MARTINA
FRANCA CON LA NEVE
INDOSSA
L’ABITO DA SPOSA
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La Lama
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E’
sempre bella, meravigliosa
la
città dei trulli e del Festival
Con
la pioggia e con il vento
conserva
il suo fascino. Dolce
Martina,
ti ho dato il mio
cuore.
Franco
Presicci
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Via Mercadante |
Quando avevo la casa a Martina, in via Alfieri 23, all’angolo in cui s’incrociano quattro vie, compresa la mia, ci andavo anche d‘inverno e godevo la neve e il rumore della pioggia che scende come un torrente verso via Mercadante. Io l’affrontavo con un ombrello grande quasi quanto quelli che fioriscono sulle spiagge, avviandomi verso il locale di Peppino Cito, che fu il primo a Martina a riparare le television. Raccontava che aveva sistemato un’antenna sulla basilica, incantato alla vista della città dall’alto. Oltre a gestire un negozio pieno di ogni tipo di oggetti, dalle ceramiche, che andava personalmente a prendere a Faenza, alle radio, ai lampadari… Una specie di piccolo emporio. In vetrina esponeva anche qualche suo quadro ad olio o realizzato con ogni tipo di materiale tra cui la plastica. Smessa l’attività dopo una cinquantina d’anni, aveva dato in affitto alcune stanze ad un bar, dove Nico Blasi, direttore di “Umanesimo della Pietra”, organizzava conferenze, volendovi ricreare l’atmosfera dei locali storici, come il Gambrinus di Napoli o il Cambio di Torino o il Taveggia di Milano.
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Pierino Pavone |
Le altre se l’era tenute per sè, dotando, la prima, di un forno per la cottura dei suoi trulli in terracotta o dei fischietti. Fra tutti quei manufatti, la sera alcuni amici si riunivano per la partita a scopone, in cui io ero un punto debole, avendo a che fare con campioni come Pierino Pavone, Ninì Ponte e Franco, un ex maresciallo dell’Aeronautica, capace, nonostante l’età, di fare più di due chilometri al giorno a passo svelto. Giocando, si parlava delle bellezze di Martina, dei personaggi che l’avevano onorata, dell’orologio della torre, che gareggia in altezza con la basilica, sovrastando l’edificio nel quale alloggia la Società artigiana, L’orologio era fermo da tempo e toccò poi a Giuseppe Bellucci, il famoso creatore di campane, rianimare le sue lancette. Il marciatore faceva anche spettacolo con la sua abitudine di contestare le mosse anche del proprio compagno, coinvolgendo quelli che fungevano da osservatori, fra i quali Franchino Lodeserto, inguainato in una bella pelliccia da cui spuntava il “papillon”; a volte l’avvocato Giovanni Chisena, che in gioventù firmava i suoi articoli su “La Gazzetta” con lo pseudonimo “Anchise”; Peppino Montanaro, che leggeva dalla prima all’ultima pagina “Il Corriere della Sera”, divorando gli articoli autobiografici di Gaetano Afeltra, che fu poi dirigente de “Il Giorno”; e, quando non giocava, Ninì Ponte, che aveva avuto un negozio di mobili sullo stradone e aveva poi trasportato in campagna, come cimelio, la sua vecchia falegnameria, compresa la sega elettrica. Alle 19, tutti a casa. Ma Pierino Pavone cenava quasi a mezzanotte e aveva ancora tempo da passare passeggiando per Martina; e mi prendeva a braccetto dicendo che mi doveva far conoscere quel gioiello del suo paese in ogni aspetto.
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Uomo sotto la neve |
Quindi, salutato Peppino sulla soglia del suo regno, dove, grazie alla posizione del “negozio”, in fondo ad un ampio atrio, e al portone sempre socchiuso o addirittura serrato, non arrivavano le voci del ringo, cominciavamo il nostro giro sino al bar Tripoli, tornavamo indietro, imboccavano il ringo e il cicerone mi istruiva su tutto ciò che di rilevante c’era da sapere, persino le personalità che avevano abitato in questa e in quella casa. In piazza Roma, facevamo sosta davanti al Palazzo Ducale, superavamo l’arco e ci immettevamo in via Bellini, dove lui ricordava l’omonimo cinema, e scarpinavamo fino alla Chiesa del Carmine, dove mi mostrava l’abitazione di Alessandro Caroli, scrittore pregevole, coltissimo, che era stato tanti anni in Australia, fondandovi una televisione. Caroli aveva anche scritto un bellissimo libro sulla storia del Festival della Valle d’Itria, di cui nei primissimi anni era stato l’anima assieme a Franco Punzi e a Lorenzo D’Arcangelo. Era stato anche dirigente della Rai di Bari.
