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mercoledì 26 giugno 2024

Manca qualcosa in quella strada di Milano

CON LA CHIUSURA DEL SACRARIO DI PARTIPILO C’E’, IN MOLTI, AMAREZZA




Esterno della Libreria Partipilo
Da quando si è abbassata la saracinesca, chi passa per viale Tunisia al civico 4, dov’era la nota libreria, si ferma ricordando. La conoscevano tutti, non solo a Milano, quindi sono davvero tanti quelli che rimpiangono quel luogo, che vide affacciarsi Gianni Brera, Enzo Biagi, Carlo Castellaneta, l’architetto Empio Malara, Enzo Biagi, i grandi fotografi Fulvio Roiter e Mario De Biasi, oltre alla gente comune.







FRANCO PRESICCI






Mi capita ancora di prendere a Niguarda il tram numero 5 che va a Lambrate; e arrivando alla fermata di viale Tunisia-angolo corso Buenos Ayres non posso non puntare lo sguardo a quello che fu l’ingresso della Libreria Internazionale di Nicola Partipilo.
Nicola Partipilo

E quando il mezzo riprende la corsa non cala la malinconia che mi afferra ricordando la vita che si svolgeva in quel sacrario, l’atmosfera, la gente, le personalità, il lavoro febbrile per soddisfare le richieste; e le promesse di tempestività nel procurare un libro che mancava. Su due scaffali erano allineati i volumi su Milano realizzati dallo stesso libraio, che aveva voluto accostare all’attività del negozio quella di una casa editrice, la Celip. Gli argomenti, che Nicola sceglieva personalmente, riguardavano sempre il capoluogo e la Lombardia: le cascine, i cortili, le chiese, i monasteri, i castelli…, autori famosi: un orgoglio per l’editore, che aveva cominciato ad occuparsi di libri poco dopo essere arrivato da Bari a Milano.
Allora non sgambava tra un reparto e l’altro, ma percorreva la metropoli per consegnare i volumi a domicilio. Quando attraversava una via particolare, una piazza con una targa rilevante, uno slargo con un monumento, s’informava ed era felice se incontrava qualcuno disposto a soddisfare la sua curiosità. Così conosceva Milano e le sue strade, le sue preziosità.
Con il passare del tempo nacque in Nicola l’idea di pubblicare una serie di titoli, che ogni anno suscitavano l’interesse dei lettori e anche dei mezzi d’informazione. Quelle pagine venivano poi presentate in sedi prestigiose: alla Società del Giardino, in Sant’Ambrogio, a Palazzo Te a Mantova, a Palazzo Clerici... da relatori eccellenti, come Ferruccio De Bortoli, Empio Malara, Guido Lopez...
Era una fucina di idee, infaticabile. E amava il suo lavoro. In libreria avrebbe anche messo una branda da usare di notte. Io ci andavo volentieri, sapendo che vi potevo incontrare Enzo Biagi, Gianni Brera, Carlo Castellaneta, Alberto Lorenzi, che per lui ha scritto libri interessanti sui teatri, sulla vita milanese, sul Varietà”, Annibale Del Mare, corrispondente de “La Gazzetta del Mezzogiorno”; grandi fotografi, fra cui Fulvio Roiter e Mario De Biasi, che per “Epoca” aveva girato il mondo; Piero Orlandi, che coglieva la città dall’alto. Empio Malara, architetto con lunga militanza nella difesa dei navigli e anche lui autore di tante pagine per Partipilo, rilasciava interviste sui gioielli usciti da viale Tunisia. IL Comune ne acquistava un po’ di copie da donare ai visitatori di riguardo.
Interno della libreria
Una sera rimanemmo soli, io e Nicola, seduti uno di fronte all’altro. E mi parlò della sua paura di dover chiudere la libreria. La concorrenza delle vendite on-line, i clienti che diminuivano, i costi che lievitavano. Non me la sentivo di dire una parola di consolazione, sapendo che non sarebbe servita a niente. Si era intristito, eppure mi propose un libro sui campanili. Ma non se ne fece niente. Mi ha però ispirato l’amore per quelle architetture allungate verso il cielo. E quando da Laino sento il palpito delle campane di Ramponio, il paese di fronte che si va svuotando, penso che quel libro avrei potuto scriverlo. Mi esalta la voce delle campane che arriva da quelle “torri”. Andando da Milano a Laino, ne incontro, di campanili; e li immortalerei attraverso il finestrino, se il clacson delle auto che mi seguono non ruggisse con rabbia.
Tramontata quella proposta, mi suggerì un altro tema: “I castelli”. “Guarda – gli risposi – Andrea Bosco è stato sempre disponibile, non ha mai evitato di riceverci nel suo studio di Ra3, è bravissimo, accetterebbe volentieri l’incarico, approfitta”. “Sei diventato pigro”. “No, mi piacerebbe impegnarmi in questo argomento; avrei tante cose da dire: lusso, balli, vendette, amori, tradimenti, duelli all’ultimo sangue, cerimonie solenni… aprire il computer per ricostruire quell’ambiente, per descrivere saloni, scale imperiali, merlature, torrioni, palizzate, ponti levatoi, dame, cavalieri, palafrenieri, mi piacerebbe, ma io ho già scritto i testi di due tuoi libri” e capitoli in altri. “D’accordo, telefona tu a Bosco”.
Partipilo di fronte a Gianni Brera,  a destra

