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mercoledì 29 ottobre 2025

Il professor Francesco Lenoci

CONFERENZIERE ITINERANTE NATO IN UNA CITTA’ LUMINOSA

 

 



Francesco Lenoci
Economia, moda, ceramica, figure di grandissimo livello... sono i suoi temi parlando in ogni angolo del Paese. E’ nato a Martina Franca, dove ritorna sempre con amore.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI

 

Francesco Lenoci, docente di economia all’Università Cattolica del “Sacro Cuore” di Milano, Lenoci è il presidente del Premio Donato Menichella dalla Fondazione “Nuove Proposte” di Martina Franca, istituita dall’avvocato Elio Greco. Uno dei tanti incarichi prestigiosi che negli anni sono stati assegnati a questo grande messaggero di cultura.

Lenoci e Piero Colaprico
 Non si contano i chilometri che ha fatto, andando da una parte all’altra dell’Italia, questo martinese colto e dinamico, autore di testi di economia prestigiosi scritti anche a quattro mani, tutti interessantissimi. Li ha presentati a Taranto, a Milano, in Valle d’Itria e altrove. In Abruzzo è stato decine di volte anche per incontrate il giornalista e scrittore Goffreddo Palmerini, che a sua volta continua a fare il giro del mondo per raccogliere e raccontare nei suoi libri le storie degli abruzzesi emigrati.
A Milano, dove vive e lavora, Lenoci ha parlato in istituti di credito, associazioni e in altre sedi, su temi rilevanti di moda, ceramica, mentre ad Altamura e a Laterza di pane: Ha presentato libri di vari autori nel mercato di Porta Romana, caro a Giorgio Gaber, editi da un giovane editore di Locorotondo, che svolge tante attività, compresa quella del barbiere e del libraio. Al Rotary Club di Merate, al termine di un suo discorso alla presenza di intellettuali e imprenditori, ebbe commenti entusiastici da parte di tutti i presenti: “Questo docente affascina ed informa con chiarezza”.
Non gli ho mai chiesto dove attinga tutta questa energia, che impiega con gioia, come lui stesso dice. E’ certo che ormai lo conoscono dappertutto. Durante le scorse vacanze, al Frantoio Ipogeo Rosso, bellissimo locale fornito di neviera, nella città dei trulli e del bel canto, ha illustrato uno splendido libro di immagini, “Puglia nel cuore”, di Enzo Rocca, già vice-direttore generale di una banca e fotografo itinerante, che ha ripreso con maestria paesaggi, persone, botteghe, carretti, folle al mare…. Sfogliandolo, si ammirano angoli meravigliosi della Puglia, da Putignano, il paese del carnevale, a Polignano a mare, la culla di Domenico Modugno, a cui hanno eretto un monumento che lo raffigura con le braccia aperte come se cantasse “Nel blu dipinto di blu”.
Lenoci e il notaio Alfredo Aquaro
Rocca ha puntato il suo magico obiettivo anche sul Mar Piccolo di Taranto, con i tramonti e le lampare, le trecce di cozze ammonticchiate sulle barche e pronte per il mercato e i pescatori che Saverio Nasole in una delle sue belle canzoni si chiedeva se fossero “cuzzarùle” o “sciardenìere”, perché da un “giardino” (“ind’o mare peccerìdde”) provengono queste delizie. Parlando di queste pagine patinate, Lenoci si è soffermato su quasi tutte le foto, citando diversi poeti proprio perché molte di queste immagini hanno il sapore della poesia.
Le ho guardate più volte, soprattutto quelle sulla città del ponte girevole, del monumento ai Caduti di Francesco Paolo Como e del Castello Aragonse.
Lenoci ha toni passionali, soprattutto quando parla di alcuni argomenti. Quando al mercato di Porta Romana ha presentato un’autrice di vent’anni ha pensato a Gaber e ha avuto un tremolio nella voce: ascolta spesso le sue canzoni. E ascolta quelle di Modugno.
Ha studiato a Siena e coltivato una materia per me e per molti altri impenetrabile; si è nutrito dei palpiti di Petrarca, Ungaretti, Quasimodo e Carrieri. I suoi discorsi incantano, tengono viva l’attenzione, coinvolgono il pubblico. Nel Castello Aragonese affrontò il tema della ceramica, accennando ai fischietti in terracotta, al gallo in particolare, scolpito da esimi artisti, come Moccia di Rutigliano, Vestita di Grottaglie… Si è nutrito degli insegnamenti di don Tonino Bello e non perde occasione per parlarne.
Dino Abbascià con un bimbo nero
Sbircia e approfondisce, legge e studia, verifica ogni pregio, ogni attività, s’introduce nei laboratori, osserva il lavoro e tesse le sue conferenze. Ero in mezzo a un pubblico folto su un terrazzino di Grottaglie con un suo estimatore, il dottor Gerardo Giacobelli, quando raccontò la storia di una famiglia di ceramisti famosi, soffermandosi sulla prodigiosa figura del capostipite. Riscosse una valanga di applausi. In prima fila, la mamma aveva le mani sulla borsetta, ma la sua commozione, l’amore per quel figlio erano in un sorriso tenue e negli occhi umidi.
Francesco è stato vice-presidente dell’Associazione regionale pugliesi, a Milano, quando a guidarlo c’era Dino Abbascià, che da garzone di fruttivendolo creò un impero della frutta in Lombardia. Dino aveva molta stima di Lenoci e Lenoci ricambiava la stima e l’affetto. Abbascià veniva da Bisceglie, approdò a Milano quando aveva 13 anni, ricco di volontà di lavoro e di intelligenza. Di fronte all’ospedale Fatebenefratelli apri il salotto della frutta dopo altri punti vendita; in Kenia fabbricò una scuola. Nella sua città di origine gli hanno dedicato una scuola e l’ortomercato. Era un uomo dal cuore grande. Dell’Airp ha fatto un grattacielo, nonostante la piccola sede, allora in via Pietro Calvi.
Lenoci ha un ricordo inestinguibile di questo imprenditore illuminato, di questo uomo disposto a dare senza ricevere, fedele al motto “dona con tacer pudico che accetto il don ti fa”.
Lenoci in un tipico ristorante di Martina

