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mercoledì 29 maggio 2024

Le vecchie voci degli ambulanti

SONO SCOMPARSI DALLE STRADE ARROTINI,CALDERAI, OMBRELLAI




Franco Trincale

Mangiavano polvere ogni giorno, dormivano dove potevano per
un guadagno misero. E tornavano a casa a Natale. Ancora in attività il caldarrostaio. Si rivede a volte lo spazzacamino.










FRANCO PRESICCI




Quando a Milano si voleva indicare un lavoro come faticoso e malpagato si diceva: ”l’è on laorà del moletta”. Il “moletta”, nel dialetto meneghino, è l’arrotino, che una volta trascorreva molte ore al giorno sulle strade, con un mezzo per metà bicicletta e per metà carretto dotato di una ruota, che muoveva la mola. Faceva il giro della città, urlando per avvertire del suo passaggio; e le massaie, che avevano lame da affilare, accorrevano.

 
Via Giambellino

E mentre la ruota girava scambiavano qualche parola tra loro. Al “moletta”, che si faceva accompagnare spesso da un ragazzino, preferibilmente suo figlio, che doveva imparare il mestiere, hanno anche dedicato una canzone: ”Mè pader fa el moletta e mi foo el molettin, quand sarà mort mè pader farò el moletta mi el molettin…”. Restituendo il filo alle lame, attirava molti ragazzini che si divertivano nel vedere le scintille provocate dallo stridere degli oggetti sulla mola e il piede dell’arrotino che pigiava su un pedale, la “stanga”, collegato con il “disco”: uno spettacolo. Gli “ombrellèe”; “el magnan”, ch’el rangia j pignat de tutta Milan” e tanti altri mangiucchiavano in una vecchia osteria e dormivano dove trovavano. Il “cadregatt” (qualche anno fa ne ho osservato uno al lavoro proprio di fianco al cancello d’ingresso dello stabile in cui abito e un altro in un bellissimo disegno risalente al XIX secolo, pubblicato in un libro della casa editrice libreria milanese). E in tanti disegni e foto d’epoca mi capita di ammirare l’artigiano che in chiesa e nelle manifestazioni all’aperto dava le sedie a pagamento e quello che le vende o le impaglia. Ormai se n’veden pocch in gir per Milan”: è un’attività che con il passar del tempo è andata quasi dispersa. Come quella del “magnan”, considerato un personaggio molto furbo, tanto da essere oggetto di modi dire. Ritoccava le pentole, le padelle e altro.
Ombrellaio

Tutti questi mestieri ambulanti riservavano a chi li esercitava una vita magra e chilometri e chilometri a piedi dalla mattina alla sera. E divorando polvere urlavano per richiamare l’attenzione delle donne che avessero oggetti da rimettere in sesto. Gli ombrellai venivano prevalentemente dal Mottarone e si esprimevano in uno strano vernacolo detto “tarusc”, con lo scopo di non essere capiti dagli altri. A Gignese alla categoria hanno dedicato un museo, che racconta storia e storie di questi lavoratori che attraverso sacrifici e rinunce hanno anche aperto negozi in diverse parti del mondo. Lo visitai negli anni 60 per il quotidiano “L’Italia””, Si diceva: “e mi de fora che l’acqua mi bagna…”: una lode alla sua capacità di affrontare gli umori del tempo e di sopportare la fatica.
Non erano soltanto queste le voci di Milano, a quei tempi. La città era piena di venditori e di artigiani ambulanti. Ovunque era acquartierato uno di loro. La “poliroeula”, la venditrice di polli vivi da decollare sul posto, se l’avventore preferiva; e il pescivendolo , el pessèe, sul quale sorsero leggente e versi. “Sentite come fischiano: un’orchestra”, diceva il venditore di uccelli vivi ai passanti incuriositi. Urlava anche la venditrice di fragole, cioè quella dj magioster. Si sgolava per provocare il desiderio: “Fresca la magiostra; fresca e bella a vedersi”. E che dire dei mercanti di noci, contadini arrivati da Monza, da Lissone, da Desio… Il venditore portava con sé una pietra, che gli serviva per schiacciare il guscio e porgere il frutto, se si gradiva. Di solito - si dice in “Mestieri milanesi d’altri tempi” - si fermavano a due passi da un forno perché gli avventori potessero subito acquistare il pane da mangiare con le noci. “El polentatt”, venditore di polenta, si fermava in piazza Vetra ed era molto apprezzato dalle donne per la sua bellezza. Famoso anche quello di via Fiori Chiari, che aveva come clienti soprattutto i pittori, che pagavano con qualche loro piccola opera.
Tutte queste voci si sono spente da tempo. Chi sente più quella del fruttivendolo ambulante?”. La catalogna, le mele, le carote… oggi si comperano al supermercato o al mercatino rionale e non si sente più per le strade l’invito in rima baciata: “Verdura fresca della mia ortaglia, che è appena fuori di Porta Tenaglia”.
Bisogna essere più che centenari per “risentire” quegli urli, a volte a squarciagola, compresi quelli di chi andava per le vie della città a vendere le rane ancora vive acchiappate nei fossi la notte prima; e “quel del castragaj, che per castrare i polli a volte si faceva pagare in natura. Chi ricorda il lattaio, il venditore di fiammiferi o di lumini, o di bastoni da passeggio, il garzone del fornaio e di acciughe. I marronatt (caldarrostai), vantano ancora la propria tradizione nelle fiere.
Il riparatore di sedie

Care vecchie voci di Milano. In immagini ingiallite ritroviamo il lattaio, il carbonaio, il venditore di gamberi (“quel di gambaree”): i più gustati erano quelli del Lambro, utilizzati nella preparazione del risotto alla certosina. Il venditore urlava: “Gamberi, Gamberi. L’è quel di gamberi salati e boni”. Su questo ambulante fiorirono molti modi di dire: per indicare uno che aveva commesso un errore: “Ciappa on gamberi”. Il “madonnatt”, quello che dipinge i santi sull’asfalto durante le feste resiste ancora: si è esibito in piazza del Duomo qualche tempo fa. Mentre è quasi scomparso lo sputafuoco: l’ultimo se n’è andato in pensione, ritirandosi nella sua terra d’origine, dopo aver dato da anni spettacolo in piazza del Duomo. Si ricomincia a vedere qualche spazzacamino, seguito dall’onnipresente giovane garzone. Spariti i teatrini dei burattinai nelle vie e nelle piazze. Uno famoso fu un tale di nome Lampugnani, che apriva il piccolo sipario della sua baracca nei pressi del Duomo. E c’erano “quell dei tortei”, venditori di pasta zuccherata, e quelli che scarpinavano vendendo tappeti.
Fioraio

