TELEFONO’ AL SUO
VICINO DI CASA
DI PRENDERSI CURA
DEL SUO GATTO
Oscuri, il questore Bonanno, Gino Cervi |
Per tutti i profitti
della sua attività di
ricettatore venne
soprannominato
dalla mala e dai
cronisti Paperon de’
Paperoni. Si diceva
che negli anni 70
si fosse fatto
costruire in Svizzera una
villa da nababbo. Da
giovane aveva
frequentato il ring,
al quale preferì un
altro mestiere.
Franco Presicci
Nel mondo della
malandra gli avevano assegnato il soprannome di Paperon de’
Paperoni per il profitto derivante dalla sua attività di
ricettatore: si diceva che disponesse di forzieri e magazzini pieni
di merce rubata, compresi oggetti preziosi e che in Svizzera si fosse
fatto edificare negli anni 60 una villa da nababbo. Nato in un’ottima
famiglia dell’alta Italia, aveva intrapreso questo mestiere,
diverso da quello previsto nella palestra di pugilato agonistico che
aveva frequentato. Viveva a Milano, era intelligente e conduceva i
suoi affari con abilità imprenditoriale.
L'ex commissariato trasformato in pub |
Ciononostante, gli
investigatori, guidati dal maresciallo Ferdinando Oscuri, bussarono
spesso alle porte della sua “azienda” e non ne uscirono mai
delusi. Almeno così raccontavano le cronache e così lo descrivevano
i poliziotti che lo avevano mandato più volte al “gabbio” (la
cella). Sempre secondo le voci correnti, i ladri, i topi d’auto, le
“mani di velluto”, come vengono definiti i virtuosi del
borseggio, i “volinisti”, autori del furto con destrezza,
affidavano a lui ogni sorta di malloppo.
Un amico istruito
sui meandri della mala, sui suoi abitanti e sulle loro
specializzazioni mi aveva parlato ripetutamente del personaggio e del
suo presunto pozzo di San Patrizio. Finchè per me venne l’occasione
di captare le risposte – stando per motivi personali, leciti, in
una stanza di un commissariato il 24 luglio dell’80 - che dava al
sottufficiale che stendeva il verbale per l’arresto. Mi fece anche
un po’ di tenerezza, oltre che simpatia, sentendolo supplicare il
maresciallo, cintura nera di judò e sosia di Bud Spencer, o meglio
di Folco Lulli (deceduto nel ’70), protagonista nei film “I
compagni”, “Il Passatore”, “La ragazza di Trieste” (ne
interpretò una quarantina), perché gli concedesse una telefonata al
vicino per pregarlo di prendersi cura del suo gatto.
Poliziotti nel mezzanino del metrò |
“Adesso mi
mandate alla ‘casanza’ (o meglio il carcere: n.d.a.) e il mio
micino rimane solo. Lui non ha alcuna colpa”. Piangeva, non per
finta, non per fare teatro: non era il caso, visto che, lacrime o no,
in piazza Filangieri, a San Vittore, doveva andarci. Il poliziotto,
un duro, un mastino, barba e baffi folti e neri, corpulento e in
completo scuro, non so se per pietà o per stanchezza, gli porse la
cornetta del telefono; e lui, rivolgendosi all’interlocutore: “Ti
prego, t’imploro, prenditi cura del mio micio: mi hanno arrestato,
non so quando potrò tornare a casa e la bestiola al mio ritorno non
la troverò più viva, se tu non compi questo atto di carità”.
L’altro lo rassicurò e lui smise d’implorare, sicuro che il
vicino avrebbe mantenuto la promessa. L’arresto,
conclusione di indagini partite da alcune rapine, era stato preceduto
dalla perquisizione, che, se non ricordo male, riempì il carniere
con gioielli per il valore di cento milioni e altro.
La polizia si
era presentata prima al domicilio di certi elementi conosciuti per le
loro imprese, quindi alla porta di Paperon, che, oltre al mestiere di
“riccardor”, come nella Bassa Padana viene indicato il
ricettatore, a quanto pare, aveva le mani in pasta anche nel campo
variegato del falso. Salì dunque sulla volantina del commissariato,
diretta alla “casanza”, da dove uscì tre mesi dopo con l’obbligo
di firmare una volta la settimana l’apposito registro in un
commissariato. Ma dopo qualche mese fu ricoverato in ospedale, a
causa di un insistente mal di testa, provocato da un colpo di pistola
che lo aveva ferito la notte del 25 luglio ’75: tre killer
incappucciati gli avevano sparato sulla porta di casa. Motivo? Un
mistero rimasto tale fino ai suoi ultimi giorni.
Controlli di polizia |
Il pub la Madama |
So che alla notizia
della sua morte, avvenuta nel gennaio dell’80, molti detenuti di
San Vittore si commossero, giudicandolo tutto sommato una brava
persona. Un quotidiano importante titolò: “Morto in un letto
d’ospedale Paperon…, primo ricettatore dei ladroni di Milano”;
e un altro: “E’ morto Paperon, il buono della mala”. A quanto
mi fu riferito non era uno spaccone né un esibizionista, ma gli
piaceva circondarsi di cose belle; e a quanto pare non ricettava
soltanto per fini di lucro, ma anche per ragioni… estetiche. Era gentile,
rispettoso. Dopo tanti anni lo ricordo con benevolenza. E penso che
se tutto il popolo della malavita fosse stato come lui, ci sarebbe
stata meno violenza e quindi meno sangue versato sulle strade. Oggi
la malandra è spietata, facile all’uso delle armi.
