Via Nettuno angolo via D'Alò Alfieri |
ABITAVO IN VIA
NETTUNO
TRANQUILLA E
SILENZIOSA
Conoscevo proprio
tutti gli abitanti:
da “Segarone”,
sempre con un “siluro”
tra le labbra, a
“Menza meròdde, alta
un metro e
cinquanta, alla “contessa”,
moglie di un
vetturino. “Mest Fiorènze”
aveva la
falegnameria nell’androne del
suo stabile;
“mest’Andonie” in un locale
di fianco. Oggi la
strada ha cambiato faccia.
Franco Presicci
Via Nettuno, a
Taranto, una volta era periferia: a un centinaio di metri dall’orto
di mèsta Rònze, dove mia madre mi mandava ad acquistare “’a
gnète” (la bietola). Chi aveva voglia di spingersi più in là ”,
poteva ammirare ”’a ‘ngègne, la noria, congegno mosso da un
cavallo bendato e usato per sollevare l’acqua dal pozzo. Era
collocata al centro di un altro orto, quello del signor Capone, un
uomo alto, massiccio, rispettoso.
Istituto Augusto Righi |
Io ero un
moccioso, quindi curioso di tutto ciò che c’era o avveniva in quel
piccolo mondo antico: fa parte di un libro scritto nella mia memoria,
dove spiccano, nonostante i 74 anni trascorsi, fatti e personaggi. La
contessa, per esempio, bassina, un po’ in carne, socievole,
abbigliamento ricercato. Nessuno sapeva se fosse davvero di nobile
lignaggio (e a chi poteva interessare?), certo è che attorno a quel
titolo ronzavano vespe e zanzare, che non consideravano le autentiche
virtù della persona.
Se chiudo gli
occhi, e la nostalgia m’induce a farlo spesso, rivedo a uno a uno
tutti gli abitanti, soprattutto don Damiano, titolare del tabacchino,
che mi aveva incaricato di sorvegliare le ante della porta per
impedire ai ragazzini discoli di farle sbattere, dopo aver contato
fino a tre a voce bassa, spingendole con forza. Compenso, una
caramella. Di fianco a questo negozio abitava una famiglia numerosa:
sei figli, di cui due maschi.
Margherita, la più bella. Il papà,
che indossava sempre un borsalino scuro a tesa larga, aveva fatto
parte della milizia per guadagnarsi il pane, ma non aveva mai
procurato problemi a nessuno, anzi; e un tale, vantando idee, confuse
e aggressive, opposte alle sue, lo bollava come fascista. Il
pomeriggio alle 4 la moglie del brav’uomo si sedeva fuori del
portone e parlava con chiunque vi si fermasse, specie Gilda, che
abitava al secondo piano del palazzo di fronte e aveva un marito,
Osvaldo, che pur avendo fatto soltanto un paio d’anni alla scuola
per ragionieri insegnava, ottimamente, matematica a un ragazzo del
liceo scientifico.
Via Nettuno |
In questo androne
aveva il banco il falegname “mèst Fiorènze”, che quando
piallava o raspava riempiva il locale di “farfùgghie” e
“serràzze” (sottilissime falde di legno espulse dalla feritoia
dell’attrezzo e segatura). Ma siccome lui era il padrone dello
stabile, nessuno protestava; a parte sua moglie Adelaide, che teneva
molto alla pulizia. Quando mèst Fiorènze smetteva di lavorare,
lasciava tutti gli strumenti in un angolo, e il giorno dopo li
trovava tutti dove li aveva deposti.
Stabile di via Nettuno |
Noi abitavamo al
civico 10 e tra questo numero e quello del falegname c’era un
localino in cui faticava ”mèst’Andònie”, il calzolaio con il
deschetto, che quando si alzava rovesciava il contenitore dei
chiodini (le “semenzelle”) e se la prendeva con il mondo intero:
gli urli arrivavano fino alle scuole elementari Acanfora, in via
Dante, perpendicolare di via Nettuno. Per me nutriva un’antipatia
speciale: quando il nonno mi spediva da lui con un paio di scarpe da
risuolare, mi trattava con modi bruschi, se non bellicosi. Il motivo
derivava dal fatto che tempo addietro quattro o cinque ragazzi
irrequieti gli avevano fatto uno scherzo consegnandogli un fagottino
che avvolgeva non scarpe ma pietre. Giuro: ero innocente, ma tutto
ciò che accadeva nella strada era colpa mia, perché avevo i capelli
ricci, mi chiamavano “rezzetjìdde” ed era facile individuarmi.
