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mercoledì 24 settembre 2025

Taranto, luoghi, personaggi, panorami


LA BELLEZZA DI UNA CITTA’ RACCONTATA CON AMORE

 

 



via D'Aquino (coll. De Florio)
I tramonti, il mare, le barche, i vicoli, piazza Fontana, via D’Aquino, il Ponte Girevole, il Castello Aragonese, la via di Mezzo, la ringhiera: gioielli che su un piatto d’argento offre la città.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
Lo scrittore Giacinto Peluso insegnava lingua francese all’Istituto Magistrale Livio Andronico, in corso Umberto, quando cominciai a frequentarlo.
Giacinto Peluso e Nicola Mandese

A scuola era severo e implacabile, ma nella vita quotidiana tutt’altro. La severità era un suo metodo educativo: in aula non bisogna solo far conoscere Dante e ”Apollinaire”, ma formare, far crescere, insegnare agli allievi la vita. Lo incontravo spesso alla Libreria Filippi, in piazza Maria Immacolata, di fianco al portone dell’abitazione di Alfredo Nunziato Maiorano. A volte era in compagnia di Piero Mandrillo, il pulsanese ribattezzato tarantino.
Un giorno su un pullman, affollatissimo, quindi tutti stretti come olive in un barattolo, mi sentii chiamare con una voce perentoria, mi voltai e vidi emergere appena una specie di melone, poi un volto. Trinciai la folla, mi avvicinai, osservai una persona che mi parlava, ma non riuscivo a capire chi fosse. Mi disse “Io ti leggo sul ‘Giorno’, bravo” e io continuavo a farmi domande. Dandomi la mano, mi domandò: “Tu mi leggi sul ‘Corriere del Giorno?”. E allora avrei voluto abbracciarlo: lo avevo finalmente riconosciuto.
Ero già in pensione, ma ancora presente nelle pagine del mio giornale: una pagina intera settimanale sul gioco del lotto dal punto di vista demologico: superstizioni, sogni, “assistiti”, figure che Luciano De Crescenzo ha delineato molto bene e in modo divertente, in “Così parlò Bellavista”. Volevo raccontare il gioco del lotto a Taranto e domandai aiuto a Peluso. Presto fatto: “Pubblicai un libro trent’anni anni fa, te lo presto e quando sarà uscita, fra qualche mese, la nuova edizione, te la manderò”.
Il Ponte Girevole

Divorai il suo testo, che in un capitolo soddisfaceva le mie curiosità, compresa la sede del gioco, i ragazzi che il sabato si sparpagliavano per la città distribuendo foglietti con le combinazioni vincenti, gli atteggiamenti al botteghino e tanti altri particolari, compreso il bancolotto della città vecchia, a un passo dalla chiesa di San Giuseppe.
Era una fonte inesauribile, Giacinto. Ha scritto tanto su Taranto: luoghi, personaggi curiosi, come don Catavete e donna Pernice, Pezzechicchio e Cuppulone; personalità di alto livello, sacrari di cultura come la biblioteca Acclavio…
A Milano continuavo a seguirlo, perché Carlo Maria Lomartire, presidente della società editrice, in cambio della mia collaborazione con “Il Corriere”, mi faceva mandare il quotidiano in omaggio. Per questo potevo leggere le notizie della mia città; le cronache dal Palazzo di Giustizia di Roberto Raschillà; l’intervista del direttore Riccardo Catacchio a Foggia al nuovo arcivescovo, Papa, che stava per trasferirsi nella Bimare…
Il giorno in cui presi il treno per Milano nella valigia avevo tutto quello che serve e copie del “Corriere”. Ricordo i nomi dei colleghi che vi lavoravano, da Domenico Casulli, poi diventato notaio, a Ventrella, a Pasquale Scardillo, esperto di sport; da Di Battista a Franco De Gennaro; da Vincenzo Petrocelli a Livio De Luca, a Mario Ligonzo... Tani Curi lo ritrovai nella veste di caporedattore in via Fava, la vecchia sede del mio giornale.
Giovanni Acquaviva e il pittore Antonio Rolla

Nei ritorni non mancavo mai di fare un salto in redazione, prima in via Mazzini, poi in via Di Palma, ai Beni Stabili, in piazza Maria Immacolata, al primo piano del palazzo che ospitava il famoso “Cin cin bar”. Per la verità in quest’ultima sede, in cui era direttore Dino Salvaggio, ci sono andato poche volte, ma perché soggiornando a Martina Franca, non avevo sempre un’auto a disposizione.
Anche “Il Corriere del Giorno” fa dunque parte dei miei ricordi più assidui. Ci entrai per la prima volta quando non avevo ancora diciotto anni: “Il Corriere” ha cullato il mio sogno di diventare giornalista. Allora veniva confezionato in piazza Garibaldi, di fianco all’ingresso del Palazzo che ospitava il Tribunale, l’istituto per geometri e ragioneri, e dall’altro ingresso, di fronte al monumento ai Caduti, il Liceo Classico “Archita “. Ricordo le cronache dei grandi processi nella Corte d’Assise riunita a Taranto, con principi del foro come Alfredo De Marsico e nei banchi riservati alla stampa, Gennarini, corrispondente della “Gazzetta del Mezzogiorno”, e il professor Angarano, del “Giornale d’Italia”, genero del titolare della Sem, Messinese, che accendeva i saloni al piano superiore, per le danze, le conferenze, i convegni ed altre attività.
via Garibaldi

