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mercoledì 30 luglio 2025

Domenico Porzio a Taranto

RITORNO ALLA CULLA DI UN GRANDE FIGLIO

 

Domenico Porzio
Visita nella città vecchia, seguito da un fotografo  eccellente, Carmine La Fratta. Soste nei vicoli, alla Dogana, nei negozi, incontri, alla Casa del Libro. Un viaggio del cuore.

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 


Ero da poco arrivato a Milano e avevo già voglia di conoscere la città e di avvicinare i miei corregionali. Avevo incontrato il martinese Guido Le Noci, titolare della Galleria d’arte ”Apollinaire” in via Brera, il più prestigioso e famoso mercante d’arte europeo - amico di Pierre Restany, papà dell’”art nouveau” - editore di volumi eleganti e interessanti, uno dei quali dedicato alla Valle d’Itria, scritto da Cesare Brandi.
Porzio a Taranto vecchia
Ero giovane, disorientato, una grande nostalgia per Taranto, ancora indeciso se rimanere o tornare, quando decisi di andare a cercare alla Mondadori, che allora aveva la sede in viale Regina Giovanna, Domenico Porzio. Mi faceva esitare l’altezza del personaggio, così importante, capo ufficio stampa della casa editrice e assistente del presidente. Ma mi feci coraggio, salii sul pullman e via. Non dovetti aspettare molto per essere ammesso alla presenza del capo. Mi sorrise e mi dette il benvenuto. “Siediti. Hai l’onore di appoggiare il tuo fondoschiena dove hanno adagiato il proprio Kerouac, Soldati, Nabokov e tanti altri”. La rivelazione accrebbe il mio imbarazzo. Io scrivevo sulla “Tribuna del Salento”, periodico di Lecce, e su “Sette Giorni”, di Bari. Gli chiesi se poteva concedermi un’intervista per questi giornali. “Perché no! Tu fammi le domande e io risponderò” E così gli chiesi dei suoi primi giorni a Milano, come fosse riuscito a fare quella brillante carriera, se ogni tanto pensasse alla sua terra d’origine... Gli chiesi anche che cosa consiglierebbe a un giovane approdato da poco nel capoluogo lombardo”. “Di non credere di poter fare il lavoro in qualche maniera o a mezza giornata, di non dire di saper fare tutto e di non pronunciare mai la parola sfortunato”. Parlava piano, con un leggero sorriso incoraggiante e aggiunse che Milano amava i giovani intelligenti e volenterosi.
Porzio e Nicola Mandese

Era nato a Taranto, sin da giovane provava la passione per il giornalismo, ma il padre lo voleva medico. E lui non lo deluse. Studiò con impegno e a laurea conseguita gli disse: “Papà, tu hai voluto per me la laurea in medicina, io te la consegno, ma voglio fare altro: amo la carta stampata. E Cominciò il suo percorso con zelo,, continuò gli studi letterari, seguiti dalla pubblicazione di libri importanti, tra cui quelli su Borges. Divenne amico di Montale, Marco Valsecchi, critico d’arte del quotidiano “Il Giorno”, e di tantissime altri personalità. Per sapere della loro vita e della loro attività, basta leggere il volume “Primi Piani”, edito da Mondadori. Mi parlò a lungo di Mario Soldati, che amava telefonargli da qualunque parte del mondo si trovasse, per dirgli quello che faceva, le persone che incontrava, addirittura il ristorante in cui andava a pranzare, l’albergo in cui alloggiava.
Porzio in un vicolo
Io poi ebbi il piacere di parlare al telefono con l’autore di “Vino al Vino”, “Le due città”, “America primo amore”… Gli telefonai nel suo studio, in via Cappuccio, e lui mi parlò di tante cose: di Milano, del Premio Bagutta, da lui vinto nel ‘59, dei giardini di Milano, dei suoi palazzi storici, di “Le petits bourgeois”, di Balzac e della sua ammirazione per Milano, “cette jolie Capitale”, della sua casa di Tellaro… Parlare con lui era entusiasmante, non ti lasciava spazio, ma tutto quello che diceva era da assorbire. Anni dopo lo rividi in una riunione al Circolo De Amicis.
Mi si perdoni il dirottamento. Capita quando si hanno tante cose da dire. E io non voglio fare torto a Domenico Porzio, persona squisita, che non ha mai dimenticato la sua città natale. E ogni volta che lo invitavo a una manifestazione letteraria o a far parte della giuria in un Premio che aveva per tema Milano non diceva mai di no. Fu presente anche a quella intitolata “Le Porte dei Milano”, che furono assegnati ad Alberto Dall’Ora e a Silvio Garattini, il quale colse l’occasione per tenere un lungo discorso sulla ricerca, alla presenza di un’ottantina di giornalisti con signore e di numerose autorità, a cominciare dal sindaco e dal presidente generale della Coorte d’Appello, Beria di Argentine.
Nel ‘76 Domenico Porzio fu tra i primi ad arrivare al Cida (Centro informazioni d’arte), in via Brera, ad una serata pugliese con Vincenzo Buonassisi, gastronomo e inviato del “Corriere della Sera”, il direttore dell’”Europeo” Giovanni Valentini e l’inviato dello stesso settimanale, Salvatore Giannella, entrambi baresi. Tema: “I trulli che vanno in rovina”. C’erano oltre 400 persone. Le Noci per l’occasione aveva appeso alle pareti alcuni quadri e fece proiettare un documentario sulle tarantolate di Galatina. Non mancava Giacomo Lezoche, che era presidente dell’Associazione regionale pugliesi, e Nino Palumbo, autore tra l’altro di “Mare Verde” (pugliese di Trani, da Milano trasferitosi in Liguria, ma sempre pronto a rispondere all’appello). Quella sera, invitato a prendere la parola, Domenico Porzio parlò di una sua recente visita a Taranto e la descrisse sinteticamente, ma con efficacia
Domenico Porzio in libtreria


In via Brera Lambros Dose, gestore del Cida, lesse l’introduzione al libro di Massimo Fumarola, “A passeggio per la Valle d’Itria”, scritta da Paolo Grassi e si accesero gli applausi per il grande uomo di teatro. Qualche tempo prima di morire, a Cortina, Porzio era stato nuovamente nella città dei due mari e il fotografo Carmine La Fratta lo aveva seguito passo passo anche nella città vecchia, dove lo scrittore volle passare sotto la casa in cui era nato., si fermò a scambiare due parole con la gente e proseguì sulla scia del profumo del Mar Piccolo.
Domenico Porzio era un gran signore. Pur essendo un personaggio di alto rilievo, ascoltava e apprezzava, senza mai intervenire se non richiesto. Lo ricordo in una sua conferenza su San Nicola al Circolo della Stampa a Palazzo Serbelloni. La Sala Montanelli affollatissima, tutti lo seguivano con grande attenzione, mentre il pittore Filippo Alto prendeva nota. Alla fine Porzio mi regalò gli appunti, che conservo.
Porzio in un negozio di Taranto

