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giovedì 29 agosto 2024

Ricordo di un grande presidente

FRANCO PUNZI, CHE GUIDO’ IL FESTIVAL DI MARTINA




Franco Punzi
Era l’anima del “Valle d’Itria”, il cuore, il sostegno. A Milano, al Piccolo Teatro, parlava a braccio con entusiasmo, passione, invitando tra l’altro il pubblico a venire nella città del sole.










FRANCO PRESICCI


No, non dimentico Franco Punzi. Ogni anno, quando nel cortile del Palazzo Ducale di Martina va in scena il Festival della Valle d’Itria, lui è lì, seduto da qualche parte, come uno spettatore qualunque.
Martina Franca

Al termine della rassegna, ormai famosa e apprezzata in tutto il mondo, lo sorprendevo nel suo ufficio disadorno, dietro la scrivania a leggere il quotidiano che ne parlava, che poi deponeva sul mucchio che stava di lato. Era contento nel vedere tutti quei titoli che plaudivano alla manifestazione, di cui era presidente esperto, colto, impegnato, dinamico, organizzatore fuori del comune. Qualche volta da lui incontravo Antonio Rossano, che puntualmente dava notizie del Festival su Raitrè, da appassionato e competente narratore (scrisse anche un libro, “Miracolo a Martina”). E tale è, questa rassegna, con tutte quelle opere mai rappresentate ai tempi nostri, cantanti giovani che avevano ed hanno a Martina un trampolino di lancio.
Quanti anni ha il Valle D’Itria? Non me lo ricordo. Forse 50; anzi, sì, 50: da mezzo secolo la meravigliosa, benedetta Valle ad ogni estate viene inondata dalla musica, che impreziosisce la città luminosa, una delle meraviglie del mondo.
Sergio Escobar e Franco Punzi

Io spesso avverto la mancanza di Franco Punzi, un gentiluomo di antico stampo, che sapeva irrorare l’amicizia con la lealtà e il rispetto. Un mese prima della presentazione del programma a Milano, al Piccolo Teatro fondato da Giorgio Streheler e Paolo Grassi, mi telefonava: “Ci sarai?”. E io, “Certo che ci sarò”. Un anno l’appuntamento cadde un giorno di sciopero dei mezzi pubblici e mi feci accompagnare da un amico fino a piazza Sant’Ambrogio; e da lì raggiunsi via Rovello a piedi.
Pendevo dalle labbra dei relatori; e quando prendeva la parola Franco Punzi riponevo penna e taccuino e lo ascoltavo assorbendo tutto quello che diceva. Era per me una gioia sentire le sue parole, spontanee, sulla bellezza di Martina, sull’atmosfera che vi si respirava, la bianchezza delle facciate delle case, l’aspetto teatrale del centro storico. Tutto per stimolare il pubblico a scendere giù in quell’oasi per gustare la musica e le architetture che incantavano Cesare Brandi, il regista Pierluigi Pizzi e tutti quelli che prendevano la via che porta alla luce e ai colori squillanti, ai sapori e agli odori allettanti. Poi sciorinava il programma del Festival, sempre a braccio.
Franco Punzi e Alberto Triola