A pochi passi c’era l’ufficio di corrispondenza del “Messaggero” guidato da Lippolis, che abitava qualche piano sopra, e di fronte la caserma dei carabinieri. Alcuni ricordi m’intristiscono ancora. Per esempio, quello del colonnello Giovanni Carrino, a scuola sempre 9 e 10, poi ingeneria, sempre con ottimi risultati, poi la marina e vice-comandante di un sommergibile, in cui un giorno si sprigionarono le fiamme, Carrino accorse da casa e ci lasciò la vita. Io ero al “Giorno” e lessi la notizia in tipografia, con gli occhi umidi: Carrino era mio amico.
Del “Giorno” mi seguono nel pensiero i colleghi più cari e il profumo del piombo, poi sostituito dalle nuove tecnologie. Mi vengono in mente anche i fotografi, che avevano il laboratorio al decimo piano; tra questi Lorenzo Pizzamiglio, che tutte le sere veniva a sedersi a un tavolo della cronaca e leggeva i quotidiani; e se arrivava la notizia, risaliva come un fulmine i piani, si attrezzava e sostava in portineria in attesa del cronista.
Una notizia la captai proprio stando a Martina, scorrendo le pagine del “Corriere del Giorno”: gli ori di Taranto in partenza per una mostra a Milano. Erano già esplose le polemiche e l’idea di un referendum. Protestò anche Nicola Caputo, grande storico della Bimare, perché si temeva che dal capoluogo lombardo gli ori non sarebbero più tornati o sarebbero tornati rovinati. Corsi a Taranto, contattai il presidente dell’Ente per il Turismo, Costa, il vicedirettore del Museo e altri. Il giorno dopo uscì sul “Giorno” un titolo su otto colonne, confezionato dal vice-direttore Enzo Catania: un vulcano.
Antonio De Florio a piazza Fontana

Sono molto legato a Taranto. E nei miei rientri trovo sempre novità, cambiamenti, persone che non vedevo da 40 anni. Anni fa mi venne incontro sotto casa mia il poeta Diego Fedele; un’altra volta incontrai Claudio De Cuia e ancora Nicola Caputo in via Mignogna, nel punto in cui si apriva la Galleria d’arte di Mario Ligonzo, e poi Umberto Vernaglione, campione italiano di pugilato, che abitava in via Giusi. Una bravissima persona e un grande sportivo.
Ancora oggi amo fare un pellegrinaggio fra i luoghi che avevo frequentato di più, soprattutto via Garibaldi, nella città vecchia, dove la vista “d’u mare peccerjdde”, m’incanta. Il mare che ispirò poeti e pittori e ad Alfredo Lucifero Petrosillo il poema “U travàgghie d’u màre”, il mare che s’infuria, si placa, emette una musica dolce che fa sognare; il mare che si riempie di stelle quando è illuminato dalla luna; il mare che si sposa con un altro mare, il Grande, padrino il canale navigabile: il mare di Taranto, la città che mi ha dato i natali, il mare a cui torno per amore; Il mare di Alfredo Nunziato Maiorano, autore di “Tàrde vècchie mjie”, dove lui tornava per ascoltare il dialetto dalla voce dei pescatori: “schife”, “’mbòte”, “stangachiàzze”, “sciabulone”…
Il mare visitato costantemente da Antonio De Florio anche per realizzare i suoi video eccezionali; il mare sognato dai tarantini trasmigrati nel capoluogo lombardo; il mare di Nicola Giudetti, il “re” del borgo antico”; di Nicola Cardellicchio, che vanno ad ammirarlo tutte le volte che possono e poco ci manca che vi si genuflettino. Mare Picce è sacro. Su quella riva conobbi, quasi settant’anni fa, i venditori di frutti di mare e vidi le prime volte le barche colme di mitili, “còzze gnòre”, ancora attaccate “a le zòche”.
Giuseppe Francobandiera

Quante volte ne ho parlato con Filippo Alto, il grande pittore barese che nella sua casa milanese e in quella di Figazzano ritraeva la Puglia anche per la rivista “Qui Touring”, di Mario Oriani, e la celebrava con le sue mostre anche oltreconfine. Nella Bimare venni anche per assistere a una commedia di Eduardo recitata dal figlio Luca, nell’ambito di una grande iniziativa di Giuseppe Francobandiera, direttore del Circolo Italsider: il “Teatro sull’erba”. Francobandiera! Quante idee, quanti progetti, quante invenzioni. Fu il primo a pubblicare con l’Italsider un libro sugli ori di Taranto. Realizzava senza rumori, con umiltà: esposizioni, conferenze tenute da grandi nomi (Morando Morandini, Gianni Brera...), concerti nelle chiese… Eh, Peppino, strappato troppo presto a questa città, che aveva bisogno di lui. Generoso, sincero, grande intellettuale, come affermava anche Piero Mandrillo, che mi parlò molto di lui durante un pranzo a casa mia a Milano. Giuseppe veniva dalla Lucania, che vuol dire luce. Quante volte ci siamo incontrati alle feste che Filippo Alto, il vichingo, organizzava a Figazzano (una volta c’erano anche il ministro Vernola, il critico d’arte Raffaele De Grada arrivato da Milano, Giuseppe Giacovazzo e altre personalità). Ho letto i suoi libri, li ho riletti. E ricordo le parole di Franco Zoppo: “Sarebbe stato un ottimo sindaco”.

