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mercoledì 15 gennaio 2025

Le voci dentro le mura della città

CATALDO SFERRA RACCONTA IN DIALETTO LA TARANTO ANTICA



Sferra discute su Taranto
Nel suo libro c’è un po’ anche il borgo meno lontano: Marche Polle, lo strillone che vendeva strada per strada “’U Panarijdde” e le schedine della Sisal e del Totip.

















FRANCO PRESICCI



Immagino Cataldo Sferra passare le ore chino sui libri a rispolverare pagine, chiuso in una stanza per non essere disturbato, mentre fa ricerche sulla Taranto di una volta. Lo immagino nell’atto di prendere appunti, meditare, immergersi con il pensiero in quei giorni così lontani, pescare personaggi, storie, ambienti, monumenti trasformati... Lo immagino mentre fa scorrere la penna su fogli bianchi per raccontare agli altri ciò che ha scoperto o ritrovato.
Il ponte girevole

Il suo sapere lo ha coltivato leggendo, sgobbando, parlando con gente dal cervello fino, fermandosi davanti a chiese, edifici patrizi, piazze, strade... per verificare, confermare. Un ultraottantenne mai stanco di girovagare per entrare nel cuore della città che non esiste più; per conoscere le leggende, la storia, i palpiti antichi, gli usi, i costumi, i luoghi della preghiera, la volontà dell’uomo di abbattere per ricostruire con stile nuovo, magari peggiorando. E scrive, tanto.
Immagino la sua ansia nel recuperare ciò che non ha potuto apprendere frequentando normalmente una scuola. Ed è andato oltre, ha superato i confini, i muri, le barriere. Nel suo testo su Anna Fougez dall’infanzia in poi, parlò con amici, parenti, conoscenti della diva che con la sua arte conquistò città e paesi.
Sferra non è uno scrittore che colma i vuoti con l’invenzione. E in “Aveva scè’ accussì” fa emergere Maria Annina Laganà Pappacena, in arte Anna Fougez, con tratti icastici, regalando al lettore anche curiosità e novità.
Adesso affida alla casa editrice Edita “Indr’a le mure-voci dei vicoli, storie di uomini e vicende notevoli della Taranto che fu”. Il libro lo hanno presentato Domenico Selliti e Antonio Fornaro; e lo stesso Sferra s’introduce parlando del suo amore per il dialetto di casa nostra. Personalmente mi ha commosso il ricordo che Cataldo fa di Enzo Murgolo, alla ribalta Enzo Valle, attore e figlio di un attore che nella vita faceva il brigadiere dei vigili urbani. Anche a Enzo piaceva il vernacolo, tanto che, per un certo periodo, anni fa, tentò di ridare vita a “’U Panarjidde”.
Copertina del libro

