Peppino Miccoli |
E GLI AMICI CHE SE SONO ANDATI
Fortunatamente
sono arrivati dalla
Bimare due amici, Mara e Pino, che
abitano Trullo Gigio, che da molto
tempo non aveva respiri. Imponente
sotto una quercia secolare, che domina
il paesaggio.
Franco Presicci
D’estate salgo sul Chiancaro, a piedi come una volta, per risentire le voci degli amici che se ne sono andati, rivedere i luoghi mai dimenticati: la “vedovella” poco frequentata che ancora versa acqua fresca nei bottiglioni; i trulli rinfrescati, ancora intatti; le gobbe di pietra del vignale oggi nascoste sotto la terra ricca di filari di viti; il trulletto con la paglia quasi attaccato al muro a secco; il fondo che fu di Giovanni, curvato dalle fatiche sulla zolla; le ragazzine che giocavano a “Mammà s’ha perse ‘a scarpe de sete”; Pierino che non voleva fare il calzolaio come il padre; Ciccillo, che resisteva nel suo stato di scapolo.
Giovanni Montanaro al torchio |
Tutto torna nella mia immaginazione. Cerco di captare i passi lenti, cadenzati dello zio prete: l’atmosfera di oltre settat’anni fa, e baluginano le figure di mio nonno Ciccio, seduto sotto una bouganville cresciuta con la forma di una campana fabbricata da Giuseppe Bellucci; della nonna affaccendata vicino alla cucina monacale; di zio Martino che, deposta la tonaca sull’attaccapanni, si è accomodato con i pantaloni alla zuava a ridosso della porta del trullo grande mentre legge il breviario. Guardo tutto, i muretti a secco ancora ben tenuti, le case a cappuccio che mi erano familiari, l’entrata del trullo di Giovanni, alto, con diversi coni, possente, anche se antico, dominatore di una distesa di verde, ed emergono ancora scene del passato: le serate ritmate da chitarre e mandolini, gli scherzi, i racconti di maghi della pioggia. I ricordi pungono come i rovi. Scendo dal Chiangaro, arrivo a San Francesco, compero mezzo chilo di mozzarelle e uno di pane da Fragnelli, entro nell’auto che ho parcheggiato davanti alla ferramenta “La Madonnina” e metto in moto. Su via Mottola il mio sguardo sbircia altre case a cono di gelato, gli sbocchi dei tratturi, la chiesetta in cui ancora qualche sacerdote dice messa, e poi entro nel nostro, sulla destra, lungo quasi cinquecento metri, in terra battuta, con un trullo scapitozzato invaso dagli sterpi, incuria da condannare perché questo è uno sfregio alla bellezza di Martina. Infine, proprio di fronte a noi, il vigneto di Peppino infestato dalla peronospera, che fa piangere il cuore.
La vigana colpita dalla peronospera |
Quanto sudore versato per quei grappoli, che rischiano di essere strappati. E’ bello, silenzioso, risposante, tranquillo, il nostro tratturo. Ma oggi è come una vena senza sangue: a poco a poco si è svuotato. E’ rimasto il rumore del trattore che traccia solchi nella terra e quelli della motozappa o del tagliaerba di Donato, giovane buono, devoto di San Pio, lavoratore instancabile forse anche per vincere la solitudine. Ciao, Martina. Me ne sto seduto sul piazzale, dando un occhio al glicine che cerca di buttar giù la struttura che ormai fa fatica a sopportarne il carico; osservo gli alberi più vicini, l’alloro e il fico fasanese, e mentalmente passo in rassegna gli amici che sono scomparsi. Penso alle tavolate, ai giochi con la pompa dell’acqua, ai canti, al forno quasi sempre acceso la domenica sera, per confezionare pizze e panzerotti, alle chiacchierate davanti al cancello del trullo di Maria, allo scarpone abbandonato sul muretto a secco di Peppino, che non c’è più da tanto tempo.
