicò, specializzandosi, snobbando quelli che, incapaci di scegliere, facevano incetta di ogni “cartoncino” figurato.
Massimo Alberini
La cartolina è una testimonianza d’arte, di costume, di storia, di un’era, diceva Massimo Alberini, che, autore di tanti libri soprattutto di cucina e di importanti iniziative letterarie, raccontò anche questo ambiente per hobby ma con profonda competenza. I collezionisti scelsero la raccolta tematica: il Liberty, le famiglie reali, le auto, le locomotive, le signore al mare, le bici, i corridori, le carrozze…E gli scandali, che, vecchi come il cucco, coinvolsero anche il mito della Roma dei Cesari. E non mancavano le immagini erotiche, tra cui quella con tre dame in spiaggia che, ricurve forse per prendere delle conchiglie, mostrano intimi di lino lunghi fino alle ginocchia. Non soltanto dunque vedute di città, che i viaggiatori da sempre spediscono a parenti e amici con i saluti. Nel Paese della Merkel le chiamano “Gruss aus”. Fu appunto un tedesco, Franz Borich, ad avere, nel 1872, l’idea della cartolina illustrata con bellezze elvetiche. La pensata, che forniva l’occasione di pubblicizzare paesaggi incantevoli, conseguì un enorme successo; e, come spesso accade, si mobilitarono gli imitatori: in Italia, nella stessa Germania, in Austria. Un grande editore, Richard, sede a Napoli, si affrettò a inaugurare la cartolina con il panorama della città ripreso da Posillipo. Ma quando è nata la cartolina? Secondo alcuni nel 1777, anno in cui comparvero i pezzi con disegni del francese Demaisson; ma i più sono del parere che il battesimo sia dovuto al tipografo Schwarz, di Ottemburg, che durante la guerra franco-prussiana ne spedì una a un suo collega di Magdebrgo, per esaltare la sconfitta francese di Sedan, sulla Mosa. Neppure per quanto riguarda l’inventore ci sono certezze. Un pistoiese di nome Marini? Gli esperti lo escludono. Il pastore protestante tedesco Rudolph Parisius sostenne fino all’ultimo respiro di essere stato lui il padre, a Gottingen, nel 1871, delle illustrate con angoli di questa o quella città. E grazie a questi cartoncini rettangolari oggi possiamo vedere com’erano una volta Roma, Torino, Bari, Milano, che conta numerosi raccoglitori. C’è chi possiede 5 mila esemplari anche degli anni che precedettero le cannonate di Bava Beccaris, nel 1898.

Milano - Corso Venezia - 1910
La prima cartolina finora conosciuta, annota Franco Fava in “Milano le cartoline d’epoca”, risale al 1891, anno di nascita della prima Camera del lavoro Italiana e dello sciopero organizzato dalle Associazioni Metallurgiche per l’aumento del salario e la riduzione delle ore lavorative. Seguono cartoline con Giuseppe Verdi, che nel 1893 trionfò alla Scala con “Falstaff”; le cartoline pieghevoli a due o tre lembi¸ cartoline con piazza Cordusio, piazza XXIV Maggio con l’atrio del Cagnola; via Monte Napoleone dell’epoca in cui si chiamava Contrada del Monte di Santa Teresa; del ponte di corso Buenos Ayres, abbattuto nel 1931; del Lazzaretto manzoniano raso al suolo verso la fine dell’800; della Rinascente, nome ideato da Gabriele d’Annunzio dopo l’incendio che divorò il precedente emporio; del volo in aerostato del conte milanese Paolo Andreani… Furono molti gli artisti che vollero cimentarsi nel settore, preferendo però l’anonimato nel timore di perdere prestigio. Si dovette aspettare il tramonto dell’Ottocento per veder venire allo scoperto firme come quelle di Bottaro, eminente illustratore italiano; di Crotta, altro connazionale, che dipinse per l’editore milanese Giarnieri un volto di donna pensoso e mesto; Tino Corbella, Achille Luciano Mauzan, celebre pubblicitario e collezionista, Roberto Terzi, Roberto Brunelleschi, il più famoso; Boccasile. Nel 1901, anno d’oro per il settore, si aprì la serie di quelle per gli auguri.

