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mercoledì 17 gennaio 2024

Quando avevano i pantaloncini corti


GIOCAVAMO AL CALCIO CON LA PALLA DI PEZZA



Il nostro campo era la strada: quattro
sassi per fare la porta e poi il fischio
dell’arbitro, che non aveva mai visto
una partita vera. Ci divertivamo anche
“c’u spezzìedde”, ma la nostra passione
più grande era “’a levòrie”: due palle
d’acciaio, le palette e “’a scìgghie”. 

 

 

 

 
 
 
 
 

Franco Presicci


Un mio caro amico milanese, curioso e intelligente, spesso m’interroga sulla mia adolescenza. In particolare è interessato a conoscere i giochi maggiormente praticati. Gli rispondo sempre volentieri, anche perché ho un bagaglio mnemonico abbastanza pieno. E se qualche volta il contenitore fatica ad aprirsi, ho il mio pronto soccorso negli amici Antonio De Florio, comandante di Foto Taranto com’era su Facebook e studioso della città; e di Cataldo Sferra, poeta, scrittore e anche lui esploratore della bimare di una volta. A Cataldo ricorro per qualche immagine, che lui pesca nel suo archivio personale; e in questa occasione ha trovato quelle su “’a levòrie”.
'a levòrie

La livoria, mamma quante volte ci ho giocato sul marciapiede in terra battuta, più largo che lungo, davanti a casa, con la nonna che occhieggiava dalla finestra, sferruzzando. Io la guardavo con la coda dell’occhio mentre posizionavamo “’a scìgghie”, cerchio di ferro saldato a un chiodo, impugnavamo ognuno una paletta di legno e a turno lanciavamo la palla, d’acciaio, verso “‘a scìgghie“ con l’intento di attraversarla, per guadagnare un punto. Se le palle venivano a trovarsi in una situazione ideale per far realizzare due punti, chi doveva tirare, dopo aver proclamato “cape, ce madène jè fatte, pàlle, palètte e levòrie”, lanciava la propria palla contro quella avversaria e se riusciva a farle superare la linea, “’a menàte”, da cui il gioco era partito, era per lui un trionfo. La “platea” che si era formata attorno a noi applaudiva.

Questo passatempo era molto diffuso, anche nella città vecchia, dove tra le barche e le reti, si divertivano anche i grandi, come testimoniano alcune foto di Nicola Giudetti, titolare di un piccolo museo a Taranto vecchia, pittore e poeta, custode della Taranto di allora. Un’icona.
Sferra mostra come si giocava alla livoria
Io ho vissuto i tempi del dopoguerra, quella dei portafogli vuoti, che non ci consentivano di procurarci un pallone; e se avevamo voglia di giocare a calcio, confezionavamo una “palla di pezza”, con stracci legati da giri di spago, improvvisavamo le porte con quattro sassi e via pedate facendo chiasso quando si spiazzava il portiere. Il campo lo montavamo proprio di fronte a casa mia, in via Nettuno, quartiere Tre Carrare, separato dalla campagna da due vie.

Un giorno da un tale acquartierato con il suo banchetto all’angolo tra via Dalò Alfieri e via Giovan Giovine, tassandoci, comperammo una quindicina si caramelle, sperando di trovarvi il biglietto vincente (un pallone), reclamizzato dal vaso di vetro. Fummo fortunati e andammo subito al “monte delle vacche”, tra via Leonida, viale Virgilio e piazza Marconi, area su cui oggi sorge l’ospedale Santissima Annunziata, e facemmo tante partite da spellare la sfera, al punto da renderla inservibile.

A volte giocavamo “’o spezzìdde”: un bastoncino doveva colpire un legnetto smussato alle estremità facendolo saltare e subito senza che toccasse terra colpirlo per farlo andare il più lontano possibile. Che gioia “’u currùchele”: una specie di trottola che tirando uno spago girava su un ferro appuntito. Facevamo dei gruppi e chi faceva vorticare di più il proprio aveva la soddisfazione ... di assestare “azzugnàte” sulla testa di quello dei rivali, provocando buchi, che, sommati, rendevano “’u currùchele” una specie di cimelio. Il piacere più intenso lo provavamo quando, ancora in movimento, attraverso le dita indice e medio, lo facevamo saltare sul palmo della mano, dove continuava sino a quando si afflosciava.
'u spezziedde

Chi preferiva ‘u turnìedde” tracciava un cerchio con il gessetto sul pavimento e da circa tre metri di distanza lanciava soldini o bottoni, che se non superavano la linea al primo colpo dovevano essere spinte con il dito medio: chi centrava prendeva tutto. Ho consumato tanto gesso, per tracciare quel cerchio in casa della nonna, che odiava la “livoria” per la mia mania di realizzare i “capi” intaccando i piedi dell’armadio e del comò.
Non esistevano i telefonini e se li avessero inventati a quei tempi non avremmo potuto averli, quindi niente giochi con quegli apparecchi. In casa avevamo la radio, che la domenica pomeriggio trasmetteva da Bari “La caravella”, trasmissione spassosa con protagonisti Colìne e Mariètte, che incontrerò a Milano in un ristorante dopo una mostra di Filippo Alto nella galleria di Renzo Cortina, in piazza Cavour. La televisione era di là da venire, e quando arrivò se la potevano permettere in pochi. La domenica, se volevamo vedere il Taranto, dovevamo aspettare fuori dell’ingresso gli ultimi dieci minuti della partita, perchè allora ci facevano entrare gratis, se la squadra di casa aveva segnato.