“Mi raccomando, vieni”, esortazione puntuale. Conosceva il mio lavoro, che impone deviazioni improvvise. Ma io riuscivo sempre a farla franca, meno quando problemi di deambulazione m’imponevano la sosta senza misericordia; e anche allora mi davo da fare, chiamando anche Francesco Lenoci, che spesso è stato ispirato dalla Provvidenza, venendomi incontro. Ma quando la necessità mi ha costretto alla resa senza soluzioni ho sempre scritto del “miracolo a Martina”. Non solo delle pagine dell’opera di Antonio, che celebrava i 25 anni del Festival, scorrendone la vita dai primi vagiti; ma del Festival, la cui musica fa smuovere anche i sassi antropomorfici dei “pareti” dei tratturi, nella campagna punteggiata di trulli e di viti, con il profumo del finocchietto e il verso della civetta, bollata della nomea di portatrice sfortuna (a ognuno la propria sorte). “Ti è piaciuto il Festival?”, mi domandava Punzi. “Mi ha fatto sognare”… Lo ammiravo e lo stimavo. Come non stimare un uomo come lui, che dava al Festival se stesso. Felice alla notizia di un riconoscimento; e felice quando notava che il pubblico s’impolpava, che del Festival si parlava ovunque, a Milano e a Firenze, altrove, anche oltre i confini del Paese.
Al Piccolo Teatro lo sentivo dire al direttore Sergio Escobar, di cui era amico: “Io ti aspetto a Martina, sarai ricevuto con tutti gli onori”. Ed Escobar: ”Quello di Martina è un grande Festival. Siete davvero bravi. Avete cultura, esperienza, intelligenza, voglia di fare”. Era entusiasta di questa creatura diventata un colosso. Seguo Antonio Rossano nelle sue pagine ricche di notizie, situazioni, brani di storia: “Torniamo alla rapida sintesi di un Festival prezioso anche perché trova sempre ‘anni migliori’, riesce a farsi apprezzare e a colpire per scelte azzeccate e iniziative stimolanti…”. Rossano elogia anche la presenza di spirito dimostrata di fronte agli imprevisti: “Sergio Segalini, al suo esordio come direttore artistico conferma subito le qualità indicate da Celletti e risolve brillantemente una grana esplosa a pochissimi giorni dallo spettacolo inaugurale ‘La Sonnambula’ di Bellini. La protagonista designata si ammala. Segalini aveva partecipato ad una giuria di canto e aveva notato un sopranino di tutto rispetto, Patrizia Ciofi, giovanissima, molto determinata, già assai brava. La contatta, le offre il ruolo da protagonista ed è un trionfo”. E’ la capacità di risolvere immediatamente i problemi. Ce ne sono stati altri, ma mai nessuno si è accasciato dietro le quinte per piangere.
Punzi ed Escobar discutono

Durante la presidenza di Franco Punzi di fatiche straordinarie ce ne sono state, ma sono state sempre affrontate con coraggio. Durante i nostri incontri Punzi le riassumeva. Non si perdeva mai d’animo, era un lottatore energico, un gladiatore. Una sera durante una cerimonia credo alla Fondazione Paolo Grassi (a volte la memoria si assenta) entrò un giovanotto avvezzo alle polemiche e alle proteste e si mise a distribuire volantini scritti a penna. Pasquale D’Arcangelo si alzò e lo invitò ad uscire, ma fu costretto a ripetere l’invito con modi non certo francescani. Franco Punzi rimase immobile al suo posto, in apparenza indifferente al “coup de théatre”. Una mattina si presentò da lui un giornalista che voleva intervistarlo strategicamente appoggiato a un’auto di lusso. Con una cortesia nobile gli rispose di no. Quando usci mi disse: “Voleva fare la pubblicità alla cilindrata”. Grande Franco Punzi!
Ricordo il suo passo a volte da maratoneta. Con quel passo lo vedevo entrare nel Palazzo Ducale, svoltare subito a sinistra ed entrare nei locali che ospitavano, e credo ospitino ancora oggi, gli uffici del Festival, tra segretarie cortesi, veloci e preparate, computer, stampanti, manifesti, scatole di libri di sala. A volte lo rintracciavo in biblioteca vicino a un contrabbasso o ad un violino, che servivano a qualche virtuoso per fare le prove.
Quando parlava del Festival, in pubblico e in privato, non diceva mai “io”, ma “noi”. Per lui esisteva soltanto il gruppo non la singola persona. “Ognuno merita di essere considerato, qualunque lavoro svolga, cantante, scenografo, operaio, assistente”. Aveva una delicatezza esemplare. Al Piccolo parlava con tutti, controllava che tutto fosse a posto, al “bouffet” meneghino stimolava gli ospiti a gustare le specialità martinesi preparate nei piatti, accontentava le persone che volevano essere fotografate con lui.
Un ammiratore del festival e Punzi

Quando morì la moglie, Giuseppina Camassa, cominciò a spegnersi. “Ciao, Franco, come stai”, gli chiedevo per telefono da Milano: “Sto solo, la casa è vuota”. Non mi sentivo di azzardare una parola, una sola, per consolarlo. E come si consola un amico rimasto senza un braccio, che ha visto crollare il suo castello, disperdersi i suoi sogni, allontanarsi l’altra metà del cielo? Esiste un modo per consolarlo? Se qualcuno lo sa, me lo dica, anche se ormai l’amico Franco Punzi non è più tra noi. O forse sì? Come si colma un vuoto? Nel vuoto era precipitato Franco Punzi, senza più la compagna della sua vita. Dov’era finita la sua forza, la volontà irriducibile impiegata da volitivo presidente del Festival della Valle d’Itria?
Una bruttissima mattina mi chiamò Francesco Lenoci, per dirmi: “Franco Punzi se n’è andato”. Una frecciata, una bastonata sul cranio, un pugno da Carnera sul volto. Sulle prime rimasi come inchiodato alla sedia, incredulo, affranto, senza una parola, gli occhi umidi.
Punzi e Pertini