La lista è ancora lunga, Ma non voglio lasciare da parte le fioraie, che oggi aspettano i clienti stando nei chioschetti agli angoli delle strade, dove qualcuno ha ereditato l’esercizio dal padre o dalla madre. Una vecchia postazione è tra le vie Melchiorre Gioia e Lunigiana, passati da padre in figlio. Esercitava questo mestiere anche Teresina Bardi, che sostava all’angolo tra via Manzoni e via Verdi, proprio su un lato della Scala. Una donna gentile, sorridente, garbata, quasi riverita dai galantuomini, che pagavano le sue rose in busta chiusa. Purtroppo ebbe un destino amaro: un ufficiale innamorato la sfregiò per gelosia. Neppure allora, e anche prima, la violenza alle donne era praticata.
Quanti volumi usciti su queste voci. Se ne parla anche ne “Il volto della città perduta” della casa editrice Celip, di Nicola Partipilo, passata alla storia come gli ambulanti, tra i quali quello del cafè del genoeucc, caffè che risultava dalla mescolanza con i fondi di altro caffè e aveva come clienti soprattutto il cocchiere, che allora si chiamava brumista, operai e squattrinati. Questo “barista” si piazzava alla stazione Centrale o in piazza Duomo nelle prime ore del mattino. Scomparso il venditore di carbone; come anche il lustrascarpe. Ho fatto in tempo a vederne uno, l’ultimo, quarant’anni fa, nella Galleria delle Carrozze della stazione Centrale: il signore, spesso altezzoso e ben vestito e tanto di cappello in testa, si accomodava e il giovanotto apriva la cassetta, ne tirava fuori straccio, spazzola e lucido e faceva brillare le calzature.
Nuovo mestiere, il giocoliere stradale

Doveva essere piacevole ascoltare i cantastorie, tra i quali Franco Trincale, che per sopravvivere si era messo a fare il tassista, continuando sempre a raccontare le storie della città, belle e brutte, accompagnandosi con la chitarra. Quando andò in pensione, usufruì della legge Bacchelli e all’angolo tra corso Vittorio Emanuele e piazza San Babila si spense un’altra voce, applaudita dai milanesi: la sua. Qualche anno dopo ho rivisto Franco esibirsi in piazza Duomo, forse per nostalgia. Mestiere, questo, che si perde tra i vicoli del tempo. Per ascoltarli andai un paio di volte, inviato del quotidiano l’”Italia”, al festival di Monticelli d’Ongina, che si svolgeva negli anni Sessanta. Ai primi del ‘900 I milanesi ascoltavano il Barbapedana, che frequentava le osterie e le strade e le piazze nelle belle giornate. Cantava brani in vernacolo, pizzicando le corde della chitarra. Morì povero nel 1911. Io mi spello le mani per Gigi Pedroli, grande acquafortista con torchio in una vecchia casa sul Naviglio Grande: da cantautore eccellente si ispira a personaggi popolari, come i barboni che dormono sulle panchine dei giardini pubblici o nei tunnel della stazione Centrale e avevano come amico il grande storico e critico musicale Giulio Confalonieri, che scrisse anche un libro: “Barboni a Milano”.

mercoledì 22 maggio 2024

Grande spettacolo, Milanesando

LA VITA E LE OPERE DI ROSA GENONI DIVA DELLA MODA E FEMMINISTA




La gondola di Umberto Pagotto
Raccontata nei dettagli nel cortile del negozio di Graziana e Paolo Martin, sul
Naviglio Grande, da Elisabetta Invernici, giornalista, e da Cristina Castigliola, attrice superlativa. Subito dopo sono saliti sul palco Gigi Pedroli, grande acquafortista e cantautore, accompagnato alla chitarra e al banjo da Fabio Lossani. Mentre nella via liquida filava la gondola di Umberto Pagotto.









FRANCO PRESICCI


Il Naviglio Grande e la moda in scena, nel cortile della “Martin-Tutto per gli operai”. Domenica 12 maggio. Prima è arrivato lui, Umberto Pagotto, con la sua gondola. L’ha ancorata proprio di fronte al grande negozio lasciandola alla curiosita' dei gitanti. Mai vista sul Ticinello una barca così bella, sottile, elegante, comoda, che da secoli solca altre acque. Il trevigiano Pagotto, gentiluomo di antico stampo, ne va orgoglioso e si compiace di vedere il suo mezzo di trasporto “marittimo” ammirato. Poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di “Milanesando”, lo spettacolo allestito in quel notissimo spazio, che a poco a poco s’infoltiva di spettarori?
Elisabetta Invernici
Dopo Pagotto ecco comparire Gigi Pedroli, il grande Gigi, e il compagno di scena Fabio Lossani, cantautore, scrittore e suonatore di chitarra e di banjo.

C’erano già la giornalista Elisabetta Invernici con il compito di di dialogare con la bravissima attrice Cristina Castigliola pronta ad entrare nel personaggio-principe del pomeriggio: Rosa Genoni. Ed eccola venire dall’alzaia, la bella Cristina, con passo svelto e attraversare il corridoio aperto tra le sedie, salire sul palco e presentarsi: “Sono Rosa Genoni, nata il 16 giugno 1867 a Tirano, figlia di Luigi Genoni e Margherita Pini di Crosio”. Il papà aveva una bottega di ciabattino, di quelli che adesso, a volerli cercare con la lanterna di Diogene, sarebbe tempo sprecato.
Rosa si racconta con la voce e i gesti di Cristina: E’ la prima di tre fratelli, ha frequentato le scuole fino alla terza elementare, la quarta e la quinta nei corsi serali, studiando intanto il francese, perché allora la moda parlava quella lingua. E lei nel settore conquisterà, piolo dopo piolo la cima della scala, tra l’altro inventando il “made in Italy”.
Elisabetta Invernici, che ha lavorato a “La Notte” con Rosa Teruzzi, giallista di successo, e con altri valenti colleghi, prende per prima la parola, soffermandosi sui diritti, quasi sempre rivendicati, e sui doveri, quasi sempre disattesi, e accennando al lavoro nel dettato costituzionale (echeggia Noberto Bobbio). Parla anche del diritto allo sport, alla cultura, alla salute, e dei doveri.
Cristina Castigliola
Quindi fa brillare la figura di Rosa Genoni, la prima stilista italiana e il microfono passa a Cristina Castigliola: “Vivo a Milano con una zia sarta, facendo la ‘piccinina’, giovane apprendista, a cui tanti pittori e scrittori dedicarono la loro ispirazione (‘Corri, corri sartinn/ ve spetta la signora….’’ (Carlo Chiesa). Compiuti i 18 anni, Rosa frequenta i circoli operai e socialisti, diventa amica di Anna Kulischoff, di Filippo Turati e altri esponenti del partito, è assidua ai congressi, ai dibattiti. Una vita esemplare, di vittorie e di conquiste.