“Ci hà’ stàte?”. “”U rezzetijdde”, e andavano a
protestare dal mio vecchietto, che era un bell’uomo, aveva i
baffetti bianchi ed era elegante, oltre che comprensivo e
intelligente.
Una volta ero colpevole davvero: detti un calcio a un
cavolo di cappuccio caduto da qualche borsa della spesa, mandando in
frantumi il vetro di una finestra; ma la feci franca. Pensai che il
mio santo in paradiso qualche volta si svegliasse.
La Chiesa del Sacro Cuore |
Nel quartiere,le
Tre Carrare, tutti conoscevano la signora Magenga, che abitava al
primo piano del numero 16. Faceva le iniezioni con mano leggera; e se
qualcuno aveva un foruncolo ricorreva a lei anche di notte. Invano ho
cercato di ricordare il nome della levatrice che mi fece venire al
mondo. Era piccolina, ormai un po’ ricurva e di poche parole. Non
ci siamo mai parlati; la vedevo passare sempre con la sua borsa in
mano, a passo svelto. Ho in mente un nome: Vestita, ma era lei o una
mia maestra della prima elementare che passò come una meteora? Al 12
si apriva il negozio di articoli elettrici di Quatraro, il cui
figlio, Gennarino, alla maggiore età, si dedicò anche lui a
riduttori di corrente, voltimetri e lampadine. Dirimpetto stava il
palazzo dei Belloni, il cui nipote diventò un maestro del violino.
Scuola Acanfora |
I nomignoli si
sprecavano. Una donna gentile, premurosa, sui cinquanta, era “Mènza
meròdde” a causa dell’altezza (un metro e cinquanta); un’altra
“Cap’a ‘na còste”, per via del collo appena appena reclinato
a sinistra; un fumatore benestante, panciuto, aria da padrone del
vapore, sempre con un “siluro” tra le labbra: “Segaròne”…
A ribattezzare le persone erano due chiacchierone che dopo le 5 si
affacciavano al balcone, al primo piano, e osservavano i passanti. Se
una ragazza usciva verso le 21 con il fidanzato, fioriva il commento:
“Chissà dove va quella a quest’ora?”. Quando rincasava, un
paio d’ore dopo: “Bah, ci sàpe?. ‘A màmme, nìende dice?”.
Una specie di damigiana anzianotta che parlava seminando dicerie era
“Lènga lònghe”; un trentenne sempre pronto alla burla,
“Cegghiòne”i… La signora Gina, alta, capillare, faccia
angolosa, tacchi alti, sedicente sosia della Lollobrigida, sapientona
senza succo, era “’a Grannezzòse”. Insomma, ce n’era per
tutti. “Uèlìne” (forse il diminutivo di Emanuele) era uno dai
modi sbrigativi, pane al pane e vino al vino, sempre calmo e
prudente: un birbantello con una pallonata gli ruppe un vetro, lui
andò dal padre e gli presentò il conto senza fiatare. In strada si
faceva vedere pochissimo e per gli altri era in clausura.
Piazza Messapia |
Statua della Madonna in piazza Messapia |
Il marciapiede di fronte alle persiane della nonna era molto largo e in terra battuta: il luogo ideale per giocare alla “livoria”, allora molto diffusa in ogni quartiere, e anche nella città vecchia: occorrevano due sfere d’acciaio (ricavate dai cuscinetti dei camion americani), due palette che le spingevano, perché non si dovevano mai toccare con le mani, e un cerchio di ferro sostenuto da una sorta di chiodo che si conficcava nel terreno: per realizzare il punto le sfere dovevano attraversare il cerchio, che in dialetto era “’a scìgghie”.
