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mercoledì 31 dicembre 2025

Un ricordo di Vito Arienti

UN RICORDO DI VITO ARIENTI

 

 


Vito Arienti 
Aveva migliaia di pezzi di ogni parte del mondo;uno giunto dalla Cina in occasione della diplomazia del ping pong. Viveva a Lissone e aveva una tipografia, dove prese a stampare mazzi eseguiti da giovani talenti

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
Con quella faccia da Gino Cervi, alto, robusto, colto, simpatico, un sorriso compiaciuto, esperto in grafica, titolare di una tipografia, era ammirato dai suoi concittadini.
L'Imperatore
Nato a Desio, un tiro di fionda da Milano, viveva in una villetta, che subito dopo l’ingresso, sulla destra, aveva la sua stanza preferita con la scritta sulla porta “Teatro di Vito Arienti”. Era piena di fogli, di press-papier, qualche rosa del deserto e qualche presepe speditogli da oltreconfine... Soprattutto tarocchi storici di tutte le nazioni, addirittura dalla Cina, durante la diplomazia del ping-pong. Oltre 10mila preziosità.
Passai una notte intera in questo tempio. Lui tirava fuori dagli scaffali le carte e io le osservavo, colpito in particolare dai colori. Lui me le spiegava, mi indicava le provenienze, l’importanza. Erano tutte tenute in “tasche” di “cellophane”. C’era anche il mazzo con le scene de “I Promessi sposi” del Gonin. Si fecero le 5 del mattino e io non guadavo le lancette dell’orologio che avanzavano. Arienti parlava con voce bassa e io lo seguivo con gioia, con il rischio di perdermi fra tutti quei tesori, che lui estraeva e palpava. Perché, sosteneva, anche toccandoli davano piacere. Che esperienza. Che gioia, la stessa provata in casa del titolare dell’”Osteria del vecchio Canneto”, Barracca, la notte in cui, dopo una cena da notte di Natale a base di pesce nel suo locale, mi invitò a casa sua ad ammirare la sua collezione di orologi antichi, prelevati apposta dalla banca. Ma questo merita un capitolo a parte.
Carte della "Geografia"