Mauro Ferrari
Sotto il regime – mi ricordò Mauro Ferrari, fiorentino, a Milano da quando era ancora in fasce, membro dell’Associazione numismatici e filatelici, circolavano sottobanco le cartoline porno francesi, per il possesso delle quali si poteva anche finire tra le sbarre. “Per la verità – aggiunse in un’intervista rilasciatami cinque o sei anni fa - circolavano anche prima, ma senza procurare grattacapi”. I tempi cambiano, e le teste pure. Ferrari tiene una postazione molto frequentata anche da stranieri in via Armorari, la via che la domenica mattina è occupata da bancarelle colme di ogni pezzo da collezione: cartoline, francobolli, monete, medaglie, vecchi giornali, libri antichi… E’ un personaggio conosciutissimo e molto consultato. “Tra i miei clienti c’è uno che ha 50 mila pezzi, di tutti gli autori del mondo. Un americano mi chiede le cartoline dei terremotati; un altro impazzisce per quelle con le donne con il cappello”.
Giovane con conigli
“Quanto può costare una cartolina?”. “Anche 3 mila euro. E’, per esempio, il prezzo di una cartolina viaggiata, cioè con il timbro dell’ufficio postale, scritta da un personaggio famoso. Tanto, e anche di più, potrebbe costare una cartolina, rara, magari spedita da Gabriele d’Annunzio a Eleonora Duse. La rarità fa il prezzo. Cifre non alla portata di tutti si richiedono anche per un francobollo importante. Il primo, il ‘black penny’ con il ritratto della regina Vittoria, comparso nel Regno Unito il 10 gennaio del 1840, invenzione di Rowlan Hill, pratico di amministrazione, ha un costo vertiginoso. Svuota le tasche anche la cartolina postale con il francobollo già stampato. Francobolli e cartoline rispecchiano la vita di un Paese”. Come spunta questa passione, domandai alla fine a Mauro Ferrari, persona molto disponibile a fornire informazioni . “Vedi un oggetto e te ne innamori. Poi ti viene la voglia di raccoglierne altri, la voglia si fa bisogno”. Lui era dirigente di banca e cercava cartoline. Mi mostrò pezzi meravigliosi, mentre mi parlava della folla che visitò l’Esposizione a Venezia nel 1899. Il “boom” della cartolina illustrata si ebbe durante l’Esposizione Universale di Parigi, quando gli editori stamparono 60 serie, bellissime, interessanti.

1900 - Veduta di Taranto
Tra i grandi illustratori Alfons Mucha, cecoslovacco trasferitosi a Parigi, Raphael Kirkner, Pure Docker; e addirittura, con interventi non frequenti, Toulouse Lautrec. Gli editori non perdevano occasioni, facevano soldi a palate. Nel 1910 in Francia invasero il mercato 125 milioni di pezzi. Anche Taranto ha avuto le sue belle cartoline illustrate. Le vedi con immenso piacere anche nei libri di Nicola Caputo, con i tram che attraversano le strade da Solito alla stazione ferroviaria; il Palazzo del Governo mentre viene costruito; il municipio; le facciate delle case di via Garibaldi; le antiche fisionomie di via D’Aquino, Acclavio, Di Palma, Duomo… le piazze (Maria Immacolata…); il monte delle vacche, dove oggi sorge l’ospedale; le carrozze; i carretti…. Con nostalgia si rivedono sui cartoncini ingialliti la locomotiva a vapore; i cinema scomparsi (il Paisiello, il Littorio, il Rex, l’Odeon…); la Sem, che fu uno dei vanti della bimare; gli stabilimenti balneari nella città vecchia e nel borgo, le processioni, le barche che portavano i turisti al giardino delle cozze a Mar Piccolo per un assaggio. La nostra storia raccontata sui cartoncini colorati.










mercoledì 13 settembre 2017

Francesco Colucci, poliziotto riservato


Prefetto Francesco Colucci


SOMIGLIAVA A ERCULE POIROT

PER LE SUE MANIERE MISURATE







Ha fatto tutta la sua carriera a Milano

in via Fatebenefratelli e in piazza San

Sepolcro, alla Criminalpol. Nominato

questore, è stato a Bergamo e a Lecce.

