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mercoledì 23 luglio 2025

Una radiografia di Sesto e Milano

UN LIBRO DI SARDELLI E GALLIZZI RAPISCE L'ATTENZIONE

 

 


"Eravamo in via Solferino-Quarant’anni di vita al
‘Corriere” racconta l’atmosfera che si viveva in quelle stanze, le “firme” nobili, la disciplina, il rispetto reciproco, l’ordine, la pulizia, i rapporti umani, la storia del giornale: tempio del giornalismo.

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
Un sogno chiamato Corriere: il tempio del giornalismo che si erge in via Solferino. Quanti giovani di valore hanno vagheggiato di far parte del regno di Ottone, Afeltra, Montanelli, Buzzati, Bettiza… Quanti. E Giuseppe Gallizzi, anche lui, ha speso passi per arrivarci. Si rivolse ad un suo conterraneo, Lanocita, di un paese vicino alla sua Nicotera, ma non ottenne risultati; il responsabile delle pagine degli spettacoli gli rispose solo che lo avrebbe aiutato a patto che lui si cercasse un altro spazio per allenarsi, perché “Il Corriere” era il “Corriere”.
Gallizzi. Mieli, Stimolo

Gallizzi era una quercia e non si lasciava fiaccare facilmente. Passarono i giorni e prese a lavorare alla periferia del “Corriere”, scarpinando a Sesto San Giovanni per raccogliere notizie da trasmettere al sacrario del giornalismo. Non credo che abbia fatto il conto delle ore consumate sulla strada, dei chilometri macinati a piedi per andare a mietere in un ospedale, in un commissariato di polizia, in una caserma dei carabinieri. Sapeva già che cosa deve fare un cronista; che cosa deve essere: un cacciatore, un mangiatore di panini e polvere, un corridore, un maratoneta, uno pronto a buttarsi già dal letto alle 2 del mattino per volare sul teatro di un delitto.
Quanti sacrifici, quanta fatica per raggiungere l’obiettivo: entrare al “Corriere”. E alla fine fu arruolato nell’agone dei cronisti di razza. E dopo tanti anni e una carriera brillante (da cronista a inviato, a capo cronista a primo capo redattore), la voglia di raccontare una vita che ha il sapore dell’avventura, della favola diventata realtà. E il racconto, con stile seducente, lo ha steso con Vincenzo Sardelli, “Eravamo in via Solferino”, edito da Minerva. L’ho letto due volte anche per la gioia di apprendere storie e curiosità, fatti e chicche. Gallizzi la prende da lontano, elencando anche ricordi di episodi che lo hanno irrobustito. Comincia con il viaggio verso Milano con la “Freccia del Sud”, un treno sempre zeppo di passeggeri, che si catapultavano nei vagoni attraverso i finestrini, si stendevano per terra, con valigie e altri bagagli occupavano i gabinetti di decenza, le piattaforme, non si poteva quasi neppure respirare e il controllore non poteva chiedere di vedere i biglietti, non riuscendo a tagliare quella catasta umana. Nel grande ventre della stazione centrale occorreva molto tempo per svuotare i vagoni. Se non erro a trainarli era “’a Ciucculatère”, la locomotiva a vapore, un gioiello delle strade ferrate, una gloria, principessa nei miei ricordi, amica dei miei viaggi all’indietro, ma lenta.
Gallizzi e il figlio Francesco

Si era nel dopoguerra, i contadini lasciavano la terra e l’affidavano alle mogli, un salasso memorabile. A Milano bisognava cercare casa e lavoro e nel cercarlo era necessario dimostrare di avere voglia di fare, capacità, carattere, dignità; e occorreva stare attenti a non pronunciare mai la parola “sfortunato”: Milano voleva gente che vince, scartava i perdenti. E i meridionali sbarcati nel capoluogo lombardo dimostravano di volersi inserire, di essere all’altezza di una città che sa donare, ma vuole in cambio la bravura, la serietà, l’impegno. Gallizzi andò a Sesto San Giovanni, la città delle industrie che negli anni sono diventate reperti archeologici. All’epoca c’erano imprenditori illuminati che rispettavano i dipendenti, creavano per loro asili-nido, vacanze, scuole serali per farli crescere, istruirli, scuole professionali per arricchire i loro mestieri, le loro esperienze.
Questo libro è anche un compendio di storia. Gallizzi, casa a Sesto San Giovanni, descrive il passato e il presente della città che ha vissuto, con sapienza, ne fa la radiografia. Ma disegna con tratti decisi anche Milano: Brera, il Bar Giamaica, dove si riuniva la crema dei critici musicali, cinematografici, teatrali, d’arte, degli scrittori, da Salvatore Quasimodo a Emilio Tadini, pittori come Kodra a Carrà, Crippa. Vi faceva una sosta Mussolini che la mattina, andando al “Popolo d’Italia”, prendeva il caffellatte.
Gallizzi e Montanelli

