TRASCORSE
LA VITA SCRIVENDO LIBRI
E
CRITICHE TEATRALI E LETTERARIE
Ugo Ronfani |
Fu corrispondente da
Parigi, intervistò
Sartre, Simone de
Beauvoir, Rostand…;
prese parte alla
guerra d’Algeria; fondò
la rivista
‘Hystrio’, dirigendola; vinse il
Premio Campione, fu
vicedirettore de
“Il Giorno”.
Era
severo, disponibile e
Franco Presicci
Correva
il settembre del ’76 quando un amico mi regalò il libro “La toga rossa”
di Ugo Ronfani, giornalista, critico d’arte e letterario, saggista, uno
dei maggiori censori teatrali del Novecento. Da 15 anni era
corrispondente da Parigi del quotidiano “Il Giorno” e stava per
rientrare in sede con la qualifica di vicedirettore. Cominciai quasi
subito a leggere il testo e mi prese al punto che a mezzanotte ero
arrivato già all’ultima pagina. Decisi di recensirlo. Quelle pagine, tra
l’altro scritte in maniera lucida, stringata, erano così avvincenti,
che proprio non riuscii a reprimere il desiderio, anzi il bisogno, di
esprimere le emozioni che mi avevano procurato. Qualche mese dopo Ugo
venne a cercarmi al giornale e alla presenza di tutti i colleghi mi
ringraziò. Era la prima volta che lo vedevo, e da allora vi siamo
rivisti molto spesso.
I direttori Lino Rizzi e Gaetano Afeltra |
Occupava una stanza al secondo piano, vicina a
quelle di un altro mitico vicedirettore, Angelo Rozzoni, e del direttore
Gaetano Afeltra. Diventammo amici. Quando scrisse “La rivolta del
vescovo Levebvre”, fui il primo ad averlo fra le mani. Me lo consegnò
personalmente al quarto piano, dove era sistemata la cronaca, ma io ero
fuori per seguire un grave fatto di sangue. Me lo lasciò sulla scrivania
con un biglietto. Mi chiese spesso articoli per la sua rivista
dedicata all’Europa, prevalentemente interviste a personaggi importanti,
tra cui Giorgio Bocca, che mi ricevette nella sua abitazione in via
Bagutta (se la memoria non m’inganna). Gli volevo molto bene e non gli
dicevo mai di no. Trovavo sempre un ritaglio di tempo per lui. E quando
il giorno prima della mia partenza per le ferie mi dette uno di quegli
incarichi, non gli dissi che avevo già pronti i bagagli per andare in
ferie a Martina. Eseguii e basta. Quando lo seppe, si scusò
ripetutamente. Lo rassicurai: non c’era alcun problema. E così non si
fece scrupolo a telefonarmi nella città dei trulli per dirmi che in una
località a un’ora e mezza dalla mia, se non erro Metaponto, i
carabinieri avevano trovato la testa di una donna che era stata rapita a
Milano. Lo bloccai: “Ugo, mi metto in macchina e vado”. E fu felice una
settimana dopo, quando gli riferirono che era arrivato un mio articolo
sugli ori di Taranto prossimi a partire per Milano per essere esposti,
contro il volere di molti nella bimare, tanto che si affidò la decisione
a un “referendum”. A Milano l’articolo suscitò l’ira della concorrenza,
che se la prese con la presidente della Provincia, l’organizzatrice,
accusata di avermi privilegiato. Invece io avevo semplicemente letto un
pezzo su “Il Corriere del Giorno, firma di Nicola Caputo, autore di
tanti volumi sulla storia, le tradizioni della città. Mi telefonò il
grande collega Nino Gorio per rallegrarsi dello “scoop” e per riferirmi
della protesta. Mi trovavo molto bene con Ronfani.
Ugo Ronfano a sinistra |
Uomo coltissimo,
schietto, acuto, con l’abitudine di lasciarsi scappare ogni tanto una
parola in francese, e per questo qualcuno scioccamente sorrideva. Era
anche severo. Mi affidò la “cucina” di una pagina sulla linea del freddo
e mi raccomandò di non avere indugi nel tagliare ciò che andava
tagliato. Un’altra volta per queste pagine speciali mi mandò a
intervistare un capoccione dell’Alitalia. Non lo trovai e ripiegai sul
capo delle pubbliche relazioni. Più di una volta andammo a cena insieme e
in un’occasione ci fece compagnia il pittore Mario Bardi, un siciliano
già docente di storia dell’arte al liceo scientifico, che rimase molto
colpito dalla cultura e dai giudizi del nostro commensale, tanto che poi
mi chiamò al telefono per dirmi: “Ronfani mi ha affascinato”. E mi
invitò a fornirgli notizie della sua biografia: aveva scritto una
quindicina di testi teatrali rappresentati anche all’estero e in
televisione; per la poesia (“Nella città straniera”, “I porti per
l’allegria”…); saggi, tra cui “Trent’anni di teatro francese”; “Rapporto
sulla Francia di Mitterrand”; il pamphlet “La morte di Pulcinella”;
romanzi, come “La toga rossa”, “Il cavallo d’oro”… ; altri lavori come
“Lo stuzzicadenti di Jarry”; “La rosa e la spina”; Premio Campione con
“Perché De Gaulle” e “Salotto parigino”; Premio Estense con “Il nuovo
teatro in Francia”. Nel ’76 tra i primi cinque selezionati per il Premio
Estense… Nel 1988 fondò e diresse la rivista di teatro “Hystrio”. Per
la televisione curò “.