 

mercoledì 17 settembre 2025

Al Frantoio Rosso Ipogeo di Martina


LO SPLENDORE DELLA PUGLIA NEL FASCINO DI UNA GROTTA

 

 

Angolo dell'Ipogeo
Al professor Francesco Lenoci la parola per  presentare il bellissimo libro di Enzo Rocca: “Puglia nel cuore”. Tantissime foto di Trani, Ostuni, Manduria, Sava, Martina, Polignano a Mare, Taranto, Lecce, Brindisi, Foggia, Polignano a mare, con il monumento a Domenico Modugno. 

 

 

 
 
 
 
 
 
 


 
FRANCO PRESICCI
 
 


Una foto può essere un ricordo, il racconto di un incontro, la testimonianza di un viaggio. E può suscitare emozioni, rimpianti, nostalgie. Il bellissimo volume di Enzo Rocca, “Puglia nel cuore”, è la testimonianza di un amore per questa regione così ricca di luce, magia, gioielli paesaggistici… Per otto anni Enzo Rocca è andato in giro per la Puglia in compagnia di Francesco Lenoci, a perlustrare, osservare, ammirare, sempre con la sua macchina fotografica a tracolla per cogliere, catturare immagini, come un cacciatore in attesa dell’uccello di passo. Quest’opera di Enzo Rocca non va sfogliata: le vedute invitano a soffermarsi su ogni pagina, tanto è il piacere che si prova puntandovi lo sguardo.
Il monumento a Modugno

E’ un libro da guardare meditando sulla bellezza di città e paesi, sul loro fulgore. E’ stato lungo l’itinerario dell’autore, un artista, da Taranto a Molfetta, a Trani, a Polignano a Mare, la città di Domenico Modugno, a Martina Franca, la città dei trulli e del Festival della Valle d’Itria; delle vigne nane e dei tratturi che tagliano, separano un fondo dall’altro; della terra rossa immortalata nelle tele di Filippo Alto; degli ulivi saraceni dalle sagome imponenti e dalle radici profonde; delle spiagge dorate; delle case biancolatte; delle “cummerse” (a Locorotondo).
Lo immagino, Enzo, mentre sgamba per strade a volte impervie, brecciose, per arrivare a un campanile, a una fabbrica di ceramiche o a una casa incappucciata particolare, come il Trullo Sovrano di Alberobello. Molta fatica, vero Enzo? “No, se ti guida la passione, la gioia di fotografare una meta desiderata”. E’ alto, sottile, qualche capello bianco, stile atletico, tanta energia. Affronta le mete con la forza e l’agilità di un maratoneta e quando intercetta la scena giusta scatta. “La fotografia – dice – è un incontro. Ed ecco in questo libro agenti di polizia su un terrazzo a Trani; una festa di matrimonio; un titolare di “souvenir” che discute con un cliente; un venditore che colloca cozze nere sulla bilancia; un negozio di alimentari con peperoncini appesi.
Rocca e Lenoci


