“CONSUMAVAMO SCARPE E MANGIAVAMO POLVERE”
La
vecchia guardia della “nera”
era
fatta di veri e propri segugi:
Arnaldo
Giuliani; Patrizio Fusar;
Alfredo
Falletta,che la mattina
era
solito entrare nel bar di fronte
alla
questura per cercare uno dei
suoi
“cardellini”;
Mario Berticelli,
Mario Berticelli,
che
rifiutò uno stipendio doppio
per
non tradire il suo giornale;
Giancarlo
Rizza; Fabio Mantica.
Insegna che da oltre un secolo campeggia su una parete della prima sala-stampa della questura di Milano |
Franco Presicci
Avevano la pelle dura e non si facevano fiaccare dalle ore sottratte al riposo e dalle sgambate, che incipriavano di polvere le loro scarpe. Alcuni non badavano al pericolo, pur di riempire il carniere, come i due castori del “Corriere della Sera”, Giuliani e Mantica, che, grazie ad una soffiata, appiattiti sull’erba, assistettero dopo mezzanotte a un duello rusticano all’Idroscalo. Della “nera” sapevano tutto: la storia, le imprese, i protagonisti… Una notte lo stesso Giuliani, percorrendo al buio una via del centro, si sentì chiamare per nome, e scoprì che era un “boss” latitante, seduto in un’auto parcheggiata lungo il marciapiede. Parlare con uno di questi cronisti della vecchia guardia era piacevole e interessante. Si raccontavano e raccontavano con entusiasmo: assalti in banca, omicidi, sparatorie, come quella di largo Tel Aviv… Vero, Gabriele Benzan? Lo avevo cercato per tanto tempo. Poi l’amico e collega del “Corriere della Sera” Alberto Berticelli, sorbendo un cappuccino nel bar di fronte alla questura, mi dette l’indicazione giusta: Gabriele viveva a Rovereto E mi dettò il numero di telefono.
Gabriele Benzan |
Jovine,Max Monti,Plantone,Giuliani |
Il nostro è un mestiere fatto di trepidazioni. Se non stai sempre all’erta, la concorrenza ti mette a terra”. Le rapine? “Quelle si susseguivano con ritmo incalzante: novanta, a mano armata, solo quelle, fra l’ottobre del ’46 e il marzo del ’47, della banda capeggiata da un bandito claudicante detto gentiluomo, perché alla fine di ogni assalto dava… la mancia al cassiere” (ormai in pensione, venne a trovarmi al giornale e mi chiese d’intervistarlo). A parte le “dure” rimaste negli annali, non si potevano attraversare di sera i boschetti di Trenno senza essere depredati. L’attrice Emma Gramatica fu aggredita in carrozzella in piazzale Lotto. La prima consorteria criminale organizzata di allora, la famigerata “banda Dovunque”, che aveva in organico elementi di diversa provenienza (uno, il più notevole, dieci anni dopo indosserà la tuta blu nella clamorosa “volata” di via Osoppo, il 27 febbraio del ’58). Il “cast” del commando debuttò nel centro di Milano la sera del 30 marzo del ’49. Poco prima delle 8, attaccò la gioielleria Spoggi in via Bigli e svuotò le tre vetrine del negozio: braccialetti d’oro, anelli con brillanti, collane, orologi, parure… L’obiettivo successivo la Cassa di Risparmio di Bologna, e poi ancora altri. Tanti. Le forze dell’ordine dovevano fronteggiare “confraternite” agguerrite, che fiorivano come papaveri. A dare filo da torcere al tramonto degli anni Cinquanta furono anche Carlo Bollina, detto il “Paesanino”, che da ladro di bestiame aveva fatto il salto di qualità; e il suo “apostolo”, complice, Carlo Brambilla, che prendeva il soprannome dai suoi natali a Sant’Angelo Lodigiano. Forniti entrambi di un’astuzia rustica e di grande prudenza nello spendere i “grisbì”, erano primule rosse.
Il maresciallo Oscuri, a destra |
Venivano a Milano in moto e realizzavano colpi sensazionali. Alla fine, allettati come da una sirena dalla bella vita, dalle macchine di lusso, dalle belle donne, affogarono tra bollicine di champagne: una notte il commissario Mario Nardone sorprese il “Paesanino” nel sonno nella sua villa di Oggebio, dalle parti di Novara. I nostri ricordi fluivano come l’acqua di un ruscello. Il vecchio segugio si rivedeva acquartierato con i colleghi sotto le finestre della Mobile per captare qualche frammento di un interrogatorio. Famoso quello di Rina Fort, la trentunenne friulana che il 29 novembre ’46 sterminò la famiglia del suo amante. A condurre le indagini, Mario Nardone, il “Gatto”, allora commissario. Benzan lo ricorda benissimo, con ammirazione. Non indugia quando lo esorto a soffermarsi sulla rivolta di San Vittore del 21 aprile ’46, giorno di Pasqua. “Noi cronisti ci trasferimmo al secondo piano di un palazzo in costruzione all’angolo tra viale Papiniano e via Dugnani, da dove si poteva osservare l’ingresso del carcere in tumulto.
