DOSOLINA
DEI NAVIGLI UCCISA DAI TEDESCHI
MENTRE
PORTAVA IN SALVO UN BIMBO EBREO
Il Ticinello sui francobolli di Aldo Cortina |
Negli
anni Sessanta molti giuravano di aver visto il suo fantasma. Oggi non se la ricorda quasi più nessuno. Un medico
prese male una curva, rischiando di finire nel naviglio, frenò per evitare d’investire una giovane donna in
bici che gli sorrideva. Uscì dall’auto per ringraziarla, ma
lei fu inghiottita dalla nebbia fitta. Il professionista era
uno dei tanti bimbi che le dovevano la vita?
Franco Presicci
Fu l’”Angelo dei poupon” ad attirarmi tanti anni fa sul Naviglio Grande, strada liquida che ha affascinato poeti, pittori, scultori, artigiani…Mi raccontarono la vicenda di questa giovane donna uccisa una notte da un colpo di fucile tedesco mentre portava in salvo in Svizzera un neonato ebreo, e andai sull’alzaia e sulla ripa per ascoltare quelli che giuravano di aver visto anni fa il suo fantasma aggirarsi sul piazzale della darsena, in vicolo dei Lavandai, in via Magolfa, in via Ascanio Sforza, lungo la quale scorre l’altro canale, quello che va, placido, a Pavia.
Il Ticinello 2 |
Volevo anche visitare, se ancora in piedi, la casa di Luisa, la proprietaria del magazzino di roba movimentata alla chetichella, che durante la guerra aveva dato lavoro all’Angelo, Dosolina dei Navigli. Che non era nata a Milano, ma a Vione, in provincia di Sondrio. A Milano era arrivata dopo aver abbandonato il lampione sotto il quale sostava in attesa di clienti per volere del marito: un forestiero che aveva incenerito i suoi sogni. Accolta da Luisa, sua compaesana, s’improvvisò contrabbandiera, favorita dai sorrisi che, bella e bionda, sapeva dispensare. Appena calava il buio Dosolina inforcava la bicicletta, una gerla pesante sulle spalle, e attraversando boschi, sentieri accidentati, saliscendi sfiorati dalla luna, quando c’era, e andava, veloce, attenta a non farsi scorgere dalle pattuglie nemiche.
Festa sul Naviglio |
Traguardo, la Svizzera. Insomma, ogni notte Dosolina rischiava la vita trasportando merce necessaria alla sopravvivenza, Avvertiva l’abbaio rabbioso dei cani, qualche rumore sinistro, e il cuore le batteva sempre più forte: fino a quando non sentiva le voci amiche dei partigiani che intonavano “Bella ciao”: il messaggio che la rassicurava. La stessa ansia sulla via del ritorno: l’insidia poteva aspettarla dietro un albero, un cespuglio, un muro. Ma lei non desisteva. Quelli erano i tempi: gli orrori, la miseria, la paura dei rastrellamenti, delle deportazioni. Una notte, verso la primavera del ’44, alla porta di Luisa bussarono due orchestrali della Scala, ebrei polacchi, e la supplicarono di portare in salvo, in cambio di beni e di denaro, la loro creatura appena nata. Luisa accettò, e Dosolina fece del cesto una culla imbottita di panni di lana. Da allora niente più generi alimentari né armi; ma bimbi da sottrarre alla ferocia. Ogni viaggio uno. Finchè una notte, nei pressi della postazione dei partigiani, la creatura, avvolta in una copertina a fiorellini (violette), pianse, e un colpo di fucile colpì Dosolina a un fianco, senza farla crollare.
Ciclisti lungo il naviglio |
Naviglio grande o Ticinello |
Scese dall’auto per ringraziarla, ma lei, dopo averlo guardato sorridendo, fu inghiottita dalla nebbia fitta, lasciando un profumo di violette. Il medico rimase scosso, si confidò con un amico incredulo, poi con un altro; tornò nel luogo della visione, chiese in giro. Non si dava pace: quell’immagine era sempre davanti ai suoi occhi; gli toglieva il sonno. Entrò in un bar, si sfogò con una giovane bella e cordiale, figlia della titolare. Fraternizzarono, giorni dopo lei lo invitò a casa, pregandolo di darle una mano a mettere ordine nella soffitta. E lì, quasi per volontà del destino, spuntò un quaderno pieno di cifre intervallate da un racconto. Chi era l’autrice? Chiesero a Luisa, piangendo parlò dell’amica Dosolina, della sua attività, della sua ultima fatica, soffermandosi su quel bimbo, che era arrivato strillando alla sua porta e lo fece, secondo i partigiani, a poca distanza da loro, causando la reazione dei nazisti.