Ha conosciuto tutta la mala milanese.

E, se ne parla, non fa mai nomi. Come

non ne facevano Plantone e Nardone.






Franco Presicci

Il prefetto Colucci in un disegno
Da poliziotto era più vicino a Ercule Poirot, sempre misurato e gentile, che a William Murdoch, che quando perde la pazienza non ci mette molto a prendere per il bavero le pellacce. Francesco Colucci, andato in pensione da prefetto, le staffe non le ha mai perse. Può aver alzato i toni della voce, a volte, ma mai le mani. Tanto che chi al termine di un interrogatorio prendeva la via per San Vittore lo salutava con rispetto. Il mondo della malavita milanese per lui non aveva misteri: conosceva capintesta e gregari; rapinatori e biscazzieri; magnaccia che lottizzavano i marciapiedi dissanguando le falene; bidonisti e rapitori... Insomma si è trovato di fronte a ogni tipo di malacarne. Ma ne parla di rado. E quando, sollecitato, si decide a farlo, maschera i nomi, schiva i particolari e non parla mai in prima persona. Se gli capita di accennare, per esempio, a un esponente della banda Vallanzasca o del clan dei catanesi, smantellato dal suo stesso capo, pentitosi poco dopo il suo arresto nel confessionale di un magistrato severo e di grandissima cultura ed esperienza, liquida l’argomento con poche parole. Gli chiedo di Angela Corradi, che dopo aver attraversato da giovane un tratto di malavita, si è fatta suora laica, confessa di non avere dubbi sulla sua conversione.
Colucci,Caracciolo e il giornalista Costantino Muscau
Da cronista la incontrai più volte, Angela. Una sera degli anni 80 mi dette appuntamento in un bar della Comasina; mi guidò in una stanza semibuia in fondo al locale, fra sguardi biechi e sospettosi placati dalla sua presenza; mi regalò una medaglietta con l’immagine della Madonna, che conservo ancora, e si aprì. “Prima che tu me lo domandi te lo dico io: è stato Gesù a bloccarmi e a traformarmi. Degli sconsiderati avevano offeso alcuni miei compagni che stavano in galera, e io volevo vendicarli. Mi misi in tasca una pistola e mentre stavo per afferrare la maniglia della porta sentii come un fiato: ‘Dove vai con quel cannone?’. Era Lui, il Signore.
Ferdinando Oscuri a destra
Fu per me una folgorazione. Mi confezionai il saio e da allora la preghiera è la mia pratica quotidiana”. Con Francesco Colucci ci vediamo spesso, a Milano o a Laino, un piccolo paese del Comasco a 700 metri d’altezza. E lo stuzzico a tavola o quando ci sediamo sul piazzale per vedere i cervi che pasteggiano e le volpi. Gli ricordo il 16 agosto del 1984, giorno in cui da Milano pilotò i suoi uomini appostati davanti a una villa a Misano di Rimini, presa in affitto da due luogotenenti del clan che scuoteva allora la città, e chiarisce: “Non furono presi subito, perché si pensava che sarebbero stati raggiunti dal principale. E siccome quello non arrivava, partì l’ordine di acciuffarli”. Alla fine di settembre, alle 3 del mattino, venne decapitata la banda e svuotato il covo del Tebano. Accenno anche a quello strano personaggio che dopo essere stato testimone di un maxiprocesso alla mafia a Palermo faceva il portoghese nel capoluogo lombardo, soggiornando negli alberghi di lusso per squagliarsela alla chetichella. Basso, magro, impermeabile bianco, “rolex” d’oro e dita inanellate. Una faina. Venne a trovarmi al giornale e cercò di rifilarmi una “bufala”.
Le prime auto della polizia nel '44
Francesco Colucci ha in testa un’antologia di indagini e catture; ma cede all’insistenza del cronista impiccione solo se i pezzi di memoria che è invitato a rispolverare non sono sbiaditi. La “banda del buco”? Era composta da specialisti della fiamma ossidrica. Venivano da Roma. C’era un volpone che si faceva assumere dalle ditte produttrici di casseforti, carpiva i segreti e se ne serviva per colpi clamorosi. Nessun tipo di forziere resisteva alla sua destrezza. Una volta, dopo un accurato sopralluogo, la consorteria prese in affitto un locale adiacente a una gioielleria, forò il punto della parete a cui, nella stanza del tesoro, era appoggiato lo scrigno, ne bucò la spalla e via con il saccheggio. I nomi? “Quelli no”. Pazienza.
 