Ed ecco Francesco Lenoci con il suo sorriso comunicativo conversare con un fabbricante di suggestivi vasi di terracotta; un porto museo a Tricase… E le spiagge affollate, i bagnanti sparpagliati nel mare, le barche, vicoli, fanciulle a passeggio… Enzo coglie stupende linee architettoniche, centri di arte e cultura e monumenti, accerchiato dai turisti che magari canticchiano “Nel blu dipinto di blu” o “Piove”, nella sua città natale. Modugno, orgoglio della Puglia, padre di tante canzoni che hanno fatto il giro del mondo e continuano a farlo. Rocca e Francesco sono stati accolti dalla gente come due divi in vacanza e l’obiettivo fotografico ha avuto il suo bel da fare nel riprendere policrome tavolate e cucine nel momento della preparazione dei cibi. Niente è stato loro impedito. Erano considerati compaesani conosciuti da tanto tempo, anche se li vedevano per la prima volta. E Rocca faceva “clic” su tutto ciò che stimolava il suo interesse di artista.
Ed ecco le strutture rurali. In una pagina del libro Rocca commenta: “Le masserie pugliesi sono il simbolo vivente di un legame antico e profondo con la terra”. Queste grandi tenute, incastonate come un brillante su un anello prezioso su terreni ricchi di uliveti e muretti a secco, “raccontano storie di lavoro, tradizione e comunità…”. Le masserie sono il fulcro della fatica contadina, dell’uomo che si alzava all’alba e rientrava al tramonto per alimentarsi con un cibo umile: pasta e cicoria e un pezzo di pane.
Enzo Rocca
Rocca ha visitato tante masserie, compresa l’Amastuola di Crispiano, corredata da vigneti-giardino e ulivi secolari che si susseguono come una galleria vegetale; e masserie con la Cappella, gli animali da cortile e i buoi sulla stoppia giallastra, i cavalli, la legnaia e i “pareti”, la stalla, ampie stanze con il camino... Si è affacciato nei b&b dai piazzali fregiati con siepi di alloro e agrifoglio, ulivi. E’ entrato nella Masseria Pavone, dotata di neviera e di piscina, di trulli e di ulivi. Una foto riprende persone sedute su balle di paglia con gli occhi ai fuochi di artificio di Locorotondo... Ha ripreso anche un forno a legna e tavole con pane ancora caldo, pronto per essere distribuito con il suo profumo caratteristico.
In alcune pagine, una mensa nuziale. “La tavola pugliese è un ritrovo di convivialità e di tradizione, il luogo dove il cibo diventa protagonista e il pasto è un momento di celebrazione”. Nella cucina pugliese ogni pietanza ha una sua storia; le ricette della nonna sono state rivalorizzate e oggi esportate in alcuni ristoranti anche del Nord. Le orecchiette con le cime di rapa sono una prelibatezza: a Bari, nel borgo antico, Rocca ha ritratto donne che fanno piccole “cupole” di pasta all’aperto, magari sotto gli occhi della gente che viene da lontano.
La neviera

Poteva mancare il venditore di ricci di mare? E’ qui, colto abilmente da Enzo Rocca, dopo la braceria “Rosso di sera” a Martina Franca e la macelleria Ponte “Mang’e citt” da Riccardo, con Francesco Lenoci estasiato. Alle spalle un ritratto di Padre Pio. Seguono trattorie a Monopoli con giovani seduti ai tavoli; Casa Pizzigallo a Martina Franca; un ragazzo che in sella a una bici a San Vito dei Normanni pedala velocemente sfiorando un Caffè chiuso; il Bar Adua a Martina, tra via Mercadante e via Taranto, un luogo storico, dai dolci rinomati. Forni antichi, pali con pizze odorose e allettanti panzerotti. Spiccano la gloria del lavoro ad Alberobello, un negozio di tessuti a Martano, un impianto per la produzione del vino a Manduria, Lenoci che guarda gli attrezzi contenuti in un museo della civiltà contadina nella stessa Manduria, sartorie … Insomma l’ex vice-direttore generale bancario con il cuore alla fotografia, Rocca appunto, ha percorso tutta la Puglia, questa terra deliziosa, ospitale, spalmata di luce.
“Puglia nel cuore” è stato presentato sabato 23 agosto al Museo Frantoio Rosso Ipogeo di Giuseppe Semeraro a Martina Franca; un luogo straordinario con i soffitti e i muri di pietra calcarea, la neviera, la macina e altri oggetti che richiamano un tempo remoto, di cui il figlio del titolare sta scrivendo la storia. Sono riuscito a scambiare due parole con il padrone di casa, che ha acquistato il luogo 19 anni fa, lo ha restaurato con passione e competenza, secondo canoni ortodossi. Era un pezzo di storia abbandonato, a cui Semeraro ha ridato, impreziosendolo in ogni angolo, ogni anfratto, ogni nicchia con una sua luce fascinosa. La luce qui ha un ruolo importante; i suoi lampi policromi creano un’atmosfera da sogno.
In questa grotta stupenda, quasi fiabesca, il professor Francesco Lenoci ha parlato di “Puglia nel cuore”, accennando ad Alda Merini, che visse per quattro anni in una villa del poeta Michele Pierri a Crispiano; ai martinesi che
Lenoci, Semeraro, Rocca

tornano sempre al nido, all’incantevole Valle d’Itria, terra benedetta da Dio, come affermava Alessandro Caroli. Poi ha preso la parola l’autore, che ha definito il suo libro una narrazione per immagini, frutto di un lungo viaggio durato ben otto anni: un viaggio ricco di gemme, di colori, di fisionomie, di contatti, di panorami, di scoperte.
Ha colto l’anima della Puglia, Rocca, guidato da Lenoci, che conosce la regione come le sue tasche. Conferenziere itinerante, intellettuale rigoroso, viaggiatore instancabile, curioso, avido di notizie, ha rivisitato con gioia la sua culla e al microfono l’ha descritta con termini che hanno coinvolto il pubblico, tra cui la scrittrice Maria Carmela Ricci (“Quella nevicata del ‘56”: un successo) e il tenore Gianni Nasti.
Rocca, l'attore Montanaro, Lenoci
Rocca si è soffermato su questo suo percorso fotografico, precisando che non lo ha realizzato da fotografo, “perché tale non è” (viva la modestia), ma da semplice innamorato della bellezza, aggiungendo che le sue sono cronache visive, ispirate da una realtà meravigliosa giorno per giorno. Non è questo il suo primo libro. Rocca ama captare ogni novità, ogni momento spettacolare, ogni veduta che ristora lo spirito, i momenti di divertimento, le persone, i gruppi, le feste, i tetti, le donne che, sedute sulla soglia di casa, scrutano il movimento nella strada, magari poi per commentare un abito, un atteggiamento, un discorso. Insomma Rocca ama cogliere la vita e tutto quello che la riguarda. Il suo è un libro “raccoglie” la Puglia e i suoi palpiti, le sue armonie: la sua bellezza. Il suo incanto.