Chiamai Andrea il giorno dopo e accettò. E accettò Gian Carlo Botti, ottimo collega de “Il Giorno”, di entrare in Abbazie e Monasteri, per raccontare la vita dei monaci fra compiete e cori, nel silenzio e nel candore dei chiostri. Gian Carlo si soffermò anche sulla ricchezza delle opere d’arte di questi luoghi di preghiera e meditazione, che, sorti in secoli lontani, conservano “una continuità consacrata a Dio”. Oggi la gente imbocca strade a volte impervie che portano a un monastero, condividendo per qualche giorno la vita dei frati. Gian Carlo era – purtroppo non c’è più – un esperto di quei luoghi di raccoglimento e di rinascita.
Leggendo questi volumi, ho appreso tante cose di queste oasi di pace, di serenità. Nicola forse non riposava di notte per scegliere questi e tanti altri temi, per i quali selezionava personalmente le immagini, stabilendo le loro collocazioni nelle pagine.
Il mio rapporto con Nicola, tra l’altro un uomo buono e generoso, concreto, tenace, a volte moderatamente spiritoso, amante della buona cucina e tifoso del Bari, è stato sempre lineare, affettuoso, e continua ancora così. Quando mi chiama, lo sento giù di morale: la “botta” della chiusura della libreria non si è attenuata. Non gli dico che passando dal civico 4 di viale Tunisia (qualche numero più avanti nel dopoguerra aveva l’ufficio l’ex presidente della Repubblica Sandro Pertini), spesso sento i commenti delle persone: “Qui c’era la libreria di Nicola Partipilo, persona saggia, libraio nato”. “Lo ricordo, basso, pelato, accento meridionale,…”. “Quasi non lo si vedeva tra le pile di libri”. Se cercavi un testo da lui lo trovavi; e, se non c’era, lo procurava in due giorni.
Partipilo e Enzo Biagi

Si dice Milano con il cuore in mano. E’ vero. Milano accoglie e valorizza tutti quelli che hanno capacità e voglia di fare. Me lo disse Domenico Porzio quando andai a intervistarlo nella sede della Mondadori (non ancora a Segrate), dove svolgeva il compito di capo ufficio stampa e assistente del suo presidente, Arnoldo. Mi parlò a lungo di Mario Soldati, che gli telefonava anche da New York per raccontargli nei dettagli le novità. E poi anni dopo Porzio e Partipilo si incontrarono la sera in cui venne presentato uno dei primi libri della Celip, “Una Milano mai vista” e poi un altro, presente il grande attore Piero Mazzarella, la “star” del Teatro Gerolamo, oggi diretto da Piero Colaprico e ieri da Carletto Colombo. Alla serata parteciparono anche Giulio Nascimbeni, tra l’altro biografo di Montale e giornalista del “Corriere della Sera”, e Luciano Visintin, giornalista dello stesso quotidiano e autore di molti libri (uno sul Duomo) anche di poesie. Ricordo i cronisti e le telecamere che piombavano nella libreria di viale Tunisia tutte le volte che usciva un libro. Assiduo e diligente Paolo Nizzola, di Telereporter, che oggi si occupa delle storie e della storia di Bollate (se, per esempio, si ha bisogno di sapere un brano della vita dei banditi Giacomo Legorino e Giovanni Sgorlino, che tantissimi anni fa terrorizzarono il bosco della Merlata, lui è disponibile a dare ogni dettaglio).
Quanto successo raccolsero i grossi volumi “Natività e presepi”, “I Navigli”, “Milano, il volto della città perduta”, “Le terre delle cascine in Lombardia”, “Il Castello”, “I Navigli”, ”Milano, passeggiate nella città di Leonardo”, esposti tutti sugli scaffali e in vetrina.
Serata per Partipilo

Da tempo Nicola rifletteva sul rischio della chiusura. Lo capivo quando mi accennava a una libreria che aveva abbassato la saracinesca. A me veniva l’ansia, anche perché un centro di cultura che cessa l’attività si porta con sé un pezzo di democrazia. I libri dovrebbero vivere in eterno, trasmessi da padre in figlio. La cultura è un bene, un patrimonio. La cultura ci aiuta a crescere, a consentire allo spirito di accumulare ricchezza. Darsi le arie per la cultura che si ha vuol dire aver nutrito la mente, ma non l’anima. Ancora oggi Nicola Partipilo mi manda come regalo qualche libro. Lo prende da quelli che gli sono rimasti in casa; o dall’altra libreria Partipilo in via Soderini, molto frequentata e condotta con solerzia dal figlio Andrea. L’altro figlio, Marco, ha scattato le fotografie, e che fotografie!, per uno dei libri più recenti della Celip.. Un sollievo per Nicola, che non ama trascorrere il tempo seduto su una panchina dei giardini a leggere il giornale. Non passa giorno che non pensi al civico 4 di viale Tunisina, dove ha lasciato il cuore.

mercoledì 19 giugno 2024

Ricordo di un martinese combattivo

 GUIDO LE NOCI, UN GRANDE NELL’ARTE CONTEMPORANEA





Tenace e geniale, nel libretto rosso per il padre del nouveau realisme scrisse questa dedica: “I nemici di Restany sono i miei nemici”.

