I questori Catalano,Jovine,Plantone,Caracciolo,lo scrittore Olivieri e Pagnozzi nell'87
Dalla capitale venivano anche “quelli della gomma a terra”. Scesi dall’aereo a Linate, andavano a piazzarsi di fronte a una banca, uno entrava, individuava il cliente che prelevava una somma rilevante, usciva dietro di lui e lo segnalava ai complici, che, appena il malcapitato si metteva al volante, con mossa fulminea azzoppavano l’auto e, nel momento del cambio della ruota, compivano il “volino”: si impossessavano del malloppo. La questura ai tempi di Colucci aveva segugi di ottima qualità, a cominciare da Enzo Caracciolo, capo della Mobile. Con lui Vito Plantone, giovane commissario; Ferdinando Oscuri, detto il maresciallo di ferro, Petronella, Farenga, Imbriano…, Nino Giannattasio, che convocò ripetutamente un pezzo grosso della mafia italo-americana, con alloggio a Milano, per sapere come si guadagnasse da vivere, non riuscendo mai a far breccia nei suoi silenzi sull’argomento.
Oscuri,Bonanno,Gino Cervi,Caracciolo,Plantone
Il personaggio li interrompeva solo per declinare le generalità; e li spiegava con un’esperienza fatta negli Stati Uniti, dove era finito al fresco per aver sbagliato di un giorno la data del suo ingresso nel Paese. “Vi ero stato portato dai miei genitori quando ero ancora in fasce e un errore così era giustificabile. L’Fbi pensò invece che fossi in malafede e provai l’onta della cella”. “Quante notti – riprende Colucci - abbiamo passato in via Fatebenefratelli. La malandra non ci dava tregua. Il 28 ottobre ‘76, per un’intera giornata, il sottufficiale Gaetano Imbriano assediò, con soli due agenti, cinque banditi armati, che dopo aver fatto una rapina all’ospedale di Niguarda si erano rifugiati in una villetta di Palazzolo Milanese, acquistata da uno di loro”. E segue il furto nella filiale della Banca provinciale Lombarda di piazza Diaz, il 20 maggio dell’84.
  
