SUSCITA RICORDI DI FIGURE CARE E DI PAESAGGI NEL TEMPO MUTATI

Il pane sulla pala
Zio Dionigi comperava il pane a forma di trullo, lo trattava come un oggetto sacro e lo conservava in una nicchia, che aveva la forma di un tabernacolo, nelle casedde di Martina Franca.

FRANCO PRESICCI
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il pane appena sfornato |
Ce ne sono volute molte, di bottiglie, per contenerli tutti o quasi. Belli e brutti, non mescolati, ordinati, limpidi, sempre vivi. Già sulla porta m’investe il profumo del pane, questo bene che ha secoli di vita. Lo hanno fatto e lo fanno in tante forme, e una volta anche quella ispirata dai trulli. Piaceva tanto a mio zio Dionigi, un esempio, un modello, per me un mito. Lo mandava a prendere, quando non poteva andarci personalmente, e all’ora di pranzo lo poneva al centro della tavola, ancora caldo. E lo tagliava con delicatezza, quasi con devozione. Non lo spezzava mai; e se cadeva a terra per un gesto sbagliato, lo recuperava, piegandosi, dandogli ripetutamente, come per un rito, ripetuti soffi per cacciar via la polvere: il gesto sembrava una carezza. “Il pane significa tante cose - diceva – ospitalità, generosità, comunione. Il pane significa anche spiritualità. Il pane è sacro, le mani del fornaio sono benedette”. Se ne rimaneva un pezzo lo conservava in una busta, sempre nello stesso posto: una nicchia, accanto alla cucina monacale, che fungeva solo da ornamento, con una pentola al centro.
Oggi, quando vado a trovare Martino Montanaro, padrone e anfitrione del panificio, lo faccio con sentimenti antichi. Martino lo sa e mi regala uno di quei suoi sorrisi serafici e la sua benevolenza, con un gioco di occhiate dietro gli occhiali, che danno tono al suo volto paffuto sormontato dalla calvizie, che non guasta. Lascia il bancone, postazione da cui distribuisce la delizia, subito sostituito dall’assistente.
E’ buono, Martino. E saggio. Multipremiato dai signori della categoria, mostra, all’occasione, con orgoglio, gli attestati. Se glielo si chiede, fa una sintesi della sua storia. In verità io non ne ho bisogno, perché questo luogo è stato la mia meta quotidiana da quando avevo 12 anni (oggi 92) e stava in fondo alla vietta, in discesa, spezzata da un tratto perpendicolare, di fronte a via Mercadante.
Ricordo, e bene, la ragazza che serviva i clienti.
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Martino mostra il èane |
Martino Montanaro è così delicato, generoso, ospitale, che ne ha confezionato uno apposta per me, perché quella sagoma è ormai arte passata. Sembra che con questo gesto volesse premiare la mia fedeltà.
Martino è entusiasta del suo lavoro e anche dei suoi collaboratori, volenterosi e appassionati. Non ho mai sentito un capo parlare così bene di chi gli dava una mano. Del resto trovare oggi un collaboratore disposto a fare sacrifici, tra l’altro disposto a interrompere il sonno a mezzo percorso, non è cosa frequente. Uno dei motivi per cui tante attività si sono dissolte.
Pochi giorni fa, ormai ai margini delle mie vacanze in quest’oasi di pace, che è Martina Franca, anche con la pioggia che cade rincuorando il contadino, che vede finalmente irrorata la sua terra, sono andato a fare visita a Martino, cogliendolo con in mano la pala, che non è più quella di una volta: è più larga, quasi quadrata, e molto diverso è l’ambiente: tutto moderno. Confesso che mi trovavo più a mio agio con quella “bocca” che ingoiava il pane e lo cuoceva. Ma quello che conta è il risultato, il prodotto, il sapore.
Mio zio Dionigi conosceva il padre di Martino, Carlo, e il vecchio proprietario della macelleria collocata di fronte alla Chiesa San Francesco, la cui piazzetta è stata tutta rinnovata anche con zampilli che sembrano sgorgare a suon di musica.