Cataldo raccontava episodi, persone, situazioni, quando Enzo lo esortò a mettere nero su bianco, perché le sue parole rimanessero. Lui lo ha fatto. Già scriveva poesie, sempre in dialetto, e altre cose e dipingeva la sua Taranto, la nostra Taranto che ci dà luce e calore.
Apriamo “Indr’a le mure” e ci attira il titolo “Le fundane d’a chiazza”, quella più importante “de Tàrde vècchie”. Aveva due entrate, una per chi veniva da fuori, ed entrambe erano presidiate dai gendarmi, pronti a impacchettare i malintenzionati. La descrive nel dettaglio: l’entrata dal porto mercantile era sempre affollata, dato che non c’era ancora la ferrovia e ogni tipo di merce veniva scaricata dai bastimenti; l’ingresso di Porta Napoli era più vicina a Mare Piccolo e si entrava dalla parte della Torre di Raimondello Orsini , dove aveva alloggio il comandante della cittadella. Sotto quella torre erano allocate la Dogana regia e la direzione “de l’ufficiale de chiazze”. La piazza era ben arredata e tutt’intorno si aprivano ristoranti, “maiazzènere”, ‘a Torre d’u relogge, “‘u Cadaròne p’u sgranatorie de le puveridde ca stave proprie ’gànne ‘o Ponde de pètre”. Una descrizione minuziosa, che comprende la decisione di Carlo V di far costruire “indr’a chiazze” una fontana monumentale per fornire acqua ai tarantini. Quella fontana era molto bella, precisa Cataldo, che non si ferma lì, va avanti con il discorso, dotandolo di immagini significative.
E arriva il turno della balenottera Carolina catturata nelle nostre acque e subito oggetto di discussioni e di polemiche, inscenate dai soliti saputi. Chi la definiva balena, chi capodoglio, chi balenottera e non riuscivano a trovare un punto d’incontro.
Cataldo Sferra e la padrona di casa a Martina
Il giudizio insindacabile venne dagli esperti dell’Istituto Talassografico (fu poi diretto dal professor Pietro Parenzan, a cui toccò studiare un pescecane nato a due teste, pescato sempre “indr’ o màre peccerjidde” e studiare i fondali dello stesso mare). Quella specie di siluro venne esposto nella rotonda della Villa Peripato” e tantissimi cittadini si affrettarono ad andare ad ammirarlo (io c’ero) e a commentare, impressionati in particolare dai fanoni. Anche qui Sferra fornisce tanti particolari, dai pescatori che lo avevano avvistato ed erano sul posto per catturarlo insieme alle autorità; fa nomi, cognomi, età, discendenze, le fasi della cattura, le ore richieste per il recupero, i mezzi impiegati, inclusi quelli della Capitaneria di Porto. Insomma tutto ciò che può appagare la curiosità di chi legge.
Era il 16 dicembre del ‘49. Una giornata dunque molto animata e così anche le successive. Cataldo l’ha sicuramente visto, quel cetaceo, nella rotonda della villa. Poi si è informato dal direttore dell’Istituto talassografico, attingendo notizie anche da altre fonti, memorizzando mille dettagli nella sua memoria di osservatore attento e minuzioso.
Le pagine continuano ad essere intense. Tre di queste si riempiono del coraggio di un uomo che sfidò a duello un ufficiale francese, lanciando il guanto, in un periodo in cui le truppe d’oltralpe ci stringevano in una tenaglia.
Il giovane Sferra dipinge

L’episodio avvenne nella città vecchia nel 1799 e il motivo non si è mai saputo. L’ufficiale aveva forse insultato Giovan Camillo Boffoluto, lo sfidante tarantino fumantino che mal tollerava l’atteggiamento arrogante dei francesi? Cataldo fa le sue ipotesi, approfondisce lo stato di famiglia di Giovan Camillo, le sue discendenze, il suo matrimonio con una nobile, da cui aveva avuto due figli. Il duello? Si concluse con l’uccisione del francese, Camillo fu costretto a darsela a gambe vestito da donna, correndo verso il Pizzone, continuò la corsa… E quasi dispiaciuto l’autore dice che del fatto non si è saputo più nulla e passa ad altri argomenti: Giovanni Paisiello, Mario Costa per arrivare a Marche Polle, Amedeo Orlolla, il personaggio caratteristico di Taranto, che vendeva il periodico “’U Panarijdde”, fondato da Leggeri, e le schedine della Sisal e del Totip. E qui Cataldo racconta la storia del simpaticissimo strillone e la provenienza del soprannome, dovuto al fatto che il padre, Giovanni, aveva fatto il marinaio sulla corazzata Marco Polo. Ma lui vuole andare a fondo, scavare, incidere nel cuore della storia e fa i conti fra le date, la vita della nave, che dopo il varo rimase due anni nel cantiere di Castellammare di Stabia per i lavori di rifinitura ed entrò in servizio a Napoli il 21 luglio del 1894; e Giovanni era nato a Taranto il 23 giugno del 1859.
Sferra e il poeta Claudio De Cuia

Concilia questa data con le vicende della nave? Sferra è come san Tommaso, deve toccare tutto con mano, non dà niente per scontato. Il dialetto di Sferra è comprensibile, lo stile sciolto, semplice con il tono del nonno che racconta ai nipoti, ma anche ai grandi, che amano conoscere facce della città perduta.
Cataldo Sferra è un sostenitore del dialetto, lo difende, vorrebbe diffonderlo, introdurlo anche nelle scuole. Il nostro dialetto è musica, con il dialetto ci esprimiamo di più e meglio, il dialetto ci tiene più legati alla città, ce la fa amare di più. Quando parliamo in dialetto a volte ci ascoltiamo, proviamo gioia, ci fa sentire come in una fortezza. Da giovani i genitori ce lo impedivano, perché secondo loro era un linguaggio da scaricatore di porto (con tutto il rispetto). Credo che Cataldo sia andato in qualche aula, tra i banchi, a recitare qualcuna delle sue poesie in vernacolo.
Sferra con due signore a Martina