I questori Caracciolo e Plantone

Colpo miliardario studiato nei minimi particolari. I malviventi s’infilarono nell’istituto di credito il venerdì pomeriggio e lavorarono tutto il “week end”, abbattendo la parete del “caveau” con un mostro meccanico montato sul posto, dove la polizia trovò scarpe, stivali, guantoni da operaio, lampade portatili, bottiglie d’acqua “Panna”, confezioni di “Enervit”… Gli autori dell’assalto vennero scoperti in una settimana, mentre stavano prendendo il largo. Tanti gli omicidi di cui l’investigatore si è occupato, risolvendoli nel giro di poche ore. Tra cui quello che ebbe come vittima una signora inglese nel centro storico. Il responsabile del fattaccio un giovane di 22 anni. Carpii il nome e quello della via in cui abitava, ma non il numero civico; e dovetti fare una lunga scarpinata, di sera, palpitando per l’ora che incalzava, con il fotografo Gaetano Montingelli, consultando centinaia di citofoni. La maratona si concluse davanti a un casermone popolato forse da oltre duecento persone. I “grilli” erano quasi tutti muti e accecati, e non rimaneva che compensare la sconfitta con un caffè al bar di fronte, dove invece incontrammo la fortuna nei panni di un vecchietto simpatico, arzillo, loquace, forse anche un po’ brillo, bassino, sottile, sui 70 anni, che sentendo nominare il ragazzo sussultò.
Caracciolo,Pagnozzi,Colucci
Era il fidanzato della figlia. Ci precedette nel suo tugurio, dove riempii il taccuino, mentre Montingelli riproduceva tre o quattro foto. Quando Mario Nardone era capo della Mobile ebbe in Colucci un valido collaboratore. “Ogni tanto – ricorda - era lui che mi dava la dritta. E mi diceva: ‘Chiste è ‘nu fetènde, vall’a piglià’. Mi invitava a pranzo o a cena nella sua abitazione di via Tortona e mi parlava di lavoro. Mi rivelò che quando era impegnato in un caso difficile invocava il padre, che era stato questore”. Il vice di Nardone era Mario Jovine, che terminò la carriera come prefetto di Bologna. “Penso spesso con affetto a Vito Plantone. Lo rividi dopo tanto tempo quando ero al timone della questura di Lecce in una cena nella casa di campagna di un amico a Martina Franca. Grande poliziotto, intelligente, scrupoloso, riservato, umano, e capace, come Jovine, di animare le serate in compagnia”. Promosso questore, Vito fu destinato a Catanzaro…. Ricordi Antonio Pagnozzi?”, mi chiese. Come no? Il grande Antonio, bravissimo dirigente della Mobile e della Criminapol e poi questore e prefetto. “Detective” acuto, tenace; persona ammirevole, esemplare. Francesco Colucci è rimasto in ottimi rapporti con tanti suoi ex colleghi; e ha nostalgia di via Fatebenefratelli. Uomo generoso, sincero, affabile. Nato ad Atripalda, provincia di Avellino, nel ’43, prese la laurea in legge, entrò in polizia nel ’68, a Milano alla fine dello stesso anno, servizio di leva e poi sempre nella città del Porta, sino alla nomina di questore. Ha concluso la carriera nella veste di prefetto.














mercoledì 6 settembre 2017

LA CESTERIA E' NATA CON L'UOMO

                                                     Le foto sono di GERARDO e di VITO GIACOBELLI


L’ORDITO CON L’OLIVASTRO IN ANTIMO CALO’ E’ UN’ARTE



Antimo Calò
Bottega a Uggiano Montefusco.


Realizza cesti, panieri, rivestiture
per bottiglie di olio e di vino.

Ha ereditato la bravura dal padre.
 
Conosce bene le qualità delle piante che forniscono i materiali
che usa.

E’ sempre presente alla
Sagra du diavulìcchie ascquànde” di Crispiano, svoltasi nei giorni scorsi.



Franco Presicci
Alla “Sagra d’u diavulìcchie ascquànde” di Crispiano, architettata dagli “Amici da sempre”, ogni volta con novità di piatti e di iniziative collaterali, si fanno incontri interessanti. E’ lì che ho conosciuto oltre al professor Massimo Biagi, esperto mondiale di “habanero” e altre spezie della famiglia (purtroppo scomparso in questi giorni), e al dottor Giorgio Di Presa, specialista di erbe e persona di grande simpatia, il cestaio Antimo Calò, di Uggiano Montefusco, angolo tra Manduria e Sava.
Era seduto accanto al suo banco all’imbocco di una strada stretta e a serpentina, impegnato in una trama di vimini che sviluppava in cestino. La gente passava, vi si assiepava, intasando il passaggio di fronte a una cappella antica molto visitata; e Antimo, il capo chino, le mani abili, veloci, l’aria indifferente allo spettacolo che offriva. Non capita più tutti i giorni vedere un artigiano intento a realizzare un manufatto sotto gli occhi di tutti.

