Il prefetto Antonio Pagnozzi con Franco Presicci |
GRUPPO CONTRO UNA MALA
AGGUERRITA
Capo
della Digos, poi della Mobile e
della Criminalpol,
s’impegnò nella lotta contro i sequestri di persona e liberò molte vittime, utilizzando anche la fantasia.
Diresse operazioni importanti, arrestando criminali di grosso calibro.
Da anni è in pensione.
Franco Presicci
Quando era capo della squadra Mobile, nell’anticamera regnava l’appuntato Spina, rigoroso, attento, puntiglioso. Teneva a bada i cronisti più giovani, indisciplinati, che tentavano di anticipare l’ora della conferenza-stampa, bussando alla porta del capo. Spina era un’ottima persona, parlava sottovoce, non perdeva mai la calma, e se appariva un funzionario si alzava in piedi di scatto.
Il prefetto Antonio Pagnozzi |
Il capo era Antonio Pagnozzi, gentiluomo prima che grande poliziotto, acuto, esperto, cortese, e lo trattava quasi come uno di famiglia. Giunta poi per Spina il giorno della pensione, durante il brindisi di saluto, gli consigliò di armarsi di una cinepresa e di peregrinare per le vie di Milano alla ricerca di bellezze da riprendere. L’ex appuntato utilizzò il consiglio, e ogni tanto tornava in questura e, a richiesta, raccontava sinteticamente e a salti gli angoli che aveva immortalato. Antonio Pagnozzi non era, e non è, come quelle persone che, conquistata una poltrona, impugnano lo scettro e prendono le distanze. No, disponibile e alla mano, non ha mai scelto gli amici fra le gerarchie, fingendo con gli altri. Piacevole il suo accento, del paese in cui è nato, Cervinara, provincia di Avellino, il cui nome, secondo la leggenda, è dettato da un altare eretto dai Romani in onore di Cerere, la dea delle messi. Non si negava mai; e, se poteva raccontare tratti di un’indagine delicata, lo faceva con molta prudenza, limitandosi a pochi particolari, resistendo con un sorriso all’insistenza di Giancarlo Rizza, il “nerista” esperto e attento del quotidiano “Il Giorno”.
Il cronista Giancarlo Rizza |
Pagnozzi con Enzo Caracciolo |
E non si citava mai: il risultato l’avevano ottenuto i suoi uomini. Lo intervistai l’11 agosto dell’85, un caldo che spaccava le pietre, nel suo ufficio alla Criminalpol, in piazza San Sepolcro, al piano terra, subito a sinistra dopo l’androne (al piano superiore aveva sede il primo distretto). In quell’edificio il 23 marzo del ’19 si tenne la riunione per la fondazione del Fascio milanese di combattimento, diretto da Mussolini, che quella riunione aveva convocato, da Ferruccio Vecchi…. Pagnozzi mi ricevette con molta cordialità, com’era ed è suo costume, e dopo le prime battute sulla nostra vita quotidiana, affrontò spontaneamente gli argomenti della conversazione. “Gli anni Sessanta furono caratterizzati da un profondo cambiamento nell’ambito della malavita. La polizia non doveva più fare i conti soltanto con i clan che agivano a Milano e nell’hinterland, senza legami con cosche e ‘ndrine’: doveva combattere vere e proprie multinazionali del crimine. Dalla Sicilia erano saliti quassù personaggi spietati, capaci di gestire l’organizzazione con criteri manageriali. Si cominciavano a intravvedere consorterie con interessi complessi, che andavano dalla rapina –‘shock’ ai sequestri di persona. Per contrastarle, occorrevano metodi diversi. Non bastava più intrufolare il poliziotto coraggioso e abile nei viluppi del malaffare, affidare un’indagine a un singolo investigatore. Bisognava creare un’’equipe”. Fu dunque proprio lui, al vertice della Mobile per dieci anni dal ’73, a intuire la necessità del lavoro basato sulla collaborazione, scoprendo tra l’altro che la criminalità camminava con un ritmo più veloce di quello della polizia. Per lui la malandra era aprofessionale: intendendo dire operava su tanti fronti: la grande “dura”, la droga, lo sfruttamento della prostituzione, i rapimenti, il riciclaggio dei soldi sporchi... A questa virata si dovette cercare una risposta adeguata. E lo fece brillantemente. Ma il cambiamento non riguardava soltanto la criminalità. Anche la gente capovolse il suo modo di pensare: quando si accorse che la polizia non stava a guardare, che quindi meritava fiducia, abbandonò la politica di farsi i fatti propri, per paura e per cautela. Furono riviste alcune leggi, come quella sugli stupefacenti, che non punì più il tossicomane come tale; e quella sulla competenza territoriale dei tribunali in materia di sequestri di persona: prima di allora la competenza apparteneva all’autorità del luogo in cui lo stato di prigionia era cessato, consentendo ai rapitori di scegliersi eventualmente il giudice; da quel momento la sentenza spettava ai magistrati del luogo in cui il reato aveva avuto inizio. “Occupandoci di sequestri – ricordò il dirigente della Criminalpool – ci siamo fatti aiutare anche dalla fantasia, improvvisando trabocchetti, “escamotage”, con il sostegno appassionato di valenti magistrati”. Per indurre i sequestratori ad attenuare le pretese, fecero credere che i dipendenti dell’ostaggio erano scesi in sciopero per giorni e giorni, assottigliando quindi il suo patrimonio.
