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mercoledì 16 aprile 2025

Le statuine in miniatura di Salvatore Barino


REALIZZA I SUOI ICASTICI LAVORI NEL SILENZIO DELLA SUA ABITAZIONE




Salvatore Barino presepista
Una passione che si accresce sempre di più. Ha iniziato sagomando la Maternità. Ha fatto mostre in molte città, riscuotendo l’apprezzamento dei visitatori. Lavora nel silenzio della sua abitazione.

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

FRANCO PRESICCI
 
 
 

Natale è ormai passato da quasi quattro mesi e adesso si pensa alle feste pasquali, ai riti e alle tradizioni, ai dolci, come il panettone, di cui gli esperti ci stanno riproponendo la storia. Ma agli artisti non si può imporre una scadenza: loro scolpiscono, dipingono, disegnano quando sentono il bisogno di farlo.
E ogni volta che si scopre un virtuoso dell’argilla o del gesso o del sughero o di qualche altro materiale che serve per far emergere una figura, grande o piccola che sia, è giusto farlo conoscere almeno agli appassionati, che amano ammirare, per esempio un presepe e i suoi abitanti, pastori, lavandaie, pizzaioli, pescivendoli, calzolai, falegnami, fabbri, maniscalchi e via dicendo. Li ritrovi nei pressi o lontani dalla grotta della Natività o su un sentiero in alto o in basso, in un recinto oltre il quale c’è il pollaio o in un anfratto con una donna che cuce, non si riesce a staccare lo sguardo dalla questa scenografia sacra.
Ho visto presepi fatti con pane o biscotti scaduti, a Crispiano, per esempio; e presepi realizzati con il cartone o con il sughero. Comunque siano eseguite, le rappresentazioni che ricordano la nascita del Bambinello hanno fascino e sanno di magia. Ci sono persone che il presepe lo tengono esposto tutto l’anno, anche se lo accendono nei giorni di Natale, quando fa trepidare il cuore per le sue luci che illuminano non solo la grotta con San Giuseppe, Maria, il Bambino e i due animali e ogni sentiero, ogni spelonca.
Non c’è bisogno di andare fino a Pietraperzia - borgo nel cuore della Sicilia, in provincia di Enna, animato da tempi remoti - per imbattersi in Salvatore Barino, 50 anni appena suonati (lui lo dice con soddisfazione). Le sue opere campeggiano su Facebook anche nei profili dei suoi amici e di altri patiti del suoi manufatti.
Barino modella soprattutto statuine di 2 centimetri e mezzo o tre e presepi persino nell’incavo di una pietra di qualunque forma, ovunque possa arrivare il suo occhio d’aquila. Non c’è bisogno – precisa – di ricorrere ad una lente d’ingrandimento, “perché i miei lavori si vedono benissimo ad occhio nudo”.
Salvatore ha sempre avuto la passione di sagomare e di dipingere, passione che non ha ereditato da nessuno. Ed evita ogni definizione. Si è cimentato in ogni forma d’arte, affascinato specialmente dal modellato, dalla decorazione, con inclinazione per la scultura in miniatura. Non realizza figure in serie. Nel 2017 ha fatto un presepe nel guscio di una noce e in seguito uno in un cucchiaio. Usa l’argilla o una pasta polimerica. Ha iniziato plasmando la Maternità; poi si è dedicato ai pastori, sempre in quelle misure ridotte. Non ha un laboratorio, una bottega: è a casa sua che dà sfogo alla sua vocazione.
Per 15 anni ha lavorato come formatore professionale di indirizzo informatico, grafico e artigianato artistico. E’ scapolo, quindi non ha bambini intorno che possano distrarlo: crea un guardastelle, personaggio indispensabile nei presepi, un vecchio con una pecora sulle spalle, una lavandaia e poi lo guarda e riguarda. Barino esegue anche Santi (Sant’Elena, Sant’Arcangelo… e San Francesco, a cui si dà il merito di aver inventato il presepe, a Greccio, nel 1209).
Barino al lavoro
Proprio lo scorso dicembre ha partecipato a una mostra di minipresepi a Filottrano in provincia di Ancona - centro in cui signoreggia la moda e si spandono campi di grano e di girasoli, con la vista del Conero, che in molti quadri ha ispirato il grande artista Attilio Alfieri, che usava il rosso dei meloni ammucchiati sulla bancarella da lui preferita. Ha preso parte anche ad altre esposizioni di presepi artistici e scenografici di ogni tipo in un antico quartiere caratteristico di Enna, Fundrisi - organizzata dall’Associazione Amici del Presepe locale - che si svolge a settembre, nella “Galleria Civica” e a dicembre all’aperto.
Si fa fatica a tirar fuori le parole a Salvatore Barino. E’ misurato, sereno, riservato, preciso nelle date e negli eventi, descrivendo quello che fa senza enfasi. “Mi dedico a opere decorative e pittoriche su tela, su pietre, su tavola, stoffa e quant’altro; ed eseguo anche corredi liturgici, tipo balze per altare, tendaggi processionali, casuli dipinti”. Fino al 2015 frequentava attivamente l’oratorio dei Salesiani di Pietraperzia, facendo animazione in gruppi giovanili e corsi di decorazione, pittura per i ragazzi; e lavori di grafica con il computer.
Quanto impegno. C’è una sua architettura in miniatura nel Museo del presepe di Giarre, in provincia di Catania. “I miei presepi sono eseguiti con materiali poveri e le statuine in abito tradizionale. Utilizzo anche il polistirene. Oltre che presepi tradizionali confeziono palestinesi con paesaggi dei luoghi di Gesù e qui i personaggi indossano le tuniche.
Mentre la conversazione volge alla fine guardo i suoi don Bosco, il Cristo con la corona di spine, i dipinti sul pelo delle pennellesse, di quelli che usano i restauratori di mobili antichi.
Salvatore ha poco tempo, eppure risponde puntualmente alle domande senza dare l’impressione di volersi sottrarre. Anzi si sofferma sui particolari, soprattutto quando accenna ai presepi palestinesi, ai suoi panorami e ai materiali che usa nella lavorazione. Gli va bene anche quella pasta che usano i bambini per i loro giochi: il “das”.
Mi è piaciuto conversare con Salvatore Barino, come mi piacciono i suoi pastori così piccoli. Non si trovano da nessuna parte ed è per questo che lui decise di farseli da solo. Un figulo di Grottaglie, in provincia di Taranto, un giorno che mi accolse nella sua bottega nel Quartiere della Ceramica” per un articolo che dovevo scrivere per “Il Giorno” di Milano, mi disse che creare pastori e pastorelli in dimensioni ridotte è molto difficile, a parte il tempo necessario per modellarli; per questo nessuno li produce.
Salvatore Barino ha la mano felice e tanta voglia di fare, la capacità, la tenacia, la pazienza nella creazione dei lavori; e i risultati sono icastici. Se ne sta seduto ad un tavolo per ore, aiutato da una lampada e dal silenzio. Occhiali, barba e baffi neri, dipinge mani che tendono una verso l’altra, a simboleggiare il desiderio di un incontro, di un’amicizia; volti di Madonne, nella tranquillità della sua abitazione di Pietraperzia, luogo che sta in alto con oltre 6 mila abitanti, a un bel po’ di chilometri dalla città, detta la più alta d’Italia, che offre una vista meravigliosa, d’incanto.
Un mio amico che viene a trovarmi tutti i giorni osserva che adorando i presepi e le statuine destinate a quel paesaggio, ne parlo e ne scrivo anche fuori stagione. Gli rispondo che Natale è sempre nel nostro cuore e che, se siamo sempre pronti ad andare verso l’altro, se sappiamo donare, accogliere il povero, si apprezzano i simboli del presepe: l’acqua, la luce, il fuoco. L’altro è tuo fratello. Se la pensi così, Natale è sempre Natale. “Lo vedi quel presepe sulla mensola della libreria? E’ di argilla, che non ha bisogno del forno, come quella che usava lo scultore Giuseppe Gorni, autore del monumento alla donna, in piazza Cavallotti a Mantova, e del monumento al capolega, a San Rocco della stessa città di Virgilio. E’ un regalo ed è sempre lì a testimoniare l’amore per gli altri”.
Barino al lavoro
A Natale Gesù rinasce per ricordare all’uomo l’amore; e l’amore deve essere duraturo”. L’amico non crede alle mie parole; forse addirittura pensa che io vada farneticando. Il mondo non è più quello di una volta. E io forse sono rimasto indietro. Non importa. Amo il presepe e ai primi di gennaio non lo impacchetto per metterlo in cantina. E quando incontro un presepista come Salvatore Barino mi va di parlare di lui, anche in giorni lontani dal Natale. Il presepe mi affascina, mi esalta. Di fronte al presepe m’immagino nel pollaio di fianco al ruscello che precipita a valle o nelle vesti dello zampognaro che dà fiato alla ciaramella. Il presepe è anche spettacolo, fiaba. Nel presepe si sintetizzano secoli di storia.