La grotta
Sentii l’impulso di scambiare due parole con lui, e non riuscii a trovare un varco fino a quando non completò il lavoro e la siepe umana non si sfoltì. Allora si alzò, smise il grembiule e colmò le mie curiosità, quindi m’invitò al suo paese, per mostrarmi la sua bottega e gli esemplari che conteneva. Salutandomi, mi disse che avrebbe levato le tende l’ultimo giorno dell’omaggio “à rrè’ Puperùsse”, che infiamma le gole. Ed eccomi, il primo settembre, con gli amici Vito “senjor” e junior, Nicola, Antonella, Angela, Gerardo, a Oria, alla masseria Palombara, risalente al ‘700 e recentemente restaurata, dove Antimo ha regalato una dimostrazione della sua eccezionale manualità davanti a un numeroso gruppo di invitati accomodati su cubi di paglia affiancati, costruendo un “panaro”, accompagnato dalla voce di Marina Capolli, virtuosa nell’arte delle composizioni floreali, che spiegava le varie fasi della lavorazione: i primi tralci, che “evocano il sole”; una sorta di gabbia; un ordito di listelli di canna; poi al centro una “fascia” di lentisco per decorazione e rinforzo… il manico, i bordi.
Cesti su treppiedi
Ammirevole. Tra il pubblico, tante persone venute come me da fuori, un giornalista del luogo, Nando Perrone, di “Manduria Oggi”… Tutti, dopo gli applausi più che meritati, hanno sgranchito le gambe facendo la spola dai panieri appesi ad alti treppiedi ad altri allineati su un tavolo, dove troneggiava una bottiglia per il vino o l’olio rivestita da una trama di lentisco, elemento che si usa anche per opere d’intarsio. Ne ho visti altri, di cestai, non molto lontano da qui. Un ultranovantenne - titolare di un laboratorio piccolino e scarsamente illuminato – avaro d’informazioni, scostante, brusco, occhi fulminanti, come avesse di fronte non un giornalista, ma un ladro di segreti professionali. Un altro, una decina di anni in meno, sottile, sorridente, seduto in un vicolo sulla soglia di casa con la coppola in testa, braccia incrociate, gambe accavallate, fra diversi esemplari di canestri, con la speranza di catturare un compratore, ottenendo solo scatti fotografici da sistemare in archivio o da pubblicare su un giornale. Antimo, invece, è spontaneo, cordiale, disponibile, ospitale, premuroso. Spiega, si entusiasma, nelle risposte parte da lontano, somministra dettagli, snocciola tutta la sua competenza, coinvolgendo chi gli sta di fronte, convinto che questo mestiere, nato con l’uomo, non si disperderà come quelli dell’arrotino, dell’ombrellaio, dell’impagliatore di seggiole, del riparatore di vasi lesionati o rotti… Allo scopo dà lezioni a tanti giovani, che lo ascoltano quasi con devozione. Ne ha, di cose da dire, a cominciare dalle origini di questa attività, dalla passione che spinge a praticarla, dalle caratteristiche del materiale necessario...
Un angolo della masseria
“L’Arte del cestaio – dice - appare semplice, ma non lo è. Si deve prima di tutto cercare ciò che serve, scortecciarlo, esporlo all’aria per stagionarlo, rimetterlo a bagno…”. Un’arte, che deriva da un’intuizione, probabilmente dovuta all’osservazione degli intrecci di alcune piante, come l’edera, o dei nidi degli uccelli... L’ebbero per primi i contadini, che, nelle stagioni morte, fabbricavano contenitori per il trasporto della legna da ardere, di semi, frutta appena raccolta, e per conservare il cibo. Usavano elementi che elargiva la natura, tra cui polloni di olivastro (detto anche ligustro), che spuntano sugli zoccoli dell’ulivo millenario, saraceno… La cesteria, che all’inizio non era un mestiere, ha preceduto la ceramica e anticipato la tessitura, com’è dimostrato da non pochi reperti archeologici.