Una sera Abbascià in vacanza a Bisceglie venne a Martina per visitare la basilica; un’altra volta per partecipare a una festa nella campagna di uno chef multistellato. Antonio Marangi, che cucinò per Kissinger e per altre personalità di fama mondiale.
Questi martinesi si distinguono ovunque. A Milano hanno posizioni prestigiose, chi in banca, chi nel giornalismo, chi nell’arte, chi nell’imprenditoria. Anche in passato. Un nome? Guido Le Noci, gallerista a livello europeo, amico di Fontana, Buzzati, Pierre Restany, Raffaele Carrieri, Paolo Grassi, che amava Martina e ci veniva. Francesco Lenoci è orgoglioso di essere martinese. Non ci mette molto a mettersi in viaggio per planare nella sua città. Se lo invitano a impugnare il microfono non si nega e miete consensi. Il microfono è il suo scettro. Obbedisce sempre al richiamo della sua terra, ricca di gemme: viti, ulivi, querce disseminati sulla terra rossa che attirava la tavolozza di Filippo Alto, barese a Milano, in via Calamatta, in una casa di Guglielmo Miani, il grande sarto che ospitò in casa sua Filippo di Edimburgo e fu insignito del riconoscimento più alto nel Regno Unito. Miani era pugliese anche lui: dalla sua sartoria uscivano abiti di grande classe per personaggi di altissimo livello. Onorò la Puglia e contribuì a fare grande Milano, che nell’albo d’oro custodisce nomi di pugliesi laboriosi e geniali. Tra questi, Domenico Cantatore, che era di Ruvo di Puglia e nel ‘70 fu il protagonista di un documentario a colori della televisione nazionale, curato da Giuseppe Giacovazzo. Alla presentazione c’era anche Filippo Alto. Oltre a Francesco Lenoci.
Lenoci a Locorotondo
Ho conosciuto altri pugliesi di stoffa rara, come Egidio Stagno - tra i fondatori del “Corriere del Giorno - che al “Corriere del Giorno” arrivò alla poltrona di direttore generale del “Corriere della Sera”. Insomma, c’è chi è nato in Puglia e chi ama la Puglia, pur avendo avuto i natali altrove. Piero Mandrillo, uomo dalla memoria inossidabile e dalla cultura sconfinata, mi farebbe l’elenco preciso dei grandi pugliesi in Lombardia; ma lui non c’è più da tempo. La sua Pulsano gli ha intestato la biblioteca. Nel ‘70 venne nella terra del Porta con la “troupe” di Tv Taranto per fare la cronaca di una serata pugliese in via Brera e intervistò Domenico Porzio, che era di Taranto o ogni tanto ci tornava per rivisitare i luoghi del cuore.
Come si fa a non amare la Puglia? Spesso, durante i suoi discorsi, Lenoci coglie il momento per descrivere la bellezza della nostra regione, anche se sta descrivendo tutt’altra materia. Perchè la Puglia è magia, incanto, luce, melodia. La Puglia affascina, seduce, coinvolge. Gallipoli la bellezza ce l’ha già nel nome; Taranto non solo nel suo mare, decantato da scrittori e poeti, da Alfredo Lucifero Petrosillo a Diego Marturano a Diego Fedele… Se facciamo un giro della Puglia, torneremo a casa edificati, inebriati.
Francesco Lenoci nei suoi viaggi ha esaltato la Puglia, ma anche parlato delle Marche, dell’Abruzzo… L’Italia è uno scrigno di bellezza. Lenoci andando da un capo all’altro ha riempito il suo bagaglio culturale. Gli chiedi del ristorante “Le Tre Marie” dell’Aquila e lui te ne fa la storia; del Savini di Milano ti fa un racconto lungo costellato di notizie e particolari.
Lenoci in un tratturo
Ha conosciuto il mondo anche attraverso il finestrino del treno, percorrendo poi strade e stradine, vicoli e vicoletti nei centri storici di questo e di quel paese. Specialmente il borgo antico di Martina, che con le sue facciate sembra un teatro con quinte e fondali, ribalte e lanterne, donne che sferruzzano sulla soglia e passanti “lento pede”.
Lo amo anch’io questo borgo, riposante e tranquillo, silenzioso e delizioso con le sue fontanelle, i suoi sassi, le sue chiesette, i pavimenti lisci e inclinati, dove la pioggia scorre veloce come su un tavolo da biliardo. Martina è bella anche quando indossa l’abito da sposa per la neve. Qui Francesco Lenoci ha emesso i sui strilli di bambino, qui ha frequentato la scuola, qui ha visto il padre, Martino, che confezionando i vestiti applicava i bottoni strappati alle sue giacche se non aveva tempo di andare in merceria.

 

mercoledì 22 ottobre 2025

Una mostra interessante a Milano

DABBRESCIA E VILLORESI MAESTRI DELLA FOTOGRAFIA

 

 

Mimmo Dabbrescia
Organizzata dalla Fondazione Villoresi-Poggi al Museo della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” a Milano, in collaborazione con il Museo di Roma.
Titolo: “Lo sguardo dentro, lo sguardo fuori, lo sguardo… dove”. Visitiamola.

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
E’ stato in 22 Paesi, sempre con la macchina fotografica a portata di mano. Ha conosciuto paesaggi e persone, saltando su aerei, treni, taxi, facendo maratone. Con il suo obiettivo ha fatto la cronaca di avvenimenti mondiali, ha colto personalità del cinema, del teatro, della pittura.
Dino Buzzati di Dabbrescia
Venendo a Milano da Barletta, la città che conserva gelosamente le sue tracce antiche, Mimmo Dabbrescia ha masticato polvere e pane, che lo hanno arricchito di esperienze e di valori. Nella città del bel porto, la mattina a scuola e il pomeriggio a bottega, come si usava nelle famiglie perbene. Una mattina gli capitò sotto gli occhi un manifesto che chi ha 87 anni come lui forse ricorda: “Vieni in Marina, imparerai un mestiere e girerai il mondo”. Un invito allettante, quel cartellone proponeva un sogno e un avvenire. Mimmo approfittò dell’occasione, andò a scuola per entrare al Nautico, ma i suoi si trasferirono a Milano e dovette seguirli. Era il ‘53, l’anno in cui il sindaco Ferrari incaricò l’ingegner Belloni di elaborare il progetto della prima linea del metrò.
Mimmo si mise subito a cercare lavoro. Aveva intelligenza, voglia di fare, capacità. Era ingegnoso. Intercettò un cartello su una vetrina: “Cercasi un fattorino con bicicletta”. Lui la bici ce l’aveva, non fiammante, ma funzionante; e cominciò a correre per le vie della città, esplorandola tra una consegna e l’altra; e correndo notò un biglietto su una vetrina al Ticinese con le foto di Farabola. Si fece avanti, gli risposero che lo avrebbero chiamato, ma non si fecero mai sentire. Succedeva, è successo a molti, suscitando ansie e delusioni, voglia di mollare.
Dabbrescia non perdeva mai la speranza. Si rimise in sella, andando da via Torino a piazzale Loreto, da piazza San Babila al Lorenteggio, fino ai margini della città e magari oltre. Un cartello dietro l’altro e vide quello di un’agenzia fotografica che aveva bisogno di un apprendista fotografo. Era quella del padre di Oliviero Toscani. E lì cominciò ad occuparsi di cronaca.
De Andrè di Dabbrescia
Era il ‘57. Questa era Milano con il cuore in mano. Se un giovane voleva costruirsi un avvenire, doveva tirarsi su le maniche.
Dabbrescia era tenace, intelligente, intraprendente e si tuffò nel mondo dei “reporters” con entusiasmo e passione. Virtù che non possono mancare a chi affronta questo mestiere. La cronaca affascina, coinvolge e chiede sacrifici. Uno come lui non poteva fermarsi, doveva andare avanti.
Quella era soltanto una tappa. La seconda fu “Il Corriere della Sera”, via Solferino, il sacrario del giornalismo, l’aspirazione di tutti. O quasi. Vi rimase fino al ‘63, entrando nei cortili patrizi, nei palazzi delle istituzioni, fotografando uomini di primissimo piano dell’industria, della cultura, della televisione. Entrò nella stanza di Dino Buzzati, lo sorprese alla scrivania, lo ritrasse, divenne suo amico e dopo la morte del giornalista e scrittore continuò ad essere amico della moglie Almerina. Al “Corriere” lavorava anche Eligio Possenti, critico teatrale e drammaturgo e direttore della “Domenica del Corriere” dal ‘29 al ‘64. Poi Mimmo incontrò Giorgio Pisanò, che con il fratello aveva un piccolo gruppo editoriale e per lui andò in Spagna.
Nel ‘61 alla Fenice di Venezia puntò l’obiettivo su Salvador Dalì. Mimmo non si faceva mettere in imbarazzo dal livello dei personaggi, come dev’essere un giornalista con il taccuino o con l’occhio magico.
Dopo qualche anno andò a cercare Salvador Dalì, e al custode disse di avere un appuntamento; quello si assentò e ritornò rispondendo che l’artista non si ricordava di averne uno. “Ci siamo conosciuti a Venezia ed è lì che abbiamo fissato l’incontro”. La porta si aprì e il maestro posò per 34 foto. Ed eccolo con il suo sguardo sbarrato e il suoi baffi come virgole capovolte. Poi comparve la moglie e decretò la conclusione degli scatti con una voce perentoria: “Il maestro si stanca”. Dabbrescia ci aveva provato e aveva riempito il carniere. In questo mestiere bisogna provare, allettare e a volte mentire per poter aprire un varco.
Ne ha fatti di scatti, nel tempo, Mimmo Dabbrescia. De Chirico, Guttuso, Salvatore Fiume con il quale fu a Papete un mese per un libro e un film. Ha fotografato la Cardinale, la Lollobrogida, De Andrè, Dorelli, Katerine Spaak, la Vanoni, Fellini, Clint Eastwood, Montale…
Eastewood di Dabbrescia