Ho letto volentieri il suo libro, per il dialetto e per il contenuto: è una raccolta di fatti e personaggi rilevanti, come scrive Antonio Fornaro, che di Taranto ha scandagliato negli anni ogni aspetto, riti e abitudini, carattere delle persone, ogni respiro dai tempi più lontani. “Trovano spazio nel lavoro di Sferra luoghi della memoria magno-greca, ma anche di importanti monumenti, come la chiesa di Sant’Andrea degli Armeni.
Domenico Sellitti sostiene che l’autore rappresenta una voce viva e pulsante della cultura e della tradizione tarantina. Una voce antica che, ahinoi!, si va a poco a poco affievolendo tra le vie, i vichi e le posterle del Borgo Antico, per essere tristemente dimenticata dalla ultramodernizzata nuova generazione informatizzata da un avanguardismo tecnologico in cui la memoria collettiva non trova assolutamente riparo tra i solchi della memoria virtuale degli insostituibili personal computer”. Comunque noi il dialetto lo parliamo lo stesso e lo leggiamo anche in libri come questo.

giovedì 9 gennaio 2025

I pugliesi a Milano

MOLTI SONO IN PLANCIA E TENGONO BENE LA ROTTA


Dolmen
Accorrono ad ogni richiamo della loro terra, amano stare
insieme. A volte senti parlare in meneghino su un pullman o su un tram e poi scopri che quella voce è di matrice brindisina o leccese.









FRANCO PRESICCI



Poche volte ho visto tanti pugliesi riuniti in occasioni dedicate alla nostra terra. Tantissimi nelle feste solenni all’Hotel Quark e alla celebrazione dei 700 anni di Martina, organizzata da Francesco Lenoci, docente di materie economiche alla Cattolica di Milano, al Circolo della Stampa. Al “Quark” ammiravo fra l’altro la grande capacità dei corregionali, tarantini, martinesi, leccesi, brindisini ... d’intrecciare valzer e di avvitarsi nel tango, e l’eleganza di Dino Abbascià, allora presidente dell’Associazione regionale pugliesi, con cui intratteneva gli ospiti, chiamando poi al telefono il suo amico Al Bano, che dava gli auguri con fervore.
Trulli di Martina
Che serate! Allestite dall’Arp, che faceva e fa susseguire una manifestazione dietro l’altra, compreso il famoso Premio “Ambasciatore Terra di Puglia, la cui cerimonia di consegna si tiene in un salone della Regione Lombardia.
Memorabile anche quella messa in piedi al Circolo della Stampa di corso Venezia da Lenoci, che fece salire a Milano Franco Punzi, che ricordo con affetto, il rettore della Basilica di San Martino don Franco Semeraro e altri “itriani” (rubo il termine dal titolo del libro di Giovanni Rosario Cavallo), che non se la sentivano di mancare a una festa così importante per la loro città, e non solo. Ricordo gli invitati, numerosi, attenti, soddisfatti, entusiasti. Debordava nelle altre sale, perché la “Indro Montanelli”, pur essendo una piazza d’armi, non ce la faceva a contenerli tutti. I relatori parlarono in modo eccellente della città dei trulli e del belcanto, del sole e della campagna dalla terra rossa, esaltata da Filippo Alto nelle sue tele appassionate. Poi Lenoci dette la parola a un giornalista sedotto da Martina, che dette inizio all’intervento affermando di non credere che questo gioiello avesse raggiunto quella montagna di anni, vedendolo sempre così bello, così attraente, così splendente. E aggiunse subito che non poteva che avere quegli anni, visto che lo dicono i libri e gli studiosi. Dunque Martina era come una donna d’altri tempi, che nonostante l’avanzare dell’età, rimane intatta nel suo fulgore. Miracoli che fa soltanto il Superiore. Alle prime parole del cronista impertinente si era creata in qualcuno un po’ d’ansia, subito placata nel prosieguo del discorso. Breve, succoso, senza retorica, farcito d’amore per un luogo che ha tante preziosità da offrire.
Rivado agli anni ‘70, quando un altro richiamo attirò molti pugliesi. Grazie forse a Mario Azzella, di Trani, giornalista e documentarista, che aveva offerto il microfono della Rai in una trasmissione nazionale allo stesso cronista per fargli spiegare i motivi dell’appello. E accorsero, i pugliesi: avvocati, rappresentanti della carta stampata, galleristi, docenti… Il primo ad entrare nel salone del Cida (Centro internazionale d’ informazioni d’arte” di Gastone Nencini, proprietario anche della Galleria Boccioni, fu Guido Le Noci, che aveva il suo Centro d’arte “Apollinaire”, proprio di fronte, in via Brera , chiuso da un po’ di tempo.
L'Europeo