FRANCO PRESICCI




Lo conobbi per caso, passando un giorno di maggio del ‘60 davanti a una saletta semiaperta di via Brera. Incuriosito da un oggetto impacchettato, (una branda) quasi accostato all’ingresso, mi fermai un po’ di più ad osservarlo. Venne verso di me un signore, mi sorrise e mi invitò ad entrare. “Guido Le Noci. E’ un’opera del bulgaro Christo Javaceff.
Le Noci e Christo Javaceff

Venga con me, le mostrerò l’attività di altri artisti”. Il nome dell’interlocutore improvvisato non mi era nuovo: me ne aveva parlato un collega che lo aveva incontrato ad una mostra. Ero da poco arrivato a Milano ed esploravo la città con interesse. Ero già stato in vicolo dei Lavandai e avevo conversato con i pittori Guido Bertuzzi, Sarik, Formenti, Cottino, la signora Radice, che aveva venduto per anni la lisciva alle donne inginocchiate sotto la tettoia a sciacquare i panni; il Carletto che per scherzo era stato nominato sindaco di quel budello che si raggiunge svicolando dall’alzaia Naviglio Grande.
Il giorno dell’incontro con Le Noci avevo deciso di andare a Brera, che era ancora il luogo in cui convergevano artisti “in fieri” o già consacrati, tra cui Giulio Confalonieri, critico e storico della musica fra i più autorevoli (e amico dei barboni. Si sedevano ai tavoli del Bar “Jamaica” e discutevano bevendo una bibita. Per un periodo ci andò anche Benito Mussolini, che allora dirigeva “Il Popolo d’Italia”.
Dunque Le Noci. Mi fece accomodare nella sua Galleria, l’“Apollinaire”, delineando un po’ la storia degli autori di una ventina di quadri appesi alle pareti. Parlammo di Martina, della splendida Valle d’Itria e di altro, quindi mi avviai verso via Fiori Chiari, dove scoprii lo studio del baritono Giuseppe Zecchillo.
Pierre Restany e il pittore Elio Santarella

Tornai altre volte a Brera e sempre andai a cercare il gallerista più famoso e apprezzato non soltanto nel capoluogo lombardo. Mietendo brani della sua gloriosa biografia. “Aprii a Como una Galleria, la “Borromini”, dove esposi nomi eccellenti”. Fu chiusa dal fascismo, a quanto pare, per antipatia verso l’arte contemporanea. Diventammo amici e mi presentò a Dino Buzzati, di cui avevo appena finito di leggere “Un amore”; e m’invitò con mia moglie a cena a casa sua.
Cominciai a scrivere di Guido sui giornali baresi “Settegiorni” di Papandrea, e “Bari Sport” di Gianni Nuzzo; e su “La Tribuna del Salento”, che usciva in via Ammirati a Lecce, sotto l’egida di Ennio Bonea. Un giorno Guido mi promise di presentarmi a Raffaele Carrieri, il poeta e critico d’arte tarantino che scriveva su “Il Corriere della Sera “ e su “Epoca”, e mi regalò i libri che aveva pubblicato fino a quel momento, compreso “Martina Franca” di Cesare Brandi. Qualche mese dopo mi affidarono una rubrica su “La Gazzetta di Mantova” e gli dedicai uno dei miei “Schizzi a macchina”. Ovunque mi offrissero spazio (“La Gazzetta di Reggio”), impegnavo la mia penna per Guido.
Quando organizzai una serata pugliese al Cida (Centro informazioni d’arte), di Nencini, titolare anche della Galleria Boccioni, chiesi a Guido di parteciparvi con qualche quadro da esporre e portò anche un documentario sulle tarantolate di Galatina, dello scultore Paradiso (se non ricordo male). Presenti alla manifestazione, anche Domenico Porzio, che parlò di una sua recente visita a Taranto; e Vincenzo Buonassisi. notevole critico gastronomico, Chechele Jacubino, titolare del ristorante “La porta Rossa “ di via Vittor Pisani, in vacanza nella sua Apricena, avuto notizia della “festa”, prese subito il treno per Milano e venne ad offrire a circa 400 invitati specialità pugliesi. E lì nacque l’idea del Premio Milano di Giornalismo, sovvenzionato dallo stesso stesso Chechele, che lo ospitava con abbondanza di orecchiette e altre delizie di casa nostra, presidente il pittore albanese Ibrahim Kodra, definito il re di Brera.
Le Noci e Fontana