Elisabetta conosce molto bene il personaggio. E fa domande a Cristina, la stimola (fa parte del canovaccio). E Cristina prosegue esibendo tutta la sua arte. “Vado a Parigi, copio ed elaboro quei modelli; e inizio a pensare a una moda italiana libera dai modelli francesi”. A Parigi si trovavano tutti gli accessori, ma arrivavano dall’Italia. Rosa torna nel nostro Paese in casa Bellotti in Galleria. e veste tutte le nobildonne che frequentano la Scala. E arriva l’amore… Una vita interessante e avvincente, quella di Rosa Genoni, creatrice di moda, femminista, personalità forte, volitiva, determinata. Conosce l’avvocato Alfredo Podreider, principe del foro. Una vita fatta di impegno. In occasione del traforo del Sempione Rosa espone abiti “dettati” dalle grandi opere d’arte italiane. Nel 1915 al congresso internazionale dell’Aja, “unica rappresentante per l’Italia”. La presidente Jane Addams - m’informa Elisabetta Invernici - “la porta con sè all’incontro con il primo ministro olandese Cori-Vander e insieme vanno a Londra da Edward Gray, ministro degli esteri britannico, per perorare la causa della pace”. Nel 1918 si ammala di Spagnola (così chiamata perchè furono i giornali iberici a parlarne per primi), rischia la vita, ma si salva.
E’, questa, una sintesi della vita e dell’attività di Rosa, che tra l’altro promosse il Concorso nazionale per un abito femminile da sera”. Morì a Varese il 12 agosto del 1954: 70 anni fa. Quanto ci piacerebbe continuare ad esplorare la vita e l’attività d questa figura splendida, diva dell’eleganza e della bellezza.
Il pubblico ha seguito affascinato la recitazione di Cristina e la regìa di Elisabetta, colpito da questo racconto coinvolgente. “Eccellente, quest’attrice, dominatrice della scena, lodevolissimi i suoi toni, le sue espressioni, i suoi movimenti a volte frenetici”: i commenti alla conclusione di questa parte del pomeriggio. “Quanta energia. Andava, tornava, scendeva gli scalini del palco, attraversava il pubblico, risaliva, spostava oggetti, si fermava, fingeva di interpellare la memoria, ma in verità era padrona degli avvenimenti, delle date, delle circostanze”. Superlativa.
Il Pubblico
Sul palco è poi salita Graziana, rivolgendo un saluto agli spettatori, numerosi, attenti, soddisfati.
Gigi Pedroli
“Milanesando” continuava con due artisti di alto livello: Gigi Pedroli e Fabio Lossani, che suscitano sempre risate con dialoghi e battute, scatenano applausi, urli di osanna, soprattutto quando eseguono le canzoni di Pedroli pregne di ironia sapida, garbata, bonaria, emerse da una fantasia illimitata, libere di sognare, come ha scritto Tony Lauria. Pedroli canta il Naviglio Grande, dove da anni ha il suo Centro d’Incisione, inventa le sue bellissime acqueforti e scrive brani senza decorazioni, con spontaneità e passione, lontane da schemi preconfezionati, a volte ispirandosi a personaggi reali, caratteristici, divertendosi e divertendo. Accompagnato da Lossani, ha snocciolato uno dopo l’altro schizzi estemporanei, mentre qualcuno lo ricordava, tra un intervallo e l’altro, con la chitarra a tracolla come un menestrello sull’uscio del suo laboratorio.
Gigi dei Navigli, artista prolifico, non si è smentito neppure questa volta. Quando ha iniziato a cantare “Pinin” e poi l’“Ernesto”, che andava in bagno all’hotel Principe e Savoia”, il pubblico è esploso: “Insuperabile, continua, Gigi”; e lui cantava, sempre accompagnato da Fabio Lossani, con il quale forma un “duo” molto affiatato. Lossani provocava il pubblico con domande in milanese, faceva domande e senza aspettare risposte: “Se non lo sapete, acquistate il mio libro, che trovate all’ingresso”.
A spettacolo concluso, i due artisti si sono seduti fra un gruppetto di persone e hanno ripescato i ricordi: quelli del Derby Club, aperto da Enrico Intra in via Monterosa negli anni ‘60. Frequentato da Giorgio Gaber, Deisy Lumini, Umberto Bindi, Diego Abatantuono, Massimo Boldi, Giorgio Faletti, Charles Trenet.... Una sera ad applaudire i Gufi (Nanni Svampa, Roberto Brivio, Lino Patruno, Gianni Magni) c’era anche Paolo Stoppa con Rina Morelli. Belle serate, quelle dell’”Intras derby club”. Quando lo inaugurarono c’era tutta la stampa milanese.
Da sinistra Fabio Lossani e Gigi Pedroli
Gigi e Fabio inanellavano i ricordi, mentre un gruppo di spettatori si avvicinava al tavolo del “bouffet”. Graziana con dolcezza faceva gli onori di casa.
E io tallonavo Paolo Martin, nato e cresciuto in una casa di ringhiera che respirava l’aria del Naviglio Grande. “Come si viveva in una casa di ringhiera, Paolo?“. Uno per uno e uno per tutti. C’era solidarietà, amicizia, gentilezza. “Che cosa mangi, stasera?” “Vengo da te”. Si conversava tra un un ballatoio e l’altro e così si stendeva il bucato. I ragazzini giocavano nei cortili pieni di fiori”, “Hai conosciuto il pittore Guido Bertuzzi, che dipingeva i cortili di quelle case. “L’ho conosciuto, aveva lo studio in vicolo dei Lavandai. Un’ottima persona e bravissimo artista”. Intanto molti non perdevano di vista la gondola. “Mai vista una barca veneziana in queste acque”, “E’ davvero bella”. Umberto si compiace di suscitare tanta curiosità e tanto interesse. L’alzaia e la ripa si affollano, i ristoranti hanno già preparato i tavoli. Attraverso i ponti gli affezionati del Naviglio Grande passano da una sponda all’altra e la gondola va verso la darsena.
Graziana Martin
Nel cortile dei fratelli Martin ancora un residuo di pubblico conversa. Qualcuno va al Centro Incisioni d’arte di Pedroli, per visitare la mostra in atto. Tanto verde pende dall’alto, nel cortile, creando archi vegetali. Una pianta dondola, all’esterno, quasi su un cavalletto con un quadro. Non vorrei mai mancare alle iniziative dei Martin, che hanno come teatro lo spazio più famoso di Milano.
I Martin sono lì dal ‘38. Vi sono stato anche a una festa d’anniversario, presente Luciana Sevignano, “ètoil” della Scala, amica di Graziana, che ama la danza da sempre e l’ha anche praticata. Me la immagino volteggiare come una libellula.

