SONO SCOMPARSI DALLE STRADE ARROTINI,CALDERAI, OMBRELLAI
Franco Trincale |
Mangiavano polvere ogni giorno, dormivano dove potevano per
un guadagno misero. E tornavano a casa a Natale. Ancora in attività il caldarrostaio. Si rivede a volte lo spazzacamino.
FRANCO PRESICCI
Quando a Milano si voleva indicare un lavoro come faticoso e malpagato si diceva: ”l’è on laorà del moletta”. Il “moletta”, nel dialetto meneghino, è l’arrotino, che una volta trascorreva molte ore al giorno sulle strade, con un mezzo per metà bicicletta e per metà carretto dotato di una ruota, che muoveva la mola. Faceva il giro della città, urlando per avvertire del suo passaggio; e le massaie, che avevano lame da affilare, accorrevano.
Via Giambellino |
E mentre la ruota girava scambiavano qualche parola tra loro. Al “moletta”, che si faceva accompagnare spesso da un ragazzino, preferibilmente suo figlio, che doveva imparare il mestiere, hanno anche dedicato una canzone: ”Mè pader fa el moletta e mi foo el molettin, quand sarà mort mè pader farò el moletta mi el molettin…”. Restituendo il filo alle lame, attirava molti ragazzini che si divertivano nel vedere le scintille provocate dallo stridere degli oggetti sulla mola e il piede dell’arrotino che pigiava su un pedale, la “stanga”, collegato con il “disco”: uno spettacolo. Gli “ombrellèe”; “el magnan”, ch’el rangia j pignat de tutta Milan” e tanti altri mangiucchiavano in una vecchia osteria e dormivano dove trovavano. Il “cadregatt” (qualche anno fa ne ho osservato uno al lavoro proprio di fianco al cancello d’ingresso dello stabile in cui abito e un altro in un bellissimo disegno risalente al XIX secolo, pubblicato in un libro della casa editrice libreria milanese). E in tanti disegni e foto d’epoca mi capita di ammirare l’artigiano che in chiesa e nelle manifestazioni all’aperto dava le sedie a pagamento e quello che le vende o le impaglia. Ormai se n’veden pocch in gir per Milan”: è un’attività che con il passar del tempo è andata quasi dispersa. Come quella del “magnan”, considerato un personaggio molto furbo, tanto da essere oggetto di modi dire. Ritoccava le pentole, le padelle e altro.
Ombrellaio |
Tutti questi mestieri ambulanti riservavano a chi li esercitava una vita magra e chilometri e chilometri a piedi dalla mattina alla sera. E divorando polvere urlavano per richiamare l’attenzione delle donne che avessero oggetti da rimettere in sesto. Gli ombrellai venivano prevalentemente dal Mottarone e si esprimevano in uno strano vernacolo detto “tarusc”, con lo scopo di non essere capiti dagli altri. A Gignese alla categoria hanno dedicato un museo, che racconta storia e storie di questi lavoratori che attraverso sacrifici e rinunce hanno anche aperto negozi in diverse parti del mondo. Lo visitai negli anni 60 per il quotidiano “L’Italia””, Si diceva: “e mi de fora che l’acqua mi bagna…”: una lode alla sua capacità di affrontare gli umori del tempo e di sopportare la fatica.
Non erano soltanto queste le voci di Milano, a quei tempi. La città era piena di venditori e di artigiani ambulanti. Ovunque era acquartierato uno di loro. La “poliroeula”, la venditrice di polli vivi da decollare sul posto, se l’avventore preferiva; e il pescivendolo , el pessèe, sul quale sorsero leggente e versi. “Sentite come fischiano: un’orchestra”, diceva il venditore di uccelli vivi ai passanti incuriositi. Urlava anche la venditrice di fragole, cioè quella dj magioster. Si sgolava per provocare il desiderio: “Fresca la magiostra; fresca e bella a vedersi”. E che dire dei mercanti di noci, contadini arrivati da Monza, da Lissone, da Desio… Il venditore portava con sé una pietra, che gli serviva per schiacciare il guscio e porgere il frutto, se si gradiva. Di solito - si dice in “Mestieri milanesi d’altri tempi” - si fermavano a due passi da un forno perché gli avventori potessero subito acquistare il pane da mangiare con le noci. “El polentatt”, venditore di polenta, si fermava in piazza Vetra ed era molto apprezzato dalle donne per la sua bellezza. Famoso anche quello di via Fiori Chiari, che aveva come clienti soprattutto i pittori, che pagavano con qualche loro piccola opera.
Tutte queste voci si sono spente da tempo. Chi sente più quella del fruttivendolo ambulante?”. La catalogna, le mele, le carote… oggi si comperano al supermercato o al mercatino rionale e non si sente più per le strade l’invito in rima baciata: “Verdura fresca della mia ortaglia, che è appena fuori di Porta Tenaglia”.