 

mercoledì 10 settembre 2025

Il grande fotografo Carmine La Fratta

GUARDA LA REALTA’ QUOTIDIANA  CON L’OCCHIO DELL’ARTISTA

 

 



Carmine La Fratta
In ogni occasione, feste, manifestazioni civili,
cerimonie militari, è presente con la sua macchina fotografica puntata sui momenti più significativi.


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
(foto di Carmine La Fratta) 
 
 
 
Da tempo Carmine La Fratta, fotografo bravissimo e infaticabile, pensava di andare a cercare a Napoli i vicoli di Totò e di Eduardo De Filippo; e i “luoghi” descritti da Matilde Serao nel suo libro “Il ventre di Napoli”, del 1884: “Case dove vive e mal vive il popolo, in questi ‘bassi’ che sono già oscuri, oppressi, angusti nelle più grandi e che nei vicoli, in cento vicoli, in mille vicoli diventano delle stamberghe sotterranee, quasi diventano degli antri, dove si agitano e brulicano vite umane…”.
Vicolo di Napoli con Totò

Alla fine La Fratta si è messo al volante ed è corso nella città partenopea, quella di Luciano De Crescenzo, ingegnere, filosofo, sceneggiatore, attore, scrittore (“Così parlò Bellavista” e altro); di Giuseppe Marotta (“Mal di Galleria”, “Le Milanesi”...), facendo un tuffo in quelle vene che ricordano anche Nino Taranto e Maradona, fissato anche in un murale che giganteggia sull’intera facciata di uno palazzo.
La Fratta aveva realizzato il suo desiderio e rimase qui cinque giorni, ritraendo botteghe; ambulanti, alcuni con le mani piene di cornetti apotropaici color rosso; immagini disegnate dappertutto, sulle porte, negli androni, sui muri del principe de Curtis nelle espressioni dei suoi film più famosi; di Peppino e di Edoardo De Filippo, Nino Taranto, nella finzione scenica “Ciccio Formaggio”… E non poté fare a meno, La Fratta, di inoltrarsi in San Gregorio Armeno, famoso in tutto il mondo per i negozi di statuine realistiche, ben sagomate, dal pescivendolo al pizzaiolo, di presepi che a Napoli in passato addirittura un sovrano e sua moglie amarono costruire.
Totò e Peppino a Napoli in un vicolo