mercoledì 15 maggio 2024

Conversazione con l’ispettore Luigi Negro

I GIORNI TORMENTATI DI MILANO FRA DELITTI, SEQUESTRI, RAPINE

 

A sinistra Luigi Negro
L’ho incontrato dopo più di trent’anni a due passi da casa mia e ci
siamo lasciati prendere dai ricordi di persone, episodi, investigatori che fanno parte della storia della polizia meneghina e dintorni.




FRANCO PRESICCI


Al tempo in cui frequentavo per “Il Giorno” i commissariati di polizia, gli avamposti della lotta alla criminalità, l’ispettore capo Luigi Negro fu uno dei primi “detectives” che incontrai. Allora prestava servizio a Greco Turro, dopo essere stato al quarto distretto, in via Poma. Ebbi l’impressione di trovarmi di fronte a Frank Serpico, il poliziotto italoamericano che mostrò il suo impegno e la sua abilità anche in una vicenda di corruzione nella polizia nuovayorkese: raccolte le prove, presentò la lettera di dimissioni. Era nato a Brooklin nel ‘36 da immigrati italiani, era coraggioso e intraprendente, eroico, tanto da ispirare, nel 1973, un film, regista Sidney Lumet, con protagonista Al Pacino, che con quella pellicola per poco non vinse l’Oscar.
Al centro Negro e il vicequestore Capecelatro
Negro aveva ed ha la stessa barba e gli stessi baffi del collega americano, la stessa determinatezza, la stessa forza, la stessa audacia, lo stesso fiuto. E’ alto, robusto, inflessibile sul lavoro, a volte un tantino brusco, schivo, distaccato. Ma simpatico. Quando andavo a Greco, in zona Niguarda, trovavo Rossi, Giuliani, Santoro ed altri, seduti ciascuno al proprio tavolo, ma lui di rado: era sempre a caccia di malavitosi da mettere al “gabbio”, come il gergo della mala chiama la galera. Lo ammiravo per lo spirito di sacrificio, anche se avaro con il povero cronista avido di notizie. La vecchia volpe adesso, arrivato al traguardo della pensione, vive in una cascina, tra galline che starnazzano e il cane che saltella, abbaia per affetto, giocherella, corre.
L’ho rivisto dopo trent’anni. Tanto è il tempo che è passato dall’ultima volta che andai nel suo commissariato, collocato in una zona riposante, ricca di verde, di villette, di stradine, a pochi passi dal Villaggio dei Giornalisti, a un tiro di schioppo da “Il Giorno”.
Negro vicino la cascina

Negro, come detto, era sempre sulle tracce di rapinatori di banche, latitanti, pellacce convinte di riuscire a farla franca. Ne acciuffò una, all’uscita di un supermercato, e la tenne a freno per una ventina di minuti. “Metti giù la pistola, altrimenti sparo”, diceva, mentre uomini, donne, bambini, terrorizzati, fuggivano o rimanevano impietriti vicino all’ingresso del grande magazzino. L’ispettore usò tutta la sua esperienza, evitando che la situazione degenerasse. Alla fine, gli avventori, tirarono un respiro di sollievo, esplodendo in applausi liberatori. Pur non amando lo spettacolo, il caso gli aveva assegnato il ruolo del temente Sheridan, al secolo Ubaldo Lay, o di qualche altro mastino televisivo o cinematografico.
Ne ha di episodi da raccontare, Luigi Negro, fisicamente una sorta di Bud Spencer che però non ha mai mollato schiaffi, non ha mai fatto volteggiare chi reagiva all’arresto. Non so se ora, vivendo nella sua struttura rurale, in una pace idilliaca, in un silenzio inimmaginabile nel caos della città, gli capiti di meditare sui giorni trascorsi in via Poma o a Greco Turro, quando a Milano si susseguivano i regolamenti di conti, i sequestri di persona, i delitti del terrorismo con code di telefonate alle redazioni dei giornali per il recupero dei volantini lasciati nei cestini portarifiuti. La cascina, un tempo fulcro del lavoro contadino, è un luogo che consente sane letture e passeggiate solitarie o in compagnia, tra alberi e sentieri, fruscii di rami, canti di uccelli e rombi di trattori.
Negro in campagna