Il giornalista Paolo Chiarelli |
Ricordo la
quantità di mitra, pistole, caricatori, radio ricetrasmittenti…
che ai miei tempi di cronaca bollente la polizia allineava sui tavoli
congiunti in occasione delle conferenze-stampa dopo un “blitz”. Paperon non è il
solo esponente della “maglia”, la mala, in cui mi sono imbattuto.
Non dimentico la suora laica, Angela, che aveva fatto parte di una
banda molto bellicosa. Un pomeriggio mi dette appuntamento in un bar
affollato di gente arcigna e incuriosita dalla mia presenza; mi
invitò ad un tavolino in fondo a una delle sale e cominciò a
raccontarsi. Tra l’altro, mi disse che un giorno, mentre stava per
uscire di casa con in pugno una pistola “per andare a vendicare
alcuni miei compagni in carcere infamati da certe maldicenze di chi
stava fuori, sentii una voce: ‘Dove vai con quel cannone?’. Mi
fermai di scatto: era la voce del Signore che mi parlava. E mi cucii
questo saio”. Al termine, mi regalò una medaglietta della Madonna,
raccomandandomi di non spargere più peperoncino piccante nei miei
articoli. L’ho sentita al telefono mesi fa e mi ha fatto la stessa
raccomandazione. Figlia di una circense, abitava alla Comasina.
Controllo di polizia |
Ho conosciuto
anche un ex spaccatore di vetrine, che ha passato molti anni in
galera. Quando era nel carcere di Opera, durante un permesso venne a
cercarmi al giornale, il 2 novembre del ’79, il giorno della
scoperta della strage di Moncucco: sette persone ammazzate in un
ristorante perché testimoni dell’uccisione del proprietario. Mi
porse un libro sulla sua vita di sbandato (questo il titolo) e gli
suggerii d’intraprendere la carriera di editore, pubblicando
scritti di altri detenuti. Promise che ci avrebbe pensato, ma quando
tornò per ringraziarmi della recensione non aveva ancora cominciato.
Uscito in libertà vigilata, si era messo dietro il banco di
un’oreficeria, forse della moglie. La viglia di Natale un
tossicomane vi entrò, arma in pugno, e la svuotò, lasciandolo al
verde. Venne al giornale e affranto mi riferì l’episodio,
commentando: “Chi la fa se l’aspetti, vero?”. “No, non è
così che la penso”, risposi. Ero davvero dispiaciuto.
Catania e i prefetti Serra e Colucci |
Tra i personaggi
che ho conosciuto nella mia vita professionale c’era anche il
“bandito gentiluomo”. A capo di una banda di rapinatori del
dopoguerra, al termine dell’assalto in banca lasciava la mancia al
cassiere, ringraziava e si ritirava con il bottino. Mai sparato un
colpo. Un giorno un collaboratore di piano al “Giorno” venne a
dirmi che ero atteso nel salottino. A sentire lo pseudonimo con cui
si era annunciato credetti a uno scherzo.
Invece quando lo vidi
comparire nel salone della cronaca e venire verso di me claudicando
rimasi sbalordito. “Che cosa vorrà da me? Pensai: “Ho scritto di
lui più volte in inchieste sulla malavita dell’epoca e sicuramente
qualche passo non gli è andato a genio, quindi è venuto per farmi
la ramanzina”. Sbagliato: mi chiedeva un’intervista. “Nel paese
in cui vivo, narro la mia storia e nessuno mi crede. Se esce un suo
articolo sul ‘Giorno’ con tanto di fotografia si ricrederanno”.
“Ma i suoi parenti…!”. “Sanno tutto, non ho nascosto nulla
nemmeno agli altri”. Era uno “scoop” e non me lo lasciai
scappare. Quante storie
avrei da snocciolare. Anche strane.
Una quarantina di anni addietro
lessi su un quotidiano autorevole che un ladro aveva in mente di
creare il sindacato della categoria. Forse a difesa dagli improperi
lanciati contro di loro da chi subisce il danno? Incredibile. Nel suo
lavoro un giornalista incontra capitani d’industria, personalità
della cultura, politici, primari, questori, prefetti e quindi anche
elementi della “mala”. Ho intervistato pure un famoso “boss”.
Me li ricordo tutti, anche quelli che la malandra la combattevano.
Come mamma L., una signora molto a modo, che, stanca di vedere il suo
quartiere assediato dagli spacciatori di droga, a mezzanotte usciva
di casa, suonava la tromba per chiamare a raccolta la gente e tutti
insieme perlustravano le strade. Tutti i giornali parlarono di lei.
Tra i cronisti più simpatizzanti dell’iniziativa, il sottoscritto,
che dopo aver seguito il corteo, ne parlò sul “Giorno”, di cui
era capo cronista Enzo Catania; e Paolo Chiarelli, ottimo collega de
“Il Corriere della Sera”.
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