mercoledì 9 aprile 2025

San Giuseppe celebrato nel Tarantino

IL PROTETTORE DEI FALEGNAMI DOMINA FRA LE TAVOLE IMBANDITE

 



San Giuseppe a Lizzano in fondo alla tavola
Migliaia e migliaia di persone venute anche dai centri vicini hanno partecipato alle feste a Lizzano, Fragagnano, San Marzano di San Giuseppe. Le processioni si sono svolte una ventina di giorni fa, ma l’eco non si è ancora spenta.








FRANCO PRESICCI


 
 
In Puglia San Giuseppe è molto venerato. Addirittura un paese a pochi chilometri da Taranto, ricco di vigneti e di uliveti, abitato dal XVI secolo da cittadini albanesi, che della terra di origine mantengono costumi, tradizioni, lingua, riti, porta il suo nome: San Marzano di San Giuseppe.
Tavola panoramica a Lizzano
A Lizzano compongono tavole devozionali lunghissime con l’immagine del Santo al posto d’onore, sulla parete centrale, addobbata con stoffe, merletti, ricami o tra le portate... Una tradizione antica. Sulla tavola si stendono tovaglie bianche e vi pongono tredici delizie tipiche del luogo. Tra queste, la massa con i ceci, pasta fatta in casa giorni prima e messa ad essiccare (ha la forma delle tagliatelle); il grano “stumpatu” (decorticato) e cucinato dopo essere stato tenuto a mollo per un’intera notte e il giorno dopo bollito, cotto e condito con olio fritto, aglio verde; purea di fave; lambascioni al sugo: baccalà, con lo stesso condimento; rape stufate; dolci (paste di latte; biscotti di vino; “puddiche”, fatte con olio bollente con scorze di arance e pepe; crostate chiamate “fucazieddu”, con un composto di marmellate di zucca, di uva e fichi con l’aggiunta di cannella, chiodi di garofano, mandorle, noci). Non mancano le “carteddate”, collocate in coppe smaltate, di quelle che venivano usate dai nonni. Più coppe smaltate si hanno, più le si usano, dato che sono disponibili anche altri tipi di leccornie. A preparare i piatti sono signore del paese, volontarie e devote… Il 19 marzo la tavola viene “sgarrata”, svuotata e il bendidio offerto ai bisognosi.
Tavola di Lizzano
Sono diverse le famiglie che allestiscono ciascuna la propria tavola. Quest’anno ce ne sono state tre private - mi dice il professor Giuseppe Marino, scrittore ed esperto di tradizioni - oltre a quelle delle associazioni, che approntano le proprie, tra cui la mia, ed esposte in un clima di serenità, devozione, preghiere, giaculatorie e allegria, caratteristiche della festa. Quindi, la processione, che parte dalla Chiesa Madre e si snoda per le vie della città tra una folla di fedeli e la banda musicale, che intona suoni sacri. Al rientro esplodono gli immancabili fuochi di artificio che in cielo si trasformano in fioriture di stelle multicolori. La sera, i falò “costruiti” con fascine, tronchetti di legno, qualche mobile invaso dai tarli o sciancato, con tantissime persone intorno, arrivate anche da Taranto, ad applaudire, elettrizzandosi.
La ricorrenza conta secoli e secoli. Ed è attesa con ansia dai papà e dai falegnami di cui san Giuseppe è il protettore. La visita alle tavole è un pellegrinaggio di fede, che continua anche il giorno dopo, quando si presentano le scolaresche. Ma il Santo che con Gesù e Maria condivide la grotta dei presepi, architetture scenografiche e luminose, viene celebrato in tante parti della Puglia e altrove, anche all’estero, alla grande.
Fragagnano tavola in chiesa
 