Fondò la rivista “Prospettive d’arte”, dove scriveva anche la moglie Bruna, pubblicando articoli informati su Attilio Alfieri, Ibrahim Kodra, Ernesto Treccani, Remo Brindisi e tanti altri. Dopo la rivista la Galleria d’arte in via Carlo Torre, dalle parti del Naviglio Grande. Insegna: “Prospettive d’arte”, dove hanno esposto grandi nomi, compresi quelli che apparivano sul giornale che si confezionava in via Gentilino, al Ticinese. A “Prospettive” si rivelò come pittore Don Lurio, il famoso coreografo di Rai Uno, di origini newyorchesi.
Un vulcano, una fucina di idee, Dabbrescia. Un’iniziativa dietro l’altra. Alla Galleria vennero presentati libri prestigiosi, come i “Navigli di Milano”, con firme famose come Gaetano Afeltra, Empio Malara…; un volume sulla storia del calcio Bari, presenti due calciatori e l’amministratore delegato della compagine pugliese e al tavolo dei relatori Giovanni Lodetti, già campione del Milan, centrocampista campione d’Europa; e lo storico Guido Lopez.
Serate memorabili anche per l’affluenza e il tipo di pubblico. Una manifestazione fu dedicata a Giuseppe Francobandiera, scrittore dallo stile affascinante e direttore del circolo culturale Italsider di Taranto. In quella sede, insediata alla masseria Vaccarella, sviluppò programmi di altissimo livello, tra le quali il Teatro sull’erba, dove recitarono anche Luca De Filippo, figlio di Eduardo, di fonte a migliaia di spettatori. Francobandiera invitò anche esponenti celebri della letteratura, del teatro e della pittura, come Morando Moradini, Gianni Brera…
Quella sera a “Prospettive d’arte” c’erano anche Vito Plantone e Achille Serra, il primo questore di Palermo; il secondo di Milano. Per motivi di sicurezza le forze dell’ordine chiusero la strada.
Franca Faldini, di Villoresi

Mimmo è uno di quei figli della Puglia che hanno onorato la loro città e Milano. Su di lui la dottoressa Laura Lorusso ha fatto una tesi di laurea.
Ora eccolo con Manlio Villoresi, un altro artista dell’immagine, in una grande mostra al Museo della Scienza e della Tecnologia del capoluogo lombardo. Titolo “Lo guardo dentro, lo sguardo fuori, lo sguardo… dove?”. Fotografi a confronto, a cura di Andrea Ciresola e Carola Annoni , postfazione in catalogo di Giovanna Calvenzi. “Ed ora consideriamo lo sguardo nomade che il soggetto colloca in nessun luogo preciso”. Non è facile intercettare l’itinerario che uno sguardo compie, dov’è diretto. Attraverso lo sguardo si può anche penetrare nell’anima, nel pensiero, si possono cogliere i desideri, le ansie, le attese. Queste foto inducono a riflettere: non sono fotografie, ma opere d’arte emozionanti, che prendono chi osserva e lo inducono a meditare, suscitando ricordi; sguardi che parlano, sguardi brillanti, pensosi, carezzevoli, dolci, limpidi, comunicativi. Gli sguardi di Fabrizio de Andrè fra le gambe di due fanciulle, a Genova nel ‘69, ripreso da Dabbrescia; in una sequenza di quadretti Mina in concerto ad Alessandria nel 1970; Francis Bacon, 1977 a Parigi Galerie Claude Bernard.
Isa Barzizza, di Villoresi

Segue un giovane Vittorio Gassman 1945-1950, colto da Manlio Villoresi, che poi rapisce lo sguardo di Anna Magnani e poi ancora... Sfogliare questo elegante catalogo è come sfogliare il tempo.
Le persone ritratte non posano, sono presi di sorpresa. Così il Premio Nobel Eugenio Montale sorridente, due dita sulla fronte e uno su una guancia come se assistesse a una scena divertente, “clic” di Dabbrescia; Eldo Di Lazzaro in atteggiamento da attore drammatico superbamente “catturato” da Manlio Villoresi, nel ‘30-40… Lo sguardo dove? In piazza Duomo un colombo plana sul palmo della mano di Clint Eastwood per beccare il pasto (Dabbrescia nel 1971). Una personalità ha visto in quella foto un messaggio di pace rivolto al mondo. Salvador Dalì con gli occhiali chiusi in mano, posizione rilassata, punta lo sguardo verso qualcosa non vicina a lui, tra ciuffi d’albero e il mare (Dabbrescia); e Massimo Girotti, capelli neri, un po’ ondulati, un sorriso ammaliante (40-42), immortalato da Manlio Villoresi...
Quante personalità! Giorgio De Chirico, la divina Eleonora Duse, Franca Faldini, Buzzati, nel ‘63, quando frequentava la Galleria “Apollinaire” dell’amico Guido Le Noci.
Gigi Villoresi, di Villoresi

No, non si può solo sfogliarlo, questo catalogo. Ogni pagina richiede una sosta, un pensiero, una riflessione. Mi soffermo su mister Volare: Domenico Modugno, di Polignano a Mare, nome che appartiene al mondo. Qui ha la chitarra in mano, è pensieroso. Siano negli ‘58-’60. E’ un po’ spettinato. L’obiettivo di Villoresi lo ha preso alla sprovvista. Dabbrescia capta un momento di Valentino mentre fuma stando in poltrona; e Manlio Villoresi Gigi Villoresi con un sorriso dolce e gli occhi che brillano.
Queste pagine raccolgono dunque volti, atteggiamenti, espressioni. Chi può farlo va oltre l’apparenza, si cala nel soggetto, interpreta lo stato d’animo, intercetta il carattere. Sono immagini preziose. Villoresi vive a Roma; Dabbrescia a Milano.
Questa mostra, ottimamente organizzata dalla Fondazione Villoresi-Poggi in collaborazione con il Museo di Roma, ha anche il significato di un incontro fra due maestri della fotografia.

mercoledì 15 ottobre 2025

Il panificio di Martino Montanaro


SUSCITA RICORDI DI FIGURE CARE E DI PAESAGGI NEL TEMPO MUTATI

 

 



Il pane sulla pala
Zio Dionigi comperava il pane a forma di trullo, lo trattava come un oggetto sacro e lo conservava in una nicchia, che aveva la forma di un tabernacolo, nelle casedde di Martina Franca.