Se la palla di uno dei giocatori si trovava verso “’a menàte” (la linea dalla quale partiva il gioco), l’altro con la propria poteva fare due punti se riusciva a colpirla. Ma doveva dire: “Cape, ce mandène jè fàtte”. Senza volermi dare le arie, io in questo gioco ero abbastanza bravo. Altri passatempi, “’u spezzìdde” (la lippa), praticato anche a Milano in piazza della Vetra; “’u turnìedde”, che si faceva con un cerchio segnato per terra... Spesso da via Dante sbucava “’u ‘nghiappacane” “c’u chiàppe e ‘a carrettèlle” e tutti noi ragazzi ci davamo da fare per salvare l’amico “vagabondo”, facendo sbarramento attorno a lui.
In occasione
delle feste, in piazza Marconi (cinque o sei isolati da via Nettuno),
sede del mercato, separato da via Dante da “’u mònde de le
vàcche”, dove adesso c’è l’ospedale Santissima Annunziata,
s’innalzava l’albero della cuccagna: la gente arrivava
dappertutto per vedere i giovanotti che si affannavano per guadagnare
la cima, da cui pendevano salsicce, provoloni, bottiglie di vino, e
quello che arrivava all’ultimo momento, si inerpicava senza molta
difficoltà e arraffava il ben di Dio.
Io dicevo che era
un’ingiustizia con quell’asso pigliatutto che scavalcava gli
altri. Ci sono voluti anni per sentirmi spiegare che era tutto
organizzato (i primi, salendo e scivolando, dovevano solo togliere il
grasso dal palo, agevolando la scalata del… vincitore). Poi il
mercato si è trasferito alla caserma Fadini, in via Leonida, nei
pressi dell’Arsenale, e per comperare arance, verdura e
“lambasciùne” bisogna passare attraverso corridoi di auto
rumorose e a volte prepotenti.
Via Nettuno |
Le Tre Carrare
non sono più periferia, non finiscono più in via Giovan Giovine.
Via Nettuno, pur conservando un’atmosfera popolare, ha visto
abbattere modesti caseggiati e costruire palazzi di cinque o sei
piani. In via Dante, dopo via Giovan Giovine, la campagna è
scomparsa sotto edifici moderni, come i Beni Stabili, poco prima di
viale Magna Grecia, che allora era una prateria (la prima costruzione
fu la clinica Vestita), dove ogni tanto passava una bicicletta.
Via Nettuno |
Via Nettuno la
ripercorro a piedi nelle mie brevi rimpatriate, attraversando piazza
Messapia, oggi alberata e dominata dalla statua della Madonna e
proseguendo fin dove una volta la strada era troncata dai campi, poi
fagocitati dalla caserma dei vigili del fuoco. Tornando sui miei
passi, appostandomi sulla soglia del civico 10, rivedo, sull’angolo
con via Dalò Alfieri la salumeria “d’a francaveddèse”, da noi
frequentata per comperare l’olio; il negozio di Quatraro (la
signora sulla soglia ad intrecciare discorsi con chi andava o veniva
dalla piazza); la piccola casa recintata della famigliola il cui
figlio amava il “tip tap” e mostrava a tutti le scarpe con le
placchette metalliche… E rivedo “Bbecchemmuse”, lo spilungone a
cui colava sempre il naso; la famigliola che gli impertinenti
chiamavano “Brutos”, dall’insegna del complesso musicale noto
negli anni Sessanta; Rocco, un ragazzo d’oro, magro come un
fuscello, malaticcio, che in un baleno faceva le divisioni, le somme,
le sottrazioni, le moltiplicazioni e le radici quadrate più
complicate, senza toccare carta e penna.
La “mia” via
Nettuno non c’è più. Come non c’è più viale Venezia, allora
una prateria e oggi con il nome di viale Magna Grecia è ricca di
giganti di cemento, tra baccano e confusione. Ah, ricordo il vecchio
che mi raccontò della “Mano Nera” che secondo lui usciva a
mezzanotte dalle parti di “mèsta Rònce”. Certamente una balla o
una credenza popolare: Taranto non era New York, dove la “Mano
Nera” c’era veramente, combattuta nei primi del ‘900 dal più
famoso poliziotto della Grande Mela Giuseppe Petrosino.
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