Non mancavo mai alle inaugurazioni delle mostre di questo martinese geniale, famoso e stimato in tutta l’Europa. Dopo qualche tempo dalla sua morte, il salone Montanelli del Circolo della Stampa accolse una cerimonia in suo onore, oratori un altro martinese illustre, Francesco Lenoci, docente all’Università Cattolica di Milano; Elio Santarella, pittore tarantino che allestiva tutte le esposizioni per il Comune alla Rotonda della Besana e in corso Vittorio Emanuele, e il sottoscritto. C’erano anche la moglie e la figlia, Marina, di professione psichiatra, che in seguito mi confidò che Guido voleva affidare la continuità dell’”Apollinaire” proprio a lei, che invece aveva in mente di seguire un’altra strada. Lenoci, il conferenziere itinerante, di Martina Franca, fece una sintesi efficace del percorso di Guido, che “fu un protagonista eccellente della vita culturale milanese, tanto da essere considerato tra quelli che hanno contribuito a fare grande la metropoli lombarda, ricevendo fra l’altro l’Ambrogino d’oro”. Francesco aggiunse dettagli sull’inaugurazione della galleria”, avvenuta il 17 dicembre del ‘54, e sulla mostra di Fautrier allestita nel suo spazio: la prima in Italia.
Le Noci dunque fu una stella nel firmamento dell’arte contemporanea. Quando l’”Apollinaire” spense definitivamente le luci, Dino Buzzati pubblicò un necrologio su “Il Corriere d’Informazione”, che usciva il pomeriggio in via Solferino. Questo a dimostrazione dell’importanza del sacrario e della stima che Le Noci, uomo tenace, schietto, volitivo, generoso, battagliero, grande mercante d’arte, raccoglieva non soltanto a Milano e in Lombardia. “Papà era tenace, intelligente, combattivo, disponibile e generoso, ma anche complesso e conflittuale”…
Elio Greco e Guido Le Noci

”Quando andò a Parigi incontrò il critico Pierre Restany, padre e sostenitore dell’Art Nouveau, e ne divenne amico; nel ‘69 gli dedicò ”Le livre rouge de la Revolution picturale par Pierre Restany“. La Galleria propose i pittori più famosi, da Russolo a Sassu, da Modigliani a Savinio, da De Chirico a Soldati. Le Noci e Restany seguivano con molta attenzione i movimenti e gli artisti internazionali più significativi ed affermati, come Fontana, Yves Klein… e il pubblico, oltre ai critici, affollavano le sue esposizioni. Promotore di molti progetti, nel ‘70 mise in cantiere le celebrazioni del decimo anniversario della fondazione del Nouveau Realisme, iniziate con un’esposizione storica alla Rotonda della Besana, l’accensione della scultura di fuoco di Klein, seguita da “performance” in vari punti della città. Christo Javaceff, che tra l’altro aveva imballato la fontana di piazza del Mercato a Spoleto, un pezzo della valle delle Montagne Rocciose in California… impaccò la statua di Leonardo in piazza della Scala e quella del “re galantuomo” in piazza Duomo”; e mentre si preparava a mettere la camicia alla Cattedrale, fu bersagliato dalle polemiche e costretto a rinunciare.
Grande successo riportava l’attività del grande martinese, che, figlio di un valentissimo scalpellino della Valle d’Itria, fu uno dei nomi più rispettati e rilevanti nel settore dell’arte del dopoguerra. Accolse, sostenne e diffuse in Italia e in Europa le correnti d’avanguardia anche le più estreme, allestì mostre memorabili, come quella di Dorazio, Peter Bruning, Hans Hartung, Fontana, Licini, Mimmo Rotella e quella del ‘66 dello scultore Jean Fautrier. Fu scopritore di talenti, favorì la risurrezione di artisti dimenticati. E oggi chi passa davanti a quel civico 4 diretto all’Accademia di Brera, non può non ricordare la Galleria “Apollinaire” e magari fare un cenno di saluto, perché quel luogo, anche se ha mutato faccia, è sacro. Così mi disse un giorno Ibrahim Kodra, che conosceva bene Milano e i suoi luoghi passati alla storia. Quanti sono invece quelli che nel serbatoio della memoria custodiscono la figura di Guido Le Noci, che, nato nel 1904, ben presto avvertì l’inclinazione e la convinzione di poterla realizzare prendendo il treno per Milano, che allora era molto diversa da quella di adesso. Uscito dalla Galleria delle Carrozze, si trovò forse un po’ spaesato sull’ampio piazzale su cui dominano l’Hotel Gallia e il Grattacielo Pirelli. Sapeva che doveva tirarsi su le maniche. E lo fece fino ad assumere la segreteria generale del Premio Lissone, aspirazione di molti artisti di tutto il mondo.
Abbascià e Nico Blasi

Le Noci conosceva l’arte di avvicinarsi alle persone e non trovò difficoltà a stabilire rapporto con Guido Tallone, il pittore che aveva stretto amicizia con Ernest Hemingway ed Ezra Pound; Oronzo Celiberti, appassionato di filosofia che gli presentò i comaschi Terragni, Figini, Pollini e altri. Conobbe De Chirico, De Pisis, Savinio, presentatogli dall’amico Raffaele Carrieri. E’ lungo l’elenco delle personalità inserite nella cerchia delle sue amicizie, compresa quella con Paolo Grassi, il mito.
Il 2 luglio dell’83 questo grande mercante d’arte, raffinato editore, fucina di idee, si spense. E fu grande il cordoglio di chi l’aveva conosciuto e frequentato. Grande Guido. Non fece in tempo a concretizzare l’idea di creare un premio “Apollinaire sud”, riservato alla Puglia. Ne aveva parlato anche con Elio Greco, presidente della Fondazione “Nuove Proposte” di Martina Franca, terra benedetta, adorata, desiderata per le sue bellezze. Ad agosto parlai di lui a Martina con Nico Blasi, che conosce molto bene la storia di Guido Le Noci, anche i particolari meno conosciuti.

mercoledì 12 giugno 2024

Un angelo in corsia a Nigurda

SUOR CAROLINA TRAPLETTI UNA VITA PER GLI AMMALATI


Suor Carolina Trapletti
Durante la guerra ha salvato tanti artigiani feriti: dopo averli curati fasciava completamente i loro volti dichiarandoli ustionati, allo scopo di renderli irriconoscibili ai nazisti che ispezionavano l’ospedale, dove lei lavorava al pronto soccorso. Quando andò in pensione, dirigenti, medici, infermieri, gente comune, lodarono la sua opera. Ebbe anche l’Ambrogino d’oro.
