Festa anche a Fragagnano. quattro chilometri da Lizzano, piccola finestra sul mare Jonio, dal XVI secolo abitata anche qui da una popolazione di albanesi, che all’epoca vennero trasferiti a Monteparano per troncare i contrasti con gli indigeni. In questo paese, che vanta il Castello Marchesale con gusto barocco dominano i Riti dei Santi, con una tavola sull’altare della Chiesa, attorno alla quale si seggono persone che rappresentano la Sacra Famiglia. San Giuseppe, battendo il bastone sul pavimento, scandisce l’alternanza dei cibi. Anche qui 13 piatti che richiamano la nobile civiltà contadina (cibi che ieri erano poveri e oggi vengono serviti come specialità anche in ristoranti di grandi città come Milano). Esempi, fave con cicoria; bucatini con la mollica di pane; la “massa” (tagliatelle condite con olio, prezzemolo e pepe); ceci, fagioli, “carteddate”… Per provvedere alle vivande gli incaricati si attivano dalla metà di gennaio, stabilendo un copione con le indicazioni di un regista, Alfredo Traverso, ideatore del Teatro della Fede in Puglia, e un’artista locale, Lucia Traetta, che realizza l’immagine rappresentativa dell’evento che campeggia anche sui manifesti.
Cibo per le tavole a Fragnano
Quest’anno alla tavola erano seduti due stranieri: una donna ucraina e un ragazzo del Camerun, che hanno raccontato la propria storia, presentato un piatto e interpretato un canto della propria terra. Tutto messo in piedi con la collaborazione della comunità, della Pro Loco, che gestisce anche la Biblioteca Comunale intitolata a Elena Dell’Antoglietta, e ha come presidente Nunzia Di Giacomo. Segue la processione. La sera in programma il Rito dei Santi, la tavola in chiesa.
Una volta la festa di San Giuseppe a Fragagnano - festa che si fa risalire al 1800 - si svolgeva il 13 e il 14 marzo, prima di quella di San Marzano. Per motivi di competizione fra le due comunità, che con il passar del tempo sono andate scomparendo.
Queste manifestazioni in onore di Giuseppe di Nazareth, umile artigiano del legno, vanno in scena anche in altre zone. Forse perché è ritenuto il paladino della chiesa, forse perché protegge gli ultimi, chi ha fame, chi ha sete, chi soffre, ha milioni di devoti. Nel Salento si celebra a Giurdignano, a Minervino di Lecce… In provincia di Bari, a Modugno, “Sulla via del falò” richiama moltissima gente, che segue il percorso intervallato da musica, canti, balli popolari, urli di gioia. San Giuseppe si solennizza a La Spezia, a Santa Maria di Leuca... Il rito delle tavole fa pensare anche ai monaci basiliani che davano ospitalità, alimenti e protezione agli stranieri.
Anche San Marzano di San Giuseppe nella ricorrenza quasi svuota i centri vicini, i cui abitanti vi si riversano con entusiasmo ad ammirare il corteo, che si snoda con cavalli addobbati, carri, carretti, carriole, un trattore, quadrupedi. colmi di rami d’ulivo derivanti dalle potature. Uno spettacolo grandioso. Persino sui tetti delle carrozzine sventolano i ramoscelli e sulle teste delle donne. Giovani e anziani sfilano avendo tra le braccia fasci di ulivo e addosso collante, cinture, bracciali con steli della pianta che comunica pace e armonia.
A San Marzano le fascine
L’ulivo ha ispirato leggende e si è offerto alla costruzione di opere d’arte famose. Anche il talamo di Ulisse era stato realizzato con quel legno... L’ulivo è un albero possente, capace di resistere alle calamità.. Nella zona di Ostuni, a Savelletri, altrove si ergono ulivi saraceni dalle forme scultoree possenti. “Perché tutte queste fronde? Rappresentano forse gli ultimi momenti di Gesù sulle pendici del monte degli ulivi?”, domandò al suo vicino un tale, stazza di don Camillo e faccia di Eduardo, mentre scorreva il corteo. “So che quest’albero ha radici in Palestina e non solo…. è stato considerato un dono di Dio”, la risposta. Dopo una pausa: “Ricorda la colomba che portò nel becco a Noè un ramoscello come segno di speranza?”. E ancora un pensiero: “L’ulivo è luce. L’ulivo è sacro. Mi affascina la faccia argentata delle sue foglie rovesciate dal vento. L’interlocutore curioso si sentì incoraggiato dalla cultura del vicino e gli domandò se sapesse a quando risale la celebrazione di San Giuseppe. “Sarebbe lungo il discorso”. Evidentemente la persona interrogata voleva godersi quel fiume umano, che si faceva sempre più attraente, e pensava di aver detto abbastanza in una circostanza come quella.
Massa di ulivo
Con la processione degli ulivi e la consegna delle chiavi della città da parte del sindaco, il professor Francesco Leo, quest’anno a San Marzano il copione si è arricchito con il concerto, il 18 marzo, di Antonio Castrignanò, che è stato in “tournèe” in mezzo mondo e – commenta Vito De Cataldo – è anche il principe della pizzica.
Allo scarico delle fascine, esplosioni pirotecniche, falò maestosi, messe solenni e benedizione delle “mattre”, tavole più piccole di quelle di Lizzano donate poi ai turisti e ai poveri. De Cataldo posta su Facebook le immagini dei fuochi d’artificio e delle immense cataste di rami di ulivo in fiamme.
Per dirla tutta, il bravissimo fotografo Carmine La Fratta, artista a sua volta, non si è lasciato sfuggire l’occasione per cogliere con il suo magico obiettivo i momenti più esaltanti di queste manifestazioni di fede e di gioia, puntando anche sui volti, sulle espressioni dei portatori di steli o di masse di ulivo; e come ha già fatto, forse raccoglierà in un libro o su un calendario o su cartoline le sue testimonianze, che diventano storia.
 
(Le foto sono di Nunzia Di Giacomo, Giuseppe Marino, Carmine La Fratta)

mercoledì 2 aprile 2025

Lo hanno definito l’eroe delle Volanti


IL MARCHIGIANO SILVANO GATTARI UN PILASTRO DELLA QUESTURA

 

 

Gattari e il questore Marangoni
La sua attività di poliziotto bravissimo e inflessibile è costellata di arresti e di tante operazioni rischiose. Ha fatto irruzioni in bische clandestine, intercettando latitanti con 25 anni di galera da scontare; ha preso rapinatori di grosso calibro, ladri al lavoro. Un poliziotto intelligente, capace di risolvere qualunque situazione.

 

 


 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI



“Volante Città Studi chiama Centrale”. “Centrale, Volante Città Studi”. Su quella Volante circolava Silvano Gattari, il capopattuglia che aveva il coraggio del leone e la forza di un campione di karate.
La Volante "Città Studi"
Veloce, capace di risolvere le situazioni più difficili, di prendere per il bavero i malavitosi più duri che tentavano di sopraffarlo, di immobilizzarli soltanto con uno sguardo fulminante. Tutta la sua attività di poliziotto tenace, preparato, intelligente, intuitivo è stata improntata alla consapevolezza che la divisa è un fiore all’occhiello, simbolo di onore e fedeltà allo Stato, emblema di missione.
Gattari è stato definito un eroe, un mito. Una leggenda. Il suo mondo erano la strada e la famiglia. Ha mandato al “gabbio” rapinatori, ladri, latitanti con anni e anni di galera sul gobbo; ha fatto irruzione nelle bische, ha sequestrato sacchi di soldi accumulati sui tavoli verdi, ha scovato rapitori e liberato ostaggi. Il lavoro alla Volante – dice – è stato entusiasmante. E con entusiasmo si racconta, sollecitato dal cronista impiccione, curioso, a volte impertinente, che scavando fa emergere chicche. Gattari ha una memoria inossidabile, i suoi ricordi sono come l’acqua di un ruscello che scende gorgogliando a valle. Acqua limpida, non inquinata: non usa artifici dialettici, non è enfatico, non contamina la verità.
Il matrimonio di Gattari

Chi lo ascolta è affascinato dal suo eloquio con risonanze marchigiane, dal suo modo di esporre i fatti, uno dietro l’altro, a volte uno sull’altro per la fretta di dire, d’informare, di essere esauriente e preciso. Ha il piacere della parola, che non è mai scatola vuota. In tanti anni di mestiere ha sfiorato il pericolo, ma ha sempre aperto una breccia nel muro, riuscendo nell’intento. Ha passato dieci anni sulla sua “Pantera”, conquistando elogi, promozioni sul campo, onorificenze, concesse dai presidenti della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi, prima dall’uno, poi dall’altro. Ebbe i gradi di maresciallo dopo aver acciuffato un rapinatore solitario, che faceva rapine in banca sempre alle 13.30, con lo stesso abbigliamento (giacca cammello e pantaloni blu). Lo immobilizzò nel momento in cui il bandito era impegnato nell’assalto all’istituto di credito di piazza Ascoli all’angolo con viale Abruzzi. Il “mito” arrivò con la sua Volante senza sirene e senza lampeggiante. Il malacarne esce e gli punta la pistola; Silvano ha la sua in pugno, può sparare, ma deve frenarla, perché la situazione è delicata: i bimbi che escono dalla scuola e la gente dal supermercato.
Gattari e il questore Lucchese