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 

il pane appena sfornato
Quando faccio capolino nel forno di San Martino in Valle d’Itria si stappa la bottiglia dei ricordi e poi un’altra, un’altra ancora.
Ce ne sono volute molte, di bottiglie, per contenerli tutti o quasi. Belli e brutti, non mescolati, ordinati, limpidi, sempre vivi. Già sulla porta m’investe il profumo del pane, questo bene che ha secoli di vita. Lo hanno fatto e lo fanno in tante forme, e una volta anche quella ispirata dai trulli. Piaceva tanto a mio zio Dionigi, un esempio, un modello, per me un mito. Lo mandava a prendere, quando non poteva andarci personalmente, e all’ora di pranzo lo poneva al centro della tavola, ancora caldo. E lo tagliava con delicatezza, quasi con devozione. Non lo spezzava mai; e se cadeva a terra per un gesto sbagliato, lo recuperava, piegandosi, dandogli ripetutamente, come per un rito, ripetuti soffi per cacciar via la polvere: il gesto sembrava una carezza. “Il pane significa tante cose - diceva – ospitalità, generosità, comunione. Il pane significa anche spiritualità. Il pane è sacro, le mani del fornaio sono benedette”. Se ne rimaneva un pezzo lo conservava in una busta, sempre nello stesso posto: una nicchia, accanto alla cucina monacale, che fungeva solo da ornamento, con una pentola al centro.
Oggi, quando vado a trovare Martino Montanaro, padrone e anfitrione del panificio, lo faccio con sentimenti antichi. Martino lo sa e mi regala uno di quei suoi sorrisi serafici e la sua benevolenza, con un gioco di occhiate dietro gli occhiali, che danno tono al suo volto paffuto sormontato dalla calvizie, che non guasta. Lascia il bancone, postazione da cui distribuisce la delizia, subito sostituito dall’assistente.
E’ buono, Martino. E saggio. Multipremiato dai signori della categoria, mostra, all’occasione, con orgoglio, gli attestati. Se glielo si chiede, fa una sintesi della sua storia. In verità io non ne ho bisogno, perché questo luogo è stato la mia meta quotidiana da quando avevo 12 anni (oggi 92) e stava in fondo alla vietta, in discesa, spezzata da un tratto perpendicolare, di fronte a via Mercadante.
Ricordo, e bene, la ragazza che serviva i clienti.
Martino mostra il èane
Anche allo zio prete, che si chiamava Martino anche lui, amava il pane a coni, e prima di mangiarlo ne assaporava il profumo, estasiato.
Martino Montanaro è così delicato, generoso, ospitale, che ne ha confezionato uno apposta per me, perché quella sagoma è ormai arte passata. Sembra che con questo gesto volesse premiare la mia fedeltà.
Martino è entusiasta del suo lavoro e anche dei suoi collaboratori, volenterosi e appassionati. Non ho mai sentito un capo parlare così bene di chi gli dava una mano. Del resto trovare oggi un collaboratore disposto a fare sacrifici, tra l’altro disposto a interrompere il sonno a mezzo percorso, non è cosa frequente. Uno dei motivi per cui tante attività si sono dissolte.
Pochi giorni fa, ormai ai margini delle mie vacanze in quest’oasi di pace, che è Martina Franca, anche con la pioggia che cade rincuorando il contadino, che vede finalmente irrorata la sua terra, sono andato a fare visita a Martino, cogliendolo con in mano la pala, che non è più quella di una volta: è più larga, quasi quadrata, e molto diverso è l’ambiente: tutto moderno. Confesso che mi trovavo più a mio agio con quella “bocca” che ingoiava il pane e lo cuoceva. Ma quello che conta è il risultato, il prodotto, il sapore.
Mio zio Dionigi conosceva il padre di Martino, Carlo, e il vecchio proprietario della macelleria collocata di fronte alla Chiesa San Francesco, la cui piazzetta è stata tutta rinnovata anche con zampilli che sembrano sgorgare a suon di musica.
Lo zio, come me, non aveva dimenticato il forno di “mest Petrìne”, a Taranto, che diffondeva odori anche nella nostra via, parallela. A Natale la nonna faceva i taralli, li metteva nella “tiella” e io e mio cugino Enzo, che adesso riposa oltre le nuvole, andavano a portarli al forno. La vecchietta, dal carattere duro e di origine martinese, confezionava anche le friselle. Ma questo è un altro capitolo.
Carrello del pane

Lo racconto a Martino, che fa il panettiere da una vita, sempre con amore e quasi gioia. Deve essere bello impastare, sagomare pagnotte, filoni, spighe, informare e aspettare. Ho atteso anch’io, con Martino, e l’ho visto trasportare il pane con la pala dal forno alle ceste. E nell’attesa parlavo di Martina, questa gemma che diventa sempre più bella. Nella città del Festival, che tra luglio e agosto diffonde musica e canti, ho visto le vendemmie, la raccolta delle olive, rappresentazioni liriche nel cortile del Palazzo Ducale e altrove; sono andato tante volte alla scoperta di masserie rinomate, dei boschi, dei tratturi, ho sofferto alla vista di trulli in rovina, ho fatto conoscenze di persone stupende, tra cui Martino.
Un paio di anni fa da lui ho portato addirittura Francesco Lenoci, che ha fatto il giro d’Italia non so quante volte alla ricerca di valori da esaltare e il forno di Martino Montanaro è un valore. Tutta Martina conosce quel luogo, molti possono snocciolare la sua storia, lunga ed edificante. Per il pane Francesco ha una venerazione. Quando affronta i suoi temi preferiti, come il pane, offre chicche che rimangono in mente: come lo si mette in tavola, come lo si deve tagliare... consigli che gli vengono anche dalla mamma e dal padre, Martino, che faceva il sarto ed era un uomo devoto e taciturno. Non gli ho mai chiesto da dove ricavi tutta l’energia, che esprime fra treni, aerei, auto, taxi e sgambate. E’ la fede nelle capacità dell’uomo.
Il professor Francesco Lenoci
Nel forno di Martino si lasciò fotografare con i vari modelli di pane e con lo stesso panettiere. Da Martino si fece raccontare la storia del forno, del padre, che faceva lo stesso lavoro nello stesso forno, delle notti in piedi, insomma dell’avventura, meravigliosa, del fornaio.
Martino non farebbe altro che questo mestiere, quest’arte che sa di aria antica. C’è un popolo che non abbia conosciuto il pane? Piacerebbe sapere come lo faceva, quali materie prime utilizzava? I nostri predecessori facevano tante cose, sia pure con sistemi primitivi.
La storia del pane ha radici lontanissime: sono state rinvenute tracce risalenti a migliaia di anni prima di Cristo: in Giordania. Il pane veniva lavorato fra pietre dure. Per tantissimi secoli è stato il cibo più importante. Comunque fatto, il pane ha dunque sfamato molti popoli. Sui significati del pane si è detto e scritto molto. Forse è il frutto di un’ispirazione divina. E’ oggetto di credenze popolari e di molti modi dire. Per esempio “essere pane e cacio” indica persone che non si scontrano mai, che trovano sempre una soluzione attraverso il dialogo, che sono sempre d’accordo. Lo dico a Martino, che per carattere l’accordo lo trova.
Martino e il cugino Donato

Lo zio prete ci ha insegnato a non maltrattare mai il pane. I suoi sermoni, brevi, succosi, sempre efficaci, sono ancora oggi osservati da chi di noi sopravvive. Zio Dionigi ricordava spesso la frase:”Quod superest date pauperibus”, ciò che avanza donatelo al povero. Negli anni 50 in una sua conferenza al Teatro Odeon, in via Di Palma, a Taranto, l’allora sindaco Leone precisò che l’atto bisogna compierlo non con gli avanzi ma con quello che c’è sulla tavola. Era una giornata di neve e pure ad ascoltarlo accorsero molti cittadini.
Ma guarda quante memorie suscitano in me l’atmosfera di quel panificio di via Mercadante, nell’adorata Martina: le persone che se ne sono andate in cielo e tanti amici, lo zio canonico prima di tutti. Ognuno di loro mi ha insegnato qualcosa. E a loro penso qualche volta quando metto in bocca un piccolo pezzo di pane.
Da molti anni i trulli sul Chiancaro non mi vedono, ma al solo pensarci mi provocano nostalgia e dolore. C’era la guerra, mia mamma e mia zia andavano da Martina a San Paolo per comprare il cibo “aùmm’aùmme”, magari su un carretto intercettato per caso, ma il pane non mi mancava mai, anche se era razionato.
Martino inforna
Di quei tempi tengo scritto un libro nella mente, con tanti nomi, tante date, tanti episodi. “Peppe Marze”, ad esempio, che aveva la salumeria in una via vicina alla nostra; il calzolaio che faceva il pittore senza conoscere la prospettiva e si mise a fare il corniciaio; l’artigiano che aveva la falegnameria nell’androne del suo stabile di fianco al nostro. Lui, sì, che dava una mano al povero.

mercoledì 8 ottobre 2025

Quegli incontri tra gruppi di amici


RACCONTI EDIFICANTI A MARTINA FRA FICHI, ULIVI E QUERCE SOLENNI

 

 


Carmine La Fratta
Gli ospiti più recenti il fotografo Carmine La Fratta e il pittore Antonio Rolla. Fra i  temi, il fiume Tara, che scioglie ricordi di delusioni e germogli d’amore.