Franco Presicci


L'ulivo di Niguarda
A Niguarda lussureggia un ulivo spettacolare. Lo misero a dimora dopo l’ultima guerra i partigiani per ringraziare suor Carolina, al secolo Maria Trapletti e le sue consorelle per l’opera meritoria compiuta nei confronti dei loro compagni feriti: dopo averli curati fasciavano completamente i loro volti, dichiarandoli ustionati, per sottrarli ai controlli dei nazisti; e molti li nascondevano nei piani sottostanti, aiutando quelli che valicavano il muro di cinta per cercare la salvezza attraverso i campi.
L’occasione per ricordare la figura della religiosa ce la offre Loredana Trapletti, sua nipote di primo grado. L’ho incontrata giorni fa nell’ufficio del marito, Nicola Gammone, in via Benefattori dell’Ospedale, una via lunga e larga tagliata dai binari del tram. Qui, al pronto soccorso di Niguarda, suor Carolina prestò per anni la sua opera di caposala, con delicatezza, amore, premura, sacrificio, rispetto per i pazienti. Una suora di carità. “Quando vi avvicinate a chi soffre siate in ordine e cortesi”, ripeteva con quella sua voce dolce e sottile alle infermiere. Aveva il dono della bontà e lo impiegava senza risparmiarsi. “La chiamavano da tutta Milano e anche da fuori, e lei immediatamente provvedeva. Non diceva mai no a nessuno”, dice Loredana commuovendosi, tra una lettura e l’altra di lettere di primari, direttori sanitari, medici, infermieri, gente comune, che la riempivano di lodi e di preghiere per quanto aveva fatto in corsia e non solo.
Loredana Trapletti
Quando decise di andare in una casa di riposo ne parlarono i giornali, esaltandola, raccontandone la storia edificante, fulgida, esemplare. A chi andava a farle visita replicava: “Perché vi scomodate? Io sto bene”. Grandissimo cuore. Nella sua vita non ha mai applicato l’abitudine del “do ut des”, ma il dare senza avere mai nulla in cambio: la carità senza orpelli, il dono che si fa con quel “tacer pudico” suggerita anche da Alessandro Manzoni.
Suor Carolina e le sue consorelle, nei periodi più bui del dopoguerra, si dedicarono dunque con maggiore zelo e misericordia, naturalezza e devozione al lavoro: a Niguarda arrivavano vittime degli ordigni lanciati dagli aerei, gente perseguitata dalla follia razziale e dall’avversione politica, in cerca di un rifugio. “Per vincere l’odio e la guerra tutti i giorni dovrebbero essere vissuti con la memoria, perché soltanto ricordare, parlare può trasmettere ai giovani quanto sia importante la pace”. Già, la pace. Il mondo spera di poterla conquistare e di non vedere più scene di disastri, macerie, morti sulle strade; di non sentire più l’ululato delle sirene, lo schianto degli edifici, delle case inceneriti.
Suor Carolina arrivò in ospedale il 12 ottobre del ‘39”. Aveva 24 anni e fu subito assegnata al pronto soccorso. Lei voleva fare la missionaria, andare nei Paesi più disagiati, afflitti dalla miseria più nera, dalle malattie più gravi, con i bambini, che, scalzi, mangiano con le mani e hanno la scuola a cielo aperto.
Loredana è limpida, efficace, scorrevole nell’illustrare questo cammino quanto mai faticoso. Ha con sé un mucchio di carte e di fotografie; e me le consegna con l’atto di chi ti affida un tesoro. Ed è anche fra questi fogli che esploro la vita di questo angelo che continua a vivere nella memoria di tanti che l’hanno conosciuto personalmente o grazie alle narrazioni dei testimoni diretti. Potrebbe bastare quello che mi ha detto a voce Loredana, mente lucida, memoria inossidabile. Il suo racconto mi ha coinvolto e voglio saperne di più.
Suor Carolina al centro

E divento sempre più avido di particolari. Con emozione li apprendo, e mi dispiace di non averla incontrata, questa suora illuminata e illuminante. Ma ero bambino e vivevo altrove.
Suor Carolina Trapletti venne alla luce il 26 maggio del 1915 in un paese bomboniera della provincia di Bergamo. Quell’agglomerato si chiama Grone, ha oltre 850 abitanti ed è lambito dal fiume Ghenio. La sua era una famiglia contadina che irrorava la terra con il proprio sudore. Le morì presto la mamma e lasciò, oltre a Carolina, due bambini più piccoli da tirar su. Aveva solo 14 anni, la ragazza, quando prese la via per Pietra Ligure, dove l’aspettava l’ospedale “Santa Corona”. Con quello che guadagnava poteva dare una mano al papà. Conobbe le suore di ria Bambina e le si accese una lampadina: questo era il percorso che doveva seguire. Dopo un po’ di anni fece ritorno a casa e confidò ai familiari la sua vocazione. Entrò in convento, abbracciando la regola dell’Ordine fondato a Lovere nel 1922.
Suor Carolina a sinistra