Il bandito rientra in banca per uscire da una porta sotterranea; Silvano conosce il percorso, con un collega si apposta dietro l’ultima porta e vede apparire il direttore con le mani in alto. Uno scatto fulmineo e punta non l’arma, ma il dito indice alle spalle del bandito e lo aggancia. Due o tre giorni dopo è maresciallo.
“Era bello il lavoro alle Volanti: c’era armonia fra i colleghi, amicizia, stima, rispetto, solidarietà, voglia di fare, di condividere. Una famiglia”. Lo animava il senso del dovere. Ha partecipato al concorso per ispettore ed è andato a dirigere il terzo turno delle Volanti, dove è rimasto 27 anni, dopo 10 da capopattuglia sulle vie più insidiose della città. “Quando eravamo liberi dal servizio ci riunivano attorno a una tavola e gustavamo piatti regionali in allegria. Quella delle Volanti è stata l’avventura più bella della mia vita. Eccitanti le notti, lavoro tanto e ben fatto”. Torna spesso su quei momenti.
E riannoda il discorso degli interventi. Captarono la notizia della bisca di via Savona. Gattari, i suoi uomini, alcuni della squadra Mobile, a mezzanotte, bussarono al primo piano, venne ad aprire un tizio vestito da maggiordomo, che chiese: “I signori desiderano?”. Silvano lo tirò da parte e gli domandò: “Dov’è il salone?“. “Quale salone?”. A un giovane poliziotto scappò un colpo di mitra che infranse la centralina che apriva le porte e scoprirono il salone con le pareti tappezzate e un tavolo lungo una decina di metri circondato da una cinquantina di persone e con mucchi di denaro ai margini della “pista”.
Gattari e il cronista Alberto Berticelli
Riempirono due sacchi della spazzatura e sequestrarono “champagne” a fiumi e liquori di ogni tipo. Partirono i controlli con la centrale operativa della questura, che improvvisamente snocciolò la posizione di uno dei giocatori: 21 anni di carcere da scontare per omicidio. E la “belanda” o bisca che dir si voglia, è smantellata.
Di bische ce n’erano tante: in via Palmanova, in piazza Tirana, all’Arena…, all’aperto; e all’interno di cosiddetti circoli culturali o della duchessa in corso Sempione, in via Panizza..., appartenenti a quelli che si credevano padroni di Milano, cioè la grossa malandra.
Una notte un gruppo di poliziotti guidati da Gattari circondò un palazzo della Bovisa, sfondò una porta ed echeggiò un colpo di pistola. Il grilletto era partito dall’arma di un notissimo, spericolato, sbrigativo, determinato elemento senza scrupoli della “mala”, che tentò di buttarsi sul balcone di sotto in mutande, ma finì in trappola. Mentre nella camera da letto due donne nude dalle forme statuarie cercavano di distrarli. Sotto i cuscini e in un giubbotto appeso all’attaccapanni i poliziotti scoprirono le pistole. Pronta per la consorteria la “casanza” in piazza Filangieri.
Quando il libro della memoria di Silvano Gattari si apre si fa fatica a chiuderlo prima dell’ultima pagina. Libro che rapisce l’attenzione con le gioie e i dolori che contiene. La gioia: la nascita della figlia Debora; il dolore, l’uccisione di un carissimo amico in un conflitto a fuoco. Accadde in piazza Vetra, dove un impiegato dell’Esatri, l’agenzia addetta alla riscossione delle imposte, l’11 novembre del ‘76, notato un movimento sospetto, chiamò il “113”. Scattò la Volante “Duomo” e perse la vita il vicebrigadiere Giovanni Ripani, la cui tomba, ad Altidona, provincia di Fermo, è mèta di un... pellegrinaggio annuale di Gattari. Nella sparatoria perse la vita anche il braccio destro del capobanda, baldanzoso “re” delle evasioni, una specie di Vidocq alla milanese. A Ripani hanno dedicato una scuola e a Milano intestato l’ufficio denunce. “E’ diventato il mio angelo custode”, confida Silvano, commosso.
Silvano Gattari e il compianto prefetto Scarpis

Furono, quelle, ore terribili per Milano, spesso teatro di rapine con sparatorie e corpi sanguinanti sul selciato. Un mezzogiorno di fuoco seguì all’assalto, settembre ‘67, dell’agenzia del Banco di Napoli di via Zandonai. Ci furono morti e feriti, tra cui il maresciallo Siffredi.
“Una grande soddisfazione è stata per me quando con il dottor Raffaele Valentini, primo dirigente della questura poi promosso questore, nell’88 abbiamo messo in piedi l’UPG, l’Ufficio prevenzioni generale, con 650 uomini, 33 Volanti per turno. Oggi Valentini non c’è più, come non c’è più Nino D’Amato, anche lui questore e investigatore eccellente, come Mazza, Marino… “Mai avuto paura?”. “Ho trascorso ore di preoccupazione quando finii nel mirino delle Brigate rosse. Mi rassicurai quando fu smembrato il covo di via Lorenteggio”. Hai nostalgia delle Volanti? “Ne ho. Mi hanno dato momenti elettrizzanti. Tra l’altro Milano di notte suscitava una sorta d’incanto”. Scherzando gli chiedo se devo chiamarlo cavaliere; e lui, dopo qualche reticenza, dice che è cavaliere al merito della Repubblica; e dal 2004 ufficiale al merito della Repubblica...
Poliziotti al matrimonio di Gattari
Ricordo quando fu festeggiato in via Fatebenefratelli per il suo ultimo giorno di lavoro. C’erano i questori Marangoni e Paolo Scarpis poi diventato prefetto, funzionari, dirigenti, giornalisti, tra i quali Michele Focarete e Alberto Berticelli, entrambi del “Corriere della Sera” (il secondo per anni in sala-stampa, di cui era responsabile severo e comprensivo); Paolo Longanesi, del “Giornale”; Piero Colaprico di “Repubblica”; Elio Spada e Marina Morpurgo dell’”Unità”; Umberto Gay di “Radio Popolare”, Milo Infante dell’”Informazione”, oggi bravissimo conduttore televisivo su Rai2.
Per tanti anni, andando nell’ufficio di Scarpis, siamo passati davanti a quello in cui Silvano Gattari era chino sul telefono a dialogare con gli equipaggi delle “Pantere” che sorvegliavano la città. Quando il suo telefono era muto, lui apriva la porta a vetri, ci salutava sempre sorridendo e tornava al lavoro. Era una colonna, l’eroe delle Volanti. Oggi è direttore tecnico e security manager di un istituto di vigilanza privato. Sempre al servizio del cittadino.

mercoledì 26 marzo 2025

Angelo Solito racconta

LA SETTIMANA SANTA NELL’ABITO DI “PERDONE”

 



Opera di Angelo Solito
Per anni ha indossato camice, cintura mozzetta..., per onorare una tradizione di famiglia. Oltre a costruire troccole è un uomo devoto e sempre presente alla processione dei Misteri.



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI



Tra qualche settimana è Pasqua. Per Nicola Caputo - profondo conoscitore dei riti della Settimana Santa e non solo; autore di tanti interessanti libri sulla città di Taranto e sui suoi riti - della festa per la resurrezione di Gesù, una delle più attese e delle più importanti, si comincia a parlare subito dopo Natale.