Eccolo, La Fratta, nel rione Sanità, che dà il titolo a una delle commedie di Eduardo, e nelle vie, viuzze, che Curzio Malaparte percorse nel ‘43 e nel ‘44 con il maggiore Jack, non dimenticando altri pezzi della città, come il Pallonetto, il vico San Liborio - quello citato da Filomena Marturano nella celebre commedia eduardiana, in cui “fra l’altro d’estate non si respira per il caldo”. La realtà dei vicoli e dei “bassi” è oggi un po’ diversa da quella descritta da donna Matilde, ma La Fratta, girellando con il suo carico professionale, ha scoperto curiosità che colpiscono chi guarda le sue foto: brani di vita che in parte sopravvivono, antiche atmosfere, fondachi. E facce, sorrisi, atteggiamenti: un’antologia che prima o poi il fotografo raccoglierà in un volume.
Da quel viaggio è tornato a Lama, dove ha casa e laboratorio, più che soddisfatto, pronto a seguire un altro itinerario: i borghi disabitati, con le sole presenze di un vegliardo legato indissolubilmente alla sua terra, alla sua culla come l’edera al tronco di un albero o a una parete, un gatto, un cane che non si guardano neppure. Insomma il tarantino La Fratta è uno zingaro dell’arte della fotografia, un testimone attento, scrupoloso, quasi “gemello” del notissimo e molto apprezzato Fulvio Roiter, che ha pubblicato libri fotografici sul carnevale di Venezia, sui navigli di Milano, facendo acrobazie per riprendere un aspetto nascosto di un ponte, una luce, un’architettura. A La Fratta interessano anche i visi, le espressioni, la gente, le folle. Per questo lo vediamo impegnato alle feste grandiose di paesi e città, come quelle in onore di San Giuseppe.
Festa a San Marzano con gli ulivi
La ricorrenza è appena passata, ma lui fa circolare i suoi “quadri”; riprende gli artefici delle tavole dei santi a Lizzano, a Fragagnano, interpella, interroga, dialoga, apprende e scatta. Lui vuole conoscere chi mette in piedi una festa, la storia di un evento che richiama migliaia e migliaia di persone, che svuota paesi di appassionati che si riversano in quello in cui la manifestazione si snoda.
A San Marzano di San Giuseppe ha, sì, fatto molti “clic” sulle montagne di rami di ulivo portati dai trattori e dai carri o trascinati da volenterosi ed eccitati cittadini, entusiasti del ruolo loro assegnato. E si chiede perché l’ulivo, quest’albero dallo zoccolo poderoso, dal tronco a volte contorto, come in preghiera o piegato e appoggiato a vecchi mattoni come un vegliardo al bastone. L’ulivo è una pianta nobile che ci dà nutrimento; attecchisce ovunque, resiste alla mancanza di ogni tipo di alimento, ad ogni clima. A San Marzano di San Giuseppe proviene dalle potature eseguite in tanti fondi. L’ulivo è bello a vedersi, spesso è secolare: lo è a Savelletri, nei pressi della città bianca: Ostuni, dove fa compagnia a qualche carrubo. Qualche esemplare giganteggia anche a Martina Franca, in questa o in quella masseria. L’ulivo ha la sua storia, viene da Paesi lontani, ha anche a che fare con la vita di Gesù: è sotto il Monte degli Ulivi che si ritirò il Salvatore dopo l’Ultima Cena. Meravigliose le foto che La Fratta ha dedicato a quest’albero.
Domenico Porzio a Taranto
Lo abbiamo ritrovato anche a Lizzano, La Fratta, dove ha fotografato le tavole imbandite per il Santo falegname, padre putativo del Cristo. Quelle tavole ora sono vuote, perché il bendidio che contenevano è stato donato ai poveri e ai turisti. Ma il fotografo zingaro ha trovato residui della festa interessanti. E ha fatto numerosi scatti anche a Fragagnano, nella stessa occasione della celebrazione di San Giuseppe. Dappertutto ha immortalato i falò, montati anche qui con cataste di rami di ulivo con l’aggiunta di mobili disusati. Fiamme altissime, come un onore al cielo. E alla fine i fuochi d’artificio, opere d’arte che a mezzanotte disegnano stelle pulsanti in alto e si spengono a poco a poco. Entusiasmano, esaltano quelle piccole luci che esplodono costruendo corolle nel buio. II fotografo errante ha già altri fuochi da cogliere, oltre ai borghi deserti, dai quali gli abitanti fuggono o sono già fuggiti perché quelle vie non hanno più niente da offrire, soprattutto ai giovani in cerca di un avvenire sicuro. Restano i muri, qua e là solidi, abbracciati, con porte e finestre serrate. Ne ho visitato qualcuno: di abitanti ce ne sono, c’è anche il consiglio comunale, ma più paesi sono accorpati amministrativamente. Sui tanti portoni è incollata la scritta: “Si vende”.
Maradona sulla facciata di un palazzo a Napoli
Dà amarezza un guscio che si svuota, un rifugio abbandonato, un’alcova deserta. E amarezza producono certi vicoli di Napoli (con il gabinetto di decenza in comune) che hanno cambiato fisionomia, come molte case di ringhiera a Milano. In quei vicoli echeggiano ancora le storie di Eduardo, come “Napoli Milionaria”, film del ‘50 con interpreti lo stesso Eduardo e Titina De Filippo, Totò, Carlo Ninchi...; “Gli alunni del sole, del ‘52, di Giuseppe Marotta sulla vita di ogni giorno nei vicoli e nei “bassi” di Napoli…”.
Ricordo “Così parlò Bellavista”, opera di De Crescenzo degli anni ‘80, in cui l’autore parla anche degli assistiti, quei personaggi, assistiti non si sa da chi, che sostengono d’indovinare per gli altri i numeri “d’a bonafeciàte”, com’era detto il lotto non soltanto a Napoli, città bellissima, canora, con il profumo del mare, il calore del sole, l’ospitalità, l’intelligenza, l’inventiva della gente, esaltati anche nelle canzoni che hanno fatto il giro del mondo.
Settimana Santa a Talsano nel 2009
Ogni vicolo una storia, una caratteristica. Al Pallonetto di Santa Chiara alla fine dell’800 c’erano gli uffici centrali della girandola dei numeri e dei sogni, appunto il lotto, che, per la cronaca, non è nato a Napoli, ma a Genova, si dice dalla fantasia di un barbiere. In piazzetta Ecce Homo echeggia il nome di Matilde Serao, giornalista, scrittrice, fondatrice e direttrice di giornali, dallo stile caustico, che in un “basso” abitò per qualche tempo con i genitori quando tornarono dalla Grecia. Donna Matilde conosceva dunque bene i vicoli, i negozi, le case, la gente che ha poi travasato nelle sue pagine. Pane per i denti di La Fratta, attratto anche dai vicoli degli artigiani, gi Spadari, per esempio, che hanno vie anche a Milano; l’Armorari, traverse della lunga e popolosa via Torino.
Settimana Santa a Talsano
E come nella città del Porta esiste il vicolo dei Lavandai, attraversato dal “ricciolino” d’acqua sfuggita al Naviglio Grande, anche Napoli ha il vico Lavinaio.
Ripeto, non sono più i vicoli di Matilde Serao, riportati nei suoi libri, nei suoi racconti con tutto ciò che contenevano. Adesso, per dirne una, il volto e le geometrie realizzate sul campo dal “Pibe de Oro” ricoprono intere facciate di palazzi anche di cinque piani. Le immagini di La Fratta, icastiche, toccanti, fanno palpitare l’osservatore. Come quelle dei flagellanti scattate non so dove. Come quelle della Settimana Santa a Taranto, dove lo si è visto sgattaiolare, tra sdanghieri, “perdùne”, “fratelle”, la folla che trasforma in corridoi le strade attraversate dalla processione. La Fratta è spettatore-fotografo, artista rispettabile in mille occasioni.