Ugo Ronfani con Jean Rostand |
Pomeriggio a teatro”. Diresse l’Istituto per la
formazione al giornalismo di Milano e fu coordinatore artistico del
bicentenario goldoniano. A Taranto iniun albergo di viale Virgilio
allestì un convegno sul teatro, presente Ernesto Calindri. Ricordo che
tantissimi anni fa prese parte a un premio che aveva come tema la
bicicletta e arrivò secondo, se non sbaglio dopo Gianni Granzotto. Ma lo
aveva fatto per sfizio. Insomma un’attività intensa, la sua. Il lavoro
lo appassionava, gli faceva “sentire la fortuna di vivere fortemente
questo periodo”. Un lavoro vissuto anche con momenti di rischio
professionale “in certi viaggi d’emergenza per verificare gli attimi più
drammatici della guerra d’Algeria, attimi in cui a Parigi gravava
l’atmosfera pesante degli attentati al plastico, della caccia al
terrorista…”. Me lo raccontò durante una mia visita nella sua casa di
via Raffaele De Grada, al villaggio dei giornalisti, a due passi dalla
sede del “Giorno”, che allora era nel palazzo dell’Eni n via Angelo
Fava. “Le luci esplodevano in più di cinquanta teatri; nonostante la
guerra d’Algeria a Parigi nacque il ‘Nouveau Thèatre’.
Il pittore Mario Bardi con Presicci |
Si schieravano
non già sulle grandi ribalte, dove si continuava a fare del teatro
digestivo da boulevard, non sulle scene sovvenzionate, dove si
recitavano Corneille, Molière, ma nei teatrini della ‘rive gauche’ con i
mostri sacri del nuovo teatro: Adamov, Genet, Jonesco, Beckett. Intorno
a questa costellazione, che è la matrice del muovo teatro francese,
c’era la vecchia vena del teatro ‘naturalist’, il teatro
esistenzialista, che ripropone i vecchi tempi dell’angoscia esistenziale
suscitati dalla guerra. C’è soprattutto, sul piano non più dei
contenuti, ma delle grandi strutture, il grande esempio del teatro di
Jean Vilar…”. Non facevo molte domande, ascoltavo, questo eminente
giornalista e scrittore; questo pozzo di cultura che aveva conversato
con Sarte, Rostand e Simone de Beauvoir… Che impressione hai avuto di
questa scrittrice? “Cominciava a interrogarsi sul suo futuro prossimo,
confessava le sue inquietudini, meditava. Aveva perso molto della sua
combattività; discuteva sulla dignità di prendere congedo dai piaceri
della vita, sul mistero dell’esistenza”. Com’era arrivato, Ugo Ronfani,
al giornalismo? “Per caso. Avevo cominciato l’attività politica, quando
mi accorsi che la parola detta, gridata, quella del comizio, del
dibattito era più approssimativa della parola scritta.
Gaetano Afeltra |
E dall’altra
parte mi rendevo conto che la parola scritta nell’atmosfera un po’
artificiale della creazione letteraria correva il rischio dello
scollamento dalla realtà. Allora fra la realtà gridata in modo spiccio
come uomo politico e una parola che si confrontava con la realtà nuda,
quotidiana la soluzione migliore era la seconda”. Non potevo non
domandargli che cosa fosse rimasto del Ronfani che si calava nel
personaggio del professore nella “Toga rossa”, delle intemperanze,
dell’estremismo, dell’entusiasmo che spingono il docente a parteggiare
per l’evaso Vincenzo Oblato fino a gettargli addosso la toga del
giudice. “Lo sdegno per l’ingiustizia sociale… E’ cambiato il modo di
rivoltarsi: dalla generosa, cieca contestazione, fatta a testa bassa,
come il toro nell’arena, alla consapevolezza che non tutto è da
buttare”. Parlava con distacco, con un tono qua e là un tantino
professorale, ma in uno stile lineare, pulito, scorrevole. Come se
dettasse un pezzo per il giornale. Metteva persino a posto le virgole.
Forse aveva un po’ l’aria del parroco di città, robusto, non alto,
cordiale. Pessimista sulla solidità della democrazia in Italia,
assertore dell’azione individuale, accanto a quella collettiva, nella
ricostruzione della società. Ugo Ronfani, che aveva vinto anche il
Premio Fabbri, morì nel sonno a 82 anni. Ai funerali nella chiesa
Sant’Angela Morici, a Milano, in via Cagliero, a un tiro di schioppo dal
“Giorno”, parteciparono pochissimi colleghi di via Fava; Franco
Abruzzo, che dal quotidiano dell’Eni era passato come redattore capo al
“Sole-Ventiuattr’ore e allora presidente dell’Ordine dei giornalisti
della Lombardia; Piero Lotito, giornalista e scrittore; il titolare
della galleria di via Carlo Toma, “Spazio Prospettive d’arte” Mimmo
Dabbrescia, accompagnato da uno dei suoi due figli, e altri. Era
socialista e non penso fosse credente (non ne parlammo mai). Eppure il
celebrante rivelò che Ugo andava a fargli visita in chiesa e si
confidava con lui.
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