"Perdone" in legno duro
In questi giorni c’è chi posta sui “social” le delizie che si mettono in tavola nella ricorrenza: l’agnello al forno, la colomba, ecc. Il compianto Claudio de Cuia, uno dei poeti più celebrati nella Bimare e altrove, nel suo “Arie de Pasche”, raccolta di poesie dialettali tarantine, ha scritto versi letti e riletti dagli appassionati del vernacolo. In una di queste: “Sollecito stamane il potentino/ s’è messo più d’impegno ad inseguire/ l’ultima nuvola: dovrà preparare/ il migliore scenario celestino / per il Giovedì Santo…”.
Le “perdune” e i “fratelle” già da tempo aspettano con ansia il momento in cui indosseranno l’abito prescritto. Lo dice Angelo Solito, della confraternita del Camine dall’età di 14 anni, e bravo scultore degli elementi che fanno parte della processione, a cominciare dalla troccola e degli stessi confratelli in legno, duro o morbido: “Camice e mozzetta li portarono il mio bisnonno, mio nonno, mio padre e oggi li portiamo io e i miei tre fratelli”. Una dinastia di “perdùne”.
Angelo, uomo buono e generoso, religioso e amante del prossimo, è felice di incolonnarsi nel corteo dei Misteri, che è esaltazione di fede e gioia popolare, sacro e profano, fascino, spettacolo, a cui i credenti e non solo non riescono a fare a meno di assistere. Migliaia e migliaia di persone, tra cui molti spatriati e stranieri, vengono a Taranto in treno, in aereo o in auto e ci verrebbero anche a piedi per vedere le statue percorrere le vie della Bimare tra dense ali di popolo. A frotte sciamano in piazza Carmine o in quel tratto di via D’Aquino che l’attraversa, per assicurarsi i primi posti. C’è chi sgomita per farsi largo e chi impiega tutta la sua forza per tagliare la massa, arrivata anche quattro o cinque ore prima. Non si vuole perdere un minuto dell’avvenimento, sin da quando la porta principale della chiesa si apre e sbuca il troccolante, che è il comandante dell’esercito.
Troccola eseguita da Solito

Angelo Solito, nato per dare forma al legno, sia fragno pugliese o noce, ulivo o faggio... agita la troccola per sentirla gracchiare dopo l’ultimo colpo di sgorbia, tra una musica funebre e l’altra, compresa “A mia madre” di Francesco Buzzacchino, primo vagito a Taranto nell’agosto del 1875, autore di ballabili e sinfonie, oltre che direttore della famosa filarmonica “Silvestri”.
Vedere Angelo al lavoro è attraente. La sua sgorbia dà forma a un volto con movimenti ritmici, sicuri, precisi anche su quella tavola con maniglie di ferro che agitata ripetutamente dà a chi la porta il comando: un personaggio importante, dunque, che sente il peso e il prestigio del compito.
Angelo Solito, culla a Taranto vecchia, in vico Ospizio, nei pressi di San Cataldo, chiarisce che non è corretto chiamare “perdùne” tutti i confratelli: i “perdùne” sono quelli che anno parte della congrega del Carmine e vanno scalzi il Giovedì e il Venerdì Santo; “mentre gli altri sono “fratelle” e indossano le scarpe. Non si può immaginare il freddo che si sente a ‘scè’ scazàte’, soprattutto di notte. “Per tre anni ho fatto le poste, quelle che vanno davanti alle statue: un anno davanti alla Sindone, un altro anno davanti al Crocifisso, quindi davanti alla Cascata. Per due anni ho fatto la posta ai Sepolcri in tutte le chiese della città vecchia.
Angelo Solito al lavoro
Ho fatto il pellegrinaggio uscendo dal Carmine, attraversando il ponte girevole, per entrare in via Duomo, nelle chiese di san Michele, sant’Agostino, san Cataldo, Santa Caterina, san Domenico. Poi il pendio per raggiungere sant’Anna, nell’omonimo vico, via Garibaldi, vico dei Santissimi Medici per giungere alla chiesa di san Cosimo e Damiano, sempre a piedi nudi…”. E poi al tempio di San Giuseppe, da qui in via Di Mezzo, sulla scalinata per sbucare in piazza Castello, poi a San Pasquale e rientro…
Solito ama il dettaglio. E non può evitare la descrizione della “divisa”, di cui è orgoglioso: il cappuccio, il mantello o mozzetta, il camice, il rosario, lo scapolare con la scritta “Decor Carmeli”, i guanti bianchi, il cappello (il Giovedì Santo in testa, il Venerdì dietro), la mazza o bastone a significare che sono pellegrini, la cintura, simbolo della flagellazione di Gesù.
“La processione dei Misteri esce dal Carmine alle 17 del Venerdì Santo e percorre via D’Aquino, piazza Maria Immacolata, via Di Palma, e da lì in via Regina Elena, verso la chiesa di San Francesco, dove si fa un’ora di sosta e si fa tacere lo stomaco”. Solito ricorda: “Negli anni ‘70 mio padre veniva a portarmi il panino”. Gli domando; “Un confratello che cos’ha sotto il camice?”. “Emozione, tantissima emozione. Emozione indescrivibile, Soprattutto quando le bande suonano le marce funebri. L’emozione prende possesso di te il giorno delle sacre ceneri”. Continua a prendere parte alla processione? “Sempre, ma come semplice fedele, non indosso più l’abito”.
I Misteri

“Quanto costa oggi la posta?”. “700.000 euro. Una volta anche 50.000 lire. I miei fratelli sono tutti portatori di statue o ‘sdanghieri’, quelli di dietro sono portatori di forcelle, alte circa 170 centimetri. La Cascata e l’Addolorata del Carmine sono le più pesanti. Le hanno portate mio zio, Stefano Di Maso, e mio fratello Pietro. I mazzieri hanno l’incarico di regolare le distanze fra i simulacri”.
Insomma, è istruttivo parlare con Angelo Solito, i cui manufatti (Madonne, Croci, volti di santi, troccole) vanno in ogni parte d’Italia e oltreconfine, una è pronta a partire per Barcellona, un’altra si trova già da tempo a Vallalolid, una terza nei giorni scorsi è entrata in una chiesa di Leporano; un’altra ancora è stata donata al Carmine da Solito e Felice Buonomo, che hanno collaborato a realizzarla in sette mesi di lavoro). Angelo, hai mai partecipato all’asta o gara che dir si voglia?. “Sì. Un tempo si svolgeva nella chiesa di San Domenico, oggi nella chiesa del Carmine”.
Una visita rapida e quasi improvvisa, al suo laboratorio. Solito è piazzato dietro il suo bancone, ha in mano la sgorbia che per informarci ritira dalla sagoma della troccola che sta terminando. Ci mette l’anima, in questo suo impegno molto delicato: se sbaglia un colpo il danno può essere irreparabile.
Angelo Solito e la troccola

Tutti conoscono Solito e le sue troccole, e lo ammirano per la passione che manifesta. Basta ascoltare Antonio De Florio e Nicola Giudetti, cantori di Taranto e delle sue tradizioni. Non mancano mai alla processione dei Misteri. De Florio ritrae con l’obiettivo fotografico i simboli, le statue, i volti della gente: chi piange, chi si rivolge all’Addolorata, chi a Gesù morto, chi si inginocchia chiedendo aiuto o semplicemente per devozione.
La processione dei Misteri, ripeto, è celebrazione di fede, spettacolo, fascino, rievocazione del sacrificio di Gesù per salvare l’umanità, che oggi va verso la follia. Un signore anziano alto, ben vestito, “papillon”, fazzoletto bianco nel taschino della giacca, sicuramente straniero, probabilmente inglese, perfetta somiglianza con Luciano De Crescenzo, l’ingegnere filosofo e scrittore napoletano, chiese al vicino se sapesse quando e come fossero nati i Misteri. La persona interpellata, un vecchietto barbuto e infreddolito, un po’ ricurvo e con una tosse rabbiosa, .on seppe dare la risposta, Ma un altro intervenne con sicurezza, affermando che le origini si possono far risalire al XVI secolo, “all’epoca della presenza spagnola a Taranto.
Solito e il suo maestro Mauro Pieroni

