IL COMANDANTE FRANCO CARROZZO SI E’ SPENTO A MARTINA FRANCA

il comandante Franco Carrozzo
Dopo tantissimi anni lo rividi mentre andava dal
cortile del Palazzo Ducale alla tabaccheria di Paolo, che sta di fronte. Un abbraccio e tanta commozione. Adesso fluiscono i ricordi.

FRANCO PRESICCI
Si passa una vita a voler bene a un amico, poi arriva la maledetta e se lo porta via. E un pezzo di castello crolla, una parte del tuo cuore si spezza.
Ti sembra ed è vero. Lo incontravi, gli telefonavi e poi lo spazio che occupava si svuota e non sai più dove cercarlo. A poco a poco le presenze care svaniscono, vanno a popolare altri mondi, sconosciuti, lontanissimi, non come la Groenlandia, molto, ma molto di più: una distanza che non può misurarsi in chilometri, in miglia.
Il mio carissimo amico Franco Carrozzo, la mia stessa data di nascita all’anagrafe, giorni fa è stato strappato alla vita; come un ulivo che si trasforma in una scultura naturale. E ha seminato dolore. Franco Carrozzo era un uomo esemplare, legato a principi sani e solidi, di quelli che si sono polverizzati. Era onesto, serio, rispettoso delle leggi e delle istituzioni, rigoroso nel suo ruolo di comandante dei vigili urbani di Martina Franca. La divisa che indossava non lo rendeva autoritario, non lo distanziava dai cittadini, ai quali invece andava incontro. Quando ero a Martina e a volte andavo a trovarlo in ufficio avvertivo il rispetto e l’affetto dei suoi collaboratori; quando uscivamo per andare a bere una bibita al caffè di piazza Roma, di fronte al Palazzo Ducale, qualcuno gli si avvicinava, chiedendogli un consiglio, un’informazione; e lui con il sorriso ritardava il passo per dare risposta appropriata.
Franco Carrozzo era amato, stimato, come lo era stato a Montescaglioso, dal 2012 detta “Gioiello d’Italia”. Era nato come me a Taranto, e di Taranto ricordava spesso le bellezze nei nostri incontri estivi, quando gli facevo visita con mia moglie in campagna. In quell’oasi di serenità e di pace trovavo la moglie Rosa, dolce e ospitale, i suoceri, Leonardo e Cocetta, generosi e cortesi, i figli Norma, oggi medico, e Leonardo ingegnere, con cui facevo qualche partita a bocce, subendo una sconfitta dietro l’altra.
Quando non riceveva amici Franco leggeva o suonava il pianoforte. A volte saliva sui trulli per accertare che tutto fosse a posto, anche se quei “cappucci” erano ancora compatti, per la cura che avevano avuto nel tempo; o faceva due passi tra i mandorli. Un giorno m’invitò a seguirlo, e si lamentò nel trovare il terreno seminato di involucri vuoti: i cacciatori, dopo aver sparato agli uccelli, non avevano l’accortezza di raccoglierli. Franco commentò senza acrimonia, ma con pazienza. Sempre misurato, tollerante, comprensivo, pacato. Non gli ho mai sentito fare un pettegolezzo, mai una malignità, mai un parola fuori delle righe. Aveva una fede profonda e osservava nella vita il Vangelo. Amava la musica lirica ed era sempre presente alla serata inaugurale del Festival della Valle d’Itria, nel cortile di Palazzo Ducale, e ne seguiva tutto il programma.
Era vicino ai suoi concittadini. Di tanti era amico. Tra questi, Alessandro Caroli, che aveva ideato e curato per qualche anno il Festival, imboccando poi la via per l’Australia. Alcuni vivevano e lavoravano al Nord e non mancavano di chiamarlo o di fare un salto da lui nel periodo delle vacanze.
Lasciato il servizio per limiti di età, preferì godersi la campagna, la sua atmosfera, il suo incanto. Ed è lì che andavo a trovarlo, qualche volta anche d’inverno, sorprendendolo accanto al camino, con un libro di storia in mano. Il comandante si teneva aggiornato. A volte parlavamo di Taranto, delle sue tradizioni, delle sue celebrazioni liturgiche, della vita di una volta, dei tramonti che si accendono sul Castello.
