don Martino |
ERA SEVERO, BUONO E DOLCE
Io
ero un vero monello, a 12 anni
scalavo un ciliegio di quattro piani
catturavo cicale, lucertole e grilli
contro la sua volontà. Tra sorrisi e
rimproveri m’insegnò a rispettare
le creature. Oggi do asilo agli uccelli
senza tetto, pensando a lui.
Franco Presicci
Zio Martino, canonico penitenziere alla Collegiata, cella città dei trulli, era intransigente, ma in fondo comprensivo e generoso. Quando esprimeva il suo pensiero bisognava eseguire senza replicare.
Lo stradone di Martina |
Una volta in campagna superammo il muretto a secco che segnava il confine con la campagna di una famiglia di amici, che ci veniva di rado, entrammo nel trullo attraverso un finestrino semichiuso e ci mettemmo a ballare sui materassi pieni di foglie di granturco stesi su “le trestìedde”. Enzo, “ca no se sapève tenè’ do’ cìcere ‘mmòcche”, lo disse alla nonna, e lo zio, che stava leggendo il breviario, catturò la confessione e intervenne. “Quante volte vi devo dire che bisogna rispettare la cosa altrui? Oggi, a tavola, niente secondo”. Noi non replicammo e abbassammo il capo.
La chiesa della Consolata |
E lui provvide, sempre attraverso la nonna, sua sorella, perché quel piatto ci fosse dato. Ma avevamo la testa dura, anzi dura ce l’avevo io, perché Enzo mi seguiva senza pensare, e valicammo altre volte quel muro a secco anche perché dal fondo dell’amico si poteva raggiungere il boschetto, che volevamo esplorare. Una volta ci rifugiammo nell’uccellanda che il vicino aveva costruito per soddisfare la sua passione per la caccia, arrivò la figlia, avvertì dei rumori, cominciò a indagare e ci sorprese. “Beh, e voi che cosa fate qu? Se viene a saperlo don Martino, e non è detto che io non glielo dica, non la passate liscia. Su tornate subito al vostro nido”. La supplicai di tenere la cosa per sé e lei rispose che ci avrebbe pensato, ma passarono i giorni e don Martino lo seppe. Ne combinavamo sempre una.
Vigneto |
Il trullo di zio Martino |
Mi era stato proibito di fare lo scoiattolo sul ciliegio, che mi affascinava per la sua altezza, e io non perdevo occasione per scalarlo fino alla cima, dalla quale contemplavo un panorama incantevole e la vista di tutto il tratturo, quindi potevo vedere don Martino arrivare con la sua tonaca vecchia, il suo cappello che forse aveva attraversato tutto il suo percorso di prete, il bastone e il breviario sotto il braccio. Un giorno Enzo, mentre scendevo da quel colosso, mi lanciò una pietruzza, io persi l’equilibrio, lanciai un grido che penetrò le orecchie dello zio intento ad aprire il cancello di ferro. Naturalmente si preoccupò e volle sapere che cosa fosse successo: io farfugliai non riuscendo a intortare una risposta, mi tradii e apriti cielo. Ero sempre colto in fallo, mai una volta che compissi un gesto meritevole di un apprezzamento, mi sentivo in colpa, fatto male, incapace di essere migliore, sempre in colpa verso quel sant’uomo.
Il nonno |
Allora mi dava sollievo il nonno, che per me era un salvagente. Mi sedevo accanto a lui sotto la bouganville che dava ombra al piccolo piazzale davanti al trullo e mentre fumava la sua pipa di canna ricurva e il camino di terracotta mi sfogavo. Il nonno aveva sempre una buona parola per me, e mi diceva di stare tranquillo, perché i ragazzini di solito sono vivaci e vanno compresi. Si alzava e tagliava un piccolo grappolo di uva da tavola dalla vite che stava sulla sinistra del cancello e me lo dava. Così anche lui trasgrediva alle regole dettate dal cognato, che voleva tenere vergine quel piccolissimo vigneto sino alla vendemmia. Nonno Ciccio nutriva un grande rispetto per don Martino, un mito, amato e rispettato da tutti i martinesi. Ma non poteva fare a meno di essermi complice, perché ero Francesco come lui e figlio del suo figlio maschio. Non così la nonna, Graziella, che aveva invece una predilezione per Enzo, che a Taranto, morto il nonno, prese a dormire con lei, posto che usurpavo io, quando lui andava con i suoi a Martina. Un’altra proibizione che ci aveva imposto don Martino era quella di lasciare in pace i grilli, le cicale, le farfalle e le lucertole. Le cicale era difficile catturarle, perché avvertono subito il rumore dei passi, tacciono e non si riesce a individuarne la posizione. Io mi avvicinavo scalzo, mi arrampicavo sul tronco con molta accuratezza e, zac, le imprigionavo nella mano destra. Le lucertole le prendevano con un cappio fatto con una festuca. Era dura, ma a volte ce la facevamo. Le mostravamo soltanto a zio Dionigi, che col tempo diventò il mio modello.
Zio Dionigi |
La chiesetta di campagna |
Forno acceso |
Era anche simpatico, specie quando si concedeva allo scherzo, soprattutto con il nonno Ciccio, che per lui aveva una venerazione. “Martino, quando vieni a Taranto?”. “Verrò, verrò, Ciccillo, vedrai che prima o poi verrò”. Ma non ci veniva mai. Usciva con la sua tonaca linda anche per andare a dire Messa nella chiesetta che stava, e sta, a due passi da casa sua. Quando stava da solo le pie donne gli portavano il piatto di maccheroni con il sugo Tanti martinesi non lo hanno dimenticato. Quando qualcuno fa il nome di don Martino gli ultraottantenni fino a qualche tempo fa frugavano nella memoria e poi: “Ah, sì, don Martino, come no? Lo conoscevo!”. Il maestro Oronzo Carbotti, che in età avanzata ho frequentato molto, lo raccontava con ammirazione. Ricordo che, sfollati in campagna sul Chiangaro durante la guerra, quando Enzo e io, più io che Enzo, facevamo un’impertinenza, lui si appostava sul bordo del piazzale e gridava: “Fullone, che devo fare di questi discoli di Taranto? Aiutami tu”. Naturalmente lo faceva per scherzare: Fullone, preside del liceo scientifico di Taranto e suo amico, aveva la campagna molto lontana dalla sua. Ma non eravamo proprio dei Giamburrasca (Il nonno l’aveva capito e ogni tanto mi faceva l’occhiolino, per dire: “Sei proprio un birichino”). Alla fine, assimilammo le regole dettate dallo zio Martino, ricevendo elogi e sorrisi, anche perché davamo una mano in casa: cacciavamo le mosche prima di metterci a tavola, secondo la tecnica suggerita da don Martino (io sventolavo un panno, Enzo apriva e chiudeva la porta in modo che gli insetti evacuassero), con il cesto raccoglievamo i fichi, collaboravamo per la vendemmia e una volta con il cappello da prete in testa, per ripararci dal sole, zappammo una striscia di terra in segno di buona volontà. E quando zio Martino, riceveva qualche sacerdote desideroso di confessarsi, noi andavamo verso il trullo di Antonietta, quasi sempre solitario, e intorno al nostro si creava un silenzio assoluto. Insomma, zio Martino è stato un ottimo precettore; e se io sono oggi quello che sono lo devo anche a lui.
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