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
Ogni visita di gruppi di amici tarantini nella mia casa di Martina, fra ulivi, fichi e una quercia millenaria, alta quanto il monumento ai Caduti di Francesco Paolo Como, nella Bimare, si trasforma in una sorta di convegno.
Marche Pol e l'attore Antonello Conte
Giorni fa con il fotografo-artista Carmine La Fratta e il professor Antonio Rolla, che dipinge porte, balconi, vuoti a perdere, tronchi di alberi dai rami come tentacoli di polpo, barche, contadini impegnati nella mietitura, volti di persone anziane, biciclette nuove e vecchie, che rappresentano libertà, sport, strade da percorrere, velocità, ma anche il riposo dopo chilometri divorati… E poi il fiume Tara e i problemi che a quanto pare lo incalzano. Caro fiume legato ai miei ricordi giovanili!
E’ stato il tema più ricorrente della quasi mezza giornata trascorsa con questa compagnia, perché quel fiume ci porta indietro nel tempo, per me un amore sfiorito prima del rigoglio, l’unione tra acqua salata e acqua dolce, il caldo e il freddo, quel ponticello che collega le due sponde e rappresenta, sempre per me, l’unione, l’armonia, l’abbraccio. La conversazione, piacevole e allettante, mi ha suscitato un pizzico di nostalgia, che si è subito spenta come un fiammifero.
Rolla ha sfogliato a tratti i suoi cataloghi, mostrandomi la sua felice ispirazione; io ho osservato attentamente le figure, vedendo balenare nelle pause il fiume Tara, dove andavo a bagnarmi quando avevo oltre 16 anni. Sempre con gli amici più fidati: una comitiva allegra, vogliosa di scherzi e di giochi, fatti di “cattuse” e di immersioni per attraversare le gambe aperte apposta degli altri.
Ho esortato La Fratta a parlare dei suoi prossimi viaggi con la macchina fotografica a tracolla: a Montemesola, dove da anni si svolge il festival dei baffi, con protagonisti che vi piombano da ogni parte d’Italia e anche dall’estero (anni fa dominava la figura di Giuseppe Verdi che veniva da Torino); poi forse a Crispiano per la sagra del peperoncino piccante e chissà poi dove. Carmine con le sue immagini è un cronista che racconta storie, persone, eventi, la vita di un paese, come quello-bomboniera con qualche decina di abitanti. Un artista errante che coglie momenti da favola.
lo scrittore Giacinto Peluso con Presicci

In questi quasi “convegni” a Martina, nella campagna dalla terra rossa ricca di vigneti nani, come dice il poeta Raffaele Carrieri - anche lui tarantino - in alcuni suoi bellissimi e indimenticabili versi, apprendo come cambia, com’è cambiata, come si è estesa la mia città, con un nuovo groviglio di vie, di quartieri, come sono oggi via Garibaldi, via Di Mezzo, luogo di nascita di Màrche Pòl, lo strillone “d’u Panarijdde”.
Ho ascoltato con attenzione, senza intervenire avido come sono di chicche sulla mia città. Non intendevo perdere una parola di La Fratta, che come fotografo è sempre alla ricerca di dettagli, con curiosità, passione, entusiasmo, paziente come un cacciatore in attesa della preda. Mi chiedo se stia qualche volta tranquillo, a riposo magari sotto un albero del suo giardino a meditare; e non nella sua camera oscura o in giro per i vicoli di Napoli, dominati dalle immagini di Totò, Eduardo, De Crescenzo, Nino Taranto, Maradona... E’ un fotografo di alta classe, riservato, poco amante degli elogi, delle esaltazioni.
Io, di tanto in tanto, esponevo i miei ricordi di cose lontane, di quando ero ragazzo e frequentavo la parrocchia del Sacro Cuore, nel mio quartiere, e la chiesa di San Domenico (“saneminghe”) nel borgo antico, dove il parroco,. Don Stefano Ragusa, aveva trasformato in un piccolo teatro una cappella sconsacrata.
Giuseppe Francobandiera
Ho stimolato Antonio Rolla al racconto delle opere di Giuseppe Francobandiera, che frequentò assiduamente, contribuendo a diverse esigenze di quel cantiere sempre aperto e sempre più efficiente. E lui pronto, ricco di esperienze e di umanità, scavando nella memoria alla ricerca di particolari, ha tra l’altro espresso il rammarico di non sapere più dove abbia conservato la spilla con la scritta “Teatro sull’erba”, che il direttore del Circolo Culturale Italsider, Francobandiera, appunto, regalò ai partecipanti all’inaugurazione di questa iniziativa rimasta storica.
Quante notizie mi ha dato, di Giuseppe, Antonio Rolla, che fu, ripeto, collaboratore entusiasta di quel vulcano di idee: realizzava eventi, curandone ogni aspetto, in modo che il risultato fosse sempre perfetto. Giuseppe veniva dalla Lucania, che vuol dire luce, e il suo cammino era sempre luminoso. Si conquistò la stima di intellettuali come Franco Zoppo, che insegnava italiano e greco al Liceo Classico “Archita” e scriveva libri di grande rilievo. Franco era un uomo moderno, amava le moto e la bellezza della città. Ricordo uno dei suoi libri, “Belmonte”, che feci presentare da Arnaldo Giuliani, colonna de “Il Corriere della Sera”, all’Associazione regionale pugliesi, a Milano, in piazza Duomo, dove addetto all’attività culturale era il grande pittore Filippo Alto, aperto a tutte le proposte da qualunque parte venissero, purché importanti. Il titolo di quel volume, bellissimo e interessante, fa subito pensare all’omonima masseria in cui venne, nella gola del camino, acciuffato il brigante Pizzichicchio, al secolo Cosimo Mazzeo.
Il ponte di pietra