Poi mi passarono nella mente la sua figura, minuta nel fisico ma grande nello spirito, i nostri incontri, i nostri dialoghi, le reciproche gentilezze, gli appuntamenti a Palazzo Ducale e al chiostro di San Domenico, al Piccolo Teatro, Paolo Grassi e Sergio Escobar, che lo stimavano, il compianto notaio Alfredo Aquaro, sempre presente in via Rovello, solitaria e tranquilla, silenziosa, a due passi dal Castello Sforzesco e da piazza Cordusio, da via Meravigli e da piazza degli Affari, dalla Scala, dal Comune.
Non dimentico Franco Punzi. Stamattina l’ho rivisto con il presidente Sandro Pertini in una foto di Benvenuto Messia. Buongiorno, Franco. Sta per andare in onda il Festival della Valle d’Itria, il tuo Festival, lo vedrai da lassù, dove ormai sei una stella e ascolti la musica del firmamento? O avrai il permesso di vederlo nel delizioso cortile di piazza Roma e nelle sue migrazioni?

mercoledì 21 agosto 2024

Francesco Colucci, prefetto in pensione

VICECAPO DELLA MOBILE CONOSCEVA BENE LA MALA




Il prefetto Francesco Colucci
Bande, banditi, scassa vetrine e mani di velluto, rapinatori, ladri, sequestratori, molte pellacce di Milano non avevano segreti, per lui.















Franco Presicci




Non parla mai delle operazioni di polizia a cui ha partecipato; e men che meno di quelle che ha diretto. Francesco Colucci, oggi prefetto in pensione, schiva l’argomento, preferendo parlare d’altro.
Intervista a Colucci

Degli eventi della vita, per esempio. E dire che ne avrebbe di cose da raccontare e con dovizia di particolari. E’ stato vicecapo della Squadra Mobile, a Milano, dirigente della Criminalpol, con sede in piazza San Sepolcro, dove al primo piano si aprono le porte del primo distretto, e ha rivestito tanti altri incarichi, accumulando esperienze e incontri con ogni tipo di persone dell’una e dell’altra sponda. Non si è mai messo in mostra, non è mai andato alla ricerca della sua immagine sui giornali. Pur avendone avuto la possibilità. I cronisti lo hanno incalzato, facendo siepe attorno a lui; lo hanno atteso in via Fatebenefratelli, all’ingresso della questura, e lui, sempre gentile, misurato, un sorriso appena accennato, si schermiva, chiarendo che a imporgli il silenzio era la segretezza delle indagini. Non parlava come l’oracolo di Apollo, creando perplessità, incertezza nei cacciatori di notizie, che trascorrevano più ore sulla strada che a casa e le inventavano tutte per poter catturare particolari di un delitto, di un sequestro di persona, di una rapina clamorosa. E’ vero che lui e i suoi uomini avevano a che fare con banditi agguerriti, bene organizzati e forniti di ogni mezzo necessario per le loro imprese criminali e che se all’investigatore sfuggiva una parola di troppo ne avrebbero approfittato chiudendosi a riccio. Il lavoro era spesso delicato, impegnativo, faticoso e quindi se raggiungevano un risultato e rimanevano delle appendici occorreva tacere. Avevano scoperto un covo, arrestando dei malviventi? Bisognava tenere segreta la notizia, perché i poliziotti erano appostati nei pressi e all’interno del luogo in attesa di altri della banda. Ma i mastini della stampa si accanivano e avrebbero violato anche un tabernacolo pur di strappare una sillaba.
Francesco Colucci

