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mercoledì 23 maggio 2018

Il linguaggio degli ombrellai ambulanti


 

PER NON FARSI CAPIRE DAGLI ESTRANEI

CONVERSAVANO USANDO IL “TARUSC”




Conducevano una vita da fame: la sera

polenta e vino all’osteria, e per dormire

un letto di paglia in una catapecchia.

A Gignese in loro onore aperto il Museo

dell’Ombrello e del Parapioggia.










Franco Presicci

ll “tarùsc” non è un medicinale, e non è neppure una marca di biscotti. Chi pensa al nome di un’auto ancora sulla catena di montaggio sbaglia. E’ la parlata che gli ombrellai ambulanti (“lusciatt”), ma anche i “magnan” (calderai), i “cadregatt” (riparatori o fabbricanti di sedie) e compagnia adottavano quando s’incontravano fuori sede per non farsi capire dagli estranei.

L'ombrello in un'opera di Giuseppe Solenghi
Uomo sotto la neve a Martina F.




















Infatti qualche studioso fa derivare la parola dal tedesco “tarnen”, mascherare; e “tarnung”, mascheramento.
Sul Vergante, da cui scendevano in Lombardia molti ombrellai, i braccianti chiamavano “tarùsc” quello strato di terra da cui occorreva rastrellare letame o fogliame. P. E. Manni, nel suo libretto dedicato all’argomento, spiega le origini, le etimologie, le varie pronunce e le diverse forme di questa specie di vernacolo, chiarendo che un “lusciatt” di Stresa parla un “tarùsc” di quella zona, alla “stresiana”; e uno di Massino si attiene alla forma in voga nel proprio paese. E ognuno vi porta un proprio contributo, innestando parole pescate in questo o quel dialetto o scaturite da una fertile fantasia.

Ombrelli chic
Così si sentiva dire “bergna” per denaro; “pisela per lira; “squadras”, per confessarsi; “patìn” per letto; “vasciag” per maiale; “gravisma” per sigaro (a Massino è il torsolo del granturco)… Strausciògn” indica i pantaloni, facili a logorarsi perchè il lusciat armeggiava stando seduto su un gradino o sulla cassetta dei ferri. “Batagin” era l’orologio, quello da tasca, con la catenella tra un occhiello del gilè e la “gnata”, la saccoccia in cui lo strumento era infilato. Ma gli orologi all’epoca non erano a disposizione di tutti, men che meno degli ombrellai, dei “magnan”, dei “mulita” (gli arrotini: a proposito giorni fa uno di questi ha fatto sentire la sua voce al Giambellino)… A indicare l’ora era il “batènt” della campana. Insomma per un meneghino era un rompicapo cercare di capire una conversazione fra “ombrellee”, che ispirarono anche un brano. “Anca l’ombrellèe come tucc ij ambulant/ el ghè dà de vos per reclama la gent/ ona stecca rotta, on puntal mancant/ on manegh ch’el dondola, in sul moment/ l’ombrellèe a ogni besogn el proved…”.