Il pensiero non ha soste; e, camminando tra il profumo delle piante, sicuramente, ogni tanto, l’ispettore capo Luigi Negro ricorda almeno qualcuna delle imprese di cui è stato protagonista. Soprattutto quelle pericolose raccontate dai giornali.
Io, pur prossimo all’ultima scadenza, sono rimasto cronista puntiglioso e invadente, curioso e mai soddisfatto; e quale occasione migliore di questa per esplorare nella carriera di un poliziotto che veniva considerato un cane da tartufi. Inflessibile: “Se uno sbaglia, se ha scelto di assaltare le banche o di violare la sacralità di un appartamento, di sfilare un portafoglio da una borsa sul tram o sul metrò, è giusto che paghi”.
Sarebbe stato un ottimo collaboratore per Mario Nardone, a cui la televisione, nel 2010, dedicò una serie televisiva di una decina di puntate con Sergio Assisi nei panni del “Gatto”, come il commissario più famoso d’Italia veniva soprannominato, anche a causa del suo olfatto e dei suoi travestimenti. Tra l’altro arrestò e interrogò Rina Fort per il gravissimo fatto di cronaca nera di via San Gregorio, a Milano, che mobilitò anche la penna di Dino Buzzati.
Luigi Negro non cerca biografi, ma se gli capita d’imbattersi in un cronista che in molta parte della sua vita ha ingoiato polvere e consumato scarpe per guadagnarsi la notizia quotidiana, dopo qualche resistenza, cede. E gli si sciolgono i ricordi. Deve solo scegliere fra quelli più rilevanti. Allora snocciola nomi e cognomi, date, circostanze, storia e caratteristiche e tecniche degli esponenti della malandra che ha spedito in piazza Filangieri.
Ninni

Ha un altro pregio: una buona memoria, di quelle che si definiscono inossidabili, e la utilizza con misura, a seconda dell’interlocutore. E’ intelligente, preparato. Ascoltarlo è un piacere. E’ sintetico, e nelle sue sintesi racchiude tutto. “Arrestai il rapinatore dei parrucchieri, che prendeva di mira i negozi nel centro della città. Era fulmineo, predava denaro anche ai clienti e spariva. Faceva anche due rapine al giorno. Una mattina, verso la mezza, entrò nel salone di via Cristina di Belgioioso, nei pressi di corso Buenos Aires e a due passi dal commissariato Città Studi, razzolò i soldi; mentre usciva una giovane dipendente, impaurita, gli scagliò contro uno scannetto, lui si girò e fece fuoco, colpendo il titolare. Negro si mise sulle sue tracce e lo intercettò in via Meda, e nella successiva perquisizione trovò gioielli strappati alle signore e una pistola. Sul “Giorno” scrisse un bellissimo articolo il collega Enrico Nascimbeni, giornalista e poeta (un suo libro di versi è stato recensito sul “Corriere della Sera” da Roberto Vecchioni), poi cantautore.
Oscuri, Nardone e Caracciolo

Una vita molto movimentata, quella di Luigi Negro. Al suo attivo ha fra l’altro la soluzione di cinque omicidi, compreso quello commesso da una donna sudamericana, che aveva gettato nel Lambro il suo bimbo appena nato. Nel 2008, grazie ad un confidente, individuò il luogo in cui era stato sepolto un tale ucciso sette anni prima (ne aveva parlato anche “Chi lo ha visto”, la trasmissione televisiva condotta da Federica Sciarelli su Rai3). Si dette da fare e con la Squadra Mobile di Milano e quella di Como trovò nel seminterrato di uno stabile nel pressi del capoluogo lombardo il corpo della vittima. Continuando le indagini, emersero i nomi dei due assassini, che avevano compiuto il fattaccio per quattro chili di droga.
Luigi Negro è nato 64 anni fa nel Salento. Entrò in polizia nel ‘78. dopo aver seguito il corso ad Alessandria. Arrivò a Milano e fu assegnato al Reparto Mobile, dove già prestava servizio Filippo Ninni, futuro capo della Squadra Mobile di via Fatebenefratelli. Ninni è di Talsano, cittadina in provincia di Taranto, e la caserma era allora diretta da Aldo Gianni, futuro questore di Bologna. In seguito Negro fu assegnato al Reggimento di piazza Sant’Ambrogio e nell’80 al Quarto Distretto di via Poma, dove per un po’ di tempo fu commissario Antonio Di Pietro, poi protagonista di “Mani Pulite”, e dirigente Vito Plantone, nominato nell’85 questore, prima destinazione Catanzaro, regina tra due mari, lo Jonio e il Tirreno, ricca di centri balneari. Plantone era di Noci, che ha uno dei centri storici più belli della Puglia.
Vito Plantone

Ho domandato a Luigi Negro se abbia nostalgia della sua città natale, inondata dal sole e da tanti colori, ma le risposte erano tante e quella è rimasta intrappolata. Conosco il paesino del Pavese che ha scelto tempo fa e posso dire che anch’io, pur amando la mia “culla”, Taranto, e Martina Franca, la città dei trulli e del Festival, noto e apprezzato nel mondo, una quarantina di anni fa cercai un terreno da quelle parti. Lo trovai su una collina costellata di viti, ma era parecchio inclinato e non consentiva passeggiate agresti che fanno tanto bene alla salute.

mercoledì 8 maggio 2024

A luglio il grande evento


LA MILANO TARANTO PARTIRA’ DA NOVEGRO



La partenza
Il segnale verrà dato al Parco Esposizioni, sicuramente con l’incoraggiamento di una
folla entusiasta, Arrivo a Taranto il 14 luglio sul lungomare, vicino al Palazzo del Governo.













FRANCO PRESICCI

Della Milano Taranto ho ricordi giovanili. Vedevo spuntare i motociclisti da viale Virgilio e mi entusiasmavo. Quando tutti i concorrenti toccavano il traguardo fissato in quel tratto di strada tra il Palazzo del Governo e la Rotonda, me ne tornavo a casa, sognando: avrei voluto occupare il sellino posteriore di una di quelle moto d’epoca in corsa come il vento dal capoluogo lombardo fino alla Bimare, attraversando città e paesi, ammirando panorami stupendi, ampie distese di verde, pianure, colline modulate come il corpo di una donna, montagne, piazze, costeggiando laghi, fiumi, cascine; e ad ogni tappa godere sapori, odori, con la gente che ti accoglie a braccia aperte.
L'arrivo