Era un bell’uomo, cortese, dal sorriso comunicativo, dai modi garbati. Giorni fa ho ripreso a leggere “Primi piani” e ancora una volta mi ha affascinato il modo con cui fa il ritratto di quegli scrittori che aveva conosciuto anche perché molti pubblicavano per la sua editrice: Dino Buzzati che “adorava i cani, convinto che la loro faccia fosse una delle poche e convincenti prove di Dio. E Piero Chiara da Luino , lacustre di nascita, ma siculo-nornmanno di stirpe (gli avi valvassori sulle Madonie con greggi e pascoli nel contado di Polizzi Generosa), governa con le sue favole quattro milioni di lettori. Ha pubblicato anche “Elogio della libertà”, “Incontri e scontri col Cristo, “Conoscere Picasso” e le sue pagine su Borges. Era uno scrittore profondo, godibile. Da giovane diresse riviste con Oreste del Buono. La prefazione a “Primi piani” è di Enzo Biagi, che dice: “Mi piacciono gli articoli di Porzio perché non si è adeguato all’ultima moda. Ci sono dei miei colleghi che fanno venire in mente certi film di Buster Keaton; Io e la vacca; Si sentono in qualunque circostanza i protagonisti; Io e la palla. Domenico Porzio si accontenta invece della parte più modesta di testimone e più avanti assicura che anche Domenico Porzio ha ovviamente le sue curiosità, e vuole sapere, ma l’animo è più disposto a capire che a condannare.
Porzio firma un libro

Lo vidi l’ultima volta seduto, le braccia incrociate poco distante dal tavolo riservato ai dirigenti della Rizzoli, in occasione della presentazione di un libro del giallista Renato Olivieri, “Largo Richini”, con Arnaldo Giuliani, capocronista del “Corriere della sera”, che imperava intervistando ben cinque questori venuti da diverse città (Mario Iovine da Roma. Vito Plantone da Catanzaro, Putomatti da Sondrio...) su episodi particolari della loro vita professionale. Poi l’età dei premi per me si concluse e Domenico Porzio non ebbi più occasione per incontrarlo, Lo ricordo spesso, quel signore discreto, rispettoso, cordiale, dalla cultura immensa, che non amava essere alla ribalta. Sapevo sue notizie da Mario Oriani, che aveva una propria casa editrice in via Chiossetto, a pochi passi dal laboratorio storico del ceramista Giuseppe Rossicone (purtroppo scomparso da qualche mese) e pubblicava cinque riviste importanti, tra cui “Aqua”, e poi “Storia illustrata”.
Erano esaltanti quelle serate in un ristorante ai margini della città affollato di giornalisti, autorità, dal sindaco Carlo Tognoli al prefetto Vicari. Vi si consegnava i premi e gli applausi scrosciavano.


Per le foto ringraziamo il fotografo Carine La Fratta, che seguì lo scrittore nella sua visita a Taranto.

mercoledì 23 luglio 2025

Una radiografia di Sesto e Milano

UN LIBRO DI SARDELLI E GALLIZZI RAPISCE L'ATTENZIONE

 

 


"Eravamo in via Solferino-Quarant’anni di vita al
‘Corriere” racconta l’atmosfera che si viveva in quelle stanze, le “firme” nobili, la disciplina, il rispetto reciproco, l’ordine, la pulizia, i rapporti umani, la storia del giornale: tempio del giornalismo.

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
Un sogno chiamato Corriere: il tempio del giornalismo che si erge in via Solferino. Quanti giovani di valore hanno vagheggiato di far parte del regno di Ottone, Afeltra, Montanelli, Buzzati, Bettiza… Quanti. E Giuseppe Gallizzi, anche lui, ha speso passi per arrivarci. Si rivolse ad un suo conterraneo, Lanocita, di un paese vicino alla sua Nicotera, ma non ottenne risultati; il responsabile delle pagine degli spettacoli gli rispose solo che lo avrebbe aiutato a patto che lui si cercasse un altro spazio per allenarsi, perché “Il Corriere” era il “Corriere”.
Gallizzi. Mieli, Stimolo

Gallizzi era una quercia e non si lasciava fiaccare facilmente. Passarono i giorni e prese a lavorare alla periferia del “Corriere”, scarpinando a Sesto San Giovanni per raccogliere notizie da trasmettere al sacrario del giornalismo. Non credo che abbia fatto il conto delle ore consumate sulla strada, dei chilometri macinati a piedi per andare a mietere in un ospedale, in un commissariato di polizia, in una caserma dei carabinieri. Sapeva già che cosa deve fare un cronista; che cosa deve essere: un cacciatore, un mangiatore di panini e polvere, un corridore, un maratoneta, uno pronto a buttarsi già dal letto alle 2 del mattino per volare sul teatro di un delitto.
Quanti sacrifici, quanta fatica per raggiungere l’obiettivo: entrare al “Corriere”. E alla fine fu arruolato nell’agone dei cronisti di razza. E dopo tanti anni e una carriera brillante (da cronista a inviato, a capo cronista a primo capo redattore), la voglia di raccontare una vita che ha il sapore dell’avventura, della favola diventata realtà. E il racconto, con stile seducente, lo ha steso con Vincenzo Sardelli, “Eravamo in via Solferino”, edito da Minerva. L’ho letto due volte anche per la gioia di apprendere storie e curiosità, fatti e chicche. Gallizzi la prende da lontano, elencando anche ricordi di episodi che lo hanno irrobustito. Comincia con il viaggio verso Milano con la “Freccia del Sud”, un treno sempre zeppo di passeggeri, che si catapultavano nei vagoni attraverso i finestrini, si stendevano per terra, con valigie e altri bagagli occupavano i gabinetti di decenza, le piattaforme, non si poteva quasi neppure respirare e il controllore non poteva chiedere di vedere i biglietti, non riuscendo a tagliare quella catasta umana. Nel grande ventre della stazione centrale occorreva molto tempo per svuotare i vagoni. Se non erro a trainarli era “’a Ciucculatère”, la locomotiva a vapore, un gioiello delle strade ferrate, una gloria, principessa nei miei ricordi, amica dei miei viaggi all’indietro, ma lenta.
Gallizzi e il figlio Francesco

Si era nel dopoguerra, i contadini lasciavano la terra e l’affidavano alle mogli, un salasso memorabile. A Milano bisognava cercare casa e lavoro e nel cercarlo era necessario dimostrare di avere voglia di fare, capacità, carattere, dignità; e occorreva stare attenti a non pronunciare mai la parola “sfortunato”: Milano voleva gente che vince, scartava i perdenti. E i meridionali sbarcati nel capoluogo lombardo dimostravano di volersi inserire, di essere all’altezza di una città che sa donare, ma vuole in cambio la bravura, la serietà, l’impegno. Gallizzi andò a Sesto San Giovanni, la città delle industrie che negli anni sono diventate reperti archeologici. All’epoca c’erano imprenditori illuminati che rispettavano i dipendenti, creavano per loro asili-nido, vacanze, scuole serali per farli crescere, istruirli, scuole professionali per arricchire i loro mestieri, le loro esperienze.
Questo libro è anche un compendio di storia. Gallizzi, casa a Sesto San Giovanni, descrive il passato e il presente della città che ha vissuto, con sapienza, ne fa la radiografia. Ma disegna con tratti decisi anche Milano: Brera, il Bar Giamaica, dove si riuniva la crema dei critici musicali, cinematografici, teatrali, d’arte, degli scrittori, da Salvatore Quasimodo a Emilio Tadini, pittori come Kodra a Carrà, Crippa. Vi faceva una sosta Mussolini che la mattina, andando al “Popolo d’Italia”, prendeva il caffellatte.
Gallizzi e Montanelli