Il mio giovane amico mi chiede se io abbia mai partecipato a “Patrune e sòtte”. No, perché per me non era un gioco, ma un supplizio. Solo una volta mi capitò di sbilluciare da un varco per vedere qualche passaggio: eletti i due conduttori del gioco, appunto “’u patrùne” e “’u sòtte”, il secondo chiese al primo: “Ce dìce, facìme bèvere ddò’ dìscete de mìere a Cellùzze?”; e ‘u patrùne”, con l’atteggiamento di chi si crede superiore, rispose: “Cellùzze non è affidabile e ha diverse colpe da scontare. Jè petteddàre, stangachiàzze, mbàme, ‘mberatòre. Perciò facìme bèvere a Memìne, ca mèrete”.
'u currùchele
Mimino, che probabilmente non era uno stinco di santo, ma riabilitato dal despota, era quello destinato all’ubriacatura. I conduttori del gioco irrompevano nell’intimità della vittima, affermando cose che lo stesso interessato non conosceva. Dopo tanto tempo lessi un libro di Roger Vailland, “La Legge”, da cui nel ‘58 fu tratto un film di Jules Dassin, con Gina Lollobrigida, Marcello Mastroianni, Giancarlo Tedeschi, Vittorio Caprioli ed altri, film non esaltante, secondo il critico cinematografico Morando Morandini. Nella finzione cinematografica, nel palleggio tra “patrùne” e “sòtte” viene tritata la frequentazione di una bellissima donna, per cui sbavano molti uomini del paese, con un giovane aitante. E’ la moglie di una persona molto in vista, ma questo non basta a risparmiarla dalla lotta tra i forti contro i deboli.

Uno svago dei miei coetanei colpiva le persone anziane, soprattutto nelle giornate d’inverno: lasciavano per terra un portafoglio vuoto legato a un filo; quando il vegliardo, andando verso il tabacchino di don Damiano per comperare il sigaro, vedeva il malloppo si piegava con fatica per prenderlo, le “vastase”, nascosti in un portone, tiravano e il malcapitato lo seguiva fino a quando non si accorgeva del truppo e inveiva contro le sganasciate degli… attori.
'a ròzzele


Qualche volta mi dilettavo anche da solo con a le “cìnghe pètre”: si spargevano a terra quei piccoli sassi, se ne lanciava uno in alto e mentre quello ricadeva bisognava prenderlo in mano lanciando il secondo contemporaneamente, e così via. Gioco semplice, basato sull’abilità e sulla prontezza di riflessi. Tentai di coinvolgere un tale che abitava nel mio stesso stabile, nonostante avesse più anni di me. Fu tentato di accettare, ma si tirò indietro, perché non si sentiva sicuro di farcela. Si fece avanti Vincenzo, altro vicinante, che ho poi perso di vista. Era un po’ fumantino e non tollerava i fallimenti.

Le ragazzine si divertivano con la campana: dopo aver disegnato a terra con il gesso dei quadretti a mo’ di mosaico da saltare con una gamba sola, lo facevano canterellando. I maschietti non avevano alcuna riserva ad imitarle, qualche volta. Un giorno decisi di partecipare a un gioco che poteva essere pericoloso. Non ricordo come si chiamasse, e non è il caso che io faccia squillare il telefono di Antonio De Florio, che può essere impegnato in uno dei suoi coinvolgenti video con la recitazione della bravissima Amalia Ressa. Cerco di ricreare la situazione: praticavamo un fossetto nel terreno, vi deponevano un pezzetto di carburo, coprivano con un barattolo fornito di un buco, avvicinavamo un fiammifero e il contenitore partiva come un razzo raggiungendo l’altezza di diversi metri. Un pomeriggio il salto e il rumore frantumò la conversazione di un gruppetto di signore sedute sotto la finestra della tranquilla famiglia Schirano, spaventandolo.
'u currùchele

Che dire della sassaiola organizzata e mai eseguita tra ragazzi di vie vicine. Ogni giorno veniva rimandata, uno dei ragazzi ammucchiò delle pietre, che rimasero come testimonianza della nostra ingenuità. Meglio “’u cavallucce” (non giuro che questo fosse il nome): il salto sulla schiena piegata di un compagno: si prendeva la ricorsa e via su quella specie di sella, come fanno certi “cow-boy” nei film di Jhon Wayne, Nessuno si faceva male.

Credo che i miei ricordi siano limpidi come l’acqua di un fiume non contaminato. E proprio un fiume, per me sacro, il Galeso ospitava le mie passeggiate con due o tre compagni di scuola. Disubbidivo a mia mamma, che voleva sempre essere certa che non mi allontanassi. Ero attirato da questo corso d’acqua che scoprirò essere stato decantato da Orazio, Virgilio e tanti poeti più recenti... Facevo anche piccole passeggiate attorno all’isolato di casa con il mio amico Pierino Lincesso, che non ho mai più incontrato. Ho rivisto invece Marino Ceci, cinque anni meno di me, che abitava in via Nettuno, due numeri più avanti rispetto al mio. Marino ama la musica, suona il pianoforte, ha diretto vari complessi ed è stato un ottimo educatore, tanto che a Martina gli vogliono bene anche quelli che non hanno insegnato avendolo come direttore.

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