Anche questo è stato il tema della nostra conversazione, mentre “jatàve” un vento che faceva “nazzecàre” gli alberi e dava voce al tratturo diventato quasi deserto, dopo la scomparsa di tante persone che lo rendevano vivace.
I miei due interlocutori ne hanno, di cose da raccontare. La Fratta, per esempio, ha conosciuto Màrche Pòl, strillone del periodico satirico stampato nella tipografia Leggeri, quando era ragazzino; e Rolla mi ha detto che nel ‘70 presentò a una mostra una tela che ritraeva lo stesso strillone con alle spalle una scultura di Rodin, vincendo il secondo premio-acquisto (in un’altra occasione quel premio lo vinse).
La Fratta mi ha anche mostrato alcune sue foto recenti che colpiscono come sempre per la loro originalità tematica; e altre in cui fa la cronaca di itinerari compiuti attraverso l’Italia.
Quando mi trovo in campagna con tarantini veraci che m’informano su quello che succede a Taranto è come se mi si aprisse un libro in cui vedo la mia culla lontanissima nel tempo oltre che nello spazio. Per esempio, non conoscevo a fondo la vita di Màrche Pòl, i vari lavori che aveva fatto da giovanissimo, dove era nato e dove viveva: particolari che si aggiungono alla mia antologia mentale.
La Fratta ritrae anche il centro in cui vive: Lama, che con il tempo è diventato un paese. E mi raffiguro questo luogo con le sue case, le sue ville, i suoi giardini, la sua piazza, le sue vie, la ferramenta della mamma di Maria Rita, una Venere che conosco e stimo. Non si può immaginare la voglia, il desiderio che stuzzica uno come me di vedere, anzi di vivere Taranto, di godere la sua atmosfera, i suoi colori, i suoi mari, le sue chiese antiche, il suo dialetto, armonioso, disseminato di suoni, di onomatopee.
Il cantore di Taranto Antonio De Florio
Sono colpevole di tradimento e questo è il mio castigo: non poter realizzare un sogno. Sessantatrè anni fa, per fare il giornalista in un grande quotidiano, abbandonai questa terra, che amo profondamente. Lasciai tutto e obbedii al fischio del treno che ansimava sul primo binario. Era un fischio imperioso che mi creava disagio, amarezza, pianto nel voltare le spalle alla mia culla, che mi aveva battezzato, aiutato a crescere, anche se non molto.
Mi sono confessato con i miei due graditi ospiti, figli di quella Taranto, a cui sono legati come l’edera al palo della luce che ho di fronte. Ho ammirato un catalogo di Rolla e preso in mano uno scritto di Giuseppe Francobandiera (ce l’ho a Martina), uomo di grandissima cultura; ho accennato a Silvano Trevisani e al suo lavoro su Alda Merini; ho ripensato a Guerricchio e osservato la cartella con tre grafiche eseguite in occasione della presentazione del libro di Francobandiera “L’ultima stella del carro” nel salone del Gran Caffè “La Sem”.
Il libraio Mandese e Domenico Porzio (La Fratta)
Ho visto anche un articolo intitolato “La realtà urbana colta dagli artisti”; e apprezzato “Il nostro litorale può essere difeso anche con i pennelli”, di Piero Mandrillo, nato a Pulsano, dove gli hanno dedicato la biblioteca.
La mostra, in cui Rolla vinse il primo premio, era dedicata proprio a quella città, e al suo litorale e aveva in giuria lo stesso Mandrillo, nella veste di presidente, Giuseppe Francobandiera, Gigliola Blandamura, Franco Sossi, critico d’arte molto stimato da Palma Bucarelli, direttrice della Galleria d’Arte Moderna di Roma, e direttore del “Rostro” (più volte vi apparve la mia firma), periodico molto seguito, che aveva la redazione in piazza Bettolo... Oltre 300 gli artisti partecipanti e tra il pubblico, numeroso, un concittadino arrivato dalla Scozia.
Antonio Rolla parlava; Carmine La Fratta scattava senza farsene accorgere. Quello del pittore è un volto reso più interessante dai folti baffi bianchi e dagli d’aquila. Il suo è un pennello delizioso. Questa è arte. E arte quella di Carmine La Fratta, capace di un racconto lungo e delizioso.

 

mercoledì 1 ottobre 2025

I martinesi Vito e Angela Argese

UNA VITA TRASCORSA TRA VIGNETI E ULIVI

 

 


Lui ha curato il campo con amore, lei ha condotto l’azienda agricola con competenza e rispetto delle regole. Adesso hanno i gatti e un cane da curare. E sono contenti.

 

 







 
FRANCO PRESICCI
 
 
  