In queste pagine campeggia anche un efficace ritratto della mala dell’Isola e di Porta Genova, le “falene” di via Larga, i night, i trani. Tutto il panorama della città a cui Gaetano Afeltra ha dedicato un volume: “Milano, amore mio”. Don Gaetano conosceva tutto dei percorsi del Porta, del Savini, del Biffi: i ristoranti che emanavano profumi in Galleria e accoglievano i nomi più illustri del mondo. Riferisce persino l’anno, il 1929, in cui sotto le guglie del Duomo arrivò la pizza.
Gallizzi non demorde, scavalca i sassi che incontra, fa il rodaggio in una serie di giornali, tra cui “Il Giorno”, “La Notte”, giorno dopo giorno acquista spessore professionale, sa che cosa aspetta il cronista appena esce di casa, il mattino o la notte: un cronista non ha soste, non ha feste consacrate, vigile anche a Pasqua e a Natale. Lui è pronto per far parte della basilica del giornalismo e finalmente vi entra non dalla sacrestia, ma dal portale principale. Rimane sbalordito dall’atmosfera, dai passamani lucidi, dalle scale brillanti, dal tavolo alla “Times”, dall’ordine, dalla disciplina… E’ il suo giorno migliore, in cui incravattato si presenta al pontefice e poi si sente chiamare signor Gallizzi dai collaboratori di piano. Conosce firme celebri: Montale, per esempio, con il suo aspetto di parroco di campagna. Lanocita fa il critico cinematografico ed è scrittore consacrato. Gallizzi incontra il mito, Gaetano Afeltra; Indro Montanelli. Il ragazzo venuto da Nicotera, in terra di Calabria, per fare il suo ingresso al “Corriere” ha fatto la sua gavetta e ha conquistato il titolo di cronista, una conquista importante, quasi nobiliare. Pronto a tutto, rispettoso dei fatti di cui si occupa, li racconta con onestà, senza enfasi, senza ricami, ma così come li ha visti, come li ha vissuti. Il suo nome circola, viene rispettato. Da inviato tiene la valigia in anticamera, per afferrarla subito e partire. Quando il “Corriere” chiama bisogna essere già sul posto indicato.
Giovanni Raimondi e Pier Maria Paoletti

Ormai è chiaro che Giuseppe Gallizzi è nato giornalista. Ha imparato la tecnica del mestiere, ma lui è già un Tito Livio moderno. “Eravamo in via Solferino” è un libro che si lascia leggere con piacere: contiene nomi di cronisti noti e stimati, che fanno parte della scuderia: Alfredo Falletta, Max Monti, Arnaldo Giuliani, Fabio Mantica, Alberto Berticelli, Paolo Longanesi..... Gallizzi parla con l’orgoglio del figlio per un padre eccellente. Passando da una pagina all’altra, sfilano i ritratti di Alberto Cavallari, che “era un ingegno multiforme”; Giulio Nascimbeni tra l’altro biografo di Montale; Ugo Stille, un americano a Milano; Paolo Mieli, Giovanni Spadolini, Franco Di Bella, “il mago della cronaca nera”. Se non ricordo male fu proprio Di Bella a inventare l’etichetta di “solista del mitra” per Luciano Lutring, per la custodia di violino trovata nell’androne di un palazzo da cui il fuggiasco era stato visto uscire. Di Bella era una mente. Con gli articoli di cronaca ogni giorno imponeva alla sua squadra un viaggio attraverso la città e quei cavalli murgesi galoppavano infilandosi in luoghi oscuri, impervi, a volte pericolosi per strappare un briciolo di notizia o uno “scoop”, come accadde a Paolo Chiarelli in una roccaforte della droga con sentinelle dappertutto pronte a segnalare la presenza di sconosciuti o delle forze dell’ordine.
“Eravamo in via Solferino” appassiona, affascina., rapisce: descrive incisivamente personaggi, situazioni, luoghi, episodi, tra cui l’uscita e il rientro del grande Montanelli al “Corriere”. Arrivato all’ultima pagina, il lettore è più ricco: conosce molte vicende del giornalismo italiano, spesso tormentate. Le penne d’oro sono descritte con l’efficacia del pennello di un pittore. Ed emerge la figura di Ferruccio De Bortoli, il più recente comandante del bastimento: carismatico, simpatico, cortese, preparatissimo anche sulla storia e le storie di Milano. Salito in plancia nel ‘97, “fra tutti quelli che si sono avvicendati al vertice del ’Corsera’ in questi ultimi anni De Bortoli è forse il più corrierista”. Era entrato giovanissimo al “Corriere dei ragazzi”. Da lì caporedattore alle pagine di economia, vicedirettore, al vertice del tempio. Uomo di vasta cultura e dai modi da gentiluomo, energico, inflessibile, capace di “tirar fuori le unghie fino all’aggressività”.
Gallizzi e Alberto Sordi al Circolo della Stampa

Poi per tutti arriva il momento della pensione e anche per Gallizzi è arrivata quella scadenza. Ma ha aperto un’altra, fondando “La voce del giornalista”, e lotta ancora per mantenere la sua lista ben salda all’Ordine dei giornalisti.
E’ stato presidente del circolo della Stampa, dove ha ricevuto personalità come Rita Levi Montalcini, Romano Prodi, attori come Alberto Sordi.. In una foto appare Gallizzi in cima a uno scoglio, come la vetta del “Corriere”.
Un libro da non lasciare in libreria. Presentato da Vittorio Feltri, e con una dotta prefazione di Vincenzo Sardelli, brindisino, laureato in Lettere alla Cattolica di Milano, insegnante di italiano e storia; collaboratore di più giornali, ha scritto articoli di antropologia, filosofia, storia, letteratura e sociologia. Di Gallizzi dice che era un capo garbato e che la sua porta anche al Circolo della Stampa era sempre aperta. Gallizzi è cordiale e disponibile anche nella vita.

mercoledì 16 luglio 2025

Celebrato Nunzio Schema a Fasano

UN ILLUSTRE EDITORE CHE FECE ONORE AL SUD

 



Nunzio Schena

Nella sua tipografia ricevette Giovanni Spadolini,
il Dalai Lama... Fu ammirato da Paolo Grassi; si fece stimare anche al Nord. Pubblicò migliaia di volumi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI

 

Non si può dimenticare Nunzio Schema: l’editore di Fasano che anni fa aveva uffici e tipografia in via Della Stazione, dove riceveva personalità prestigiose.
l'editore Schena con Spadolini

Dalla sua finestra poteva ascoltare il fischio del treno che andava e veniva da Milano. Qualche volta quella locomotiva ha tirato il vagone in cui era seduto anche lui, diretto a Pavia, dove ha lasciato un segno incancellabile. Nunzio era un gentiluomo che dialogava con grande rispetto dell’interlocutore. Sapeva raccontarsi tenendo sempre sveglia l’attenzione di chi l’ascoltava. La sua storia è affascinante: quella di un imprenditore librario che ha fatto tanto e bene il suo mestiere. E’ stato celebrato un paio di mesi fa nella sua città come “il ragazzo che amava leggere i libri”. Ricorrono cento anni dalla sua nascita; e sicuramente numerose persone sono andate da altri angoli della Puglia per assistere anche alla “pièce” a lui dedicata.
Edificante rispolverare la vita e le opere di Schena, che evoca i tanti personaggi che gli fecero visita nella sua città collocata fra il mare e la collina, nella sua Grafischena a un tiro di schioppo da un ulivo saraceno così antico da essere piegato come la schiena di un vecchio bracciante. Nell’elenco, spiccano i nomi di Giovanni Spadolini - la cui biografia comprende incarichi di docente universitario, di ministro e di presidente del Consiglio di direttore prima del “Resto Del Carlino” di Bologna, poi del “Corriere della Sera” - il Dalai Lama...
Nunzio e Angela Schena