Il trattore |
Gatto nel tratturo |
Trulli lungo il tratturo |
Lo faccio tante volte, quel percorso, per andare dai miei cari amici Argese e Gacobelli, e non incontro che carretti, furgoni, trattori e auto veloci come all’autodromo di Monza. Mi ristora il loro affetto e mi deliziano le partite a scopone con Vito, Angela e mia moglie Irene. Cosimina e Matteo, Antonella, Nicola riempiono di voci i pomeriggi, i figli Gerardo e Vito “junior” meditano sul prossimo esame all’università. Qualche volta passeggio su un altro tratturo, dove mi accoglie una signora che fa il formaggio, ha mucche e tori, qualche maiale, e vende le uova e altre cose. E lì mi fermo una decina di minuti a stuzzicare le galline che starnazzano nel cortile. La signora è gentile, premurosa, anche se scuce soltanto solo un paio di parole, tra dolci sorrisi. L’aria della campagna fa bene allo spirito. Gli amici mi vengono a trovare e quando mi chiedono che cosa faccia dalla mattina alla sera, non dico che leggo o scrivo, che mi stendo sulla sedia a sdraio e ascolto l’ulivo e il fico, che hanno l’età di Matusalemme, loquaci soprattutto quando li dondola il vento e l’autopompa di Teodosio non gracchia mentre innaffia l’orto. Qualcuno arriva da Milano, soggiorna a Taranto e fa un salto da me a Martina. S’inebria davanti al paesaggio e manifesta un po’ di invidia per la vita che conduco tra noci e mandorli, cachi e ciliegi ed esalta Taranto come un gioiello, con il Mar Piccolo e le barche che vi danzano, la ringhiera con l’affaccio sull’altro mare, il Grande, ma loro hanno la cotta per il verde, che è un dono di Dio: Martina.
La vigna oltre il tratturo |
Io do energia all’invidia, adducendo che spesso parlo all’alloro e all’ulivo e che loro mi ascoltano pur senza rispondermi perché parliamo linguaggi diversi. Non mi credono, naturalmente, ma la loro invidia, non ostile, non bieca, non maligna, ma benevola, quella che si dichiara per fare un complimento, per tutta questa pace che mi avvolge, per questo panorama baciato dal sole. E quando arriva il vento i rami degli alberi dondolando emettono una musica dolce che induce al sogno. E’ sul piazzale che apparecchiamo la tavola, non disturbati dal passaggio di qualche auto, magari quella di Teodosio, che sale verso il Trullo Gigio, fino a ieri solitario e da qualche mese abitato da Mara e Pino, due tarantini veraci, di quelli che si ascoltano volentieri quando parlano il dialetto, sonoro, onomatopeico. Gli amici godono alla vista delle orecchiette e delle altre specialità: fegatini, mozzarelle, capocollo del luogo, fioroni, susine, pesche. Mio cugino Francesco, martinese che viveva a Taranto, parlava con il fico che sta su un lato del parcheggio delle macchine. Lo sorpresi mentre gli diceva. “Tu hai avuto il coraggio di prendermi in giro. Ti credi furbo? Mi hai colpito alle spalle, a tradimento. Se non fossi un fico storico, ti riempirei d’insulti”. Rimasi ad ascoltare attento e interessato il seguito.
Tratturo in salita |
E capii che l’albero era innocente: era stato lui ad innestare su quel tronco un profico. Era capatosta, s’infilava in polemiche pretestuose che non finivano mai. Per lui la maggiorana che abbiamo sul bordo dell’altro piazzale era origano e non ci fu verso di indurlo alla ragione. Ma era un galantuomo, innamorato dei campi. Lasciava nello sgabuzzino, di cui aveva le chiavi, i suoi scarponi e li calzava d’inverno, quando veniva a controllare, ma in verità per trascorrere un paio d’ore in questo paradiso. Prima di Peppino il fondo me lo curava “Memìne cape de pètre”, che mi aveva chiesto il permesso di piantare una volta i lupini e un’altra volta le fave, ma quando arrivavo trovavo le piante spogliate e la terra non curata abbastanza. Uno che si diceva contadino potò gli ulivi fuori tempo e ne fece morire cinque. Maria lo rimproverò e lui le rispose con arroganza. Poi ho scelto Donato, che vive da solo nel trullo lasciatogli dal padre Giovanni e dalla madre Stellina, il primo portato via dal Covid, la seconda da una strana malattia.
Quercia alla fine del tratturo |
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