INSTANCABILI, ESPERTI CANI DA TARTUFI
IMPEGNATI A RISOLVERE FATTI CLAMOROSI
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Catalano, Jovine, Plantone |
La rapina di via Osoppo; quella all’oreficeria
Colombo,
in pieno centro; sequestri di persona;
rapimenti; gli anni di piombo; la bomba in via
Palestro; la strage del Lorenteggio.
Una Milano insonne e tormentata.
Franco Presicci
Ne ho conosciuti di mastini negli anni, tanti, che ho frequentato via Fatebenefratelli, dove al civico 11 c’è la questura. Uomini che scattavano ad ogni segnale e rientravano quasi sempre a mani piene.
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Piero Colaprico sul palco del Gerolamo |
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Mario Jovine |
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Ferdinando Oscuri |
Un talento di investigatore alla Mario Nardone, come quelli di Mario Jovine, napoletano che tra l’altro suonava con abilità e passione la chitarra e amava la compagnia; Antonio Pagnozzi, Ferdinando Oscuri, detto il maresciallo di ferro, un coraggio da leone, che risolse tanti delitti, alcuni nel giro di qualche ora. Professionisti che non si risparmiavano e guidati da fiuto, intelligenza, esperienza s’impegnavano con slancio in fatti clamorosi, come la rapina del 15 aprile’ 65 all’oreficeria Colombo in via Sant’Andrea, in pieno centro, messa a segno da grossi calibri della malavita, a sette anni di distanza dall’assalto al furgone portavalori in via Osoppo. Questi pilatri della questura se ne sono andati. L’ultimo Paolo Scarpis, che fu questore di Milano e prefetto di Parma. Ho passato anni interessanti in questura. Anni anche movimentati. Sequestri di persona, regolamenti di conti, con uno, due, tre vittime in una sola volta, come il 29 giugno ’84, in via Selvanesco, “una fettuccia d’asfalto che si conclude in via De ’Missaglia”, come scrisse il mio collega Piero Lotito, che, pacato e tranquillo, ma sagace, corse sul teatro del triplice assassinio con la velocità di un levriero. Lotito, che è anche scrittore di grande spessore, era un “nerista” che raccontava gli avvenimenti come in un romanzo, e si faceva leggere con piacere. A volte mi sostituiva in questura, come io avevo fatto con Giancarlo Rizza, ma poi passò alla Cultura e la nera perse una pedina importante.
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Nardone e Caracciolo |
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Presicci con Filippo Ninni |
Fu seguito da un altro bravissimo nerista, Giorgio Guaiti, che preferì occuparsi di scuola; e io rimasi solo. Ma ero innamorato del mio lavoro e correvo senza esitare su ogni fatto e stavo poi attento a non farmi sfuggire particolari, quando c’erano. Tutte le mattine alle 10.30 varcavo il portone di quel civico 11, per salire al primo piano, a destra, e poi ancora a destra, per infilarmi in sala-stampa. La concorrenza era già lì, compreso il grande Alberto Berticelli, al quale mi legava un’amicizia schietta e una solidarietà ferma quando polemizzava per ciò che di discutibile gli capitava sotto gli occhi. Alberto era corretto, ma altri erano da trattare con le pinze (“absit injura verbis”), perché pur di guadagnarsi una medaglia con uno scoop, magari 10 grammi di eroina sequestrata, erano disposti a tutto Uno in particolare diceva che bisognava odiarli, i colleghi, per fare bene questo lavoro. Ciò nonostante, ero in buoni rapporti con tutti, anche se dovevo sempre stare con le orecchie tese e gli occhi vigili. Lavoravo di giorno e di notte, senza affanno. Se nelle ore piccole squillava il telefono, mi alzavo, mi vestivo in fretta, chiamavo il fotografo Dante Federici, che abitava nella mia stessa zona, Niguarda, salivo sulla sua auto e via verso l’indirizzo indicato, a volte sommariamente, se il fatto era accaduto in aperta campagna. La sera dell’8 novembre dell’87 captai la bruttissima notizia dell’uccisione di Mary D’Amelio, una studentessa di 17 anni seria, studiosa, obbediente alla famiglia, alla quale era molto legata.
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Berticelli, Rizza, Molossi |
Ero a tavola dopo aver terminato il mio turno di lavoro. Scattai, avvertii il collega Nino Russo, che stava in redazione e non aveva ancora fatto il giro telefonico, e senza rimpiangere il piatto di spaghetti al ragù in venti muniti eccomi in via Candiani, alla Bovisa, dove tra scheletri industriali da film di Hitchcock, Incontrai anche l’ispettore capo Alberto Sala (tra l’altro pilota di elicotteri, oltre che “grande detective”, anni di lavoro in diverse parti del mondo, anche con l’Fbi). Svolgeva anche lui le indagini sul delitto, avvenuto a due passi dalla stazione ferroviaria, dove Mary andava a prendere il treno per tornare a casa.
