CAMMINATE IN CORSO SAN GOTTARDO
L’ANTICO BORGO DEI FORMAGGIAI
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Ibrahim Kodra |
Un
giorno ci andò anche il grande pittore
albanese Ibrahim Kodra e fu accerchiato
da un gruppo di ragazzi che lo sottoposero
a un diluvio di domande.
Poi volle salire sull’enorme velocipede
realizzato dal fabbro Bruno Scapoccin.
Franco Presicci
Le case di ringhiera, a Milano, conservano tutto il loro fascino. Dal Naviglio Grande a via De Castiglia, che un tempo, negli anni 70, era una via stretta e disadorna, a pochi passi dalle Varesine, dove s’installavano le giostre e oggi ricca di palazzi dall’architettura d’avanguardia; all’Isola Garibaldi, che all’alba del ‘900 era bazzicata dalla mala di bassa lega e successivamente ha dato alla luce personaggi che con il proprio lavoro hanno saputo imporre il proprio nome di imprenditori. In qualche parte all’Isola c’era un cimitero detto della “Moiazza” o di Porta Comasina, in cui giacevano anche le spoglie del Parini, del Beccaria e di Tommaso Melzi D’Eri (sorto nl 1685, venne smantellato quando dopo la realizzazione del Monumentale e del cimitero Maggiore).
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Casa di Ringhiera |
Scoprii le case di Ringhiera proprio all’Isola Garibaldi, nel ’70. Ci andai per il settimanale “Il Milanese”, che mi aveva affidato un servizio sulle bocciofili; e lì ne trovai più d’una; un’altra in via Aressi, dove in uno spazio di una cooperativa operaia si spandeva un campo doppio rispetto ai soliti attraversato longitudinalmente da un cordolo, per il gioco alla meneghina. Le case di ringhiera più famose erano in corso San Gottardo, l’antico borgo dei formaggiai, che nei depositi disposti nei cortili, ai primi del ‘900, venivano custodite oltre 200 mila “ruote” di parmigiano. Quando un abitante del borgo andava in piazza del Duomo si capiva subito la sua provenienza, per l’odore che si portava addosso.
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Guido Bertuzzi |
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Luigia Airoldi |
“Mi chiamo Luigia Airoldi, ma se preferisce si limiti al nome di battesimo”. Viveva al secondo piano del civico 22, dove si affacciava per ammirare i tetti a padiglione di color rosso. “Abito da settant’anni in questa casa, che di anni ne ha 150. I terribili rumori della guerra si erano da poco spenti, la gente tirava un sospiro di sollievo e cercava di dimenticare gli affanni., il mercato nero, il coprifuoco, i bombardamenti, anche se le ferite della città erano ancora sotto gli occhi di tutti. C’era voglia di divertirsi, la radio diffondeva tanta musica con le orchestre di Zeme, Consiglio e Kramer, che trasmetteva dagli auditori meneghini. Già da un anno, la domenica alle 14, andava in onda il programma ‘Sette giorni a Milano’ di Spiller, Carosso e Menicanti. Era bello una volta vivere sulla ringhiera. Sì, c’era il gabinetto comune in un angolo del ballatoio, ma nella saletta avevamo il camino. Ci si nutriva con la pagnotta e qualche piatto di spaghetti, che il mio compagno portava dal panificio in cui lavorava”. Tra i coinquilini regnava tanta affabilità. Tutti per uno, uno per tutti. Ci si parlava da una ringhiera all’altra; ci confidavamo problemi, gioie, amarezze, delusioni. Se uno aveva bisogno non rimaneva mai solo. Si accendevano anche liti, ma erano un fiammifero che subito si spegneva, grazie anche agli altri pronti a riportare la pace”. Luigia ricordò poi la gente che aveva lasciato la ringhiera: la lavandaia, che faceva una vita di stenti e di fatiche; il formaggiaio Uliman… Al 24 c‘era la trattoria della Celestina, dove gli uomini dopo il lavoro giocavano a carte. “Buongiorno”. Ecco il nipote, Silvio, 69, anni, un uomo massiccio, cordiale, loquace, sorridente e disposto a integrare il discorso: ”Dalla Celestina, bevendo un sorso, si cantava anche a squarciagola. Nei pressi si giocava a dadi all’aperto sino alle 7 del mattino.
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Vicolo dei Lavandai |
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Barcaiolo |
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Gianni De Bernardi |
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Opera di Kodra |
Alcuni ricordarono il giorno in cui s’imbatterono in quel grande personaggio che era il pittore albanese Ibrahim Kodra, uomo di alta cultura, pittore conosciutissimo e amato (aveva fatto mostre ovunque, da Palermo a Palinuro, oltre che a Milano e all’estero, frequentatore assiduo di Brera e innamorato della vecchia Milano). L’artista volle salire sul velocipede realizzato da Scapoccin e poi sulla balena ancora nelle acque del Naviglio Pavese. Un gruppo di giovanotti lo accerchiarono e gli chiesero se fosse vero che al suo arrivo in Italia da Tirana avesse fatto un discorso nella sua lingua contando da uno a cento e intervallando la numerazione con le parole in italiano “duce”, “fascio”, “Mussolini” le uniche che conosceva), scatenando una valanga di applausi, perché tutti credettero che aveva esaltato il regime. Eh, Ibrahim, uomo spiritoso, scherzoso, socievole, leale, generoso. In gioventù era stato campione nel lancio del disco in Albania, ma non ne parlava mai, come non parlava dei suoi quadri, dei suoi totem che suonano il banjo e altri strumenti. Ne aveva uno appeso a una parete del suo studio, in piazzale Lagosta, all’ultimo piano, da dove si dominano viale Zara e un po’ viale Fulvio Testi. Quella casa era stata di Ghiringhelli, già sovrintendente alla Scala. Quando Ibrahim morì, Fatos, la persona che tiene alto il suo nome, mi invitò a parlare dell’artista a una televisione albanese e non riuscii a trattenere le lacrime.
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