Nell’agosto dell’84 andai a Santa Maria di Leuca a far visita ad un amico della Squadra Mobile di Milano, che mi invitò a cena. La moglie andò a comperare le cozze e lui rimase a conversare con me. Ogni tanto si alzava e andava nella villa di fronte per parlare al telefono a voce bassa. Il movimento m’insospettì. Durante il banchetto gli facevo domande e lui deviava. “Niente, stai tranquillo, gusta gli spaghetti, comune amministrazione. Quando noi siamo in ferie non siamo così lontani dai ‘topi’”.
Tornato a casa chiamai Franco Colucci: “Sta succedendo qualcosa? Ho l’impressione che il tuo collega sia un po’ agitato. E’ con te che parla? Se è così mi puoi dare una dritta?”. “Ma no, in pentola non bolle niente. Possibile che tu non riesca mai a riposarti?”. Allora mi rivolsi a uno dei cronisti più esperti e dotati del mio giornale, Giancarlo Rizza, che da una vita respirava l’aria di via Fatebenefratelli, dove conosceva tutti o quasi. Una sera era riuscito a sgattaiolare da un ristorante, dove il dottor Pippo Micalizio cercava di tenerci buoni perché aveva appena ricevuto una notizia prelibata e cercava di evitare che qualcuno di noi, uscendo, potesse iniziare una battuta di caccia, e quando si accorse che Rizza si era volatilizzato, mangiò la foglia. Infatti il cane da tartufi azzannò la preda. Ma questa volta neppure Giancarlo riuscì, come si dice, a cavare il ragno dal buco; anche perché erano pochissimi in questura quelli che sapevano dell’operazione.
Caricatura di Colucci

Dopo qualche giorno circolò la voce che due banditi al soldo di un boss determinato e feroce si aggiravano dalle parti di Misiano di Rimini per individuare un luogo in cui avviare degli affari, estendendo quelli che già gestivano con forti guadagni in Lombardia. I due si presentavano come commercianti e soggiornavano in una villa, non immaginando di essere stati intercettati e di essere seguiti in ogni passo. Vennero arrestati e dopo meno di un paio di mesi nella trappola cadde anche il capo.
Esaurite le ferie e rientrato a Milano, incontrai Colucci nei corridoi della questura. Mi sorrise, aspettandosi una lagnanza, ma io, sempre discreto e rispettoso, come lo era lui, lo invitai a bere un caffè e parlammo d’altro. Un’operazione del genere doveva essere per forza tenuta al riparo dalle nostre orecchie, altrimenti sarebbe saltata. C’era tutta una banda da smantellare. Qualche settimana dopo la notizia serpeggiando finì sui giornali, ma con tanti “forse” e “sembrerebbe”, perché i segugi della questura continuavano a tenere la bocca cucita. Poi, al momento giusto, conquistò le pagine di tutti i quotidiani, non solo milanesi.
I questori Caracciolo e Plantone
Colucci conosceva tutta l’attività di via Fatebenefratelli e uno per uno tutti gli agenti, i sottufficiali, e ovviamente i dirigenti, compresi quelli dei commissariati, gli avamposti della sicurezza cittadina. Mi capitò d’imbattermi in una suora laica, che era stata nella banda gestita da un famoso e temuto, baldanzoso personaggio, a cui hanno dedicato anche un film. Volle offrirmi un caffè e mi guidò in un bar della periferia frequentato da elementi della malandra, alla Comasina. Avevo scritto un’imprecisione sui suoi passati rapporti con il clan e lei voleva soltanto rimproverarmi e regalarmi una medaglietta con l’immagine della Madonna. Lo riferii a Franco Colucci e mi disse di conoscere molto bene quella donna, che indossava, e forse continua ad indossarlo, un abito talare cucito da lei stessa. “Un giorno la suora venne a sapere che alcune pellacce in libertà avevano fatto dei torti ai suoi compagni che stavano dentro, prese la pistola e stava per uscire per regolare i conti, quando sentì una voce: ‘Dove vai con quel ‘cannone’? “Era – mi confidò lei stessa - la voce di Gesù, che mì cambiò la vita”. Franco Colucci confermò.
Dopo qualche tempo andò a dirigere la Criminalpol, venne nominato questore, con sede a Bergamo, da lì a Lecce, a Genova, e poi prefetto, ma non è solito spifferare l’esperienza fatta durante la sua carriera. Come Antonio Pagnozzi, Vito Plantone, Mario Jovine, che andai a intervistate a Venezia e poi a Bologna, città che lo aveva avuto prefetto. Il questore Vito Plantone era mio amico fraterno, cugino di Costantino Muscau, inviato speciale del “Corriere della Sera”; e quando ci trovavamo a cena nella casa dell’uno o dell’altro ci regalava qualche racconto, certo che non avremmo mai tradito la condizione di non utilizzarlo mai (eravamo tutti in pensione), e noi abbiamo rispettato la sua volontà.
E quando Enzo Catania, allora direttore del “Giorno”, gli chiese di assumere l’incarico di commentare per il giornale i fatti più clamorosi, lui rispose di no, perché anche se fuori dalla polizia lui rimaneva fedele allo Stato. Così Franco Colucci. Altrettanto come detto Antonio Pagnozzi, che non c’è più, come Plantone e come Enzo Caracciolo, che è stato un grande capo della squadra ai tempi del questore Allitto Bonanno, negli anni Settanta. Una sera tentai di intervistarlo e lui mi rispose soltanto che aveva lo scrupolo di non essere riuscito ad acciuffare l’assassino di Simonetta Ferrero, la studentessa che perse la vita nel bagno dell’Università Cattolica di Milano.
Prefetti Pagnozzi, Colucci e il gionalista Catania 