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Sott'a San Frangische |
La storia di Caroli, esposta nei minimi particolari da Pierino, mi accompagnava fino a San Francesco, dove mi piegavo per bere un sorso alla fontana che sta vicino al benzinaio e poi mi giravo ad osservare la macelleria in cui mio zio Dionigi andava a comperare la carne, che a volte si faceva portare in campagna dallo stesso titolare dell’esercizio, che aveva i trulli vicino ai suoi, sul Chiangàro. Tornavamo sullo stradone, una stretta di mano e ognuno a casa sua. Una sera alla partita preferimmo la mostra di un pittore che era stata elogiata da Mario Rossano in un servizio su Rai3. Rossano era un giornalista barese di ottime qualità, che aveva lavorato per lungo tempo a “La Gazzetta del Mezzogiorno” ed era presente a Martina ogni anno per fare le cronache della rassegna musicale nota in tutto il mondo. Aveva scritto anche un piccolo libro in cui si lamentava di San Nicola, patrono di Bari, che a dire dei suoi concittadini aveva un occhio particolare per i forestieri, e lui proponeva che, stando così le cose, forse era meglio cambiare protettore. Le stesse lamentele si cantilenano e da sempre a Taranto per San Cataldo.
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Trulli sul Chiancaro |
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Martina innevata |
Mi piaceva stare a Martina d’inverno. Oltre alla pioggia, e più della pioggia, amo la neve, quando danza nell’aria, così sottile da sembrare una miriade di moscerini e quando si posa a terra, gonfiandosi anche sino a mezzo metro, costringendo la gente ad armarsi di pala per rendere percorribile la strada. Martina sotto la neve è come una sposa, come una fittissima distesa di margherite, come uno dei colori della nostra bandiera. Quando poi il sole la scioglie, lascia un po’ di amarezza in chi l’adora. Non dico che andavo a Martina per vedere la neve.
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Abbascià e Blasi |
Martina è bella per tante altre cose. Per il suo centro storico, per esempio. Uscivo di casa per far visita a Nico Blasi nel la sua roccaforte di via Caracciolo, dov’era la sede di “Umanesimo”, e non potevo fare a meno di osservare le donne vestite di nero che sferruzzano sulla soglia di casa e quelle che lavano anche il pavimento del marciapiede sul quale si mette il primo piede uscendo. Martina è una città pulita, Le facciate delle case sono bianco-latte. Pulito anche il centro storico. Pulito e ordinato. Silenzioso e tranquillo. E’ come un teatro, con quinte e fondali. I personaggi non sono soltanto le vecchiette con gli scialli sul capo che conversano con i vicini e i passanti; ma anche gli anziani con la coppola che vendono noci e mandorle, in misera quantità contenute in cassette da mercato o in un cesto. E a proposito di cesti, più volte ho tentato d’intervistare una sorta di lucignolo, che ne fabbrica in un locale vicino alla chiesa del Carmine (qualche anno fa era più sotto, di fronte alla rotonda di San Francesco, dove teneva appese al soffitto collane di pomodori e sull’ingresso cassette con vari tipi di verdura o funghi appena colti). Quel signore oggi forse supera i novant’anni, è brusco, sbrigativo e simpatico. I cesti di vimini confezionati da lui sono tanti e quasi non lasciano più spazio per muoversi nel vano, dove hanno girato alcune scene di un film. Avrei voluto anche intervistare “Giorno e notte”, riparatore di biciclette che sta all’inizio della salita di San Francesco e non chiude mai il negozio.
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Benvenuto Messìa |
Chissà se Benvenuto Messìa, il Coppi di Martina, abbia mai affidato la sua all’esperienza di quel lavoratore infaticabile. Se lo avesse fatto, non lo confiderebbe mai, geloso com’è della sua “due ruote”. E’ una vita che la cavalca. E stando su quella sella ha anche scattato meravigliose immagini di Martina. Adesso, che fa l’attore, per quell’arte avrà meno tempo. Lo abbiamo visto recitare in modo convincente con Lino Banfi nelle vesti di un prete, in “Braccialetti rossi”... E si è lasciato riprendere allegramente con attrici famose. Mi chiedo anche se qualche pittore consacrato lo abbia colto in una delle sue volate… Non mi meraviglierei se lo vedessi in un quadro a olio esposto da qualche parte, mentre pedala sulla circonvallazione o su via Taranto. Benvenuto, Messìa. Come fotografo, il poliedrico corridore ha doti eccezionali.