La Milano Taranto è esaltante. In una conversazione con il mio compianto amico Mimmo Vacca, già carabiniere tutto d’un pezzo, dovere, fedeltà, sacrifici anche nella vita di ogni giorno, “Comandi” alla sola vista di un superiore, espressi il desiderio che covavo da tempo. Lui non mi dette tempo di concludere la frase: “Ti porto io. Al prossimo appuntamento vieni a Bologna in treno e poi via per mezza Italia fino alla tua città per circa 1400 chilometri”.
Eravamo in casa di un suo collega degli anni giovanili, che era rimasto ad ascoltare, senza dire che anche lui ci avrebbe seguiti volentieri. Mimmo non parlava a vuoto. Era un grottagliese tenace, viveva nella meraviglia felsinea, che ha i portici più lunghi del Naviglio Grande a Milano. Aveva una memoria inossidabile, poteva raccontare lo splendore di Martina Franca, che conosceva bene, come pochi assidui visitatori, e se faceva una promessa la onorava. Così, quando una notte mi telefonò al giornale per dirmi di preparare il bagaglio, fu grande l’imbarazzo nel rispondergli la mia impossibilità, essendo impegnato su un grosso fatto di cronaca. “Sarà per un’altra volta. Che diavolo, proprio questo mestiere dovevi scegliere, con tutti quelli meno assorbenti che esistono al mondo? (disse proprio così). Già immaginava di divorare la strada con me seduto dietro di lui, manifestando la sua abilità di percorrere la strada sfrecciando. Povero Mimmo, la sua moto, che curava con la passione di un medico al capezzale di un paziente, ora giace nel box, coperta da un telo.
La curva

Lui non c’è più. Se alla Milano Taranto vanno a spulciare in archivio forse lo trovano, il nome di Mimmo Vacca, concorrente appassionato e fedele. Mimmo, ripeto, ha cambiato mondo, ma io continuo a vagheggiare la partecipazione a quel grande, seducente, inebriante evento, magari su una moto con sidecar. Ma ormai ho molti anni sul groppone e mi accontenterei di rivedere da viale Virgilio i centauri mentre trafiggono l’aria. Li vedrò palpitando in televisione.
La figura di Mimmo balugina: rieccolo a Bologna o nella mia campagna di Martina Franca, mentre mi parla delle tavolate con piatti locali, delle allegre conversazioni, delle risate, della gioia di stare insieme nelle soste e del momento in cui ruggiscono i motori. “Parti e raggiungi Piacenza, Parma. Reggio Emilia, Modena, Pistoia, Firenze, Poggibonsi…” e celebrava l’equilibrio architettonico delle facciate di alcuni edifici, aggiungendo l’Acquedotto Romano, il canale navigabile, la Concattedrale, la città vecchia, il Mar Piccolo della mia città, con le lampare e le paranze, piazza Fontana, la ringhiera, il castello aragonese... gioielli, che dalla sua Grottaglie e dalla mia Martina distano un volo di uccello.
La Milano Taranto si svolge da quasi 90 anni. Fu sospesa e ripresa più volte. L’itinerario subì delle modifiche con l’intervento del tarantino Mario D’Eintrona, 1400 chilometri da coprire in una notte. Grande fatica? Ma no. Questi piloti hanno le ali e sono in grado di affrontare qualunque tipo di strada, larga o stretta, sentieri che si snodano fra ulivi saraceni dal tronco scolpito da un artista anonimo proveniente dall’Olimpo della categoria, cipressi, pini, querce, strade soleggiate o bagnate di pioggia: una benedizione.
Moto e paesaggio

La Milano Taranto è unica. Mi rispecchio nei miei vent’anni fermo all’ombra delle palme in viale Virgilio ad attendere la prima moto. Ecco una Guzzi fiammante, mamma come corre, una saetta, la vedo rimpicciolirsi, ridursi a libellula, è già sotto il fascione con la scritta “Arrivo”. Segue una Gilera, un mito. Che emozione! Sì emozionante è la Milano Taranto, già “Freccia del Sud”. Irrompe una moto guidata da un tarantino. Moltissimi urlano il nome: “E’ lui, è lui, ce l’ha fatta. Che bella moto, la cura più della moglie”. L’urlo si moltiplica, si diffonde come l’onda. Un tarantino che corre dà onore alla città e la città lo osanna. Nella mia immaginazione, scorgo Benvenuto Messia, velocista martinese, che segue in sella alla sua eroica bici i centauri come un fulmine. “Corri, Ben, non otterrai il traguardo, ma farai la tua bella figura”.
Per Mimmo Vacca le figliolanze non contavano: bolognese o anconetano, modenese o fiorentino, pugliese o calabrese erano tutti uguali. Contava lo sport, la Milano Taranto, che è anche libertà. Aveva fatto servizio in divisa (pantaloni con striscia rossa) anche a Cento di Ferrara, e viveva a Bologna, che vanta il pasticcio di maccheroni con pasta frolle dolce, le lasagne verdi, i tortellini, e ha avuto cittadini illustri, tra pittori, scultori, docenti, inventori, da Guglielmo Marconi a un papa, Benedetto XIV, a Lucio Dalla. “Credi che io la esalterei soltanto perché un felsineo ha vinto la Milano Taranto, che pure adoro?”.
Una sosta

La Milano Taranto è anche cultura. Ti offre l’occasione di percorrere località nuove; di ammirare panorami suggestivi che danno gioia, di conoscere persone che rimarranno amici per la vita; fette di bellezze, armonie festose, di rallegrarti nel vedere qua e là persone in attesa con la voglia di applaudire, di gridare “Vai, vai, vola, centauro, sotto il vessillo della Milano Taranto”. Tripudio di battimano e di belle vedute, un modo diverso di osservare il nostro Paese. La Milano Taranto è allegria, velocità inebriante, ristoro per il corpo e per lo spirito. E’ tante cose messe insieme. La si aspetta con ansia. Mimmo Vacca teneva a lucido la sua moto, che gli aveva procurato qualche coppa, che custodiva bene in vista su una mensola del soggiorno di casa.
Adesso si è in attesa del segnale dello “starter”, il 7 luglio la corsa prende il via dal Parco Esposizioni di Novegro. Il 14 io come altre volte sarò a Taranto per le vacanze estive e potrò ancora una volta spellarmi le mani alla vista di quei razzi. Sarò sulla rotonda spero in prima fila e vivrò i miei brividi senza farmi contagiare nemmeno per un attimo dal fermento del pubblico, riuscendo a contenere la palpitazione. Se la rotonda non avrà uno spiraglio, allora mi accontenterò di un posto vicino alla fontana multicolori di piazza Ebalia , oppure mi aggrapperò, se possibile, al cancello dei Salesiani, dove spero arrivi ancora il profumo del mare. Sarà una bellissima giornata di festa, magari baciata dal sole.
Milano Taranto in vespa