Fu allora che nacquero le prime confraternite, ispirandosi a quelle di Siviglia, Barcellona…”. Aggiunse altri particolari, mentre un bimbo in braccio al papà indicava Cristo nell’Orto, Cristo alla Colonna, la Caduta, le “perdùne” che li accompagnavano “nazzeccanne” e un po’ piegati. Poi chiocciava la troccola, che è il primo elemento messo in gara e dà a chi la conquista l’onore di imporre il ritmo alla processione. Il troccolante ordina le soste e le riprese del pellegrinaggio per le vie della città. Alle sue spalle, il Gonfalone (della congrega della chiesa del Carmine), la Croce dei Misteri… E’ toccante ogni simulacro, ogni passo dei confratelli. Angelo Solito si commuove, rivedendosi nei panni di chi rappresenta il perdono: questo vuol dire “perdòne”. Una marcia funebre di Domenico Bastia accompagna il termine del rito.
Sono stati in molti a scrivere della Settimana Santa tarantina, tra cui un’autrice inglese che venne a visitare il nostro Paese e si trovò a Taranto proprio mentre si snodava la processione, che l’affascinò; Cesare Giulio Viola nel suo libro “Pater, il romanzo del lume a petrolio”, del ‘22:
Angelo Solito e Felice Buonomo

“Al Venerdì Santo a Taranto non piove. Chè al tramonto uscirà dalla Chiesa del Carmine la processione dei Misteri e il popolo l’attende; e il celo rispetta il Cristo e la fede del popolo. Le finestre sono tutte pavesate; ai balconi stanno le lampade a petrolio che s’accenderanno a notte nelle loro campane di vetro smerigliato. Per le strade la folla s’assiepa in silenzio...
Finita la grande manifestazione, si corre a casa, dove sono pronti anche i taralli, le “scarcèdde”, termine, secondo gli esperti, derivante dallo spagnolo “escarcela”. Sul pendio di San Domenico la notte di Giovedì Santo si vive il momento più commovente della processione dell’Addolorata.

mercoledì 19 marzo 2025

Un libro fatto di titoli di giornali

UN LAVORO DA CERTOSINO DEL BRIGADIERE MELONI 

 

 


Copertina del libro
E’ come una storia della “nera” dai rapimenti alle
rapine, alle grandi operazioni, agli arresti, ai pezzi da 90 confinati al Nord, ai conflitti a fuoco tra malacarne e forze dell’ordine. Che fatica!

 

 

 

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI

 

 



Il giaguaro è un animale di bell’aspetto che non ha nulla da invidiare al leone: è forte, riservato, capace di adattarsi all’ambiente, sa mascherarsi, e sa come e dove colpire chi gli capita a tiro. I carabinieri non potevano scegliere simbolo più appropriato per la loro squadra che si occupava di sequestri di persona, di estorsione e poi di antiterrorismo...
I giaguari. Secondo a sin. Meloni
Una squadra affiatata e ben collaudata. Giaguaro 1 era il comandante e poi, a mano a mano che si scendeva di grado 2, 3… Il nome d’arte era usato quando il gruppo doveva comunicare con la centrale operativa di via Moscova, dove sono insediati non felini che vivono soprattutto in Amazzonia, ma uomini decisi a tutto pur di riportare a casa una persona sottratta ai propri affetti, magari sorprendendo i banditi nel momento della riscossione del riscatto o irrompendo nel covo protetto da sentinelle. Per un carabiniere essere un giaguaro era un onore.
Ne ho uno di fronte, dai modi gentili, dai toni pacati, dai gesti discreti, dallo sguardo vivace. Ha appena pubblicato un libro che si apre con una decina di righe del compiano generale di brigata Tommaso Vitagliano, che fu per tanti anni al Nucleo Operativo di via Moscova, a Milano. Titolo di queste righe dell’ufficiale che tra l’altro indagò sul delitto dell’Olgiata a Roma: “L’urlo del giaguaro”. “Eccoli, una schiera variopinta di uomini che sostano su un ampio piazzale e mi guardano sorridenti. Un grande striscione li sovrasta, al centro un giaguaro ruggente e vittorioso”.
il brigadiere Massimo Meloni