Durante l’incontro con Schena, Spadolini disse che “essere qui a Fasano, da un editore del Mezzogiorno, Nunzio Schena, che ha il coraggio di alimentare la pianta della cultura al di là della convenienza economica; che è impegnato in tante imprese anche appoggiato dalle Università della Puglia, compresa quella di Bari, è per me motivo di soddisfazione e di orgoglio”.
Tanti anni fa ebbi il piacere d’intervistarlo, Schena, alla presenza della figlia Angela, di Vinicio Aquaro, che scrive sulle pagine della “Gazzetta del Mezzogiorno”, e dell’assessore milanese Siro Brondoni. L’editore era un uomo spiritoso e lo dimostrò anche in quel colloquio, dicendomi che era del ‘25, ma non poteva morire “perché mi riferiscono che all’inferno hanno fatto il pieno”. Angela, manager dell’azienda, che stava in piedi di fianco a lui, aprì un sorriso dolce e divertito. Era evidentemente orgogliosa di quel padre generoso, ospitale, intelligente, affabile, grande lavoratore, oltre che ricco di idee. Lo conoscevano tutti, non soltanto in Puglia, ma anche al Nord, nella città della Certosa, del Castello Visconteo, del ponte coperto: Pavia.
Mi appassionava la vicenda di quest’uomo, che per costruire il suo opificio aveva lavorato 12 ore al giorno. Mi colpiva la passione, la tenacia, l’energia con cui aveva raggiunto il luminoso traguardo. Schena non era stato bene, ma aveva accettato ugualmente d’incontrarmi. Amava parlare con voce bassa, senza retorica, senza termini superflui. Sapevo che non gradiva le domande che rasentavano il pettegolezzo e quelle inutili, banali, superflue. Se costretto, si manteneva sul vago, tagliava le frasi, fingeva: “La mia memoria fa cilecca”. Un’intervista può anche essere un duello, ma con argomenti sostanziosi, costruttivi, in modo che chi ha in mano il taccuino e chi lo fa riempire si sentano arricchiti.
Nunzio Schena con Giovanni Paolo II

Tommaso Fiore lo avrebbe definito un “formicone di Puglia”, che ricevette elogi anche da Papa Giovanni Paolo II, che aveva espresso il desiderio di conoscerlo. Grande Nunzio: ha davvero dato lustro alla sua città, alla nostra Puglia. E’ stato sempre puntuale, tempestivo. Nel ‘90, per la visita del Papa a Taranto – mi riferì l’avvocato Elio Greco – pubblicò il libro “Una vela di speranza”. E il Santo Padre lo invitò in Vaticano e l’abbracciò, dicendogli: “Da quando giro il mondo tutti sfornano libri, il tuo è il più bello”. Che soddisfazione! Che gioia! Vero Nunzio?
I volumi usciti dalla Grafischena non erano, e non sono, soltanto interessanti, ma anche ben curati, eleganti, con copertine ammirevoli, in cui c’era lo zampino del cognato, che, partito da Benevento e approdato a Fasano, nella tipografia di Nunzio ebbe il colpo di fulmine: “Addio al lavoro di ragioniere, scelgo quello di grafico in quest’azienda” che ha il sacrificio nelle radici.
Schena con il professor De Marsico

Quando scendevo in Puglia per bere l’aria pura e ristoratrice di Martina Franca e assaporare il profumo del Mar Piccolo a Taranto, ascoltando il dialetto dalle labbra screpolate dei pescatori, trovavo sempre qualcuno che mi parlava di Nunzio Schena: Nico Blasi, Piero Mandrillo, Francesco Lenoci ... In una delle mie solite corse a Crispiano, un giorno, conversando sulla ricchezza di testi, molti, di Schena, nella Biblioteca “C. Natale, il direttore Michele Annese, che era contemporaneamente segretario generale della Comunità Montana, mostrandomi un’opera piena di immagini di Santi, commentò, sfogliandola, che Nunzio era un editore di alto livello, di grande professionalità e serietà. “In occasione dell’inaugurazione del nostro Centro Studi Montaliani – aggiunse – Schena pubblicò un testo di Giuseppe Milano sul Premio Nobel autore di “Ossi di seppia”: Montale. E deragliando ricordo che dopo tanti anni dalla morte del padre la figlia Angela ha pubblicato, nel 2020, “La Biblioteca di Crispiano”, opera dello stesso Annese, contenente documenti, testimonianze, ritagli di giornali, foto di un’esperienza di promozione culturale, sociale e turistica del territorio.
Altri giudizi raccolsi a Martina Franca, dove Franco Carrozzo, allora comandante dei vigili urbani (scomparso da qualche mese), autore di un libro sulla polizia locale, esaltò l’impegno, lo zelo, l’accuratezza, la sensibilità dell’editore Schena e il suo gusto grafico. Vinicio Aquaro, che è pure presidente nazionale del Premio Valle d’Itria, ebbe anche lui parole esaltanti per Nunzio. “Nunzio Schena è stato un anticipatore, non ha mai guardato ai soldi ma al prodotto. E’ nato editore, non lo ha deciso in corso d’opera. Tra l’altro ha curato con dedizione e maestria ‘Lo scudo’, il primo periodico pugliese, e le opere di Alfredo De Marsico (1888-1985), principe del foro, dominatore della parola e ministro, che lo apprezzava tantissimo”. Per la cronaca, nei salotti di Napoli all’epoca le signore amavano passare il tempo leggendo e commentando le arringhe dell’oratore napoletano, che non apprezzava; e non ne faceva mistero.
Nunzio Schema già ragazzo rileggeva libri. Con il passar del tempo cominciò a prendere dimestichezza con gli strumenti tipografici nello stabilimento di Callisto De Robertis a Putignano. E confezionava due giornali: uno, “Il seggio”, ricavava il nome da un’antica piazza di Fasano. Spenti i bagliori della guerra, a Milano frequentò la tipografia dell’Opera di don Guanella, dove si guadagnò la simpatia, la stima e l’affetto di tutti al punto che fecero di tutto per non lasciarlo andare. Ma lui pensava a un impianto tutto suo.
Schena, a sinistra, con Paolo Grassi

E per realizzare il sogno fece il rappresentante di cartiere, tra cui la Cressati di Noci. Ma ci andava soprattutto per osservare, studiare, impossessarsi dei metodi che ispiravano il lavoro nelle tipografie.
Schena è noto anche per le sue decisioni-lampo, per il rispetto dei tempi. Era il 1983 quando stampò “Gli studi di cultura francese ed europea” in onore di Lorenza Maranini. La richiesta era arrivata dall’Università di Pavia. L’ateneo elogiò la tempestività e concesse a Schena la laurea “honoris causa” in Lettere e organizzò una mostra del libro su Garibaldi. Successo meritatissimo per Schena: aveva consegnato gli “Studi” a tempo di record, onorando la sua parola: l’Università aveva fretta e case editrici più famose si erano tirate indietro. Non se l’erano sentita di eseguire il prodotto in un mese e Schena lo fece in 25 giorni.
Quanta strada, quanta polvere mandata giù. E quante chicche nel suo “curriculum”. Eccone una: nei primi tempi, per andare da Fasano a Putignano in sella a un trabiccolo, lungo la strada si agganciava a un bugno del pullman di linea, superava il mezzo a Laureto, lo anticipava a Locorotondo, proseguiva per Alberobello, quindi per Putignano, per fare il giornale.
Oltre che grande lavoratore era geniale. Tra l’altro era stato lui a dare il nome al Premio della Fondazione Nuove Proposte Culturali di Elio Greco, che si svolse più volte anche a Milano al Circolo della Stampa (un’edizione fu assegnata ad Emilio Pozzi, giornalista della Rai, esperto di teatro e autore di libri sull’argomento).
Nunzio Schena ha mietuto, oltre a tanti consensi, anche onorificenze: nell’87 il governo francese lo nominò “chevalier dans l’ordre des artistes e des lettres; nell’88 il capo dello Stato gli conferì il titolo di grand’ufficiale al merito della Repubblica italiana...
Schena, a destra, con il Dalai Lama