Avevamo 11 anni quando ci conoscemmo al Collegio Manzoni, a Taranto, direttore il professor Agrusta, martinese intransigente e colto, occhiali alla Cavour, robusto. Ottimo insegnante di latino e italiano, ma dava anche lezioni di vita. Franco, che aveva anche il mio stesso nome, era bravo, corretto, silenzioso, buono, disciplinato; io vivace e scherzoso. Poi ci perdemmo di vista. Ogni tanto chiedevo a mio cugino Enzo se avesse notizie di Franco Carrozzo, “sai quel ragazzo esemplare che sedeva nel banco di fianco al tuo”. Ma lui non aveva memoria del passato. Non si ricordava neppure di quel tale che all’ora di pranzo si piazzava davanti ai compagni con il tovagliolo legato al collo e raccontava brani di storie di Tom Mix tratte da film che non aveva visto e di tanto in tanto piluccava uno spicchio di arancia o sottraeva uno scampolo di salsiccia dal piatto degli ingenui ascoltatori.
Rivolgendosi a un ragazzo poco volenteroso, il direttore faceva un verso: Ciù, ciù, e ciù”, per dire ciuccio, e io schizzai una locomotiva a vapore sulla lavagna con quella scritta tra il fumo emesso dall’imbuto della a macchina. Franco mi rimproverò amabilmente, mentre il direttore, rientrato dal banchetto, mi punì, facendosi consegnare il cestino con la colazione. Punizione inutile, perché il mattino, andando al collegio, lasciavo il contenuto del canestrino a una vecchietta, che, con un bambino tra le braccia, mendicava davanti all’arsenale. Lo riferii sottovoce a Franco e lui: “Lo vedi, sei buono, ma dovresti essere meno agitato”. Franco era già adulto, nonostante la giovanissima età.
I ricordi non scoppiettano, scorrono, scivolano come pattini sul ghiaccio e a volte fanno male, come il tempo che passa inesorabile, travolgendo le persone più care. E in questi miei ricordi non sono il nonno che racconta le sue esperienze, i suoi affetti ai nipoti seduti accanto al braciere nelle sere d’inverno. Io Franco me lo immagino vivo, lo rivedo seduto vicino alla sua Rosa, che offre all’ospite un piatto policromatico pieno di fichidindia o di dolcetti fatti in casa.
Che accoglienza quando andavo dai Carrozzo, dove mi capitava di discutere con Norma (nome tratto dall’opera di Bellini), che andava ancora al liceo ed era preparatissima non soltanto nelle materie scolastiche. Leonardo era taciturno, riservato, ma già alto, anche lui, nella mente e sollecito nel dare una mano al papà. Tutta opera di Rosa e Franco, che li educavano con l’esempio, rispettando le virtù innate dei ragazzi.
Mi trovavo a mio agio dai Carrozzo ed ero felice di averli amici, stato d’animo che mi coglieva appena imboccavo il tratturo, sulla sinistra della via per Ceglie. Avevo da imparare da Franco, glielo dissi e lui alzò le spalle. Io vivo nel dubbio e lo ammiravo anche per la sua fede, che ispirava ogni suo gesto; lo ammiravo per la sua calma, per la sua dolcezza; per la sua capacità di garantire la sicurezza nella città con pochi uomini e pochi mezzi. Lo sentivo dire dagli amici che frequentavo spesso, apprendendo molti fatti di Martina. Non fu Franco a dirmi che era comandante dei vigili dal ‘62, quando a reggere le sorti del Comune era Alberico Motolese e dopo di lui Franco Punzi, che poi assunse la guida, come presidente, del Festival della Valle d’Itria, non da oggi celebrato in tutto il mondo.
Un giorno mi fece dono di un libro che aveva scritto sulla storia dei vigili urbani di Martina, con tante pagine riservate alle immagini dei momenti solenni della città: la visita di Sandro Pertini, nel 1980, accompagnato da altre personalità, tra cui Paolo Grassi, presidente della Rai; e di Papa Giovanni Paolo II, nel 1989. Franco ricordava quelle visite con emozione. E ricordava il giorno in cui, nel ‘66, era stato ricevuto da Paolo VI, in udienza privata, nella Sala dei Paramenti in Vaticano, accompagnato da Franco Punzi e da una delegazione di vigili; e aveva consegnato al Papa una somma per il popolo indiano, raccolta a Martina in un’iniziativa promossa da lui stesso anche tra i cittadini.
L’avvocato Giovanni Chisena, che avevo conosciuto in tribunale a Taranto una ventina di anni prima, durante le passeggiate dallo stradone a piazza Roma e da qui a piazza XX Settembre, mi parlava dei personaggi illustri della città e della stima che provava per Franco Carrozzo. Chisena vedeva soltanto delle ombre ed era sempre accompagnato da un amico. Sapeva tutto di Martina. Un giorno mi fece una lezione sui pomodori appesi (mi serviva per un articolo) e mi parlò di un terribile delitto avvenuto a Martina, senza entrare nei particolari e senza fare nomi.