mercoledì 3 settembre 2025

Il 6 e il 7 settembre a San Simone

LA SAGRA DEL PEPERONCINO PICCANTE E LA GRANDE FOLLA DI PARTECIPANTI

 

 

Mi sono rimasti i ricordi delle passeggiate con Michele Annese e le orecchiette al sugo ricche di “diavulìcchie squànde”. Purtroppo, questa volta, non ci sarò, perché gli anni passano per tutti.

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
Ci siamo. Il 6 e il 7 settembre Sagra del peperoncino piccante a San Simone, frazione di Crispiano. Tutti pronti quindi a riversarsi nella cittadina a un tiro di fionda dalla città bimare, Taranto, che vanta il Mar Piccolo, il ponte girevole, il Castello Aragonese. Amo Taranto, le folle e le idee realizzate a regola d’arte. Come questa festa dedicata al “cornetto” indiavolato, che stuzzica i piatti.
Michele Annese a destra

In questa occasione era Michele Annese che mi dava la sveglia. Una telefonata e una novità: “Quest’anno viene il professor Biagi, un esperto di ‘habanero’ e altre ‘piccanterie’. Ci devi essere, ti aspetto”. Infatti uno “stand” di San Simone aveva un’insegna enorme, “Peperoncini nel mondo”, ed era quello dell’illustre ospite, che veniva da Pisa, dove insegnava all’università. Esponeva peperoncini di ogni tipo e rispondeva a tutte le curiosità degli spettatori. Qualche pianta l’aveva inventata lui stesso e me ne rivelò le qualità. C’erano anche quelli che avevano tenuto il primato in un’apposita graduatoria e quelli che li avevano sostituiti. E’ breve il tempo dei campioni, nel settore. Comunque l’”habanero”, che si coltiva nello Yucatan e infiamma il palato, era ed è ricercato. Non si può andare a tavola con il libro dei primati.
Anche quella volta dunque risposi all’appello di Michele. Riprendemmo il passeggio, ascoltando commenti sparpagliati nella folla: i vecchietti che vantavano proprietà erotiche della spezia e la spargevano sul gelato o sul caffè o sulla mozzarella: “Ma tu hai provato personalmente nell’alcova questo potere del peperoncino?” “Beh, adesso vuoi sapere troppo. Prendi per buono quello che ho detto senza entrare nei particolari”. Un signore attempato ed elegante, cappello tipo Borsalino con una piuma da alpino raccontava che una sera, invitato a cena da un amico, si trovò di fronte a una pasta con ceci… “asquànde” e un commensale, facendo in modo che tutti, proprio tutti, lo vedessero, si calò in bocca un peperoncino intero. Un altro volle imitarlo e stavano per chiamare i vigili del fuoco”. “Davvero?”.
lo stand delle "ficazzèdde"

“Ma no, si fa per dire”. “No, è proprio vero, non è la prima volta che lo racconta”. Una signora imbellettata, vestita come a una serata di gala, diceva a una vicina: “Lo sai che il peperoncino ha una funzione apotropaica?”. “Sììì?”. “Beh, la sua sagoma ha ispirato il corno che i napoletani portano in tasca e lo lisciano e stralisciano ogni volta che c’è pericolo di jettatura”. Abbiamo ascoltato anche questo. E anche altro. “Qualcuno che conosco lo fa pendere dal “gilet” come una “cipolla”, l’orologio da tasca, perché si sappia che è immune dal malocchio”.
Michele – oggi non è più tra noi, purtroppo, ma vive, ascolta e vede da un’altra parte – ed io ci accomodammo su un muretto per ascoltare Giorgio Di Presa - che ha un negozio di erboristeria a Martina Franca - impegnato in numeri di divertente intrattenimento. Ci sbirciò Vito Santoro, virtuoso fisarmonicista, custode di tutte le tradizioni, degli usi e dei costumi di una volta, e ama parlarne con un’apprezzabile “vis comica”. Vito ci concesse un’altra novità: si stava dando da fare per ripristinare la serenata. “Che colpo, Vito! Bravo. Un po’ di romanticismo va rispolverato”. Aggiunse che poi sarebbe toccato all’albero della cuccagna, che s’installava soprattutto nelle feste patronali con tanti spettatori ansiosi vedendo i partecipanti scalare il palo e scivolare finché il grasso non si esauriva. Io credevo che Vito stesse per esibirsi in uno dei suoi piacevoli numeri, ma tradì la mia aspettativa.
Il professor Biagi