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Caracciolo, Pagnozzi, Colucci |
Di quel delitto s’interessò anche Filippo Ninni, allora dirigente del commissariato Cenisio, e poi della Squadra Mobile, successore di Achille Serra, spostato a Roma come capo dello Sco (Servizio centrale operativo). Tarantino di Talsano, Ninni, che fra l’altro risolse il delitto Gucci, da chi praticava il malaffare era soprannominato ispettore Callaghan. Ne ha sequestrata, di droga; spedendo al “gabbio”, in gergo di mala il carcere, chi aveva le mani nella…polvere e altri. Ai tempi in cui Achille Serra era al vertice della Mobile, nel gennaio dell’86, sequestrarono 100 chili di eroina in un abbaino di viale Espinasse. Non credo ci fosse stato un colpo così grosso prima di quello. Commissari, vicequestori, sottufficiali, agenti: tutti preparati, bravi e coraggiosi. Non soltanto gli uomini, ma anche le donne. Non avevano esitazioni ad afferrare uno della mala per il collo, se faceva il gallo. Una notte assistetti a una scena in una trattoria della periferia che mi ispirò tanta ammirazione per la protagonista. Ne conservo, di avvenimenti, nella memoria. Una mattina alle 7 alcuni investigatori arrivarono in elicottero, raggiungendo altri già sul posto per un’operazione antidroga, durante la quale furono demolite un gruppetto di case minime, dove l’eroina e qualche arma venivano nascoste nei buchi delle pareti dei fabbricati fatiscenti. Ho avuto molte notti insonni, qualche volta al freddo o sotto la pioggia.
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Il questore Paolo Scarpis |
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Rizza e il questore Fariello |
Quando s’insediò a Milano, capo della Mobile era Achille Serra, che concluderà la carriera da prefetto, sfociando poi in politica. Ha scritto due libri, uno con il titolo “Poliziotto senza pistola”. Con Piero Colaprico, altro cronista eccellente, un vero cane da tartufi, capace di lunghe notti in bianco a macinare polvere e consumare scarpe, ho assistito a colossali operazioni antidroga, attenti a non essere scoperti prima dell’arrivo dei blindati, dell’elicottero e centinaia di uomini. Erano i tempi in cui sulla plancia della Mobile stava Eleuterio Rea, avendo come vice Nino D’Amato. Tra i poliziotti c’erano quelli della squadra antiborseggio. Avevano a mente tutte le “mani di velluto”, non solo italiane ma anche sudamericane e slave. La categoria agiva, e agisce ancora oggi, soprattutto sui pullman e sui vagoni del metrò, nelle ore di punta. Complice sicura e inconsapevole dei “topi”, la folla. Ne ho visti anch’io in un’incursione fatta da un maresciallo che passava più notti sulla strada che a casa, facendo anche irruzioni nelle bische clandestine. Da quello che sento e vedo in tivù a minacciare le borse e le tasche dei viaggiatori oggi sono anche le donne, giovanissime, abili, agguerrite, insolenti, che schizzano via con la velocità del fulmine. Nel gergo della mala borseggiatori e borseggiatrici hanno diversi nomi: “fonditor di campana”, “furlano”, “giocoliere”. E le loro imprese “lavorà de monta e smonta sul dur” (borseggiare sui tram e sui treni). Il mestiere è vecchio come il cucco. Questi sono anche i tempi dei “trapezisti”, dei ladri che si arrampicano sui piani più alti con la destrezza delle scimmie. Torno in via Fatebenefratelli, dove ho avuto colleghi di notevole valore, come Giancarlo Rizza, Elio Spada, oltre a Berticelli, Fabrizio Gatti e altri... Molto prima di noi la sala-stampa era la casa di giornalisti del livello di Arnaldo Giuliani, Alfredo Falletta, Salvatore Conoscente. Mario Mercuri, Mario Berticelli, papà di Alberto, Max Monti.… E c’erano grandi neristi che lavoravano fuori della questura, come Fabio Mantica, Patrizio Fusar... Tutti professionisti che ai giovani non dicono nulla e invece hanno scritto la storia del settore. Non lavoravano con il telefono: fiutavano, correvano, indagavano, pedinavano elementi anche di livello internazionale Vito Plantone ricordava che quando usciva da un interrogatorio defatigante e s’imbatteva, magati a mezzanotte, nei cronisti in attesa, non li lasciava a bocca asciutta: rispondeva con pazienza alle domande se poteva e senza mai dire una parola che potesse compromettere le indagini. E poi andavano a mangiare un panino insieme. Giornalisti di ottima stoffa, abituati al sacrificio.
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