Bisogna essere più che centenari per “risentire” quegli urli, a volte a squarciagola, compresi quelli di chi andava per le vie della città a vendere le rane ancora vive acchiappate nei fossi la notte prima; e “quel del castragaj, che per castrare i polli a volte si faceva pagare in natura. Chi ricorda il lattaio, il venditore di fiammiferi o di lumini, o di bastoni da passeggio, il garzone del fornaio e di acciughe. I marronatt (caldarrostai), vantano ancora la propria tradizione nelle fiere.
Il riparatore di sedie |
Care vecchie voci di Milano. In immagini ingiallite ritroviamo il lattaio, il carbonaio, il venditore di gamberi (“quel di gambaree”): i più gustati erano quelli del Lambro, utilizzati nella preparazione del risotto alla certosina. Il venditore urlava: “Gamberi, Gamberi. L’è quel di gamberi salati e boni”. Su questo ambulante fiorirono molti modi di dire: per indicare uno che aveva commesso un errore: “Ciappa on gamberi”. Il “madonnatt”, quello che dipinge i santi sull’asfalto durante le feste resiste ancora: si è esibito in piazza del Duomo qualche tempo fa. Mentre è quasi scomparso lo sputafuoco: l’ultimo se n’è andato in pensione, ritirandosi nella sua terra d’origine, dopo aver dato da anni spettacolo in piazza del Duomo. Si ricomincia a vedere qualche spazzacamino, seguito dall’onnipresente giovane garzone. Spariti i teatrini dei burattinai nelle vie e nelle piazze. Uno famoso fu un tale di nome Lampugnani, che apriva il piccolo sipario della sua baracca nei pressi del Duomo. E c’erano “quell dei tortei”, venditori di pasta zuccherata, e quelli che scarpinavano vendendo tappeti.
Fioraio |
La lista è ancora lunga, Ma non voglio lasciare da parte le fioraie, che oggi aspettano i clienti stando nei chioschetti agli angoli delle strade, dove qualcuno ha ereditato l’esercizio dal padre o dalla madre. Una vecchia postazione è tra le vie Melchiorre Gioia e Lunigiana, passati da padre in figlio. Esercitava questo mestiere anche Teresina Bardi, che sostava all’angolo tra via Manzoni e via Verdi, proprio su un lato della Scala. Una donna gentile, sorridente, garbata, quasi riverita dai galantuomini, che pagavano le sue rose in busta chiusa. Purtroppo ebbe un destino amaro: un ufficiale innamorato la sfregiò per gelosia. Neppure allora, e anche prima, la violenza alle donne era praticata.
Quanti volumi usciti su queste voci. Se ne parla anche ne “Il volto della città perduta” della casa editrice Celip, di Nicola Partipilo, passata alla storia come gli ambulanti, tra i quali quello del cafè del genoeucc, caffè che risultava dalla mescolanza con i fondi di altro caffè e aveva come clienti soprattutto il cocchiere, che allora si chiamava brumista, operai e squattrinati. Questo “barista” si piazzava alla stazione Centrale o in piazza Duomo nelle prime ore del mattino. Scomparso il venditore di carbone; come anche il lustrascarpe. Ho fatto in tempo a vederne uno, l’ultimo, quarant’anni fa, nella Galleria delle Carrozze della stazione Centrale: il signore, spesso altezzoso e ben vestito e tanto di cappello in testa, si accomodava e il giovanotto apriva la cassetta, ne tirava fuori straccio, spazzola e lucido e faceva brillare le calzature.
Nuovo mestiere, il giocoliere stradale |
Doveva essere piacevole ascoltare i cantastorie, tra i quali Franco Trincale, che per sopravvivere si era messo a fare il tassista, continuando sempre a raccontare le storie della città, belle e brutte, accompagnandosi con la chitarra. Quando andò in pensione, usufruì della legge Bacchelli e all’angolo tra corso Vittorio Emanuele e piazza San Babila si spense un’altra voce, applaudita dai milanesi: la sua. Qualche anno dopo ho rivisto Franco esibirsi in piazza Duomo, forse per nostalgia. Mestiere, questo, che si perde tra i vicoli del tempo. Per ascoltarli andai un paio di volte, inviato del quotidiano l’”Italia”, al festival di Monticelli d’Ongina, che si svolgeva negli anni Sessanta. Ai primi del ‘900 I milanesi ascoltavano il Barbapedana, che frequentava le osterie e le strade e le piazze nelle belle giornate. Cantava brani in vernacolo, pizzicando le corde della chitarra. Morì povero nel 1911. Io mi spello le mani per Gigi Pedroli, grande acquafortista con torchio in una vecchia casa sul Naviglio Grande: da cantautore eccellente si ispira a personaggi popolari, come i barboni che dormono sulle panchine dei giardini pubblici o nei tunnel della stazione Centrale e avevano come amico il grande storico e critico musicale Giulio Confalonieri, che scrisse anche un libro: “Barboni a Milano”.
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