Lo zio, come me, non aveva dimenticato il forno di “mest Petrìne”, a Taranto, che diffondeva odori anche nella nostra via, parallela. A Natale la nonna faceva i taralli, li metteva nella “tiella” e io e mio cugino Enzo, che adesso riposa oltre le nuvole, andavano a portarli al forno. La vecchietta, dal carattere duro e di origine martinese, confezionava anche le friselle. Ma questo è un altro capitolo.
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Carrello del pane |
Lo racconto a Martino, che fa il panettiere da una vita, sempre con amore e quasi gioia. Deve essere bello impastare, sagomare pagnotte, filoni, spighe, informare e aspettare. Ho atteso anch’io, con Martino, e l’ho visto trasportare il pane con la pala dal forno alle ceste. E nell’attesa parlavo di Martina, questa gemma che diventa sempre più bella. Nella città del Festival, che tra luglio e agosto diffonde musica e canti, ho visto le vendemmie, la raccolta delle olive, rappresentazioni liriche nel cortile del Palazzo Ducale e altrove; sono andato tante volte alla scoperta di masserie rinomate, dei boschi, dei tratturi, ho sofferto alla vista di trulli in rovina, ho fatto conoscenze di persone stupende, tra cui Martino.
Un paio di anni fa da lui ho portato addirittura Francesco Lenoci, che ha fatto il giro d’Italia non so quante volte alla ricerca di valori da esaltare e il forno di Martino Montanaro è un valore. Tutta Martina conosce quel luogo, molti possono snocciolare la sua storia, lunga ed edificante. Per il pane Francesco ha una venerazione. Quando affronta i suoi temi preferiti, come il pane, offre chicche che rimangono in mente: come lo si mette in tavola, come lo si deve tagliare... consigli che gli vengono anche dalla mamma e dal padre, Martino, che faceva il sarto ed era un uomo devoto e taciturno. Non gli ho mai chiesto da dove ricavi tutta l’energia, che esprime fra treni, aerei, auto, taxi e sgambate. E’ la fede nelle capacità dell’uomo.
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Il professor Francesco Lenoci |
Martino non farebbe altro che questo mestiere, quest’arte che sa di aria antica. C’è un popolo che non abbia conosciuto il pane? Piacerebbe sapere come lo faceva, quali materie prime utilizzava? I nostri predecessori facevano tante cose, sia pure con sistemi primitivi.
La storia del pane ha radici lontanissime: sono state rinvenute tracce risalenti a migliaia di anni prima di Cristo: in Giordania. Il pane veniva lavorato fra pietre dure. Per tantissimi secoli è stato il cibo più importante. Comunque fatto, il pane ha dunque sfamato molti popoli. Sui significati del pane si è detto e scritto molto. Forse è il frutto di un’ispirazione divina. E’ oggetto di credenze popolari e di molti modi dire. Per esempio “essere pane e cacio” indica persone che non si scontrano mai, che trovano sempre una soluzione attraverso il dialogo, che sono sempre d’accordo. Lo dico a Martino, che per carattere l’accordo lo trova.
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Martino e il cugino Donato |
Lo zio prete ci ha insegnato a non maltrattare mai il pane. I suoi sermoni, brevi, succosi, sempre efficaci, sono ancora oggi osservati da chi di noi sopravvive. Zio Dionigi ricordava spesso la frase:”Quod superest date pauperibus”, ciò che avanza donatelo al povero. Negli anni 50 in una sua conferenza al Teatro Odeon, in via Di Palma, a Taranto, l’allora sindaco Leone precisò che l’atto bisogna compierlo non con gli avanzi ma con quello che c’è sulla tavola. Era una giornata di neve e pure ad ascoltarlo accorsero molti cittadini.
Ma guarda quante memorie suscitano in me l’atmosfera di quel panificio di via Mercadante, nell’adorata Martina: le persone che se ne sono andate in cielo e tanti amici, lo zio canonico prima di tutti. Ognuno di loro mi ha insegnato qualcosa. E a loro penso qualche volta quando metto in bocca un piccolo pezzo di pane.
Da molti anni i trulli sul Chiancaro non mi vedono, ma al solo pensarci mi provocano nostalgia e dolore. C’era la guerra, mia mamma e mia zia andavano da Martina a San Paolo per comprare il cibo “aùmm’aùmme”, magari su un carretto intercettato per caso, ma il pane non mi mancava mai, anche se era razionato.
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Martino inforna |
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