La Milano Taranto è una leggenda. Se una persona abile con la penna decidesse di scrivere un racconto su questa manifestazione, tratteggiando le figure dei vincitori, degli organizzatori, dei concorrenti, animati da un profondo spirito sportivo, che li induce a divorare chilometri e chilometri senza cedere alla stanchezza, leggeremmo pagine galvanizzanti. Mimmo Vacca, che fremeva per la Milano Taranto, quando si lasciava andare ai ricordi, ripescava, sì, gli anni di carabiniere inflessibile e ligio agli ordini, ma pensava anche a tenere desta l’attenzione della comitiva sui momenti più belli della corsa, che fra l’altro riproponeva al suo sguardo ori paesaggisti indimenticabili e al suo cuore di uomo affabile e leale amicizie intramontabili.
Un ragazzo sveglio e curioso mi chiede notizie sugli albori della Milano Taranto. Io prendo tempo, m’informo e faccio qualche accenno, ricavandolo da ciò che l’ufficio stampa ha diffuso. Sorse nel 1919 ed è passata alla storia come “Freccia del Sud”, percorso Milano Caserta, palma a Luigi Girardi, a cavallo di una Garelli 350cc. alla media di 38,96 chilometri orari. Fu sospesa dal 1925 al 1932, anno in cui nacque la Milano Napoli, con partenza notturna dall’idroscalo del capoluogo lombardo.
Si parte

Poi ecco la Milano Roma Taranto. Nel ‘50 prese il nome attuale. In quell’anno nessuno aveva ancora dimenticato la guerra, i suoi disastri, le ferite che aveva lasciato in chi l’aveva combattuta e in chi l’aveva vissuta stando a casa con la trepidazione per la sorte di un figlio, del marito, del fratello al fronte. Quindi si avvertiva il bisogno di rinascere, allontanando da sé ogni ricordo delle bombe, della sirena, che le annunciava, dei palazzi polverizzati, delle navi affondate, come a Taranto la notte dell’11 novembre del ‘40.
Per una settimana mettiamo da parte i ricordi. Ci vediamo a luglio, quando la Milano Taranto partirà. Festosa, con concorrenti provenienti da 11 regioni.

mercoledì 1 maggio 2024

Tra i mille ricordi di Taranto

UNA VOLTA SI DICEVA AGLI AMICI “STASERA CI VEDIAMO AL ‘CIN CIN BAR’”




E’ lì che c’incontravamo il sabato sera ai tempi dell’Università. Erano gli anni 50.
Ballavamo, conversavano, scherzavamo. Qualcuno cantava al microfono. Ci venne a salutare Silvio Noto, attore, doppiatore conduttore di Radio Bari, che aveva iniziato la carriera a “Telematch” con il grande Enzo Tortora.




FRANCO PRESICCI






Se dovessi scrivere tutti i miei ricordi di Taranto, la mia amata culla, dovrei cercare una pagina di gomma. E non l’hanno ancora inventata. Tanti anni fa qualcuno in cerca di novità con l’intento di dare il meglio ai lettori, e di aumentarli, ebbe l’idea, se la memoria non ha qualche vuoto, di un periodico di plastica, ma durò poco.
Piazza Maria Immacolata
Comunque, io continuo a battere i miei tasti sul computer, finché lo spazio necessario al flusso dei miei racconti me lo concedono. Oggi, per esempio, ho voglia di rinverdire le serate al “Cin cin bar”, che stava in piazza Maria Immacolata, dove poi ha aperto la sua sede “ll Corriere del Giorno”, storico quotidiano della Bimare, di fianco ad un altro luogo storico, la Libreria Filippi, che mi forniva i libri della Bur. 
Erano i tempi dell’università e al “Cin cin bar” gli universitari si riunivano il sabato sera per ballare, conversare, bere una bibita, snocciolare, chi era disposto, storie e barzellette al microfono. Io preferivo far divertire gli amici seduti al mio stesso tavolo. E lì che convogliammo allegramente dopo aver “celebrato” il processo alla matricola in un’affollatissima piazza della Vittoria, presenti Clemente Salvaggio, Italo Capitanio, Minguccio Montrone e altri.
Silvio Noto e Presicci

Tra noi si usava dire “Ci vediamo al ‘Cin ci bar’”. Un sabato sera comparve Silvio Noto, attore, doppiatore, conduttore televisivo di successo. Aveva conseguito la laurea in Legge nel dopoguerra con Aldo Moro all’ateneo barese ed era un personaggio televisivo amato e stimato. Aveva cominciato alla Rai nel ‘56, conducendo con Enzo Tortota “Telematch”, che gli assicurò il primo grande trionfo. Mi disse che era venuto da Bari con un amico e avendo avuto il desiderio di una bibita, era entrato nel “Cin cin bar”. La musica e la goliardia lo avevano incuriosito. Il clima gli ricordò i suoi anni di studente universitario e si sentì quasi coinvolto. Era molto simpatico, spiritoso, si comportava come se fossimo amici da sempre. Chiacchierò amabilmente un bel po’; lo invitai a salire sulla pedana per presentarlo a tutti e per fargli un’intervista; ma tentennò con grande eleganza. Insistetti e disse che non voleva sottrarre il microfono ai giovani. Stette ancora un po’ con noi, poi, cominciando a farsi tardi, ci salutò, promettendo che sarebbe tornato.
Clemente a quei tempi era una firma autorevole di “Bari Sport”, che usciva nel capoluogo pugliese e io collaboravo al “Corriere del Giorno”, che vantava penne prestigiose, tra cui Piero Mandrillo, Giuseppe Barbalucca, Franco De Gennaro, Ventrella, Di Battista, Petrocelli. E anche Pasquale Scardillo, in seguito trasferitosi a Milano, dove entrò alla Rizzoli e poi, con Egidio Stagno al vertice amministrativo di via Solferino, al “Corriere della Sera, come collabaratore sportivo.
Al “Cin cin bar” veniva spesso Giuseppe Barbalucca, che per un periodo fu anche capocronista del giornale nato nel ‘47 in piazza Garibaldi, con Giovanni Acquaviva direttore. Tra i fondatori, lo stesso Acquaviva, Franco de Gennaro, Luigi Ferraiolo, Egidio Stagno.
La giuria del Festival