La gente continuava a fare la ronda. Chiesi a uno che vendeva le friselle già condite con olio, sale e pomodoro: “Non mi dirà che c’è chi mette la spezia sulla frisella?”. “Glielo dico. C’è chi lo mette. Sono patiti. Del resto ho sentito dire che anche Mao-tsè- tung amasse il peperoncino”. L’ho letto anch’io. Anche fra alcuni nostri politici ci sono adoratori.
Verso le 23 Michele mi indicò un vicoletto: “Lì ci offriranno le orecchiette al peperoncino. Ci sedemmo a un tavolo e una signora quasi ottantenne, bassa, magra, grembiule nero, capelli nascosti sotto un panno bianco, seguita da una piccola fila di ragazze, spalancò la tenda della porta tenendo in mano un piatto fumante. Tra i commensali anche il dottor D’Addario, presidente dell’associazione del peperoncino di Oria. Era una fonte inesauribile d’informazioni: era in contatto con la consorella maggiore che in Calabria, a Diamante, organizza il festival del peperoncino, vinto un anno da uno del Nord, che ne aveva buttato giù 700 grammi e l’anno successivo da un altro concorrente che era arrivato a un chilo.
“Dottore, ho una curiosità: è vero che il peperoncino, fra le sue tante caratteristiche, ha anche quella di solleticare i momenti di intimità?”. Mi dette una spiegazione come dire, tecnica, che per la verità non mi sento all’altezza di riportare. Ma tutto sommato credo, dico credo, che in parte confermasse. Dopo la cena (secondo piatto polpette con peperoncino), tornammo nel grande fiume, continuando a captare i dialoghi spassosi di persone che affermavano di saperla lunga e facevano nome e cognome di signori illustri innamorati della spezia.
Stand di De Lucretiis

Ricordai che un giorno fui invitato a pranzo nella villa di un amico, dalle parti di Maruggio, e la signora mise in tavola una pastasciutta davvero infuocata. Era di origini lucane e pensai che dalle sue parti usassero mettere nel piatto più spezia che pasta. Non avevo mai visto una cosa simile. Stetti un bel po’ di tempo con la bocca aperta, sperando che l’effetto si placasse. Fuori faceva un caldo forte e non ebbi alcun giovamento. Ciononostante, non ho smesso di gradire il peperoncino, in dosi sopportabili.
Alla sagra, dopo le orecchiette, un cuoco raffinato, amico di Michele, ci invitò a gustare la sua pasta e fagioli naturalmente con peperoncino. Sapevamo di perdere una prelibatezza, ma fummo costretti a rinunciare, dirigendoci verso lo stand di Alfredo De Lucretiis, organizzatore con “Gli amici da sempre” della sagra. Lo spazio era adornato di “virgole” roventi: pendevano a mazzi dall’alto, dominavano al centro e in ogni angolo; le collaboratrici erano in tenute di colore rosso. Commentammo la festa: una celebrazione, una santificazione del peperoncino, già incoronato re in ogni dove. Sbucammo nella piazza e ci imbattemmo in Antimo Calò, di Oria, che intrecciava giunchi per mostrare come nasce un cesto. E’ un maestro nella sua arte, come De Lucreziis nella costruzione di presepi di grandi dimensioni, con pane o biscotti scaduti: presepi affascinanti, con montagne e grotte illuminate saggiamente: una favola, una magia, una scenografia bellissima.
Poi ebbero l’idea di lanciare il pomodoro giallo di Crispiano e avevano previsto un’altra sagra. Non si fermano mai, questi “Amici da sempre”, con mogli, figli, nipoti al seguito, sono sempre impegnati in questa e in quella impresa.
Tavolozza di peperoncini

Neppure Michele Annese, che apprezzava la manifestazione, si fermava mai. Quando il centro della cultura, che era la biblioteca “Carlo Natale”, chiuse, lui, già in pensione, istituì l’Università del tempo libero e del sapere, affidandone la direzione alla moglie, la professoressa d’italiano Silvia Laddomada, che ancora oggi, anche in onore del marito, continua un’attività intensa di conferenze su ogni argomento, dibattiti e molto altro e serate con Vito Santoro, che suona, racconta fatti e personaggi di un tempo lontano, con un linguaggio fervido, qualche volta garbatamente allusivo, mai sconveniente, intervallato, da uno “strappo” di fisarmonica.
Michele Annese, come detto non c’è più. E io ai primi di settembre penso alle sue chiamate, alle quali come un soldato rispondevo “Presente”. Purtroppo sono diventato vecchio e la Sagra “d’u diavulìcchie asquànde” posso soltanto sognarla. Come sogno le serate con Michele e Silvia alle feste della Madonna della Neve, del fungo, voluta dal ristorante “C’era una volta”, della lumaca di Liuzzi, del fegatino, i cui odori si spandevano in tutta la via principale.