La palombara
Ai giorni nostri è svolta ovunque, non soltanto nel nostro Paese. In Puglia, regione ricca di artigiani noti e apprezzati nel mondo, fa parte delle tradizioni e anche della storia. Nostri corregionali si sono ritrovati al castello di Montorio (Verona) il 24 e il 25 aprile, al simposio nazionale dei cestai, per confrontarsi e proporre gerle, fiaschi, ceste, cestini, canestri…, eseguiti con virgulti della palma da datteri, il giunco, il melograno, verghe di salice, rafia…, preferendo ciò che si trova nel luogo in cui si vive. Un mestiere magro, che non assicura grossi guadagni. Tra l’altro ha subito la concorrenza della plastica. Chi non ricorda Gino Bramieri, negli anni 60 e 70, che, nel “Carosello” televisivo, alla domanda: “E mo’?” rispondeva: “E mo’ Moplen”, zompando con tutto il suo volume su una valigia fatta con quella novità. Ma la cesteria, sostiene chi sa, non è stata sconfitta. Ha soltanto allentato i passi. La si vede infatti rinascere, specie in Calabria. Da noi, Antimo Calò ce la mette tutta per incrementarla. “Il mestiere – parole del maestro - richiede grande volontà, pazienza, sforzi notevoli soprattutto per la realizzazione dei fondi grandi. Con l’uso di pochi attrezzi: il coltello, il falcetto, il punteruolo”. Antimo, Antimino per parenti e amici, non pone barriere se scruti nella sua vicenda personale.
Anzi. “Da piccolo acquisii i rudimenti seguendo mio padre. Cestaio era anche mio nonno, e cestai mio zio e mio fratello”. Una dinastia, insomma. “Papà, scomparso sei anni fa, arrivò ad avere ordini di 100 pezzi in una volta. E anch’io prima del Natale scorso, per Pino Caramia di Martina Franca, ho fatto 60 ‘panari’ per le confezioni-regalo del capocollo della città dei trulli. Per i miei manufatti – ribadisce sciogliendo un quesito - uso il lentisco, pianta arbustiva con foglie sempreverdi; e anche l’olivastro e la canna”. Non si dedicò subito all’ordito con fibre vegetali. Obbedì a un’altra passione, quella per la falegnameria; e si attrezzò convenientemente, battezzando “il mio bel locale, che conservo ancora”. Fino a 15 anni fa ha maneggiato pialle, sega elettrica e morse. Poi ha ceduto al richiamo dell’arte paterna, facendo la felicità del “vecchietto”, che desiderava vedere almeno uno dei suoi tre figli in questa secolare attività e tramandarla. “E sono contento di esercitarla.
Mi dà soddisfazioni, non mi stanca muovere ritmicamente le mani, come fa il sarto con il filo e l’ago”. 

Il luogo della dimostrazione
Alla masseria Palombara, che è al centro di un parco di 100 ettari costellato di ulivi, mandorli e palme, e si articola in ambienti riposanti e ariosi, ha forse dato il meglio di sé, tra l’altro esibendosi su uno spazio enorme dominato dalla torre, antica costruzione, rimessa a nuovo, che dà il nome al complesso.
Per raggiungerlo siamo stati ingoiati da una grotta con tracce dei tempi andati e subito restituiti alla luce. Al termine, scatti di macchine fotografiche, ronzii di telecamere e un rinfresco offerto dai titolari della masseria, Fabiola Dantona e Angelo Lippolis, con delizie della casa e nettare versato da una fanciulla cortese ed elegante. Un bel pomeriggio, in cui Antimino Calò non ha celebrato se stesso, ma l’eredità lasciatagli dal padre, rappresentante di un’attività degna di essere inserita nell’elenco della prestigiosa Fondazione Cologni dei mestieri d’arte accanto al vignaiolo.