All’età di 23 anni Carolina indossa l’abito. E viene assegnata all’ospedale di Niguarda. Nel ‘44 si ammala di tbc e va in sanatorio; guarisce e rientra nell’ombra della Madonnina, decisa a rimettere in piedi il pronto soccorso danneggiato dal furore del conflitto. Nel ‘59 è la responsabile del personale e la direttrice del convitto infermiere. Ma la carriera non le interessa e neppure il comando. In lei si moltiplicano l’impegno e l’inclinazione al sacrificio. Le infermiere diplomate che da ogni parte del pianeta confluiscono al convitto scoprono in lei una sorgente d’amore e di serenità.
Dopo 65 anni di fatica spesa con grandezza d’animo suor Carolina Trapletti lascia Niguarda. Ha 89 anni. La nipote Rosanna, figlia di Loredana e Nicola, laurea con 110 e lode con la tesi “Risorse per la condivisione della conoscenza in rete: Learning Object”, scrive una breve biografia della zia con sensibilità e scioltezza. I giornali non risparmiano lo spazio: uno titola “La mamma di Niguarda”; “Il Giorno”: “Suor Carolina lascia la Ca’ Granda”; Massimo Pesenti: “Addio a suor Carolina, conforto dei malati”. Roberto Formigoni: “Reverenda Madre, è per me un grande onore e una grande gioia poterLe porgere, nella mia qualità di presidente della Regione Lombardia, il ringraziamento per l’opera di assistenza e di cura dei malati da Lei svolto nel capoluogo lombardo a partire dal 1939”.
Suor Carolina e il presepe

Il 7 dicembre del 2005 il Comune di Milano, sindaco Albertini, le conferisce la medaglia d’oro di benemerenza civile con una motivazione molto importante: “Milano, capitale morale del volontariato, si specchia in suor Carolina Trapletti, 90 anni, ora finalmente a riposo dopo una vita spesa nella dedizione. Ancora lo scorso anno, e fin dal lontano 1939, si è prodigata tra i malati dell’ospedale Niguarda, coniugando in modo impeccabile spirito religioso e attività professionale. In quel luogo di sofferenza molte pene si sono attenuate, grazie al suo lavoro umile, attento, silenzioso”. Leggendo queste parole, a Loredana sgorga una lacrima, contenta e orgogliosa di aver avuto una zia come suor Carolina. Mi mostra una lettera senza firma (sicuramente una infermiera): “Ho vissuto più di quarant’anni con suor Carolina nella comunità di Niguarda. Suor Carolina era direttrice del convitto delle infermiere e molta parte della giornata e anche la notte viveva con loro… era sempre presente nella comunità per la preghiera, per i pasti, per incontri comunitari…”.
Loredana apre una busta: anche quella piena di ritagli di giornali. Ecco “L’Avvenire”, che dà notizia dell’Ambrogino d’oro conferito a suor Carolina, nell’anno in cui lo ha ritirato anche Oriana Fallaci. L’”Eco di Bergamo” (esce nella città del “Papa buono”, Giovanni XXIII, che mandava i baci ai bambini): “L’Ambrogino d’oro” alla suora dei malati… Ora vive a Zogno”.
Suor Carolina riceve l'Ambrogino dal sindaco Albertini

Lei confida a un giornale: “Ho fatto tutto questo per il Signore, che mi ha dato la forza di aiutare gli altri. Quando si aiuta qualcuno è sempre più quello che si riceve di quello che si dà”. Sempre umile, sempre altruista, suor Carolina. E poi: ”Vado a riposarmi a Zogno presso l’infermeria della nostra casa religiosa. Se mi sarà chiesto di lavorare non mi tirerò indietro…”. L’autore dell’articolo, Filippo Poletti, giornalista attento e scrupoloso, raccoglie anche la testimonianza di Pasquale Cannatelli, “attuale direttore del Niguarda”: “Per 65 anni si è dedicata con amore e passione alla cura dei malati, traducendo la sua passione per Cristo in passione per l’uomo”. E’ morta il 6 luglio 2009, alle 7, il giorno di Santa Maria Goretti. 
Qualche giorno e ricorreva il suo compleanno.
Il Niguarda

Quante voci in onore di suor Carolina, quante testimonianze, quanti riconoscimenti. Loredana Trapletti, seduta di fronte a me, vicina alla porta che dà sul cortile con le ringhiere che lo incorniciano e i panni stesi come vessilli, ogni tanto si rivolge a Nicola chiedendogli conferma di quello che dice. In verità lei la vita e l’attività del suo angelo le conosce a memoria. La dovrebbero conoscere tutti quelli che sono interessati solo ad impolpare il conto in banca.

mercoledì 5 giugno 2024

Un uomo mai dimenticato

DINO ABBASCIA’, RE DELLA FRUTTA FU IL PRIMO AD IMPORTARE I KIWI






Ritratto di Abbascià su ceramica
Arrivato a Milano da Bisceglie quando aveva 13 anni, da garzone di fruttivendolo,
solerte e infaticabile, scalino dopo scalino, entrò nei consigli d’amministrazione come presidente. Aprì la “Boutique della frutta” a Porta Nuova e per anni guidò l’Associazione regionale pugliesi. Era un uomo brillante e simpatico.