Toh, la mente mi riporta al quando rividi per la prima volta Franco Carrozzo a Martina. Stava attraversando la piazza, affollata di turisti, per entrare nell’edicola-tabaccheria di Paolo. Credetti di riconoscerlo, lo seguii ed ebbi la gioia di appurare che era proprio lui, il compagno di scuola al collegio Manzoni. Da allora l’amicizia si rinsaldò.
Franco Carrozzo adesso non c’è più. In quel tratturo non è rimasta l’eco dei suoi passi, che erano felpati; ma il comandante rimarrà sempre nel cuore dei suoi cari. E nel mio.
![]() |
Franco Carrozzo in divisa |
Ti sembra ed è vero. Lo incontravi, gli telefonavi e poi lo spazio che occupava si svuota e non sai più dove cercarlo. A poco a poco le presenze care svaniscono, vanno a popolare altri mondi, sconosciuti, lontanissimi, non come la Groenlandia, molto, ma molto di più: una distanza che non può misurarsi in chilometri, in miglia.
Il mio carissimo amico Franco Carrozzo, la mia stessa data di nascita all’anagrafe, giorni fa è stato strappato alla vita; come un ulivo che si trasforma in una scultura naturale. E ha seminato dolore. Franco Carrozzo era un uomo esemplare, legato a principi sani e solidi, di quelli che si sono polverizzati. Era onesto, serio, rispettoso delle leggi e delle istituzioni, rigoroso nel suo ruolo di comandante dei vigili urbani di Martina Franca. La divisa che indossava non lo rendeva autoritario, non lo distanziava dai cittadini, ai quali invece andava incontro. Quando ero a Martina e a volte andavo a trovarlo in ufficio avvertivo il rispetto e l’affetto dei suoi collaboratori; quando uscivamo per andare a bere una bibita al caffè di piazza Roma, di fronte al Palazzo Ducale, qualcuno gli si avvicinava, chiedendogli un consiglio, un’informazione; e lui con il sorriso ritardava il passo per dare risposta appropriata.
Franco Carrozzo era amato, stimato, come lo era stato a Montescaglioso, dal 2012 detta “Gioiello d’Italia”. Era nato come me a Taranto, e di Taranto ricordava spesso le bellezze nei nostri incontri estivi, quando gli facevo visita con mia moglie in campagna. In quell’oasi di serenità e di pace trovavo la moglie Rosa, dolce e ospitale, i suoceri, Leonardo e Cocetta, generosi e cortesi, i figli Norma, oggi medico, e Leonardo ingegnere, con cui facevo qualche partita a bocce, subendo una sconfitta dietro l’altra.
![]() |
Il Ponte Girevole di Taranto |
Quando non riceveva amici Franco leggeva o suonava il pianoforte. A volte saliva sui trulli per accertare che tutto fosse a posto, anche se quei “cappucci” erano ancora compatti, per la cura che avevano avuto nel tempo; o faceva due passi tra i mandorli. Un giorno m’invitò a seguirlo, e si lamentò nel trovare il terreno seminato di involucri vuoti: i cacciatori, dopo aver sparato agli uccelli, non avevano l’accortezza di raccoglierli. Franco commentò senza acrimonia, ma con pazienza. Sempre misurato, tollerante, comprensivo, pacato. Non gli ho mai sentito fare un pettegolezzo, mai una malignità, mai un parola fuori delle righe. Aveva una fede profonda e osservava nella vita il Vangelo. Amava la musica lirica ed era sempre presente alla serata inaugurale del Festival della Valle d’Itria, nel cortile di Palazzo Ducale, e ne seguiva tutto il programma.
Era vicino ai suoi concittadini. Di tanti era amico. Tra questi, Alessandro Caroli, che aveva ideato e curato per qualche anno il Festival, imboccando poi la via per l’Australia. Alcuni vivevano e lavoravano al Nord e non mancavano di chiamarlo o di fare un salto da lui nel periodo delle vacanze.
![]() |
trullo sul Chiancaro |
Lasciato il servizio per limiti di età, preferì godersi la campagna, la sua atmosfera, il suo incanto. Ed è lì che andavo a trovarlo, qualche volta anche d’inverno, sorprendendolo accanto al camino, con un libro di storia in mano. Il comandante si teneva aggiornato. A volte parlavamo di Taranto, delle sue tradizioni, delle sue celebrazioni liturgiche, della vita di una volta, dei tramonti che si accendono sul Castello.