Cascina lungo il naviglio |
Le lacrime di Luisa bagnarono il diario, mentre si faceva largo il sospetto che fosse proprio il medico il marmocchio della tragica spedizione. Sul diario erano indicate due lettere: D. W e una data. “Ma sono le mie iniziali - esclamò il professionista - e sono nato e cresciuto in Svizzera. Sono io quel bimbo!”. Dosolina usava scrivere le iniziali e il giorno dell’affidamento del bimbo. La storia mi commosse. Pensai spesso, sia pure con diffidenza per un tratto del seguito, a Dosolina. Ne parlai una sera a cena con una insegnante di lettere interessata a saperne di più. Mi propose di andare insieme sul Naviglio alla ricerca della casa di Luisa e di eventuali conoscenti o amici della ragazza di Vione. Poi l’insegnante partì per la Calabria e affrontai l’impresa da solo. M’imbattei in gente venuta da poco ad abitare sul Naviglio e quindi di Dosolina sapeva nulla.
Guido Pertuzzi |
Gigi Pedroli |
In vicolo dei Lavandai trovai il pittore Guido Bertuzzi seduto sotto la tettoia, che è monumento nazionale, lo interpellai, ma lui aveva solo sentito, negli anni 60, di persone che giuravano di aver visto il fantasma di Dosolina. La voce al Carletto, indicato scherzosamente come il sindaco del vicolo, per la cura che aveva del ricciolino d’acqua in cui a suo tempo le donne lavavano i panni, prendendo la lisciva da Elvira Radice, una signora che aveva 90 anni all’epoca in cui la incontrai la prima volta. Mi confermò le risposte del pittore, ma non potè andare oltre. Gigi Pedroli, grande acquafortista e appassionato cantautore (“El pitur”, “El barbun”, “Vegia osteria”, “El cartunist”…), uno degli ultimi artisti rimasti sul Naviglio, mi disse che se fosse ancora vivo Armando Brocchieri (il poeta che definiva il vicolo “una chiesa di pittori”, forse avrebbe potuto soddisfare la mia domanda.
“Io ero un bambino”. Rinunciai, anche perché il rifugio di Dosolina, casa e magazzino di Luisa, era forse stato fagocitato dal cemento armato. Molti mi parlavano di questa Montemartre milanese, dove Gino Cervi aveva girato alcune scene di una serie tivù nei panni del commissario Maigret; dello sceneggiato televisivo interpretato da Ottavia Piccolo. Ma non dell’argomento che mi stava a cuore.
Il Ticinello |
Una donna avanti negli anni, bassa, pienotta, argentata, occhi neri come il carbone, frettolosa, avvicinata a due passi dal “pont de preja”, mi rispose: “Non mi crederà, ma io ho visto una luce abbagliante in una cornice dorata, lì, all’altezza dell’officina del fabbro e ho sentito un profumo di violette. Non ne parlo con nessuno, per il timore di essere presa in giro. E so che altri hanno visto il fantasma di una ragazza splendente che sorrideva”. Una storia che si svolge tra realtà e inverosimiglianza. Eppure i milanesi non amano gli spiriti e le loro passeggiate: con tutta la gente che, accusata di malefatte e di stregoneria, fu uccisa nei secoli scorsi in piazza Vetra, gli ectoplasmi dovrebbero essere una popolazione numerosa. Domenico Porzio ha scritto che a Milano gli esseri immateriali non hanno diritto di cittadinanza. Essi stessi non ci abiterebbero volentieri. Le anime dei defunti riposano nei cimiteri e non hanno voglia di vagabondare di giorno o di notte. Si mettano il cuore in pace quelli che ancora hanno memoria dello spettro di piazza Maggi, o della nuova sembianza di un tale morto nel manicomio della Senavra; o della dama nera che si appostava al Parco Sempione per adescare i giovanotti, che dopo l’amplesso fuggivano per il terrore, scoprendo che sotto il velo c’era un teschio.
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