FRANCO PRESICCI





Lo rivedo, Dino Abbascià, quel giorno di una quindicina di anni fa seduto con me in un ristorante di Porta Romana, di cui conosceva il titolare. Gli feci tante domande: mi interessava conoscere ogni aspetto da riversare in un articolo. E lui si raccontò tra una forchettata e l’altra, con tono basso, com’era suo costume, senza enfasi, accompagnando le parole con sorrisi spontanei.
Dino Abbascià con un bimbo di colore
A Milano aveva avuto una vita difficile, nei primi anni. Aveva lasciato con tanta speranza la sua Bisceglie - di origine medievale – i cui prodotti ortofrutticoli raggiungevano i vari Paesi d’Europa. Bisceglie era la città di don Pasquale Uva, costruttore di opere “degli ultimi fra gli ultimi”, tra cui un ospedale; e in un momento di scoraggiamento Dino scrisse alla mamma, pregandola di cercargli un posto nella struttura del sacerdote. Ma ancor prima che la lettera giungesse a destinazione, impiegando tanta energia, sfoderando tanta voglia di lavorare, uno spiraglio lo trovò da solo, come garzone nel negozio di un fruttivendolo, dove espresse tutte le sue doti: cortesia, solerzia, acume. Nel pomeriggio le persone anziane vi andavano a comperare le mele tocche, così ridotte perché tenute ammucchiate in grandi casse, riducendone il costo: tre chili 100 lire.
Dino serviva e spendeva parole buone e brillanti, acquistandosi la simpatia di tutti. La sua bravura venne riconosciuta e apprezzata, tanto da diventare responsabile del negozio. Aveva 16 anni. E per arrotondare, la sera e la domenica vendeva gelati nel cinema vicino. Qualche volta andava a vedere un film o a prendersi un “cono”, ma mai una spesa straordinaria, per divertimento o tanto per cambiare.
Abbascià e Albano

Ragazzo serio, geniale, ironico, non aveva fatto molti studi: iscritto a scuola un anno prima, aveva concluso quella dell’obbligo. Nato nel ‘42, era salito a Milano nel luglio del ‘55. In gennaio era arrivato come arcivescovo Giovanni Battista Montini. Pioveva. A Palazzo Marino i meneghini andavano a vedere il plastico del progetto del metrò e in ottobre venne inaugurata la “Piccola Scala”. Abbascià andava avanti, si faceva stimare, anche amare: era considerato un esempio. Invitava la gente a gran voce, la serviva con accuratezza e creò una gara fra colleghi: chi vendeva di più si assicurava l’aperitivo.
Ne aveva, di idee, il giovane Abbascià. Decisiva quella di mettersi in proprio. Fece venire a Milano i fratelli, poi i genitori, durante una vacanza nella sua terra conobbe Teresa, archivista romana, e nel ‘69 le infilò l’anello al dito. Aveva aperto la “Boutique della frutta” di fronte all’ospedale Fatebenefratelli, e cominciò a stabilire le basi di un impero. Il nome Abbascià si diffondeva, diventava sempre più importante, ammirato, rispettato, entrava nei consigli di amministrazione, e conquistò la vicepresidenza dell’Unione Commercianti, sede in corso Venezia, e la presidenza in altri. Un figlio della Puglia trapiantato in Lombardia. Parlava senza mai accennare al coraggio, ai sacrifici, all’acume che lo avevano portato scalino dopo scalino a quei livelli.
“Cavaliere, vado con il secondo?” - lo interruppe il cameriere, un giovanotto alto e magro, meridionale con accento barese - “Sì, una crostata, anche per il signore”. L’oste si stagliò dietro la camicia bianca, “papillon” e tovagliolo pendente su un braccio del cameriere e accarezzò la spalla di Dino. “Sei grande, fai onore della Puglia”. Lui sorrise. Il sorriso baluginava sempre sul suo volto. Chi entrava e lo coglieva pensava di trovarsi di fronte all’attore francese Serge Reggiani, nato non a Parigi, ma a Reggio Emilia. “E tu, che dici di te?”. “Di me, niente. Sono io che devo fare il tuo ritratto, ho già in mano la matita”. Lui prese un pezzo di pane pugliese e rimase in silenzio per un paio di minuti: “Quindi devo parlare sempre io?”. “Più parli e meglio è, per me. Io sono avido di notizie, amo conoscere bene le persone che ammiro”.
Dino e Teresa Abbascià