Ombrellaio

 
Gli ombrellai ambulanti calavano per lo più dal lago Maggiore, come detto dal Vergante, compreso tra Arona e Stresa. Nel libricino curato da Franco Fava per la Meravigli, “Vecchi mestieri milanesi”, tra l’altro ricco di disegni molto espressivi di Sergio Vigna, Gabriele Musante, Mario Castellani, Pasquale Russo, si riportano alcune righe di una lettera inviata dall’ombrellaio Minola a un suo collega per fargli sapere di essere caduto prigioniero dei tedeschi. “A stansci catufàt de marèta de sciugatògn e pensi che el seu toni al ficarà e la biosma ad la soa bula per al prim dal lungòs”. Tradotto: Sono prigioniero di guerra dei tedeschi e penso che lei andrà alla festa del suo paese per il primo dell’anno. I “lusciat” si sparpagliarono, non soltanto in Lombardia. Comparivano con la “barsela” sulle spalle, una cassetta a forma di faretra da cui facevano capolino i “ragozz”, le stecche di ombrelli appoggiate sul fondo, sopra gli attrezzi: bastoni di legno, forbici, refe… Passavano da una strada all’altra urlando “Om brellèe! Om brellèe!” per avvertire le donne che se avevano parapioggia da restituire all’uso quello era il momento. Le casalinghe si affacciavano alle finestre, facevano segno o davano voce, scendevano, si aggruppavano all’ingresso dello stabile e consegnavano il loro ombrello mutilato all’ambulante, che in breve tempo eseguiva il lavoro.
Ombrellaio
Questi ambulanti erano taciturni e facevano una vita di sacrifici. La sera una cena all’osteria con polenta e un bicchiere di vino e poi a dormire in una catapecchia. Il ritorno a casa solo a Natale, con la soddisfazione di un piccolo regalo preparato dalla moglie. Cominciavano l’apprendistato a 7 anni, seguendo un maestro, che se fortunato riusciva poi ad aprire una bottega, in Italia o altrove: a New York, a Sidney, dato che molti di loro si erano spinti così lontano, e smettevano di mangiare polvere, di fare la fame, di stare distanti dalle famiglie, che lasciavano appena il tempo cominciava a imbronciarsi, accompagnati dal garzone, scelto nella propria zona di origine. A Gignese, il più alto comune del Vergante e tra i più antichi (viene citato in un documento del 1069 conservato nell’Archivio storico di Torino), da cui partirono la gran parte degli ombrellai, nel 1939 Igino Ambrosini, che era del mestiere come il padre e il fratello, inaugurò con alcuni collaboratori il Museo dell’Ombrello e del Parasole, creando un’Associazione del settore. Da tempo per le strade di Milano e della Lombardia non si vedono più “lusciat” né cestai né calderai né impagliatori di sedie… Spariti da anni anche i lustrascarpe, l’ultimo dei quali lucidava le calzature dei signori nella galleria delle carrozze della stazione Centrale. Se ne cerchi uno per conoscere la sua storia consumi inutilmente le suole. Erano figure amate dai milanesi. I loro richiami erano graditi anche a chi non aveva bisogno delle loro prestazioni.
Con l'ombrello sotto la neve
Bazzicavano soprattutto la zona di Porta Genova, dove c’è la darsena in cui si congiungono il Naviglio Grance che viene dal Ticino e il Naviglio Pavese che a Pavia. Poi la crisi, dovuta prima all’invenzione dell’impermeabile, più comodo di quella cupola di stoffa che nelle giornate di vento si rovescia, a volte lacerandosi; e poi all’abitudine della gente di disfarsi di ciò che invecchia, ritenendolo più economico sostituirlo. La pioggia ti sorprende in strada? Per poche lire oggi nei mezzanini del metrò ambulanti extracomunitari offrono un buon campionario. “Diecimila, va bene?”. “Facciamo otto”. E l’affare è concluso. Non c’è neppure il fastidio di allungare il percorso per andare in un negozio, dove magari il prezzo è più alto. Una volta l’ombrello “made in Italy” era molto apprezzato e richiesto dappertutto. Alcuni esemplari erano autentiche opere d’are. Nell’800 i maggiordomi, che avevano fra i loro compiti quello di accompagnare i signori dal palazzo fino alla carrozza, nelle giornate piovose lo facevano facendo fiorire gli ombrelli sulle loro teste. Gli ombrellai più fortunati che oltre ad inaugurare punti-vendita ovunque, fabbricandoli anche, gli ombrelli, hanno scritto con le loro fatiche una bella storia. Accuratamente condensata nel citato Museo di Gignese, che nelle diverse sale comprende veri capolavori.

L'ombrellaio-disegno del libro della Meravigli
Lo visitai nel 1965 durante una manifestazione canora a Stresa, ma da allora l’esposizione si è ampliata, accogliendo, per esempio, parapioggia con copertura di seta decorati con motivi floreali o geometrici e con colori vivaci; con impugnature in legno nobile o in metallo o in avorio tornito; testimonianze di scenette di strada londinese con ombrelli del tipo a pagoda; ombrelli del XIX secolo; ombrelli per la villeggiatura in uso nell’8oo e nel ‘900:; ombrelli dipinti nelle tele di grandi artisti (Adam Klein, Francisco de Goya…); foto di ambienti, come le abitazioni di famosi ombrellai, le fabbriche in case di ringhiera; l’ombrello nell’antichità su un vaso del Museo nazionale di Taranto; l’ombrello nella moda femminile; ombrelle “à la chinoise”; ombrelli con la cupola di merletto foderato di seta… Cesare Comoletti, laurea in ingegneria, presidente della sezione dialettale del Circolo Filologico milanese, profondo cultore di letteratura, storia e folclore meneghino, è autore del volume “I mestee de Milan”, dizionario etimologico illustrato dei termini in vernacolo riguardanti le professioni, le arti e i mestieri praticati nel Milanese dal Medioevo ai giorni nostri. Vi si incontrano anche le voci delle zone rurali dell’alto e basso milanese, brianzoli, lodigiani…Un’opera interessantissima, che offre anche la storia di molte attività. Ecco che cosa scrive del “brumista” (il vetturino, il cocchiere di piazza): “Il primo gennaio del 1870 tutti i conducenti di pubblica vettura vennero obbligati dalla giunta municipale a vestire l’uniforme…”, cappello a cilindro compreso. E non elenca soltanto il vestiario, descrive li personaggio, che fumava la pipa stando a cassetta sulla sua carrozza chiusa, a quattro ruote per due persone. Aggiunge che “gli ‘ombrellee’ provenivano da secoli dai paesi posti alle false del Mottarone, tra il lago Maggiore e il lago d’Orta”… E cita il Museo di Gignese, che nel ’49 venne ristrutturato dallo stesso Ambrosini; e nel ’76 trasferito in una sede edificata apposta, grazie ai contributi della Regione Piemonte, del Comune e degli amici dell’istituzione, com’è attestato nel catalogo del 1989, dotato di numerose, significative immagini, alcune delle quali fornite da appassionati. Viene in mente una scena della vecchia Milano: il corteggiatore attempato colto sotto i portici mentre incalza una signora con l’ombrello.





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