Le Noci, martinese nel sangue e nel cuore, fece appendere a una parete alcuni quadri di pittori d’avanguardia, che aveva ospitato nelle sue sale di respiro europeo. Fece di più, consentendo la proiezione di un filmato sulle tarantolate di Galatina dello scultore Paradiso. La serata fu aperta da Lambros Dose, direttore del Cida, con la lettura della presentazione di Paolo Grassi al libro “Passeggiando in Valle d’Itria”, di Massimo Fumarola. Seguirono interventi di Vincenzo Buonassisi, gastronomo di fama e inviato speciale de “Il Corriere della Sera”; e di Domenico Porzio, scrittore e giornalista, capo ufficio stampa della Mondadori e assistente del presidente Arnoldo. A dare l’occasione alla manifestazione era stata la pubblicazione sull’”Europeo” di un’inchiesta di Salatore Giannella su “I trulli che vanno in rovina”. Presente anche Giovanni Valentini, barese, a 29 anni direttore del famoso settimanale della Rizzoli (nelle sue pagine aveva scritto anche Oriana Fallaci). Era figlio di Oronzo, che negli anni Cinquanta, mentre nella Bimare si svolgeva il Premio Taranto e tre o quattro pittori locali - tra cui Giuseppe Pignataro, studio nell’androne di uno stabile di via Di Palma - scrivevano sui muri “Abbasso Pirandello” (il pittore; n.d.a,) e viva Raffaello”, lui rispondeva dalle colonne de “La Gazzetta del Mezzogiorno”. A Giovanni fu poi dato il Premio Milano, che si confezionava nel ristorante “La Porta Rossa” di Chechele e Nennella, in via Vittor Pisani.
Nennella, Giacovazzo, Chechele, Presicci

I pugliesi accettano sempre gli inviti, quando alla ribalta si esibisce sua eccellenza Puglia, che ha dato a Milano persone geniali, come appunto Guido Le Noci, amico a Martina di Elio Greco e a Milano di Raffaele Carrieri, Dino Buzzati, Pierre Restany… Guido era anche molto vicino a Paolo Grassi, re dello spettacolo. Grazie a lui conobbi Buzzati, un signore, un gentiluomo, che mi dette addirittura il numero di telefono di casa.
Tra i pugliesi che si distinguevano a Milano c’era anche Peppino Strippoli, che aprì parecchi ristoranti. Tra questi, “Ndèrre a la lanze”, a due passi dall’Università Statale e dalla Libreria Universitaria di Aldo Cortina, bellunese cresciuto come pittore nello studio di De Pisis. Strippoli era di Cerignola, ma tutti lo ritenevano barese. Era ospitale, accoglieva nei suoi locali gli amici più rappresentativi, compresi Gillo Pontecorvo e il pittore Filippo Alto, che aveva la casa e lo studio delle vacanze a Figazzano, Sisto, un tiro di fionda da Martina Franca. Anche lì Filippo realizzava serate affollate di personalità: il ministro ai Beni Culturali Vernola; il direttore della “Gazzetta” Giacovazzo (bello il suo libro “Puglia il suo cuore”), presentato a suo tempo nel teatro dell’Angelicum a Milano, con Al Bano che tuonò facendo fremere i muri); il direttore del Circolo Italsider della Bimare, alloggiato nella masseria Vaccarella, Giuseppe Francobandiera, scrittore e grande anfitrione (chiamò per tenere conferenze Gianni Brera, Morando Morandini e altri e inanellava idee continuamente, come il teatro sull’erba e le gare dei concerti (assistetti a una commedia con Luca De Filippo).
Bisceglie porto turistico