Sempre nell’88 e oltre la Grafischena partecipò alla Buchmesse di Francoforte e al Salone del libro di Torino. Alcuni suoi volumi furono presentati alla Terrazza Martini, in piazza Diaz, a Milano, a pochi passi dalle guglie del Duomo.
Fu un piacere per me incontrare quest’uomo che, ripeto, fu lodato anche dal Dalai Lama, che nel ‘90 gli volle donare la sciarpa di lino, segno di eterna amicizia. Schena aveva pubblicato fra le sue migliaia di libri “Tibet in fiamme”, con intervista esclusiva al capo supremo della religione lamaistica e già capo teocratico del vasto altopiano dell’Asia Centrale.
Si fece mezzogiorno e Nunzio si alzò in piedi, sussurrandomi: “Diamoci del tu, è più semplice”. “Onorato, Nunzio”. Ora “il ragazzo che amava i libri” nel centenario della sua nascita è stato celebrato con significative manifestazioni a Fasano. Mi associo al ricordo, pensando che Nunzio Schena fondò la casa editrice nel ‘63, dopo aver eretto lo stabilimento tipografico nel ‘47. Sia gloria a Nunzio Schema.

 

 

 

 

mercoledì 9 luglio 2025

E’ morto il pittore Emilio Marsella


CON LE SUE DONNE DI MARUGGIO HA RACCONTATO UN PO’ DI STORIA

 

 



Emilio Marsella
Arrivò a Milano negli anni 50, cominciò a fare mostre, ad essere apprezzato. Scriveva poesie e andava a leggerle nelle scuole del suo paese, che non imenticava mai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI

 

 

"Opera di Marsella"
E’ morto il pittore Emilio Marsella, noto per le sue donne di Maruggio, donne forti, possenti, superbe, abituate alla fatica della campagna, dove sostituirono i mariti durante il salasso dell’emigrazione. Le rivedo, quelle donne, nei quadri di Marsella, con grappoli di figli e nipoti e una zappa sulle spalle o inginocchiate a un’edicola a pregare o in corteo dietro un simulacro. Ho sempre ammirato quelle donne, come ho ammirato quelle di “Fontamara” di Ignazio Silone. Marsella conosceva le “sue” donne e le amava, tanto che le impresse anche nell’argilla cotta alla Fornace di Alberto Curti.
Scrissi molto di lui, della sua arte, della sua vita quotidiana, delle sue mostre: Nella galleria di Malagnino, nell’hinterland milanese, lo presentò nel catalogo e a voce Ugo Ronfani, vice-direttore del quotidiano “Il Giorno”, uomo coltissimo, per anni corrispondente da Parigi, dove intervistò Rostand, Sartre e tante altre personalità e mandò in stampa libri sul teatro parigino, su monsignor Lefebvre, che fece tanto parlare di sé..., un romanzo, “La toga rossa”.
Ronfani ammirava le tele di Marsella, che in una delle sue prime mostre imbandierò il capoluogo lombardo di manifesti. Ricevette un premio a Maruggio e in una serata affollatissima fu presentato dal professor Paolo De Stefano, preside del liceo classico “Quinto Ennio” di Taranto. Sempre a Maruggio espose nel castello dei “Cavalieri di Malta” e un critico locale impegnato nella illustrazione dei quadri paragonò le donne di Marsella alla prefiche, che piangevano a richiesta i morti degli altri. Prefiche? Ebbi l’impulso di prendere la parola per contraddirlo, ma ci rinunciai per non provocare una polemica. Marsella era molto legato al suo paese. Ci tornava non solo d’estate restandovi a lungo, ma anche d’inverno per leggere le sue poesie nelle scuole. Era dominato dal “nostos”., il desiderio del ritorno.
Aveva sempre nel
Liceo Classico "Tito Livio" a Martina

cuore Maruggio, la sua piazza, dove incontrava gli amici della giovinezza e conversava con loro sul tempo andato, sulle figure di Maruggio di una volta e sugli usi, i costumi di una volta . Era solito parlare del lavoro fatto prima di studiare da tecnico di radiologia (professione che esercitava al Centro diagnostico di Milano). Era stato garzone di falegname, con un maestro severo e puntiglioso che lo voleva bravo nel fare porte e cassettoni. Ma lui voleva diventare artista.
Un giorno il padre, soprannominato “Musuline” per la sua severità, lo sorprese a disegnare con un rametto sul terreno; e gli disse che se proprio “gli piaceva fare quelle cose”, lui gli avrebbe comperato una scatola di colori. Emilio venerava il padre e la madre e ubbidiva. Quando in famiglia si convinsero che quel figlio aveva talento lo lasciarono andare. Con il pullman andava a Martina Franca, alzandosi molto presto, per frequentare il liceo classico “Tito Livio”, e con lo stesso mezzo rientrava a casa. Nei momenti liberi teneva in mano la matita o il pennello.
Marsella nel suo studio

Nel ‘50 venne a Milano (“Da Maruggio venni…” (così comincia una sua poesia), dove cominciò a conoscere gente, avere qualche contatto importante, come quello con il critico Carlo Franza. Appese i suoi quadri alle pareti del ristorante di Nadia e Aimo e lì rimasero per anni fino a quando Aimo non cedette le redini del locale. Sue opere erano in bella vista anche al Centro Diagnostico.
Dipingeva anche nella sua villa di Campomarino, che si affaccia sul mare con le sue dune, l’acqua limpida, la spiaggia pulita. Lì riceveva gli amici e li teneva a pranzo, mostrando loro il suo pezzo di terra, le sue vigne gravide, gli ulivi. E anche le opere esposte nel salone. Era un uomo generoso, socievole, dotato del senso dell’ironia. A Milano aveva casa in periferia e lo studio nello stabile in cui abitava la mamma di Silvio Berlusconi, che si faceva aggiustare le scarpe dal calzolaio con il deschetto di via Lorenteggio.
A Maruggio ebbe la visita di Achille Serra, allora capo della quadra Mobile di Milano e poi questore della stessa città e prefetto di Roma. Il poliziotto era accompagnato da un giornalista amico di entrambi. Era amico del questore Vito Plantone e di sua moglie Emma: si scambiavano spesso inviti a cena, a cui si associavano parenti e conoscenti. Era amico d’infanzia di Gildo Bandelli, famoso industriale di Merate - di Maruggio anche lui - che aveva fatto rilevanti invenzioni anche quando stava in Costarica. Gildo ricevette un premio della Fondazione Nuove Proposte di Elio Greco al Circolo della Stampa di Milano, presente fra gli altri Livia Pomodoro, presidente della Corte d’Appello e sorella del grandissimo Arnaldo, deceduto in questi giorni.
Opera di Marsella
Opere del pittore maruggese vennero presentate alla Cripta del Bramantino nella basilica di San Nazaro. Nel catalogo Wolfango Pinardi scrive: “La sua arte, quasi una sintesi espressiva che sa di romantico esprime con una originale tavolozza la semplicità di una narrazione suggestiva ed efficace che avvince e conquista anche l’osservatore più esigente e culturalmente preparato… Il cromatismo delle sue composizioni sa raggiungere momenti di intenso lirismo, che trasmettono l’emotività schietta che l’autore ha provato in tutti i suoi dipinti…”. Un altro commentatore: “Le donne di Maruggio, i ragazzini e i vecchi di questo paesino fatto di tufo sono i protagonisti anche nei giorni della raccolta delle olive...”. E delle vendemmie.
Quasi sempre donne: davanti alla vedovella per raccogliere acqua nei secchi o nei bottiglioni o accosciate all’ombra di un albero negli attimi di riposo. In questi c’è aria di una lunga attesa fra il biancore evanescente delle case: case povere, di contadini, che si nutrono di “fave e fògghie”. E c’è il sole che avvampa. Le vedevo, quando ero bambino, le donne come quelle di Marsella, come scolpite in un tronco di quercia o un pezzo di marmo. Le vedevo così enormi, energiche. Sempre vestite di nero come monache di clausura”.
Con le sue tele Marsella racconta storie di miseria, sacrifici, lavoro pesante dall’alba al tramonto per rendere fertile la terra e la vigna e gli orti. Donne e vecchi seduti su sassi imbiancati come sepolcri. Guardi quelle pennellate ed evochi “L’uva puttanella” di Rocco Scotellaro.
Marsella scolpisce