Avevamo 11 anni quando ci conoscemmo al Collegio Manzoni, a Taranto, direttore il professor Agrusta, martinese intransigente e colto, occhiali alla Cavour, robusto. Ottimo insegnante di latino e italiano, ma dava anche lezioni di vita. Franco, che aveva anche il mio stesso nome, era bravo, corretto, silenzioso, buono, disciplinato; io vivace e scherzoso. Poi ci perdemmo di vista. Ogni tanto chiedevo a mio cugino Enzo se avesse notizie di Franco Carrozzo, “sai quel ragazzo esemplare che sedeva nel banco di fianco al tuo”. Ma lui non aveva memoria del passato. Non si ricordava neppure di quel tale che all’ora di pranzo si piazzava davanti ai compagni con il tovagliolo legato al collo e raccontava brani di storie di Tom Mix tratte da film che non aveva visto e di tanto in tanto piluccava uno spicchio di arancia o sottraeva uno scampolo di salsiccia dal piatto degli ingenui ascoltatori.
![]() |
Carrozzo ad un cnmvegno |
I ricordi non scoppiettano, scorrono, scivolano come pattini sul ghiaccio e a volte fanno male, come il tempo che passa inesorabile, travolgendo le persone più care. E in questi miei ricordi non sono il nonno che racconta le sue esperienze, i suoi affetti ai nipoti seduti accanto al braciere nelle sere d’inverno. Io Franco me lo immagino vivo, lo rivedo seduto vicino alla sua Rosa, che offre all’ospite un piatto policromatico pieno di fichidindia o di dolcetti fatti in casa.
Che accoglienza quando andavo dai Carrozzo, dove mi capitava di discutere con Norma (nome tratto dall’opera di Bellini), che andava ancora al liceo ed era preparatissima non soltanto nelle materie scolastiche. Leonardo era taciturno, riservato, ma già alto, anche lui, nella mente e sollecito nel dare una mano al papà. Tutta opera di Rosa e Franco, che li educavano con l’esempio, rispettando le virtù innate dei ragazzi.
![]() |
Pertini, Grassi, Carrozzo, foto Messia |
Mi trovavo a mio agio dai Carrozzo ed ero felice di averli amici, stato d’animo che mi coglieva appena imboccavo il tratturo, sulla sinistra della via per Ceglie. Avevo da imparare da Franco, glielo dissi e lui alzò le spalle. Io vivo nel dubbio e lo ammiravo anche per la sua fede, che ispirava ogni suo gesto; lo ammiravo per la sua calma, per la sua dolcezza; per la sua capacità di garantire la sicurezza nella città con pochi uomini e pochi mezzi. Lo sentivo dire dagli amici che frequentavo spesso, apprendendo molti fatti di Martina. Non fu Franco a dirmi che era comandante dei vigili dal ‘62, quando a reggere le sorti del Comune era Alberico Motolese e dopo di lui Franco Punzi, che poi assunse la guida, come presidente, del Festival della Valle d’Itria, non da oggi celebrato in tutto il mondo.
Un giorno mi fece dono di un libro che aveva scritto sulla storia dei vigili urbani di Martina, con tante pagine riservate alle immagini dei momenti solenni della città: la visita di Sandro Pertini, nel 1980, accompagnato da altre personalità, tra cui Paolo Grassi, presidente della Rai; e di Papa Giovanni Paolo II, nel 1989. Franco ricordava quelle visite con emozione. E ricordava il giorno in cui, nel ‘66, era stato ricevuto da Paolo VI, in udienza privata, nella Sala dei Paramenti in Vaticano, accompagnato da Franco Punzi e da una delegazione di vigili; e aveva consegnato al Papa una somma per il popolo indiano, raccolta a Martina in un’iniziativa promossa da lui stesso anche tra i cittadini.
![]() |
Paolo VI, Punzi, Carrozzo, e due vigili di Martina |
L’avvocato Giovanni Chisena, che avevo conosciuto in tribunale a Taranto una ventina di anni prima, durante le passeggiate dallo stradone a piazza Roma e da qui a piazza XX Settembre, mi parlava dei personaggi illustri della città e della stima che provava per Franco Carrozzo. Chisena vedeva soltanto delle ombre ed era sempre accompagnato da un amico. Sapeva tutto di Martina. Un giorno mi fece una lezione sui pomodori appesi (mi serviva per un articolo) e mi parlò di un terribile delitto avvenuto a Martina, senza entrare nei particolari e senza fare nomi.
Toh, la mente mi riporta al quando rividi per la prima volta Franco Carrozzo a Martina. Stava attraversando la piazza, affollata di turisti, per entrare nell’edicola-tabaccheria di Paolo. Credetti di riconoscerlo, lo seguii ed ebbi la gioia di appurare che era proprio lui, il compagno di scuola al collegio Manzoni. Da allora l’amicizia si rinsaldò.
Franco Carrozzo adesso non c’è più. In quel tratturo non è rimasta l’eco dei suoi passi, che erano felpati; ma il comandante rimarrà sempre nel cuore dei suoi cari. E nel mio.