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Forno |
Conservo con cura una “brochure” con suoi scatti bellissimi: un vecchio forno acceso; un vicolo che sgattaiola verso una piazza… Benvenuto è nato su una bici e con una macchina fotografica in mano. Se si fanno due passi a Martina, può capitare d’incontrare persone che a Milano o a Roma sono diventate importanti in diversi ambiti: del giornalismo, della televisione, dell’arte, dell’imprenditoria... I martinesi tornano sempre al nido. Un fotografo impegnato in un quotidiano milanese mi disse di non essersi più fatto vivo a Martina dopo averla lasciata tanto tempo fa. Lo riferii una sera a Peppino Montanaro, che la mattina aveva accompagnato una scuola a visitare la Galleria dell’Inferriata con i dipinti di Domenico Carella a Palazzo Ducale, e mi rispose: “Non era martinese”. Se lo era, aveva cambiato casacca, sposando una ligure. Io ho sposato una fanciulla nata a Taranto e come me è legata alla nostra città “accùme le còzz‘a zòche” e a Martina. E insieme ci veniamo con gioia con ogni mezzo tutti gli anni. A volte con il treno, perché da Bari alla Bimare gioisco alla vista di tutti i paesi che vi si avvicendano: Rutigliano, Noci, Alberobello, Locorotondo, la campagna… I vagoni affollati di ragazzi che vanno a scuola e gli alberi che corrono alla velocità del convoglio rendono più felice il viaggio. L’ho confidato al professor Francesco Lenoci e lui, martinese doc., mi ha regalato un’immagine della sua città sotto la neve. Benedetta Martina.
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LA "FILASTROCCA" DI FRANCO PRESICCI
N‘AMìCHE ‘MBRA LE STèDDE
Quànne
n’amìche se ne ve’ ‘mbrà le stèdde
se
pòrte apprìesse ‘na ndìcchie de ce l’hà’ vulùte bbène
assèje
fu ‘u dulòre a nutìzzie
ca
Gerìne no’ge stàve cchiùne
l’avèven’acchiàte
le fìgghie
‘ndesàte
‘ndèrre, cu ‘na tàzze de cafèje mmàne
indr’a
ccàse, a Bològne
Me
chiamò Nenùcce ‘u fràte, da Tàrde
e
me scennèrene le làcreme
accumbagnàte
da ‘na mòrre de recùerde
le
passiàte ‘a via D’Aquine
‘a
sère e ‘a dumèneche
le
bbàgne, le sciuèche
le
‘nzagàte d’a cummèdie indr’a candìne
c’avèveme
sdevacàte pè’ fa’ cchiù làrie
le
uagnèdde ca purtàvem’a le festezzòle
a
ccàse de quìdde e de qìdd’òtre
tùtte
stuèzze d’a cumbagnìe
‘Nu
ggiùrne me decìe
“Dumàne
vòch’a Bbàre cu ‘a bececlètte
se
vuè cu avìene, sciàme ‘nzìeme”
“Addò
hàgghi’avenè’ s’a do rote no’nge a tègne”
E
se ne scì’ suletàrie turnànn’a sère
cu
‘na mùrte de le sbìrre
ca
l’avèvene ‘ngazzulàte abbendàte sus’a ‘na banchìne
Addelettàve,
Gerìne, l’òre ca se passàven’apprìesse a ijdde
èr’accùnge,
allècre, speretùse
Sendève
prescèzze a passìà’ pe’ Tàrde
scèveme
abbasci’a marìne, mmèr’a Duàne
a
vedè’ chìdde ca vennèvene vònghele
javatùne,
cacasànghe, spuènze
nùce,
rìzze, òstreche, dàttere
N’addecriàvene
le còzze, mundàgne
quàse
a rìpe de màre
“Uàrdele,
uàrdele cu attanziòne
tènen’a
‘nzegne de ‘na varchetèdde
gnòr’accum’u
caravòne.
‘U
sé’ ca jè ‘u tresòre d’u paìse nuèstre?
‘Nu
furastìere c’avèn’ a Tàrde da lundàne
vo
cu vè o ‘Gàmmere’ o a ‘Pèsce frìtte’
pe’
‘nu dentàte, pe’ ‘na trègghie, pe’ ‘na racòste
ma
pùre pe’ ‘nu piàtte de mennelècchie”.
Ere
bbuène accum’u pàne
addò
fatiàve, ‘nu càpe de rròbbe
gnègnere
tenève indr’o cerevìedde
Tutt’ama
murè’, se sàpe
ma
accussì ggiòvane jè ‘na bbòtt’o còre de ci rumàne.
L’avève
chiamàte tànd’anne arrète
e
me recanuscì sùbbete d’a vòsce
rialànneme
‘na lambesciàte de penzìere
Tàrde
de ‘na vòte, ‘a vìlle, ‘u màre
‘u
Castìedde, ‘u puète Dièghe Fedele
ca
jàvetàv’a via Messàpie
e
screvève de le Caggiùne, de le carrettìere
d‘a
frascère, d‘u pezzàre, de vie Dièghe Peluse
a
stràte d’a càse de Gerìne
addò
je scève, sunàve ‘u cambanìedde
e
aprève ssèmb’a màmme,
‘na
segnòre chiène de criànze
Mo’
’nguàrche sère je òz‘a cape mmèr’u cìele
e
no’nge ‘u vète, Gerìne
ma
addà stè, so’ secùre: jè ‘na stèdde.
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