In queste pagine campeggia anche un efficace ritratto della mala dell’Isola e di Porta Genova, le “falene” di via Larga, i night, i trani. Tutto il panorama della città a cui Gaetano Afeltra ha dedicato un volume: “Milano, amore mio”. Don Gaetano conosceva tutto dei percorsi del Porta, del Savini, del Biffi: i ristoranti che emanavano profumi in Galleria e accoglievano i nomi più illustri del mondo. Riferisce persino l’anno, il 1929, in cui sotto le guglie del Duomo arrivò la pizza.
Gallizzi non demorde, scavalca i sassi che incontra, fa il rodaggio in una serie di giornali, tra cui “Il Giorno”, “La Notte”, giorno dopo giorno acquista spessore professionale, sa che cosa aspetta il cronista appena esce di casa, il mattino o la notte: un cronista non ha soste, non ha feste consacrate, vigile anche a Pasqua e a Natale. Lui è pronto per far parte della basilica del giornalismo e finalmente vi entra non dalla sacrestia, ma dal portale principale. Rimane sbalordito dall’atmosfera, dai passamani lucidi, dalle scale brillanti, dal tavolo alla “Times”, dall’ordine, dalla disciplina… E’ il suo giorno migliore, in cui incravattato si presenta al pontefice e poi si sente chiamare signor Gallizzi dai collaboratori di piano. Conosce firme celebri: Montale, per esempio, con il suo aspetto di parroco di campagna. Lanocita fa il critico cinematografico ed è scrittore consacrato. Gallizzi incontra il mito, Gaetano Afeltra; Indro Montanelli. Il ragazzo venuto da Nicotera, in terra di Calabria, per fare il suo ingresso al “Corriere” ha fatto la sua gavetta e ha conquistato il titolo di cronista, una conquista importante, quasi nobiliare. Pronto a tutto, rispettoso dei fatti di cui si occupa, li racconta con onestà, senza enfasi, senza ricami, ma così come li ha visti, come li ha vissuti. Il suo nome circola, viene rispettato. Da inviato tiene la valigia in anticamera, per afferrarla subito e partire. Quando il “Corriere” chiama bisogna essere già sul posto indicato.
Giovanni Raimondi e Pier Maria Paoletti

Ormai è chiaro che Giuseppe Gallizzi è nato giornalista. Ha imparato la tecnica del mestiere, ma lui è già un Tito Livio moderno. “Eravamo in via Solferino” è un libro che si lascia leggere con piacere: contiene nomi di cronisti noti e stimati, che fanno parte della scuderia: Alfredo Falletta, Max Monti, Arnaldo Giuliani, Fabio Mantica, Alberto Berticelli, Paolo Longanesi..... Gallizzi parla con l’orgoglio del figlio per un padre eccellente. Passando da una pagina all’altra, sfilano i ritratti di Alberto Cavallari, che “era un ingegno multiforme”; Giulio Nascimbeni tra l’altro biografo di Montale; Ugo Stille, un americano a Milano; Paolo Mieli, Giovanni Spadolini, Franco Di Bella, “il mago della cronaca nera”. Se non ricordo male fu proprio Di Bella a inventare l’etichetta di “solista del mitra” per Luciano Lutring, per la custodia di violino trovata nell’androne di un palazzo da cui il fuggiasco era stato visto uscire. Di Bella era una mente. Con gli articoli di cronaca ogni giorno imponeva alla sua squadra un viaggio attraverso la città e quei cavalli murgesi galoppavano infilandosi in luoghi oscuri, impervi, a volte pericolosi per strappare un briciolo di notizia o uno “scoop”, come accadde a Paolo Chiarelli in una roccaforte della droga con sentinelle dappertutto pronte a segnalare la presenza di sconosciuti o delle forze dell’ordine.
“Eravamo in via Solferino” appassiona, affascina., rapisce: descrive incisivamente personaggi, situazioni, luoghi, episodi, tra cui l’uscita e il rientro del grande Montanelli al “Corriere”. Arrivato all’ultima pagina, il lettore è più ricco: conosce molte vicende del giornalismo italiano, spesso tormentate. Le penne d’oro sono descritte con l’efficacia del pennello di un pittore. Ed emerge la figura di Ferruccio De Bortoli, il più recente comandante del bastimento: carismatico, simpatico, cortese, preparatissimo anche sulla storia e le storie di Milano. Salito in plancia nel ‘97, “fra tutti quelli che si sono avvicendati al vertice del ’Corsera’ in questi ultimi anni De Bortoli è forse il più corrierista”. Era entrato giovanissimo al “Corriere dei ragazzi”. Da lì caporedattore alle pagine di economia, vicedirettore, al vertice del tempio. Uomo di vasta cultura e dai modi da gentiluomo, energico, inflessibile, capace di “tirar fuori le unghie fino all’aggressività”.
Gallizzi e Alberto Sordi al Circolo della Stampa

Poi per tutti arriva il momento della pensione e anche per Gallizzi è arrivata quella scadenza. Ma ha aperto un’altra, fondando “La voce del giornalista”, e lotta ancora per mantenere la sua lista ben salda all’Ordine dei giornalisti.
E’ stato presidente del circolo della Stampa, dove ha ricevuto personalità come Rita Levi Montalcini, Romano Prodi, attori come Alberto Sordi.. In una foto appare Gallizzi in cima a uno scoglio, come la vetta del “Corriere”.
Un libro da non lasciare in libreria. Presentato da Vittorio Feltri, e con una dotta prefazione di Vincenzo Sardelli, brindisino, laureato in Lettere alla Cattolica di Milano, insegnante di italiano e storia; collaboratore di più giornali, ha scritto articoli di antropologia, filosofia, storia, letteratura e sociologia. Di Gallizzi dice che era un capo garbato e che la sua porta anche al Circolo della Stampa era sempre aperta. Gallizzi è cordiale e disponibile anche nella vita.

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