Nacque così il “ciclo del vinti”, personaggi pieni di ferite, ma saldi, la cui esistenza è magra, ma non manca il coraggio di andare avanti a dispetto del camino troppe volte spento, delle delusioni, delle speranze mai realizzate, degli orizzonti neppure immaginati. Pittore della memoria, traduce i ricordi con pennellate ampie, carezzevoli e impianti cromatici ricchi di luce. “Quando ero piccolo vidi tre morti di broncopolmonite nella mia famiglia. Una sera chiesi: ‘Papà...’. Mi fermai a quella parola, perché lui non rispose, ma lessi nel suo sguardo la disperazione: era morto mio fratello”. Questo evento è vivo in alcuni quadri di Marsella, spalmati di giallo tenue e verde e scialli neri in segno di lutto.
Amo la pittura di quest’artista; amo le sue vedute del Cristo. Le donne che si stagliano come colonne con i figli acculati ai loro piedi, il mare calmo e piatto come una lastra di acciaio, il mare che lecca la battigia e si ritira, mormorando una musica dolce e riposante. “Ami il mare?, Emilio”, gli domandai una sera in un ristorante di Crispiano, invitati dall’indimenticabile Michele Annese, direttore della locale biblioteca. “Mi piace vederlo, osservare i suoi movimenti, i suoi cambiamenti di umore; mi piace la sera quando si riempie di stelle d’argento. Il mare è buono, terribile quando s’imbroncia, capace di travolgere un’imbarcazione e d’inghiottirla”.
Marsella al Piccolo Teatro

A volte puntava lo sguardo su un suo quadro e sorrideva compiaciuto. Quando usciva su un giornale un articolo che parlava di lui non nascondeva la gioia. Peccato che non abbia voluto esporre le sue sculture, che teneva allineate su un lungo mobile di casa. Il professor Francesco Lenoci, uno dei tanti suoi amici, dice che era un femminista convinto. Nei suoi quadri ha celebrato, esaltato le donne. Era buono, ospitale, innamorato di Maruggio e di Martina Franca, dove andava spesso. “I suoi amici Aimo e Nadia, che lo stimavano e gli volevano bene, nel loro ristorante, attaccato allo stabile in cui Marsella aveva allora lo studio, riproducevano nei piatti i colori dei suoi quadri; e quando Aimo andò il Cina per lavoro portò con se una sua opera tra le più toccanti.
Emilio Marsella se n’è andato in silenzio, dopo aver detto alla moglie Franca che voleva tornare a Maruggio. E’ sepolto nella cappella di famiglia.

 

 

 

mercoledì 2 luglio 2025

Le bellezze della val d’Intelvi

LAINO E I SUOI GIARDINI SULLE COLLINE DI COMO

 



Laino
Ci si arriva fiancheggiando il lago e da Argegno salendo tra Dizzasco, Castiglione... San Fedele, tra boschi e schizzi di paesaggio meraviglioso.

 

 

 

 

 

 

 



FRANCO PRESICCI
 
 
 