Non si lasciò pregare. Il suo prestigio si è allargato. Fornisce una notevole quantità di ristoranti e alberghi. Uno di questi è l’Hotel Quark, dove spesso organizza le feste per l’Associazione regionale pugliesi di cui è l’amato presidente. Da piazza del Duomo, dove il sodalizio è stato ospitato con la presidenza dell’ottimo Beppe Marzo, funzionario regionale, collezionista di francobolli e di giornali leccesi dell’800, la trasferisce in via Pietro Calvi. Qui le iniziative si susseguono, con la collaborazione di alcuni iscritti: presentazioni di libri, inviti a personalità, mostre di pittura, gite, incontri, autori che leggono le proprie poesie. Un turbinìo d’iniziative Ed ecco il Premio per personaggi e attività pugliesi che si distinguono (Sabrina Soloperto delle donne del vino, Renzo Arbore, Al Bano... ). A consegnarlo, l’avvocatessa Annamaria Bernardini De Pace, presidente onorario dell’Associazione; animatrice delle serate Nicla Pastore, di Studio 100.
Nei giorni vicini a Pasqua o a Natale o a Carnevale suoni e balli, e al suo telefonino a viva voce prorompe sempre l’ugola di Al Bano, suo amico, che lo ha accolto più volte nella sua tenuta di Cellino San Marco. E’ sempre lui, il presidente, a dare tono alle feste; è sempre presente alle riunioni del comitato, suggeritore di programmi, dando ampia libertà di azione a chi abbia voglia d’impegnarsi. Tra i soci, nomi illustri, a cominciare dal vecchio primario dell’ospedale di Castelvetro, Miraglia, tra l’altro autore di imponenti libri sul parto indolore; l’attore Placido, che ha un “curriculum” teatrale e cinematografico di rispetto.
Elio Greco e Francesco Lenoci
Fa tanto per l’Arpugliesi. Accompagna un gruppo a Martina Franca, in occasione di una festa allestita dallo chef di fama internazionale Antonio Marangi e a una visita alla Basilica di San Martino, guidati dal professor Francesco Lenoci, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che è nato in Valle d’Itria ed è vicepresidente della stessa Airp. A Martina visitano il centro storico, dove i vicoli, le case, le ‘nghiòstre, le donne che sferruzzano sulle soglie e conversano spesso con chi passa sono quinte e personaggi teatrali.
Ogni volta che prende la parola nelle assemblee, fra tanti laureati, premette di essere un fruttivendolo (fruttivendolo con tanto di cervello e di cuore). Lo disse anche quando al Circolo della Stampa presentarono un nuovo giornale, “L’Informazione”, il cui proprietario era un pugliese (tra gli interventi, quello di Marcello Veneziani). E lo ridisse anche all’Unione dei Commercianti il pomeriggio in cui fu presentato il libro “Capatoste”, di Beppe Lopez.
I fratelli Dino e Donato Abbascià

Era affabile e generoso. Una mattina al Circolo della Stampa, durante una manifestazione organizzata da Elio Greco, presidente della Fondazione Nuove Proposte di Martina Franca, una vecchietta con una pensione magra gli chiese della frutta; e lui promise che gliel’avrebbe fatta avere nel pomeriggio. Bastò una telefonata al fratello Donato (altra persona esemplare) con il nome e l’indirizzo. Ne faceva tanti, di questi atti di bontà. In Kenya vide un gruppo di bambini a scuola sotto un albero e pensò di costruirne una fatta di muri e soffitto. E in pantaloncini e torso nudo prese frattazzo e cazzuola e si mise all’opera.
L’oste venne a sedersi con noi e seguì il resto della conversazione, aggiungendo brani alla biografia di Abbascià: lo conosceva da tanto tempo e aveva molte cose da dire e le diceva. Poi il discorso scivolò sui vini e sui cibi preferiti dall’illuminato industriale della frutta. Dino intervallava con il racconto della sua Bisceglie, che da pubblicista iscritto all’albo ogni tanto descriveva con accenti di poesia in articoli palpitanti di nostalgia. Mi fece dono di un volume sulla sua città, dicendomi: “Perché tu venga a conoscere il mio paese, a vedere quant’è bello. Magari ci andiamo insieme, entriamo nelle corti, attraversiamo le vie più interessanti, sarà per te un percorso indimenticabile, visto che ami tanto il Sud, come me”.
Abbascià abbraccia Nico Blasi
Un brutto giorno apro Facebook, vado alla pagina di Pino Sorrentino e leggo: “Oggi un grande uomo è morto”. Quell’uomo era Dino Abbascià, che si definiva fruttivendolo e ed era all’altezza delle persone acculturate. Mi commossi. E ricordai la serata pugliese al Rotary Club di Merate, che vide arrivare tutto quello che serviva da Martina Franca, compresi cuochi, camerieri, specialità, tra cui il capocollo, e gli uomini del caseificio Fragnelli, che facevano le mozzarelle e le mandavano subito in tavola, mentre Abbascià abbracciava Nico Blasi, direttore di “Umanesimo della Pietra”, rivista bellissima e interessante che esce in Valle d’Itria da tanti anni e socio onorario di quel Rotary. Un abbraccio fra due pugliesi di stampo autentico.
Dino Abbascià non è stato dimenticato. Non si può dimenticare un uomo come lui. Non soltanto a Bisceglie, dove gli hanno dedicato una scuola e credo il mercato ortofrutticolo. Anche a Milano, che gli deve molto.