Da Alto ascoltai una brillante esibizione di un vecchio contadino, don Oronzo, come lo chiamavano noi, che raccontò brani della sua vita d’imperatore delle vigne, spargendo risate e mietendo applausi. Per ringraziarmi di un’intervista fattagli seduti su una “chianca” di trullo, all’aria aperta, un sera in cui in cielo palpitavano le stelle, mi regalò un fiasco di vino, dopo un ballo con il critico e storico dell’arte Raffaele De Grada, ospite dell’artista. Don Oronzo era un personaggio estroverso, Mi raccontò che in occasione della festa della Madonna doveva arrivare padre Cionfoli, ma il cantante ebbe un imprevisto e per la domenica non era disponibile: si poteva rimandare al lunedì. Sacrilegio! La Madonna non poteva aspettare i comodi di un’ugola sia pure famosa. “Io ho le chiavi della chiesa, la chiudo e vi attaccate al tram!”. Detto e fatto.
Sono, questi, ricordi di un pugliese a Milano fra pugliesi, che tornano sempre al nido e nelle lontananze lo sognano. Uno che resta legato alla sua Bisceglie, pur viaggiando da un capo all’altro dello Stivale, è Pino Selvaggi (Ambrogino d’oro e cavaliere al merito della Repubblica), già bancario, scrittore, poeta e anima dell’Associazione regionale pugliesi.
Mercato del martedì a Noci

A lui si deve il Premio “Ambasciatori Terre di Puglia” che riempie il luogo in cui la cerimonia di consegna si svolge. Quando dettero il riconoscimento a Renzo Arbore, che è foggiano, tutti i posti del Teatro Urban erano occupati e molti stavano in piedi. Sul palco Nicla Pastore di Studio Cento di Taranto e il compianto Dino Abbascià, in abito scuro, quasi appoggiato a una delle quinte per non togliere la scena alla giornalista della Bimare, signorile, spigliata, bella.
Questi pugliesi! Sono encomiabili per il loro attaccamento al paese d’origine, pur amando Milano, la gente, “dotati di cortesia e di grande ospitalità”, mi disse il coreografo e ballerino Don Lurio, che era di New York, quando a “Prospettive d’arte” del barlettano Mimmo Dabbrescia, tenne una mostra dei suoi quadri. Dopo essere stato valente fotografo al “Corriere della Sera”, Mimmo aveva aperto il suo spazio in via Carlo Poma, presso il Naviglio Grande ospitando artisti di altissimo livello, da Treccani a Dova, a Kodra.
Questi pugliesi! Li trovavo dappertutto. Non è da meravigliarsi se viaggiando su un tram o su un pullman avverti un’aria di casa. O incontri qualcuno che usa il dialetto che per te non ha misteri. Molti di quelli che parlano un meneghino corretto sono pugliesi mascherati, come riferiva anche Giuseppe Giacovazzo nel suo libro.
Taranto
Un pomeriggio a un fotografo del mio giornale che credevo milanese di nascita scappò un vocabolo in dialetto forestiero, che m’impietrì; se ne accorse e confessò di essere di Cerignola. “Mi hai stupito. Tradisci le tue origini con tanta disinvoltura, la tua gente, che non si vergogna di dire ‘ciucce’ invece di asino; ‘pateme’ invece di mio padre. I pugliesi che conosco io vanno a testa alta, affermano con orgoglio di appartenere alla terra, di essere del tacco. Io amo “Mare Picce” e “Tarde vecchie”; l’aria e l’odore di Martina, il verde e le forme della sua campagna, il fico e l’ulivo, la quercia, le case a cappuccio, il borgo antico con le sue quinte e i suoi fondali da teatro, le sue “’nghiostre” , le sue “vedovelle”, da cui sgorga acqua fresca e pura, i suoi tratturi, le sue porte con il chiavistello, le sue altane, da cui pendono fiori di vario colore… Lo griderei da un balcone. La Puglia è la mamma, la grazia, la bellezza, il sole… Un incanto

venerdì 3 gennaio 2025

Sorge in via Fratelli Zoia, zona Forze Armate

UNA DELIZIA, LA CASCINA LINTERNO IN CUI SOGGIORNO’ IL PETRARCA




Angelo e Gianni Bianchi
I fratelli Gianni e Angelo Bianchi sono i premurosi custodi della storica struttura rurale. La fanno rivivere anche scrivendo libri interessantissimi, facendo ricerche, organizzando conferenze sul granturco, sull’aratro, sul “pret de Ratanà”, visite guidate al Parco delle Cave, momenti di svago e altro.
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 