Certo il ruggito del giaguaro come quello del leone incute paura, ma i giaguari di via Moscova non ruggivano, attaccavano veloci e senza esitazione. Anche Massimo Ceccherini - che cambiò mestiere andando a dirigere la sicurezza a Mediaset, dopo aver scoperto il covo di un grosso bandito che faceva affari con la droga e dopo aver messo le manette con i suoi uomini ad un altro malacarne al “Lady Anna” di Sirmione – ha scritto un bell’articolo, lungo e lucido, scorrevole come acqua di fiume, articolo che si conclude con la fierezza di essere stato il comandante del reparto. Seguono pagine del generale di Brigata Eugenio Morini e un interessante, appassionante intervento di Cesare Giuzzi, un ghepardo del “Corriere della Sera”, che morde la notizia e sa come spolparla. “In via Moscova – annota - ho incontrato parecchi dei migliori investigatori che abbia mai incontrato sulla mia strada. I giornalisti vivono di notizie, ma crescono quando incontrano chi, con pazienza e rara intelligenza, ha la capacità di aiutarli a capire”. Anche lui, dunque, si è cibato in via Moscova e sulla strada, consumando scarpe come facevano una volta i cronisti del livello di Fabio Mantica, Arnaldo Giuliani, Patrizio Fusar…
Nel libro Meloni snocciola anche curiosità: per esempio quella del carabiniere, altro segugio di strada, che il giorno della memorabile nevicata dell’85 si presentò al Nucleo investigativo venendo a piedi da Pieve Emanuele, macinando ben 16 chilometri di coltre bianca. Lo ricorda Massimo Pisa di “Repubblica” fra centinaia di titoli ricavati dal “Corriere della Sera”. Tra i primi, quello della rapina di via Osoppo, compiuta dalla banda delle tute blu la matina alle 9,15 del 27 febbraio del 1958. E poi rapimenti, omicidi, mafiosi confinati in Lombardia o finiti al “gabbio”, l’assalto, con mitra e pistole, all’oreficeria di via Montenapoleone;
Quarta di copertina
il boss indesiderato negli Stati Uniti e rispedito in Italia, a Milano, dove per non stare con le mani in mano progettava un controfestival di Sanremo; la “banda del buco” acciuffata con le mani nel sacco; l’orrenda strage di piazza Fontana; le imprese del bandito baldanzoso e quelle del “solista del mitra” che in carcere divenne pittore; gli scontri tra malandra e polizia; l’assassinio del commissario Luigi Calabresi; il luogotenente di un pezzo da 90 assassinato in piazza Napoli e altri due in piazzale Susa… Un lavoro di archivio da certosino.
Centosessantaquattro rapimenti, centoquattordici bande criminali specializzate in omicidi e furti ricordati in 230 pagine fitte di occhielli e sommari rilevati dal quotidiano di via Solferino. Una lunga storia della criminalità raccolta dal brigadiere capo Massimo Meloni, 65 anni, in pensione, nato a Uta, in provincia di Cagliari.
Eccolo, accanto alla mia scrivania, questo graduato paziente, educato, rispettoso; e non posso non approfittare dell’occasione per conoscerlo meglio. Alla domanda sul motivo che lo spinse ad entrare nell’Arma è rimasto un po’ indeciso. Avrebbe potuto rispondere che a esortarlo era stata la passione e invece ha ammesso che dietro la sua scelta c’era la fame. 
i generali Battista e La Forgia
Il padre, Giovanni, oggi novantacinquenne, faceva il contadino, la mamma, Fabrizia, la casalinga, cinque figli da sfamare. Per un po’ lui ha dato una mano nella cura della terra, condividendo i sacrifici, la fatica, il sudore che quella comporta. “La terra a volte è avara e il vento e la grandine non hanno pietà. Vedevo la disperazione di mio padre, quindi ho pensato al posto sicuro”. Si guardò intorno e decise: “Faccio il carabiniere”. La passione venne con il passare del tempo, un passione forte, profonda, “perché l’Arma è una famiglia, che ti fa sentire l’orgoglio di farne parte”.
Meloni entrò nel corpo nel ‘79, a 19 anni. “Non ti dico il fascino che la divisa cominciò a suscitare in seguito su di me. Quando mi presentai alla stazione di Uta, e alla stessa domanda detti la stessa risposta, cioè che a sollecitarmi erano stati gli stimoli dello stomaco, il comandante mi elogiò per la schiettezza”. A Milano Massimo Meloni giunse nell’84, assegnato al Nucleo operativo, dove allora agivano il colonnello Alfonso Martorana, il capitano Paolo Laforgia, il maggiore Raggetti, il colonnello Emanuele Garelli, il compianto colonnello Tommaso Vitagliano (promossi generali), il capitano Massimo Ceccherini,… Meloni proveniva dal Battaglione carabinieri paracadutisti Tuscania di Livorno.
A sinistra il generale Vitagliano con un altro ufficiale
Erano quelli i tempi in cui in via Moscova da cronista del quotidiano “Il Giorno”, andavo anch’io ogni giorno a piluccare notizie, dopo il saluto all’appuntato Pino Lato, oggi maresciallo in pensione, una persona cortese, disponibile, che diceva “comandi” almeno 100 volte al giorno ai superiori che entravano o uscivano. “L’Arma è l’Arma e il rispetto una regola fondamentale. L’Arma fa crescere i suoi uomini, li educa. La disciplina con consente eccezioni”.
Massimo Meloni non si vanta della sua attività fra i giaguari, e dei 9 mesi all’Antiterrorismo con il colonnello Umberto Bonaventura... non manifesta l’orgoglio, che pure nutre; e ripercorre quegli anni senza enfasi., quasi con imbarazzo, data l’insistenza dell’interlocutore. Ma il cronista è curioso, intraprendente, indiscreto, indagatore e vuole scavare. E Meloni racconta superficialmente il sequestro dei “clichè di numerosi di buoni del tesoro perfettamente realizzati e allora di moda in Svizzera.
il generale Vitagliano e il cronista Laccabò

Sgominammo la banda fatta di sei persone, alle quali arrivammo seguendo una pista che si rivelò subito quella giusta. Mettemmo i sigilli alla tipografia e continuammo a sondare. Scoprimmo in seguito una raffineria di cocaina sintetica, facemmo investigazioni che ci portarono a mucchi di dollari falsi, arrestammo manipoli di estorsori...”.
Nelle indagini ci sono sempre dei rischi, soprattutto nel momento del pagamento di un riscatto; e allora occorre essere davvero giaguari, con il passo felpato e tutta l’abilità, il tatto del felino, per non tornare al Nucleo a mani vuote. Meloni, incalzato, ricorda le notti passate sulla strada, con la paura dei familiari quando non si rientrava perché ad un’esigenza di servizio se ne aggiungeva subito un’altra. Vita dura, quella dei carabinieri e dei poliziotti. Vite sempre esposte all’agguato criminale. Molte divise sono state macchiate di sangue.
Oggi Massimo Meloni si dedica alla fattura di libri fotografici. Nel 2015 ha pubblicato: “Lourdes, le forze multinazionali e la fede”, partito da una sua mostra. E in una esposizione finirà un altro suo libro in fase di elaborazione sui sequestri di persona. Di mostre ne ha fatte tante e quasi tutte su temi specifici. Il suo libro che ho sotto gli occhi ha in copertina il logo “Gruppo Carabinieri, Nucleo Operativo, Milano 1, dal 1964 al 2020”. E’ dedicato all’Arma, che è sempre presente nell’esistenza di chi l’ha vissuta.

mercoledì 12 marzo 2025

Un altro gentiluomo se n’é andato

IL QUESTORE NINO D’AMATO CHE FU A CROTONE E A LA SPEZIA

 

 

Nino D'Amato
Nato a Taranto, passò parte della sua vita a Milano, come vice, quindi come capo della squadra Mobile. Era stimato e amato, da cronisti e poliziotti di ogni grado. Ai funerali c’erano quasi tutti, ha scritto Michele Focarete, Anna, la moglie, lo ha ricordato come marito e padre, attento presente, amorevole.

 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
La notizia me l’ha data Piero Colaprico. Poche parole su whats'App per dirmi che Nino D’Amato se n’era appena andato.
Berticelli, il questore Scarpis, Presicci, una collega D'Amato

Un pugno al cuore e un flusso inarrestabile di ricordi. Ho postato una foto su facebook e le si sono accodati messaggi da ogni parte d’Italia: Lucia Ziliotto, che anni fa è stata capo della sezione antirapine a Milano, ha scritto da Padova; Alberto Berticelli, già brillante cronista del “Corriere della Sera”, non so da dove: l’ispettore capo Ugo Brignoli da Pavia (“Nino D’Amato era un galantuomo, una persona esemplare); il suo collega Alberto Maria Sala, ai tempi spesso investigatore con l’Fbi e con la Dea (“Indimenticabile”); Luigi Pagano, già direttore del carcere di San Vittore e poi elevato a incarichi più importanti e oggi scrittore egregio (“L’ho conosciuto, era una brava persona”); il vicequestore Edmondo Capecelatro, che lasciò il servizio, dopo aver diretto vari commissariati, per poter dedicare più tempo alla sua attività di attore e di scrittore di testi teatrali, si è commosso.
Lo stimavano tutti, Nino, per il carattere gioviale e per la bravura professionale. Accoglieva ogni mattina i cronisti con il sorriso o con la battuta di spirito; e se c’erano particolari da fornire su un’investigazione, non si tirava indietro.
Nino D’Amato era nato a Taranto nel ‘50, ma non gli sfuggiva mai una parola in dialetto. Con noi, di pugliesi c’era solo Piero Colaprico, di Putignano, il paese del carnevale.
D'Amato, a sin, il questore Carnimeo e il vice Carluccio
Quando il mattino alle 11 cominciavamo il giro nei vari uffici della questura, lo concludevamo nell’anticamera della Mobile, dove il piantone Fina, e dopo di lui Fassito, ci annunciava, e noi alla vista di D’Amato lo salutavamo tra sorrisi e battute sulle spalle. E cominciava la batteria delle domande. Nino non faceva giochi di prestigio per dare più spessore alle notizie con lo scopo di avere più spazio sui giornali. Era serio, affidabile, schietto. Un signore. Riceveva i “segugi” sempre volentieri. Ed era generoso. “Uno dei primi che ho conosciuto arrivando in questura. Umano, accogliente. Mi ha anche passato lo smoking, che non gli entrava più”, mi ha detto Luca Fazzo, che allora lavorava a “L’Unità”, passando poi a “Repubblica”.
Da Fazzo a Colaprico - da sempre al quotidiano di Scalfari come cronista dal fiuto lungo, inviato e poi fino alla pensione direttore della sede milanese, oltre che scrittore - una folla di ricordi e di elogi dell’uomo venuto dal Sud. Già ai miei tempi ci incontravamo in sala stampa e poi tutti insieme prima alle Volanti, dove facevano un cordiale cenno di saluto al commissario Silvano Gattari, sempre al telefono con le pantere in giro a vigilare sulla sicurezza della città, e poi dal direttore dei Servizi Generali, il compianto Paolo Scarpis (promosso poi questore e successivamente prefetto). Da lui pescavamo i fatti rilevanti della notte precedente. Ultima meta, la Mobile, dove spesso montavano un lungo tavolo cosparso di pistole, mitra, denaro, ricetrasmittenti..., frutto di una consistente operazione con relativi arresti di “boss”, gregari, soldati.
D'Amato seduto tra ispettori e vicequestori