Ultimi giorni di vacanza e un giretto per la campagna di Martina è ristoratore. Al volante è Vito Argese, un carissimo amico che scalpita quando perde a scopone, ma per fare teatro.
Vito Argese
Conosce bene ogni angolo di questo eden e mi indica pozzi antichi e solitari ancora utilizzati, fontane, masserie, boschi, boschetti, la vecchia scuola rurale da tempo deserta, le chiesette della Madonna della Consolata e di sant’Irene…. Guida e descrive i luoghi, ma fa anche i nomi dei proprietari, dei contadini che con il loro lavoro sono riusciti a guadagnarsi casa e terra. Parla a pizzichi e bocconi, perché tutte gli autisti che ci incrociano lo salutano anche a gran voce. Gli vogliono bene tutti.
Ci fermiamo all’ombra di una quercia secolare, altissima quanto un gigante preistorico e lui indica una struttura agricola e racconta la vita del titolare, la famiglia, l’attività, lo pseudonimo che si porta addosso da sempre, magari ereditato dal padre e dal nonno. Mia moglie e io lo ascoltiamo con piacere anche per il modo di porgersi, il linguaggio, mezzo italiano e mezzo martinese, più efficace il secondo e più seducente. Il dialetto attira sempre chi lo ama, io tra questi. Vito ha toni diversi, qua e là accentuati; usa termini come “tatanùnne”, “pescrèje”, “quànne”, che disseppelliscono ricordi di altri tempi, di persone care che le usavano come lui. “’A staggione” con la “g” raddoppiata e la “o” sonora. A volte ho bisogno di tempo per interpretare questo vernacolo.
Chiesa di San Francesco a Martina
I racconti di Vito sono ricchi di figure, di luoghi scomparsi, di fatti lontani, di leggende antiche. La macchina avanza e il paesaggio si snoda donando vedute indimenticabili. Io tra me e me saluto Martina con rispetto e devozione, nei pochi momenti in cui Vito tace. Ammiro tutto ciò che mi passa sotto gli occhi, il cielo terso in cui navigano nuvole bianche, tutto questo verde, i fichi, gli ulivi, le vigne, i muri a secco ancora intatti… “Questa è la vecchia strada per Noci” e fa i nomi delle famiglie che abitano nei dintorni, dei loro parenti e dei loro antenati. In quel trullo abitava Nicola … poi lo ha ha venduto a Narduccio… è stato rivenduto e rimesso a nuovo”.
Improvvisamente colgo un’immagine che mi rattrista: un trullo diroccato divorato “da le scruèsce”: i rovi. Quest’erba selvatica e pungente mi irrita quando gronda dai “pareti” o addirittura sovrasta le case incappucciate abbandonate: i proprietari diventati vecchi non vengono più in campagna e i figli che lavorano e abitano al Nord non hanno interesse a ripristinarlo. Ogni lenzuolo di terra desolato, ogni trullo derupato, ogni muro a secco sbrecciato è un’offesa all’opera del contadino che ha sudato per averne cura. Vito non commenta. E’ riservato, generoso, acuto, ironico, socievole. “Sei superstizioso, Vito?”. “No. Conosco alcune credenze popolari, perché le ho sentite dire quando ero bambino. Te ne dico una. Moltissimi anni fa alcuni miei parenti che da Alberobello venivano a Martina ‘cu ‘a sciarrètte’ videro u uomo vestito di nero appoggiare una mano sulla stanga; poi lo sconosciuto si trasformò in una palla, che gonfiandosi rotolò nel bosco. Come credere a queste assurdità?” Si diceva anche di uno che credendo la civetta messaggera di morte, la impallinò e la mise in padella. L’aurje, ‘u munacjdde sono favole che raccontavano una volta ai bambini.
Vito sul trattore
Vito è un uomo saggio e ama il suo prossimo. Durante il giro mi ha raccontato che alcuni amici gli hanno chiesto di dare loro una mano per la vendemmia e subito lui e Angela li hanno aiutati a sgravare la vigna.
Ha l’aspetto di un buon parroco di campagna, ma non fa sermoni. Ama ascoltare. Parla, sì, ma quando è sollecitato. A 80 anni ha tanta fatica sulle spalle. Ancora oggi va sul trattore. Alle due figlie, Antonella e Cosimina, con l’aiuto di Angela, ha insegnato il rispetto e la novità del lavoro. Il suo motto. “ora et labora”. Ci fermiamo davanti alla chiesa di Sant’Irene e Vito lascia che io la contempli: piccola, la facciata semplice, grossi alberi intorno, un manifesto per i fedeli. Non saranno tanti: pochi ma buoni. Festeggiano la Santa con la preghiera e una processione. Per celebrare il compleanno della Madonna della Consolata fanno il corteo, ogni partecipante un grosso cero in mano, la Santa portata sulle spalle e sparano i fuochi d’artificio, con la musica e le bancarelle che vendono le nocelle e le arachidi. Vito faceva parte del comitato e a volte partecipava al tiro della fune.
Angela ha cura della chiesa, dove si respira aria di pulizia. Ci sono entrato e seduto su una panca ho guardato a lungo le statue di San Pio e di Cosma e Damiano, oltre a quella della Madonna, che sta su lato sinistro rispetto altare. Nelle serate della festa molta gente viene dalla città. Vi ho incontrato l’avvocato Martino Carbotti e il notaio Alfredo Aquaro, persona molto devota e generosa. Non c’è più. Per la sua perdita Martina ha pianto.
Parte dei trulli di Vito
Facciamo il giro della piazza - larghissima e disadorna – dove troneggia la chiesa; e Vito dice: “Prima che venisse costruita questa chiesa, i padri missionari venivano nella zona per svolgere il loro apostolato. Allora la Messa era celebrata nelle case private: si faceva largo all’altare e si assisteva al rito. Nel 1958 fu monsignor Guglielmo Motolese, arcivescovo di Taranto, a benedire il nuovo piccolo tempio della Madonna della Consolata in fondo a via Papa Domenico.
Imbocchiamo un altro tratturo: un contadino è a bordo del trattore che rompe i timpani, smorzando il canto del gallo e il belato delle pecore, ma anche l’abbaio del cane. Sulla colonna di un cancello un gatto se ne sta quieto e sembra una scultura. Neppure qui cantano più le cicale né stridono i grilli né si vedono più le farfalle posarsi sui fiori. “Una volta raccoglievamo le lumache sulle festuche e sul finocchietto, di cui godevamo il profumo”, commenta Vito, che ha le giornate quasi sempre piene: accompagna Angela al mercato, partecipa, sempre con la moglie, ai compleanni, ai matrimoni, ai funerali. Angela e Vito Argese sono noti a mezza Martina. Anche a Lodi ho incontrato un poliziotto martinese che ha frequentato la stessa scuola di Antonella.
Quante cose apprendo in questo brevissimo viaggio per la campagna di Martina. “Vito come passi le serate invernali nella tua casa in paese, vicino alla chiesa di San Francesco?”. “Di fronte al camino abbiamo la televisione e quindi vediamo ‘I fatti vostri’ o qualche film. A volte viene una coppia di amici e facciamo partite allo scopone. In campagna vengo quasi ogni giorno per dare da mangiare ai gatti. Scappata e fuga”. E’ affezionato agli animali. Nella stalla dell’azienda agricola muggivano cinque o sei mucche e starnazzavano le galline e da qualche parte sbucavano le orecchie lunghe di un coniglio che Vito ogni tanto riusciva a prendere il braccio. Angela teneva le redini del piccolo complesso con rigore e passione.
Vito Argese a tavola
Per scherzare dico che Angela è una marescialla dei carabinieri e mi chiedo come mai con il passare degli anni non sia stata promossa al grado superiore. Ha un bel sorriso comunicativo, che dimostra sincerità e fiducia, ma all’occorrenza le si accendono gli occhi dietro gli occhiali ed esprime una garbata severità. La stessa severità con cui ha allevato le figlie. E’ una donna d’altri tempi, di quelle in cui ci si scaldava con il braciere e i panni d’inverno si asciugavano stesi sus“’u mòneche”. Angela è ancora bella, a dispetto dell’età. Ma non ha le idee dei tempi che furono.
Quei tempi Vito li racconta pilotando l’auto su tratturi in salita, qui in terra battuta, lì asfaltati, più avanti in salita, poi in discesa, all’ombra di un bosco, fiancheggiando un meleto, una vigna prossima al parto. Io ricordo altre vendemmie, sul Chiancaro, nella terra dello zio prete. Con gli zii e i cugini tagliavamo i grappoli con il coltello, riempivamo un cesto, lo mettevamo sulle spalle e lo riversavamo nel palmento. Un contadino pensava a pestare l’uva con i piedi nudi. Erano giorni di gioia, anche se non facevamo la festa sull’aia (che tra l’altro non c’era), come tantissimi altri, con suoni e balli e bevute.
“Vito, questa è la mia unica esperienza, non contando quella a San Severo, nella mezza versura di mio zio Luigi, che finì quasi prima di cominciare per un taglio alla mano”. Vito sorride. Io tiro giù il finestrino per scattare una foto: la giornata va immortalata. Siamo nuovamente in contrada Papa Domenico, nota anche con il nome di Recchione da una masseria che sopravvive con tutta la sua vitalità. Ma Vito dirige l’auto verso il suo cortile. E lì ci aspetta l’ospitalità della famiglia. In casa Argese c’è sempre un piatto per gli amici. Angela ha già messo in tavola; su un tavolinetto a parte campeggia la policromia dei fichid’india e grappoli d’uva. Sono soddisfatto: ho trascorso ore con un uomo alto e robusto con il cuore che ancora batte per la terra. 

mercoledì 24 settembre 2025

Taranto, luoghi, personaggi, panorami


LA BELLEZZA DI UNA CITTA’ RACCONTATA CON AMORE

 

 



via D'Aquino (coll. De Florio)
I tramonti, il mare, le barche, i vicoli, piazza Fontana, via D’Aquino, il Ponte Girevole, il Castello Aragonese, la via di Mezzo, la ringhiera: gioielli che su un piatto d’argento offre la città.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
Lo scrittore Giacinto Peluso insegnava lingua francese all’Istituto Magistrale Livio Andronico, in corso Umberto, quando cominciai a frequentarlo.
Giacinto Peluso e Nicola Mandese

A scuola era severo e implacabile, ma nella vita quotidiana tutt’altro. La severità era un suo metodo educativo: in aula non bisogna solo far conoscere Dante e ”Apollinaire”, ma formare, far crescere, insegnare agli allievi la vita. Lo incontravo spesso alla Libreria Filippi, in piazza Maria Immacolata, di fianco al portone dell’abitazione di Alfredo Nunziato Maiorano. A volte era in compagnia di Piero Mandrillo, il pulsanese ribattezzato tarantino.
Un giorno su un pullman, affollatissimo, quindi tutti stretti come olive in un barattolo, mi sentii chiamare con una voce perentoria, mi voltai e vidi emergere appena una specie di melone, poi un volto. Trinciai la folla, mi avvicinai, osservai una persona che mi parlava, ma non riuscivo a capire chi fosse. Mi disse “Io ti leggo sul ‘Giorno’, bravo” e io continuavo a farmi domande. Dandomi la mano, mi domandò: “Tu mi leggi sul ‘Corriere del Giorno?”. E allora avrei voluto abbracciarlo: lo avevo finalmente riconosciuto.
Ero già in pensione, ma ancora presente nelle pagine del mio giornale: una pagina intera settimanale sul gioco del lotto dal punto di vista demologico: superstizioni, sogni, “assistiti”, figure che Luciano De Crescenzo ha delineato molto bene e in modo divertente, in “Così parlò Bellavista”. Volevo raccontare il gioco del lotto a Taranto e domandai aiuto a Peluso. Presto fatto: “Pubblicai un libro trent’anni anni fa, te lo presto e quando sarà uscita, fra qualche mese, la nuova edizione, te la manderò”.
Il Ponte Girevole