Prima di salutarci Arienti mi fece una proposta. Si stava preparando a stampare un mazzo che alla sua uscita, nel 1725, scatenò il finimondo: “La Geografia intrecciata nel giuoco dei tarocchi”. Su una facciata della carta 21 era indicato a Bologna un governo misto; e questo non piacque all’arcivescovo della città felsinea, il cardinale Ruffo. che reagì condannando i mazzi al rogo, all’esilio l’autore, il canonico Montier, tutto accompagnato dal sequestro della tipografia e dalla condanna al carcere per i possessori renitenti all’ordine del falò. Io avrei dovuto fare la presentazione, ispirata dall’argomento, da includere nel mazzo. Accettai volentieri. Il mazzo, composto di 62 carte era uscito il 15 agosto del 1975.
Arienti valorizzava anche giovani talenti, fra cui un figlio, affidando loro l’incarico di realizzare mazzi. L’idea si rivelò fortunata: spuntavano carte bellissime, come “Le carte della felicità” e quelle del figlio, che aveva un disegno graffiante. Lo scopo di Arienti era anche quello di calmierare il mercato, che per quanto riguarda i prezzi era impazzito, tanto da assorbire gran parte della produzione; e quando i giapponesi gli ordinarono 250 pezzi glien’erano rimasti quattro o cinque.
Era già morto quando una sera fui invitato a cena con due o tre colleghi dal capocronista Giulio Giuzzi a Belgioioso, di cui era sindaco. Tra un piatto e l’altro lo stesso anfitrione mi disse che in una sala era in corso una mostra di tarocchi storici. Andai subito a vedere e trovai il mazzo della “Geografia intrecciata nel giuoco dei tarocchi”. Lo acquistai per regalarlo a un amico carissimo, amante anche lui di queste carte.
Carta del pittore Balbi
Arienti cominciò a stampare quando, circolando il mazzo con cui aveva giocato D’Annunzio, con un prezzo di 8 milioni, si convinse che si cominciava ad esagerare. “Non si può pretendere d’imporre queste cifre anche se con quelle carte ha giocato il vate”. Lo diceva spesso, pubblicando carte meravigliose nelle sue Edizioni del Solleone. Andava in via Armorari, il centro domenicale del collezionismo di ogni tipo, sempre pieno di bancarelle, da quelle con le cartoline d’epoca quelle dei francobolli. Si trovava di tutto: monete, cavatappi, ventagli antichi, calendarietti dei barbieri profumati, che quando dagli anni Settanta vennero distribuiti con immagini di donne velate solleticavano i destinatari. Ne ho quattro o cinque donatimi dal tonsore-scrittore Franco Bompieri, che faceva barba e capelli a Cuccia, Romiti, Tronchetti Provera, Montandelli e Matroianni e Visconti quando erano a Milano... e una volta anche a Totò nella sua stanza al grand’hotel di via Manzoni. Arienti, come me, non si sarebbe mai seduto su quella poltrona girevole, dove si accomodavano personalità di quel livello, compreso Enzo Bettiza, del “Corriere” e poi della “Stampa”, dove dedicò a Bompieri un’intera pagina.
Edizioni del Solleone di Arienti
Avevo conosciuto Vito Arienti grazie a Paolo Cavallina, il giornalista che per anni aveva curato la trasmissione radiofonica “Chiamate Roma 3131”. Aveva bisogno di rintracciare abruzzesi distintisi a Milano e io setacciai la città scrivendo articoli che uscivano a piena pagina la domenica sul “Mezzogiorno”, diretto dal giornalista fiorentino. E fu allora che entrai per la prima volta nel laboratorio del grande ceramista Giuseppe Rossicone; nell’Osteria del vecchio Canneto, in via Solferino, nello studio dello scultore Masciarelli... Un giorno a Cavallina parlai di Arienti e dei suoi tarocchi e lui accettò con entusiasmo di dargli spazio, anche se non era nato in Abruzzo.
Vito, modesto com’era, non amava apparire sui giornali soprattutto in fotografia e allora mi indicò il pittore Balbi di Genova, che aveva realizzato anche un mazzo per l’Italsider., contenuto in una scatola d’acciaio.
Il tempo avanzava e Arienti cominciò a usare il bastone, per dolori alle gambe. Lo invitai a tenere una conferenza all’Associazione regionale pugliesi, quando questa aveva la sede in piazza Duomo, come presidente Bruno Marzo, leccese collezionista di giornali salentini del’800, e addetto alle attività culturali il pittore Filippo Alto, disse di no, perché non voleva farsi vedere il giro con il sostegno. La verità era un’altra: non voleva esibirsi in pubblico, anche se sulle carte antiche e moderne aveva tantissimo da dire: la storia, le caratteristiche, la bellezza, gli autori, le tipografie.
Carta
Ricordo Arienti con grande piacere. Era un autentico gentiluomo, riservato, aperto al dialogo, cortese. Era un nome rispettato nel mondo della cartagiocofilia. Stampò anche una elenco dei nomi dei collezionisti di tutta Italia, dove figuravano anche quelli che fanno incetta di turaccioli. Era un personaggio di spicco, conosciuto nei giornali, apprezzato per la sua opera di editore, per il suo gusto. La sua “Geografia” venne accolta bene dai quotidiani, soprattutto dal “magazine” del “Giorno”, curato da Tani Curi, che veniva da Taranto, dove il padre era provveditore agli studi.
Andavo a trovarlo spesso, Arienti, nella sua tipografia che si apriva nel cortile di un palazzo. Qualche volta ci sono andato assieme a Osvaldo Menegazzi, che non aveva ancora la bottega di arte e magia vicino alla stazione Centrale. Arienti lo stimava e apprezzava il suo disegno e i suoi diorami con soldati napoleonici. Erano caratteri diversi: Arienti calmo, di poche parole; Menegazzi un vulcano, volto da eroe risorgimentale, anche lui generoso, schietto e ricco di idee. Da loro ho imparato molto e grazie a loro ho conosciuto decine di collezionisti: di bottoni, di conchiglie, di scatole di ogni genere, di francobolli, di portachiavi, di cavatappi, di menù, oltre che di soldatini di piombo e di ventagli…, che richiedono – diceva l’esperto Massimo Alberini – tempo, spazio e denaro.
Il sole
Per quando riguarda il denaro, ho conosciuto un signore con i baffi alla Umberto I di Savoia, che non avendo denaro da spendere le locomotive se le costruiva da solo con cartoncino nero e le teneva in casa dappertutto, oltre che in una cassa deposta sotto in letto, sulle mensole, nella credenza: insomma la sua casa era una stazione ferroviaria in miniatura. Un altro aveva affittato un appartamento solo per la sua collezione di soldatini di piombo, ricca di 40 mila pezzi, tutti schierati su mensole, tavoli, vetrine. Da Vito Arienti si potevano anche ammirare un presepio costruito da mano d’ artista e un paio di sculture d’autore. Arienti non c’è più da anni, ma è ancora ricordato come uomo esemplare, una figura elegante. Fui coinvolto nel settore del collezionismo da lui e da Menegazzi, che mi presentarono persone di buon livello, gelose del loro patrimonio: un direttore di banca, un architetto, un libero professionista e uno che aveva costruito nel box un plastico con i treni che circolavano tra gallerie, stazioni e campi con contadini al lavoro.

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