Il “Cin cin bar” trascina tanti ricordi. Per esempio, il festival di musica leggera, anni ‘50, svoltosi nella Villa Peripato, dove Clemente Salvaggio, Giuseppe Barbalucca, Gianni Rotondo, corrispondente de “La Gazzetta del Mezzogiorno” si accomodarono in prima fila, mentre il sindaco Monfredi si mostrava soddisfatto, ascoltando le voci di Miranda Martino, Paolo Bacilieri, Nuccia Bongiovanni, Anna D’Amico, Betty Curtis e di Joe Srentieri, che cantò “E’ menzanotte, anzi lo era” e faceva il famoso saltello. Una manifestazione canora molto bene organizzata, accolta favorevolmente dalla cittadinanza. Da altre città sciamarono molti appassionati di musica leggera e da Milano venne il critico di musica leggera Mario Casalbore, del “Corriere Lombardo”, giornale del pomeriggio che aveva sede a Milano in piazza Cavour. Mario lo ritrovai poi ad Ancona, dove cantava anche Orietta Berti, a Rimini Little Tony e altrove. Allora scrivevo sul quotidiano storico “L’Italia”, che aveva avuto come direttore Giuseppe Lazzati.
Salvaggio e Presicci, s'intravede a sinistra Barbalucca
Fu al “Cin cin bar” che con Minguccio Mondrone e altri vagheggiammo un teatro universitario a Taranto. L’idea ci venne dopo aver assistito alla rappresentazione di un testo di Anouilh recitato dalla filodrammatica universitaria barese al circolo sottufficiali. Cominciammo a provare, in un locale a un piano superiore della Sem, “I morti non pagano le tasse” di Nicola Manzari, autore barese trasferitosi a Roma. Ma già ai primi incontri capii che era tempo perso, perché il gruppo non aveva voglia di salire sul palcoscenico al di fuori della Festa della Matricola (avevamo già portato in scena “’U cuèrne de mari’a canzìrre” di Diego Marturano e “’A sànda mòneche di Alfredo Nunziato Maiorano. Così tramontò definitivamente il sogno di una piccola compagnia teatrale fatta di studenti, non dico al livello di quella di Falcone, che provava al circolo dell’arsenale e vantava attori di rispettabile bravura, come Giovanni Mirabile, Murianni, D’Andria, Casavola ed altri né di quella dell’Enal, che proprio allora stava provando nella sede di via Di Palma “Trenta secondi d’amore”. Restò deluso anche il poeta in vernacolo ed etnologo Maiorano, che si era detto disposto a sostenere l’iniziativa. Lo stesso Carmelo Imperio, il direttore dell’Enal, che aveva individuato una sala di via D’Aquino da usare come teatro per la sua compagnia ed eventualmente anche per gli universitari nel caso fossero stati capaci di realirizzare il progetto già avviato al Circolo dei Marinai.
Quindi al “Cin cin bar” non ci abbandonavamo soltanto ai giri di valzer, ma ascoltavamo al microfono le voci di qualche compagno di studi dall’ugola promettente, che si era già esibito alla Festa della Matricola, al Circolo dei Marinai, nello spettacolo di varietà seguito alla rappresentazione della commedia di Marturano), conduttori Clemente Salvaggio e Franco Presicci. Una nota di cronaca: calato il sipario, Marcello Ruggieri, studente di Giurisprudenza, salì sul palco regalandomi scherzosamente un cappio, gesto dal significato lampante, che Ruggieri, amico sincero, stimato anche per la sua cultura, non fece con malignità. Era uno di quelli che sfogliavano i giornali all’edicola Fucci in via D’Aquino e si preparava con determinazione per la laurea.
Ritaglio di giornale

Al “Cin cin bar” a volte incontravo amici cari, come l’avvocato Franco Smiraglia, bravissimo civilista, che aveva iniziato a frequentare le aule della Pretura difendendo persone scivolate nel codice penale, e come detto il pediatra Barbalucca, che aveva la passione per il giornalismo e scriveva poesie. Il locale era dunque la seconda casa, il rifugio, la sala ballo degli universitari tarantini. E lì che a volte nascevano le nostre idee per le feste della matricola successive, illudendoci di vincere anche le future elezioni.
Il “Cin cin bar” non l’ho mai dimenticato, come non ho mai dimenticato brave persone come Ninì Vanacore, parente di Virna Lisi, che volemmo nel “cast” della commedia di Marturano. La mamma aveva un piccolo negozio davanti al cinema dopolavoro ferroviario ed era orgogliosa di quel bravo figlio che tra l’altro calcava con sicurezza e abilità le tavole del palcoscenico. Non dimentico Minguccio Montrone, effervescente e cordiale, che riportò in scena “U cuèrne de Mari’a canzirre”, prima al Dopolavoro Ferroviario e poi all’Orfeo. Diventò direttore delle Poste, credo a Varese.
Il salone del Cin Cin Bar

Il “Cin cin bar” da tempo ha chiuso i battenti e altrettanto ha fatto la Libreria Filippi, e prima di loro la Standa, che stava di fronte. Nella via a sinistra di piazza Maria Immacolato, via Mignogna, sorse la galleria d’arte di Mario Ligonzo (passato poi dal “Corriere del Giorno” al “Corriere d’Informazione, quotidiano del pomeriggio del “Corsera”, che dopo qualche anno lo ebbe come redattore alle pagine degli Interni). Nella stessa via in seguito aprì la sede “La Voce del Popolo”, titolo di un vecchio, glorioso settimanale dei fratelli Rizzo, che si stampava in una tipografia vicina a piazza Bettolo. Direttore dell nuovo giornale era Paolo Aquaro di Martina Franca, già redattore del “Corriere del Giorno” e poi del “Quotidiano”.
Il “Cin cin bar” era un locale elegante, che ospitava anche cerimonie per compleanni e matrimoni. Vi si poteva incrociare il giocatore di calcio dalle pedate virtuose e l’avvocato di grido, il poeta e il cronista, lo scrittore, che a volte si accomodavano ai tavoli sistemati all’esterno.



Le foto del “Cin Cin Bar” sono della collezione di Antonio De Florio.