Nino D’Amato spiegava ai cronisti le fasi dei colpi, lasciando qualche vuoto, se le indagini proseguivano; e allora i “marciatori” quel vuoto dovevamo cercare di colmarlo, andando a bussare ad altre porte, spesso fuori da via Fatebenefratelli, diventando a loro volta investigatori. Non di rado sulle mie strade m’imbattevo in Piero Colaprico, che non risparmiava mai le sue scarpe.
Nino era buono, disponibile, buontempone, ma non era prodigo di dettagli, se il suo lavoro imponeva il silenzio. Quindi in quei casi era inutile girargli attorno: alle suppliche rispondeva con quel suo sorriso amabile, che voleva dire: “Ragazzi, non mi mettete in croce, non posso”. Bastava una parola di troppo per far saltare un lavoro di mesi. Ma Nino non appariva mai infastidito: capiva le nostre esigenze e si dispiaceva nel vederci con il piatto mezzo vuoto.
Ai tempi in cui era vice, alla Mobile riportarono molti successi memorabili, fra droga e omicidi. “Se penso a Nino mi vengono in mente il suo faccione e il suo sorriso. Sempre accogliente, sempre disponibile – dice Alberto Berticelli - sempre educato. Ed era umile quasi defilato. Sempre al suo posto. Non sgomitava per fare carriera come altri.
Una grance operazione

A Piacenza fu accolto con tutti gli onori e trovò un po’ di pace dopo gli anni frenetici della squadra Mobile di Milano”. Poi zac! Commenti caustici contro chi sgambettava per avanzare (Alberto non le ha mai mandata a dire). E ancora: “Ultimamente ho parlato con un funzionario di quegli anni, che mi ha detto senza giri di parole che è stato un grande investigatore… ”. Berticelli lo sentiva spesso e ricorda una telefonata di quando era questore di Crotone, verso il 2009. “Mi raccontò che aveva fatto una grossa operazione contro la ‘ndrangheta, ma che aveva dovuto chiedere aiuto a Roma, perché la sua questura non aveva forze sufficienti”. In quell’occasione Nino confidò: “Qui un questore è solo”. Alberto conclude che D’Amato era molto altro. Teneva tanto alla sua famiglia. Lascia un ricordo indelebile. Ciao, Nino”.
Nino aveva una moglie, Anna, e due figli, Marina e Matteo. In polizia entrò nel ‘76, alla questura di Reggio Calabria; poi fu trasferito a Roma, a Piacenza. Lavorò anche alla Direzione Interregionale Lombardia ed Emilia Romagna. Fu nominato questore di Crotone, quindi di La Spezia, dando sempre il meglio di sé.
Piero Colaprico: “Per molti cronisti Nino D’Amato era l’incarnazione del funzionario che non fa mai fumo, ma solo ‘arrosto’. Anzi, più volte, di fronte all’irruenza di alcuni, protestava: ‘Se siete voi giornalisti che andate in giro a fare domande, rischiate soprattutto di mettere in allarme i responsabili
La seconda a sin, Ziliotto, a destra D'Amato, dietro Caridi
dei reati’. Lo credeva davvero, ma mai una volta ha alzato il tono di voce o ha provato a bloccare qualcuno. Forse il suo tratto distintivo era il rispetto: rispetto del lavoro proprio e altrui, rispetto dei diritti e doveri del cittadino, rispetto anche dei ruoli. Come capo della squadra Mobile ha coordinato molte inchieste, ma ricordo la sua soddisfazione una volta che scattò l’allarme rosso per una violenza carnale nella metropolitana. Lui controllò orari, possibili testimoni e poi chiamò la ragazza che aveva denunciato lo stupro e, paternamente, le mostrò la situazione. Lei aveva inventato tutto e D’Amato, dispiaciutissimo, spiegò che era una ragazza che aveva bisogno di aiuto, da parte di tutti. Compresi i giornalisti: quando avrebbero scritto la verità, avrebbero dovuto ‘mettersi una mano sulla coscienza’. Solitario e affabile, simpatico e riservato, D’Amato è stato quello che si dice un professionista. Senza mai perdere la gentilezza”.
Dopo quello di Piero, mi è arrivato un pensiero di Edmondo Capecelatro. E’ una lettera a Nino: “... Ma ieri sera no! Quando Franco mi ha detto che Nino D’Amato non c’era più, che ci aveva lasciato per sempre, non gli ho creduto, non ho voluto credergli. Già, perchè la morte non esiste! La parte più importante di noi, il ricordo, resta qui. E chi potrebbe mai rimuovere il ricordo di Nino, non un semplice collega, ma molto di più, un amico, il bene più grande che uno possa avere. E i ricordi mai muoiono. Il ricordo non si tocca, ma ci tocca, è il campanello che ci fa richiamare e custodire la memoria di un fatto. Chi di noi non ricorda quando, in un momento di difficoltà, o di smarrimento, una parola o anche solo un gesto, di Nino, abbia saputo darci coraggio. Ricordi,
D'Amato, Plantone, l'attrice Annamaria Rizzoli
Nino, abbiamo cominciato insieme la faticosa, ma entusiasmante salita della vita. Talvolta ci sarebbe venuta la voglia di fermarci, di rallentare, ma poi qualcun altro ci ha presi per mano e ci ha trascinati verso su. E certamente uno di questi fosti tu. Poi Paolo, Tommaso, Giuseppe, e ancora ancora. Oggi tu! Ma tutti voi vivete nei nostri ricordi e allora è chi resta che muore veramente”.
Chi potrà dimenticare quest’uomo autentico, magnanimo? Questo poliziotto impegnato, preparato, capacissimo? Non certo l’ispettore Ugo Brignoli, abituato a dire pane al pane e vino al vino, e aveva una grande considerazione di Nino D’Amato come uomo e come poliziotto: “Più che alla carriera teneva al rispetto”.
Non potrò più prendere il caffè con lui nel bar di fronte alla questura, con Berticelli o con Albero Sala o con Colaprico. Ma lo ricorderò sempre, Nino; racconterò la sua semplicità, il suo amore per gli altri.