Sono passati anni da quando entrai per la prima volta nella cascina Linterno, in via Fratelli Zoia, a Milano. Invitato dai fratelli Angelo e Gianni Bianchi, che impiegano tutte le loro forze per tenere vivo il nome della struttura, ammirai la squisitezza dell’ospitalità e la bellezza, il fascino del luogo. Mi trovai tra centinaia di persone che di solito partecipano alle iniziative che vengono organizzate per far conoscere le attività in esso svolte oggi e nei secoli e la sua storia, che comprende il soggiorno per nove anni di Francesco Petrarca, da sempre alla ricerca della pace, della solitudine, del silenzio, infastidito dagli orpelli e dalle cerimonie dell’ambiente di corte. In quel luogo sacro il Poeta aretino si dedicò , fra l’altro alla cura dell’orto e alla correzione di alcuni suoi scritti.
Cascina Linterno
I fratelli Bianchi hanno il grande merito di aver fatto di tutto per evitare alla Linterno la sorte toccata ad altre opere rurali, lasciate al degrado o demolite, magari di notte per sfuggire alle proteste dei cittadini.
Con fantasia e volontà incrollabile, competenza e passione, i Bianchi hanno ricreato la vita in quel gioiello, mobilitando tutto il quartiere, legato al verde e alle vicende della terra del Porta. Tengono conferenze (sul granturco, sui fontanili, sull’aratro...), hanno scritto libri densi di fatti, chicche, avvenimenti, sulla vita e il lavoro nella cascina di una volta, accolto personaggi di rilievo innamorati di Milano. Tullio Barbato, per esempio, già pilastro del quotidiano “La Notte”, scrittore (“Case e casini di Milano”, “Cucina e osterie della vecchia Milano”, “Per una storia di Meneghin e Cecca”…), fondatore e direttore di Radio Meneghina;, conoscitore profondo di Milano, fornitore di idee anche per il Carnevale.
Distribuzione piantine di riso (A. Bianchi)
Conosco neme, dunque, questa fucina di cultura, assistendo alle conversazioni nella chiesetta interna o nel cortile o nei dintorni; e vi ho incontrato persone di ogni ceto e provenienza, oltre ad attori, sceneggiati televisivi, che qui hanno avuto come podio una specie di poggio incastonato in un paesaggio delizioso. Ho ascoltato Angelo e Gianni mentre parlavano delle attività agricole o del pret de Ratanà, un personaggio straordinario ancora oggi venerato. La cascina Linterno non è soltanto una meta domenicale di persone che vogliono stare in compagnia, ma un luogo in cui si fa cultura. Il mio collega Piero Lotito, che è anche uno scrittore affermato (il suo libro più recente, “Di Freccia e di Gelo”, è pubblicato da Mondadori), scrisse, sul quotidiano “Il Giorno”, un pezzo esemplare, da cui traspariva molta stima per i fratelli Bianchi e per il lavoro che fanno instancabilmente. E lo scrisse con l’anima.
Raccolta del fieno (A. Bianchi)

Di fianco alla Linterno c’è la villetta che fu abitata del “pret di Ratanà”, al quale Angelo riservò un pomeriggio raccontandone il carattere, le imprese, le doti, le curiosità, le leggende. Come quella del tram che si rifiutò di partire perché aspettava che don Giuseppe Gervasini, che avanzava a passi lenti, salisse e si mettesse comodo. Don Giuseppe, un uomo un po’ brusco, un po’ anarchico, riluttante ad accettare le convenzioni, le regole da lui ritenute inutili, schietto, generoso, che ancora oggi i fedeli vanno a visitare al Cimitero Monumentale (dove sono sepolti i grandi personaggi), portando fiori e recitando preghiere.
Mi soffermai a lungo in cascina in un angolo ricco di attrezzi agricoli, tra cui un carretto che aveva trasportato chissà quanta roba. Forse una sopravvivenza dei primi del ‘900. Alle pareti erano appesi manifesti con la descrizione dei singoli pezzi e l’uso a cui erano destinati.
Attrezzi
Tempo fa ripresi in mano i volumi dei Bianchi per rinfrescare la memoria. Passai ore e ore su quelle pagine, che ogni appassionato delle vicende milanesi dovrebbe leggere. Apprezzo molto l’attività di Angelo e Gianni, che tra l’altro nelle loro ricerche hanno perlustrato gli angoli più riposti che risuonano ancora dei passi del Poeta del “Canzoniere”, che fu a Montepellier, a Bologna, ad Avignone. Sono volati secoli dal suo soggiorno alla cascina Linterno e rivive nelle parole e negli scritti di due fratelli intellettuali, che non si stancano mai di produrre idee e progetti, perché l’importanza della Linterno non venga mai meno. Il loro impegno, prezioso, deve essere premiato. La Linterno è una delizia da custodire con amore. Lo voleva anche Tullio Barbato, uomo e collega generoso, disponibile, intelligente., legatissimo alla sua città. La sua mente era un cantiere sempre aperto e produttivo. Quando ho avuto bisogno di qualche notizie sulla storia della città mi sono rivolto a lui e ho ricevuto puntualmente risposte dettagliate. Un giorno gli chiesi informazioni sulle balere e mi inviò una ventina di fotocopie ricavate da un libro.
Trebbiatura sull'aia (A. Bianchi)