Le campane di Ramponio suonano più volte al giorno. Alle 6 del mattino. a mezzogiorno e alle 4.30 del pomeriggio.
Il municipio di Laino
Sono rintocchi veri, emozionanti, che fanno bene all’anima: non sono “din don” registrati. Ramponio sta sulle montagne di Como. Quasi legato a Verna e a poca distanza a Lanzo, il balcone d’Italia. Molte case sono chiuse, in vendita o non animate perché i padroni vivono spesso altrove. Al municipio si arriva dopo una brevissima salita, dove, se si vuole parcheggiare l’auto, occorre piazzare due cunei dietro le ruote posteriori, per evitare che con un colpo di vento il mezzo scivoli verso la piazza, che è piccola e ospita la chiesa. Di persone in giro non se me vedono tante; e quelle poche credo diffidano di chi non conoscono.
Un giorno ci andai alla ricerca di un ottantenne che faceva ottimi lavori in legno: un maestro, quasi un artista. Realizzava anche presepi suggestivi. A farmelo conoscere fu un uomo massiccio e sollecito,
che si offrì di facilitare il contatto. Lo avevo incontrato in una saletta del Comune, dov’ero in attesa del sindaco, per avere notizie sul paese. C’erano anche altre persone, di cui una aveva smesso da poco la divisa di guardia forestale; e mi raccontò com’era delicato l’impegno di difendere gli animali dai bracconieri, che sanno come superare gli ostacoli.
A Ramponio, a Verna come a Laino, che è a dieci minuti di macchina, può capitare di trovarsi davanti un cervo grosso quanto un cavallo, un daino. Qualcuno afferma di aver visto anche i cinghiali. I primi li ho sorpresi e fotografati, appostandomi per un paio d’ore verso le 4 del pomeriggio ai margini di un terreno erboso. Arrivano e fanno colazione; e bisogna stare attenti a non disturbarli, altrimenti scappano. La volpe passeggia tranquillamente sul mio balcone, incurante del padrone che la riprende con il telefonino; e quando ha sgranchito le gambe andando più volte avanti e indietro, salta sul muretto e mi osserva con curiosità. Un po’ di tempo fa veniva a trascorrere la notte dietro la porta del portico.
Laino
Laino è un paese di quasi 500 abitanti, che d’estate con i turisti diventano 3mila e passa. E’ dotato di campo sportivo, campo da tennis, da bocce e di altre attrezzature sportive, di una chiesa con il cimitero di fronte, del bar con il biliardo e i tavoli dentro e fuori. Il titolare, Giancarlo, è un uomo giocoso, che per un periodo ha tenuto il computer su un banchetto a disposizione dei clienti. Gli abitanti sono molto riservati, di poche parole, ma se si ha bisogno di qualcosa li si trova a disposizione. Tempo fa Giancarlo sistemò delle assi di legno sul biliardo, trasformandolo in palcoscenico per un’orchestra; e così vi calamitò un bel po’ di gente.
Laino
Proprio a due passi da Laino c’è Ponna, dove un signore fa degli alberi rinsecchiti vere e proprie sculture. Ma non ama finire sui giornali: la ribalta non gli appartiene.
A Laino, venendo da Milano, si arriva dopo aver attraversato San Fedele, più abitato, più negozi, più bar, l’edicola, il fotografo, il supermercato; e poi Castiglione d’Intelvi, Casasco, il paese che ospita il museo etnografico della civiltà contadina. Questa era terra di contrabbandieri, che, quando intercettavano l’ombra dei finanzieri con il falcetto tagliavano lo spallaccio fatto con i polloni di castano e nocciolo, abbandonavano la briccola, che pesava 30 chili, e fuggivano.
A Castiglione anni fa visitai Francesco Pala, che realizza bellissime casette per gli uccelli, Sul suo ampio terreno domina una grande voliera, intorno alla quale si rincorrono conigli, mentre un pavone saluta gli ospiti con ripetute ruote; e i polli si divertono saltando addosso al padrone, passeggiando sulle sue gambe, mentre lui è disteso su una sdraio. Nel suo laboratorio Pala faceva spallacci che distribuisce come portachiavi agli amici e ai conoscenti, a ricordo di un periodo ormai lontano, di contrabbandieri che la notte andavano in Svizzera, affrontando ostacoli e pericoli, per rifornirsi di sigarette. Il museo di Casasco è ricco di testimonianze, che Giulio Zanotta, vice-sindaco del paese, persona davvero squisita, illustra sapientemente. E’ persona squisita, disponibile, ospitale, ancora pronta a a farmi fare un giro nei dintorni. Lo faremo.
Da Laino il lago di Porlezza
Peccato che a causa dell’età ho lasciato il volante e non posso più fare un salto da Laino a Porlezza, paese-bomboniera, pieno di vivai, di esercizi commerciali, un bellissimo lungolago e una galleria che porta in Svizzera. Che delizia il gelato servito dal bar del paese! A Natale con le luci distribuite dappertutto sembra di vivere in un sogno.
Questa zona è un altro mondo. Tra un bosco e l’altro, un campanile, poi un altro, una casa patrizia appollaiata in alto. Quando, venendo da Milano, si arriva ad Argegno già la piazzetta è da ammirare, di fronte il lago di Como e l’attracco dei piroscafi. Si svolta a sinistra ed ecco una casa tinteggiata con colori vivaci. E si comincia a salire. I paesi si susseguono:; Dizzasco, con il suo ricco vivaio; poi Castiglione, San Fedele, cinque minuti dopo, Laino. Per entrarci si deve percorrere una strettoia, poi a destra un vecchio lavatoio, a sinistra il municipio, dove il sindaco Cipriano Soldati, oltre agli impegni istituzionali, non si tira indietro se è necessario prendere in mano la cazzuola, A Palazzo Scotti (secolo XVII, salone affrescato con “Trionfo di Apollo” da C, Scotti, ha creato la biblioteca corredandola con un tavolo e sedie per la la lettura dei volumi tutti interessanti, di storia, di arte, di narrativa… Il camino dà più tono all’ambiente.
San Fedele
perso il nome. A Laino si svolgono sagre e feste, soprattutto d‘estate. Anche grazie alle associazioni che tengono vive le tradizioni locali e le fanno conoscere.
Laino è bella, vi si possono fare passeggiate a cavallo e a piedi. Il vicesindaco ogni giorno marcia da casa al municipio a piedi, come un maratoneta alla Stramilano. E ogni giorno è percorsa da ciclisti, uomini e donne, affermando il principio che la due ruote è libertà, velocità, amore per il paesaggio, che è splendido in questa costellazione di paesi.
La gente s’incontra al bar di Giancarlo o al piccolissimo supermercato aperto nella via che va a San Fedele., ritenuto il centro della Val d’Intelvi. San Fedele dispone anche di una piscina e di una palestra. Ha la sua bella chiesa nella piazza, che è sempre piena di gente seduta ai tavoli dei bar, che si fronteggiano, o a passeggio sui marciapiedi su cui scorrono le vetrine dei negozi. Basta mettersi in auto, percorrere pochi chilometri e si arriva a Lanzo e da lì alla Sighignola, detta Balcone d’Italia, dal quale con lo sguardo si arriva in Svizzera. Che suggestione fra fiori, alberi, aria salubre, boschi e montagne.
Vista del lago di Lugano da Sighignola, detta Balcone d’Italia


Nella bella Laino ci sorprende la voce di un poeta sconosciuto. Me la suggeriscono Gloria e le altre curatrici della biblioteca (Manuela, Rosanna e Francesca): ”Il mio paese è piccolino/ potrebbe stare dentro un taschino/ inutile cercarlo sull’enciclopedia; ma lo vedrete tutto dal Monte Loria/ Lo sguardo lassù spazierà lontano/ fino all’azzurro lago di Lugano / Avvicinando lo sguardo un po’ più da vicino/ su un bel pianoro sorge Laino”. Sono davanti a Palazzo Scotti. La biblioteca è chiusa: anche quella deve rispettare gli orari. Avrò tempo di vedere anche Palazzo Quaglio con portale e affreschi (“Deposizione” di G. Quaglio, del 1693) e Casa Spazzi e Casa Frisoni con “Madonna” di G.B.Barberini.  

 

mercoledì 25 giugno 2025

Una grande festa per Pedroli dai Martin

IL RICORDO DEL GRANDE ARTISTA RIMARRA’ VIVO TRA LA GENTE

 



Pedroli alla Fornace Curti
Il 24 dicembre Babbo Natale arriverà sulla gondola di Umberto Pagotto all’attracco di fronte al negozio di Abbigliamento militare e jeanseria, di fianco al Centro dell’Incisione.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI




Le mani che fanno muovere il torchio del Centro delle Incisioni sull’Alzaia Naviglio Grande non sono più quelle del grandissimo Gigi Pedroli, prestigioso acquafortista e menestrello; ma quelle del nipote Alessandro, che ha ricevuto dal nonno in eredità la passione per l’arte.
Alessandro Pedroli
E’ lui che oggi stampa le opere di pittori eccellenti, accoglie gli appassionati in visita e mostra loro come da una macchina esce un capolavoro. E sarà lui che prima o poi, dopo il rodaggio, si affiancherà come insegnante a Marco Cattaneo, uno dei primi allievi di Pedroli, nelle vesti di maestro.
Dopo la scomparsa di Gigi, al Centro sono sempre tante le persone che si accodano per vedere in funzione il torchio. E naturalmente si parla di Gigi, della sua bravura, della sua generosità, della sua umanità”.
L’ho incontrato, Alessandro, mentre era insieme a Graziana Martin, che ha il famoso negozio di abbigliamento militare e jeanseria proprio di fianco al Centro ed è stata amica dell’artista, per il quale, nel cortile dell’azienda, si propone di organizzare manifestazioni che tengano sempre vivo il suo ricordo e continuino la sua opera tesa ad attirare sempre più gente sul naviglio.
Parlando di Gigi si rispolverano i barconi che portarono tanta merce a Milano e il marmo di Candoglia per la Fabbrica del Duomo; il “barchett de Boffalora”; e in anni più vicini a noi il “bateau mouche”, che stava nel cuore di Guido Vergani, e la Viscontea di Empio Malara. Ma anche vicolo dei Lavandai, che il poeta Armando Brocchieri definì una chiesa di pittori; e la Ripa e i cortili spesso a zig-zag... Gigi è stato il cantore di questa vecchia, affascinante Milano. Quando non era vicino al torchio, pizzicava le corde della sua chitarra, cantando le canzoni più belle che andava componendo: “El barbun”, “Adamo”, “Storia lombarda”. “Vegia usteria”, “Viale Ortles”, famoso come dormitorio pubblico per tanti poveri, meno poveri degli altri. Gigi era instancabile nell’allargare sempre più l’elenco dei suoi brani ricchi di ironia garbata, divertente, sapida.
Graziana Martin, che è stata allieva di danza al Teatro alla Scala, ed è amica di “et
Alessandro Pedroli e Graziana Martin
oil” come Luciana Savignano, di personalità non solo dello spettacolo ed è conosciutissima a Milano come donna di talento, gentile, schietta, dinamica, un sorriso dolce e comunicativo, si commuove nel rievocare la figura di Pedroli, “che ha dato tanto al naviglio”. La conosceva come le sue tasche, Milano, Gigi, e aveva in mente i nomi e l’attività degli artigiani e degli artisti che avevano lavorato nei cortili, da Romualdo Caldarini, che fu presidente dei Pittori di via Bagutta dopo Aldo Cortina; ad Angelo Cottino, Guido Bertuzzi, Sarik (Riccardo Saladin). Formenti… i maestri argentieri, che operavano in uno dei primi cortili del vicolo, il fabbro sull’alzaia, la signora Radice, che a suo tempo vendeva la lisciva alle lavandaie, e la vecchietta bassa, i capelli bianchi che nel ‘70 aveva ancora paura del bombe che avevano devastato molti tesori della città. ”Il rumore lo sentivamo anche da qui”.
in fondo, il Centro Incisioni