Il prefetto Jovine,i questori Plantone e Caracciolo,lo scrittore Olivieri e il prefetto Pagnozzi |
”Un mattino alle 3, in piena nebbia e al buio, con il giudice De Liguori, facemmo un sopralluogo in uno spazio di quasi 400 chilometri per individuare i punti nevralgici in cui sistemare le nostre pedine sull’itinerario indicato dai banditi per il pagamento del riscatto”. Pagnozzi ebbe un attimo di esitazione, si passò una mano sul mento, si guardò attorno come se non volesse farsi sentire da qualcuno indaffarato in un ufficio attiguo, ma in effetti per non farsi sopraffare dalla commozione, e riprese: “Fui colpito dallo stato pietoso in cui trovammo l’industriale… rapito il 18 aprile del ’78. Legato su un letto, stremato, con evidenti lividi, che rivelavano le percosse subite dal carceriere, quando i familiari davano l’impressione di temporeggiare. Mi chiese un caffè e io glielo preparai con un bricco trovato nella prigione. Abbiamo visto dei sequestrati con le lacrime impastate con la sporcizia e la cera colata nelle orecchie perché non sentissero”.
A.Serra,A.Pagnozzi,E.Caracciolo |
Pagnozzi parlava affabilmente, a volte tenendo a freno l’emozione, soprattutto quando accennò al produttore cinematografico che, catturato l’11 gennaio del ’77 da mafia e ‘ndrangheta, rimase un anno e mezzo nelle mani dei malviventi. Fu uno di questi sequestri ad ispirare grosse operazioni che assestarono una sventola alla criminalità. “A creare notevoli problemi fu il sequestro, nell’ottobre del ’74, del figlio di un famoso imprenditore. Con i genitori, con i quali concretizzammo un rapporto di reciproco aiu, condividemmo le ansie, le tensioni facendo di tutto perchè il ragazzo venisse restituito alla famiglia. Come avvenne”. I ricordi spesso suscitano angosce, perché tra un fatto e l’altro emergono anche figure di poliziotti che hanno lasciato la vita in questa lotta senza confini e senza limiti di tempo. “Dolori a parte, sono contento del lavoro che ho svolto”.
Prima di entrare in polizia era stato ufficiale dell’Aeronautica contravvenendo ai desideri dei genitori. Aveva ancora nelle orecchie le parole del padre veterinario: “In cielo non ci sono taverne”, che è poi un detto popolare. Comunque, il figlio di Cervinara, sposato, lungimirante, ricco di umanità, nella sua lunga carriera ha mietuto successi di cui non mena mai vanto, nemmeno oggi, che si gode la pensione nella sua casa in via…. Per un periodo aveva diretto la Digos, con un faticoso impegno contro le brigate rosse, individuando fra l’altro il covo di via Subiaco.
E.Caracciolo, Pagnozzi, F.Colucci |
Il maresciallo Oscuri a destra |
Non dimentico la sua espressione che si sciolse in pianto l’8 gennaio del 1980, davanti ai corpi dei tre poliziotti del commissariato Ticinese uccisi sotto il ponte di via Schievano. Erano il vicebrigadiere Rocco Santoro, l’appuntato Antonio Cestari, l’agente Michele Tatulli, che guidava l’auto in servizio di prevenzione e vigilanza davanti alle scuole del quartiere. Qualche sera prima in un ristorante di piazza Sant’Eustorgio avevano partecipato a una cena con i colleghi del commissariato di via Tabacchi; e io ho sempre in mente il volto di Santoro, ragazzone di solito gioviale, spiritoso, di ottima compagnia: sembrava che presentisse la tragedia che stava per compiersi per mano barbara e vigliacca. Che pena al pensiero che proprio quella mattina Cestari era rientrato dalla convalescenza dopo un infarto, non ascoltando la moglie e i colleghi, tra cui l’ispettore Armando Sales, che gli avevano consigliato di rimanere a casa ancora per qualche giorno. Ricordo il figlio piccolo che in piedi su una sedia, passando l’indice sul vetro della finestra annebbiato per il freddo, tracciava segni incrociati e cerchi concentrici, con gli occhi smarriti; mentre la mamma tratteneva le lacrime di fronte al vicequestore Gaetano Antonacci e all’ispettore Sales. Dopo essere stato promosso questore, destinazione Cosenza, Genova…, Antonio Pagnozzi è diventato prefetto, carica tenuta fino alla pensione. E’ tanto tempo che non lo vedo e non lo sento. Ma ho notizie le mieto dal suo collega Francesco Colucci, che mantiene rapporti con tutti quelli che hanno lavorato in via Fatebenefratelli e vivo il ricordo di quelli, come Mario Jovine, Vito Plantone, Enzo Caracciolo, Mario Nardone, i marescialli Oscuri e Giannattasio…, che non ci sono più.
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