I fratelli Gianni e Angelo Bianchi hanno dato notevoli contributi alla conoscenza della Linterno (che per la verità ha qualche acciacco), con parecchi libri e in “Vita di Cascina”, realizzata a cura dell’Associazione Amici della Cascina Linterno, edita dal Comune . Un libro molto interessante anche per le molte fotografie che contiene sulle fatiche quotidiane dei braccianti. Vi emergono figure come il capostalla, che aveva competenza su tutti i bovini; i cavallanti che governavano i cavalli; il loro capo, che riceveva ordini soltanto dal padrone, al quale doveva rispondere in caso di errori e di emergenze; i ragazzi della cascina, che imparavano a familiarizzare con i cavalli e ad amarli”; gli addetti alla stalla, chiamati “famei” o “bergamin”... Questi lavoranti facevano tutto a mano, dalla mungitura alla consegna del latte, al rifornimento delle mangiatoie con erba e fieno.
I fratelli Bianchi descrivono le cascine, in ogni aspetto. Le immagini fanno il resto. Colgono per esempio un lavorante alla guida di uno dei primi trattori. I personaggi di una volta e quelli di oggi. “Vita di cascina” mi ha fornito una sorpresa: l’arte di Angelo, “elemento della natura” - come lo definì un amico intellettuale - uomo di grande talento, dal sapere enciclopedico, profondo, di origini contadine e operaie, ma geniale. Umile. Ed è questa sua ammirevole umiltà che gli impedisce di esporre le sue opere di pittore e disegnatore; opere di ambiente agreste che rivelano la sua alta capacità di far rivivere momenti della fatica contadina con pennellate rimiche, con tratti veloci. Incantano le sue teste di cavallo, di mucca; e altre figure, di operai che attraversano infagottati sentieri innevati, mungono, curano l’orto.... Angelo Bianchi è artista che seduce, affascina anche con la sua tavolozza delicata. Peccato che si rifiuti di allestire una mostra, magari nel cortile della cascina. Bellissimo quel contadino con la pala in spalla, mantello e cappello, (el campèe, addetto all’irrigazione dei campi) che torna a casa al tramonto; e bellissimo il disegno sull’insaccamento del granturco sull’aia dopo l’essiccazione.
Cappella della cascina
“Vita in cascina” è dunque “un quadro della passata vita contadina, un doveroso riconoscimento alla fatica di ci ha preceduto e posto le basi per consentirci l’attuale tenore di vita”, scrivono in copertina gli Amici della Cascina Linterno, Associazione di volontariato senza scopi di lucro, sorta nel 1994 per la protezione della cascina e del suo territorio, di cui si hanno notizie certe dal XII secolo. Il sodalizio è attento ad evitare speculazioni edilizie, a mantenere l’attività agricola, la divulgazione di usi e costumi rurali…
La prima volta ci andai per assistere a una manifestazione organizzata dai fratelli Bianchi nella chiesetta interna. Al termine il pubblico, sempre numeroso, si sparse sull’aia anche a consultare i volumi di Angelo e Gianni Bianchi, scambiarsi opinioni sulle linee architettoniche del fabbricato.
Insomma la Cascina Linterno palpita. Per chi ama Milano è un piacere che questo manufatto storico susciti l’interesse di tanti cittadini. E’ come tante “dame d’antan” che nella gloria dell’età conservano ostinatamente il fascino del tempo che fu. E’ testimone del rapporto dell’uomo con la terra, irrorata dal sudore del contadino.