Gigi Pedroli era un mito, per gli abitanti del naviglio, e non solo. E chi non sa che è scomparso va ancora a cercarlo al Centro dell’Incisione anche per ammirare le sue opere. Graziana Martin - che io adoro per il suo carattere forte, per la sua bravura non soltanto nella conduzione con il fratello Paolo del negozio, ma per la concezione che ha dell’amicizia - ricorda la figura Di Gigi e il suo zelo, i suoi slanci in favore di quel luogo sacro, che è il Naviglio Grande, e prova sconforto per la scomparsa di quest’uomo straordinario, avvenuta il giorno dell’Immacolata dell’anno scorso. Perciò il 24 dicembre, grazie a lei, durante una festa per i bambini Babbo Natale arriverà in gondola, quella di Umberto Pagotto, di Vicenza, che con il suo gioiello porta la gente in gita sul canale. Si pagheranno pochi euro e quello che sarà raccolto nel salvadanaio verrà consegnato alla Fondazione De Marchi per i bambini oncologici. Santa Claus sarà un grande marinaio, accompagnato da Gregorio Mancino, artista che disegna bambini, anche sulle pareti, va negli ospedali, si veste da pagliaccio per farli ridere.
Gigi Pedroli non verrà dimenticato, dunque. E chi può farlo? Sul naviglio tutto parla di lui e tutti parlano di lui. L’alzaia dovrebbe essere intestata a lui, la leggenda del Naviglio Grande. Gigi già in vita era un simbolo. “Mi manca, mio nonno – mi confida Alessandro – Vivendo e lavorando dove si sente il suo respiro, echeggiano i suoi passi, le sue parole è come stare ancora con lui, anche grazie alla gente che entra, osserva le sue creazioni appese alle pareti e parla di lui”. Gigi è stato il maestro di vita e d’arte di Alessandro. Un esempio.
La Savignano e Graziana


Le persone care non muoiono, si trasferiscono altrove e lasciano una parte di sé nel nostro cuore. Vero, Graziana? Conservo una foto con gli zampognari che suonano la cornamusa fuori della sala esposizioni del Centro. “Ogni anno – aggiunge Alessandro, un bel ragazzo alto, educato, discreto - venivano, entravano, soffiando sul becco della ciaramella. Portavano insomma l’aria di Natale sotto il glicine che pende rigoglioso con i suoi grappoli blu.
Il Naviglio, era tutto per Gigi, un gentiluomo di vecchio stampo. Lo si vedeva il pomeriggio passeggiare sull’alzaia, appoggiarsi alla “murela” (la spalletta) e guardare l’acqua che scorre verso la darsena, dove si congiunge con quella che va a Pavia con il nome di Naviglio Pavese. Poi rientrava e riprendeva il lavoro, affiancato da sua moglie Gabriella, che si occupa della parte organizzativa. “Ha fatto davvero tanto per il Ticinello, Gigi – ripete Graziana Martin – Fu lui a fondare l’Associazione del Naviglio Grande, che allora si chiamava Lamon (Libera associazione milanese operatori naviglio). Si riunirono una sera del 1982 in una osteria per una cena a base di pane, salame e bonarda Gigi e due antiquari, Romualdo Caldarini e Giorgio Pastore, e pensarono di fare una mostra con i banchi degli antiquari per rendere più affollati i fianchi di questa via liquida (termine dal poeta Alfonso Gatto), tutto andò bene e sorse il sodalizio, alla buona, come piaceva a Gigi, che non amava gli orpelli, la retorica, i coriandoli.
Lossani e Pedroli

Adesso c’è attesa per la festa del 24 dicembre, quando Babbo Natale approderà con la sua folta barba e i suoi baffi bianchi e l’abito rosso. Tutto bello, iniziativa lodevolissima, ma sul palco che sarà montato nel cortile del negozio di Graziana e Paolo Martin non ci sarà più Gigi Pedroli, che c’è sempre stato fino a pochi mesi prima di morire, quando non stava già bene. Lì, da Graziana, lo vidi l’ultima volta cantare, recitare sue vecchie storie, a volte sollecitato a gran voce dal pubblico, che gli voleva bene e sapeva le sue canzoni a memoria. Lo accompagnava al banjo o alla chitarra Lossani, che fingeva di battibeccare con lui sul pezzo da eseguire, scatenando gli applausi.
Gigi era amato, a Milano e non solo. Anche se non era abituato a squadernare i nomi illustri con cui si era esibito, quelli che lo avevano accompagnato con i loro strumenti, che avevano cantato con lui anche fuori Milano, anche in serate musicali importanti.
Paolo Martin e Lossani, Graziana e Pedroli
“Quando c’era lui, il naviglio era diverso, c’era più milanesità”, commenta Graziana. E io sono convinto che nei pomeriggi dei Martin Gigi non sarà presente materialmente, ma aleggerà dietro le quinte. Anche nella festa in suo onore a dicembre, che si svolgerà con la collaborazione dell’Associazione Marinai d’Italia. Ci sarà anche una mostra delle opere di Gigi, artista dalla fantasia inesauribile, da favola, amico come Giulio Confalonieri (notissimo e autorevole critico e storico della musica) dei “clochard”, che a Milano sono tanti.
“Senza dirmelo mi ha preparato al dopo”, dice Alessandro con l’espressione di chi soffre per aver perduto un pilastro.
Il Naviglio Grande
“Accolgo il pubblico che viene al Centro a vedere funzionare il torchio e i tanti artisti che se ne servono con la sua stessa cortesia”. Era generoso, disponibile. Tra poco uscirà un libro che celebrerà i 50 anni del Centro dell’Incisione, fondato da Gigi Pedroli un “puer aeternus”, come ha scritto un critico. Un uomo che amava la vita e il suo naviglio, la bonarda e i dolci, ma anche la cucina. Per i suoi ospiti preparava personalmente il risotto alla milanese cucinato nel camino e la polenta, tutto seguito dal suono della chitarra - interviene ancora Alessandro, parlando sottovoce - Gigi faceva parte di quella schiera di uomini che lasciano tracce che non si possono cancellare. Speriamo di vedere un giorno scritto sulla targa stradale non più alzaia naviglio grande, ma alzaia Gigi Pedroli, acquafortista eccezionale, delizioso cantastorie in dialetto meneghino, che aveva molto rispetto per gli altri e adorava il Naviglio Grande.