Le prime auto della polizia |
Fuori, autoblindo, carabinieri, polizia, un reparto della “Folgore”, mitragliatrici del 3° Bersaglieri sul tetto dell’Istituto Beccaria. All’interno, guardie in ostaggio, spari, bombe a mano…”. L’evasione in massa venne bloccata da un agente ventiduenne, Salvatore Rap, che sparò sopra le teste, ma venne fulminato dagli ammutinati. Un’autoblindo si piazzò nell’androne; dietro, il maggiore dei carabinieri Giovannini, un maresciallo, Milanesi, amico di Benzan, che nel ’45 si faceva spesso ospitare dalla mensa dell’Arma di via Moscova a causa dell’avaro stipendio dell’agenzia Orbis, che lo indusse a passare a “Il Giorno”, dove lavorò dal ’56 al ‘60. Milanesi sussurrò a Benzan che in una cella era prossimo un incontro tra un ufficiale dell’Arma e il “conte Mino”, un ex legionario che con Ezio Barbieri e altri cinque era alla testa dei ribelli. Il cronista riuscì ad insinuarsi e assistette alla trattativa. Il 24 aprile, la resa. “Tu te lo ricordi sicuramente, Barbieri?”.
Alberto Berticelli,Giancarlo Rizza,Giuliano Molossi |
Uno dei banditi più temuti del dopoguerra. Assieme a Sandro Bezzi, con un’Aprilia nera diventata leggendaria, aveva terrorizzato Milano. Il 26 febbraio del ’46 lui fu catturato alla cascina Torrazza di Pero e l’altro ucciso dalla “pula”, polizia, sotto il ponte della ferrovia di Greco. Nell’immediato dopoguerra in via Fatebenefratelli la sala-stampa era di là da venire, “e noi cronisti ci incontravamo nell’androne e aspettavamo il decano apripista, Guido Rossi, del ‘Corriere’. Risale a quell’epoca la mia prima e ultima ‘gaffe’, che mi dette qualche grattacapo. All’ufficio politico, al terzo piano, avevano preso uno svizzero borsaro nero, con l’accusa di collaborazionismo. L’uomo aveva riferito di aver portato al Principe di Savoia una lettera per un esponente del controspionaggio francese, e io scambiai l’albergo di piazza della Repubblica per Umberto II, e quando uscì un titolone sul mio giornale, che allora era “L’Unità”, con quell’errore, si sollevò un polverone”.
Tanino Gadda con la collega Luisella Seveso |
Che fare? Benzan salì al piano nobile della questura e spiegò l’equivoco al maggiore Kane, che dopo una grassa risata gli regalò uno “scoop”: dopo qualche giorno sarebbe entrato in funzione il “777”, oggi “113”, sul modello londinese della “Fliyng Patrol”. Primo mezzo, una Lancia Astura, poi seguita da vecchie jeep ereditate dagli alleati. “Di lì a poco ci fu il cambio della guardia tra l’amministrazione anglosassone e gli italiani; e noi quella notte ne approfittammo per occupare un locale al pianterreno, che fu l’embrione dell’odierna sala-stampa”. E vennero gli anni Sessanta. Il Gruppo Cronisti Milanesi stabilì fra l’altro rapporti sempre più stretti con le istituzioni. “In sala-stampa, alloggiata nell’ammezzato di via Fatebenefratelli, “trascorrevamo le notti giocando a carte o chiacchierando”, nell’attesa di un evento: una “dura”, una spaccata, un assassinio… Se non succedeva niente, non ci abbandonavano alla noia. Ogni tanto uno di noi batteva i corridoi alla ricerca di un ‘cardellino’ e tendeva le orecchie affinate da anni di mestiere”. Da una foto ancora oggi appesa a una parete della sala-stampa occhieggiano cronisti eccellenti dell’epoca: ‘Zsù-Zsù Baronj, che nel ’45 per essere tornato a piedi dalla Germania, a Milano, anche per fare solo cento metri, come andare dal giornalaio, prendeva il taxi o si faceva portare il quotidiano dal tassista; Arnaldo Giuliani, “Giulianino”, figlio d’arte, ragazzo pulito, mite, rispettoso di tutto e di tutti; Salvatore Conoscente; Giancarlo Rizza; Patrizio Fusar; Max Monti; Alfredo Falletta, che, coppola in testa, tutte le mattine, prima di varcare la soglia della questura, era solito entrare nel bar di fronte per interrogare con lo sguardo qualche suo fedele trombettiere (ne aveva tanti); Mario Berticelli, un signore, cronista serio, preciso, attento, legatissimo alla sua testata, “L’Unità”, tanto da rifiutare l’offerta di uno stipendio doppio da un settimanale ancora oggi molto letto. La mia conversazione con Gabriele Benzan, lunga ed emozionante, risale al marzo del 2006. Il grande “nerista” se ne andò qualche anno dopo. Il Gruppo Cronisti Lombardi non lo aveva dimenticato: gli aveva riservato un premio, che non fece in tempo a consegnargli.
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