Divorai il suo testo, che in un capitolo soddisfaceva le mie curiosità, compresa la sede del gioco, i ragazzi che il sabato si sparpagliavano per la città distribuendo foglietti con le combinazioni vincenti, gli atteggiamenti al botteghino e tanti altri particolari, compreso il bancolotto della città vecchia, a un passo dalla chiesa di San Giuseppe.
Era una fonte inesauribile, Giacinto. Ha scritto tanto su Taranto: luoghi, personaggi curiosi, come don Catavete e donna Pernice, Pezzechicchio e Cuppulone; personalità di alto livello, sacrari di cultura come la biblioteca Acclavio…
A Milano continuavo a seguirlo, perché Carlo Maria Lomartire, presidente della società editrice, in cambio della mia collaborazione con “Il Corriere”, mi faceva mandare il quotidiano in omaggio. Per questo potevo leggere le notizie della mia città; le cronache dal Palazzo di Giustizia di Roberto Raschillà; l’intervista del direttore Riccardo Catacchio a Foggia al nuovo arcivescovo, Papa, che stava per trasferirsi nella Bimare…
Il giorno in cui presi il treno per Milano nella valigia avevo tutto quello che serve e copie del “Corriere”. Ricordo i nomi dei colleghi che vi lavoravano, da Domenico Casulli, poi diventato notaio, a Ventrella, a Pasquale Scardillo, esperto di sport; da Di Battista a Franco De Gennaro; da Vincenzo Petrocelli a Livio De Luca, a Mario Ligonzo... Tani Curi lo ritrovai nella veste di caporedattore in via Fava, la vecchia sede del mio giornale.
Giovanni Acquaviva e il pittore Antonio Rolla

Nei ritorni non mancavo mai di fare un salto in redazione, prima in via Mazzini, poi in via Di Palma, ai Beni Stabili, in piazza Maria Immacolata, al primo piano del palazzo che ospitava il famoso “Cin cin bar”. Per la verità in quest’ultima sede, in cui era direttore Dino Salvaggio, ci sono andato poche volte, ma perché soggiornando a Martina Franca, non avevo sempre un’auto a disposizione.
Anche “Il Corriere del Giorno” fa dunque parte dei miei ricordi più assidui. Ci entrai per la prima volta quando non avevo ancora diciotto anni: “Il Corriere” ha cullato il mio sogno di diventare giornalista. Allora veniva confezionato in piazza Garibaldi, di fianco all’ingresso del Palazzo che ospitava il Tribunale, l’istituto per geometri e ragioneri, e dall’altro ingresso, di fronte al monumento ai Caduti, il Liceo Classico “Archita “. Ricordo le cronache dei grandi processi nella Corte d’Assise riunita a Taranto, con principi del foro come Alfredo De Marsico e nei banchi riservati alla stampa, Gennarini, corrispondente della “Gazzetta del Mezzogiorno”, e il professor Angarano, del “Giornale d’Italia”, genero del titolare della Sem, Messinese, che accendeva i saloni al piano superiore, per le danze, le conferenze, i convegni ed altre attività.
via Garibaldi

A pochi passi c’era l’ufficio di corrispondenza del “Messaggero” guidato da Lippolis, che abitava qualche piano sopra, e di fronte la caserma dei carabinieri. Alcuni ricordi m’intristiscono ancora. Per esempio, quello del colonnello Giovanni Carrino, a scuola sempre 9 e 10, poi ingeneria, sempre con ottimi risultati, poi la marina e vice-comandante di un sommergibile, in cui un giorno si sprigionarono le fiamme, Carrino accorse da casa e ci lasciò la vita. Io ero al “Giorno” e lessi la notizia in tipografia, con gli occhi umidi: Carrino era mio amico.
Del “Giorno” mi seguono nel pensiero i colleghi più cari e il profumo del piombo, poi sostituito dalle nuove tecnologie. Mi vengono in mente anche i fotografi, che avevano il laboratorio al decimo piano; tra questi Lorenzo Pizzamiglio, che tutte le sere veniva a sedersi a un tavolo della cronaca e leggeva i quotidiani; e se arrivava la notizia, risaliva come un fulmine i piani, si attrezzava e sostava in portineria in attesa del cronista.
Una notizia la captai proprio stando a Martina, scorrendo le pagine del “Corriere del Giorno”: gli ori di Taranto in partenza per una mostra a Milano. Erano già esplose le polemiche e l’idea di un referendum. Protestò anche Nicola Caputo, grande storico della Bimare, perché si temeva che dal capoluogo lombardo gli ori non sarebbero più tornati o sarebbero tornati rovinati. Corsi a Taranto, contattai il presidente dell’Ente per il Turismo, Costa, il vicedirettore del Museo e altri. Il giorno dopo uscì sul “Giorno” un titolo su otto colonne, confezionato dal vice-direttore Enzo Catania: un vulcano.
Antonio De Florio a piazza Fontana

Sono molto legato a Taranto. E nei miei rientri trovo sempre novità, cambiamenti, persone che non vedevo da 40 anni. Anni fa mi venne incontro sotto casa mia il poeta Diego Fedele; un’altra volta incontrai Claudio De Cuia e ancora Nicola Caputo in via Mignogna, nel punto in cui si apriva la Galleria d’arte di Mario Ligonzo, e poi Umberto Vernaglione, campione italiano di pugilato, che abitava in via Giusi. Una bravissima persona e un grande sportivo.
Ancora oggi amo fare un pellegrinaggio fra i luoghi che avevo frequentato di più, soprattutto via Garibaldi, nella città vecchia, dove la vista “d’u mare peccerjdde”, m’incanta. Il mare che ispirò poeti e pittori e ad Alfredo Lucifero Petrosillo il poema “U travàgghie d’u màre”, il mare che s’infuria, si placa, emette una musica dolce che fa sognare; il mare che si riempie di stelle quando è illuminato dalla luna; il mare che si sposa con un altro mare, il Grande, padrino il canale navigabile: il mare di Taranto, la città che mi ha dato i natali, il mare a cui torno per amore; Il mare di Alfredo Nunziato Maiorano, autore di “Tàrde vècchie mjie”, dove lui tornava per ascoltare il dialetto dalla voce dei pescatori: “schife”, “’mbòte”, “stangachiàzze”, “sciabulone”…
Il mare visitato costantemente da Antonio De Florio anche per realizzare i suoi video eccezionali; il mare sognato dai tarantini trasmigrati nel capoluogo lombardo; il mare di Nicola Giudetti, il “re” del borgo antico”; di Nicola Cardellicchio, che vanno ad ammirarlo tutte le volte che possono e poco ci manca che vi si genuflettino. Mare Picce è sacro. Su quella riva conobbi, quasi settant’anni fa, i venditori di frutti di mare e vidi le prime volte le barche colme di mitili, “còzze gnòre”, ancora attaccate “a le zòche”.
Giuseppe Francobandiera

Quante volte ne ho parlato con Filippo Alto, il grande pittore barese che nella sua casa milanese e in quella di Figazzano ritraeva la Puglia anche per la rivista “Qui Touring”, di Mario Oriani, e la celebrava con le sue mostre anche oltreconfine. Nella Bimare venni anche per assistere a una commedia di Eduardo recitata dal figlio Luca, nell’ambito di una grande iniziativa di Giuseppe Francobandiera, direttore del Circolo Italsider: il “Teatro sull’erba”. Francobandiera! Quante idee, quanti progetti, quante invenzioni. Fu il primo a pubblicare con l’Italsider un libro sugli ori di Taranto. Realizzava senza rumori, con umiltà: esposizioni, conferenze tenute da grandi nomi (Morando Morandini, Gianni Brera...), concerti nelle chiese… Eh, Peppino, strappato troppo presto a questa città, che aveva bisogno di lui. Generoso, sincero, grande intellettuale, come affermava anche Piero Mandrillo, che mi parlò molto di lui durante un pranzo a casa mia a Milano. Giuseppe veniva dalla Lucania, che vuol dire luce. Quante volte ci siamo incontrati alle feste che Filippo Alto, il vichingo, organizzava a Figazzano (una volta c’erano anche il ministro Vernola, il critico d’arte Raffaele De Grada arrivato da Milano, Giuseppe Giacovazzo e altre personalità). Ho letto i suoi libri, li ho riletti. E ricordo le parole di Franco Zoppo: “Sarebbe stato un ottimo sindaco”.