Sono stati tutti dei pilastri di via Fatebenefratelli. Alcuni di loro aveva collaborato con il grande Mario Nardone, detto “il gatto” per il fiuto di cui era dotato. E tutti, come Nardone, quando accettavano di parlare con un cronista osservavano una regola per loro sacra: raccontiamo i fatti, ma senza fare nomi. Chiesi il motivo a Nardone nella sua casa di via Savona e lo chiesi anche a Vito Plantone. La risposta fu chiara: anche un uomo che delinque ha una famiglia, i figli possono avere un lavoro onesto o essere all’università e non è giusto che leggano sui giornali che il padre è stato quello che è stato.
Andai a Catanzaro, a intervistare Plantone, che era stato nominato questore di quella città, e lui su questo fu inflessibile. Chiamai Guido Gerosa, intellettuale di notevoli dimensioni, vicedirettore e capocronista del giornale, che scriveva libri e conosceva a memoria la storia della nera a Milano (se n’era occupato al quotidiano del pomeriggio “la Notte”), e mi disse che andava bene così. Ho dimenticato Colucci? No, mi resta da dire che merita la stima di cui gode, anche fra tanti amici che con la polizia non hanno niente a che fare.

mercoledì 14 agosto 2024

Un grande poeta in dialetto tarantino

SCRISSE UN TOCCANTE POEMA “’U TRAVAGGHIE D’U MARE”





Alfredo Lucifero Petrosillo
Tante altre opere di Alfredo Lucifero Petrosillo, anche in lingua, si possono leggere in
quotidiani e settimanali. Era un signore alto, esile, brillante, baffetti alla David Niven. Era gioviale e aveva un sorriso dolce, comunicativo. Guidò “’U Panarijdde”, periodico satirico in vernacolo.













FRANCO PRESICCI


“Quànne hàgghie muèrte, no, no me chiàngìte / peccè chiù male ‘o core me facite / ‘u core ca stè vive e palpetèsce / angòre ‘m mìenze a vvùje e se ne prèsce…”. Sono i primi versi di una bellissima poesia di Alfredo Lucifero Petrosillo, poeta, scrittore e per un periodo direttore d“’u Panarìjdde”, il giornale satirico in dialetto tarantino fondato da Vincenzo Leggieri nella sua tipografia di fronte alla piazza coperta, alle spalle di via D’Aquino, e venduto da Marche Polle.
'u panarjidde

Ero molto giovane, quando conobbi don Alfredo, uomo alto, sottile, elegante, passo svelto e un tantino ballerino. Avevo una gran voglia di intervistarlo per “Sette Giorni”, il periodico barese che mi ospitava, e per “La Tribuna del Salento”, gemello di Lecce del professor Ennio Bonea, diretto da Totò Vergari, ma non mi decidevo mai. Eppure il figlio, Pierino, che frequentava il liceo scientifico nella stessa classe di mio cugino Enzo – che abitava di fronte a me sullo stesso ballatoio dello stabile costruito da mio nonno e con lui studiava il pomeriggio - avrebbe potuto agevolare il contatto.
Un giorno vidi don Alfredo camminare proprio davanti a me, in via Leonida all’angolo con via Dante e non esitai: “Signor Petrosillo, mi concederebbe un po’ di domande per un articolo?”. “Immagino che tu non voglia esplorarmi adesso, fra la gente. Meglio a casa mia”. E mi fissò un appuntamento per il giorno dopo. Mi colpì la sua disponibilità e il suo garbo signorile e mi sentii orgoglioso. Avevo appena letto un suo libretto di poesie e mi era piaciuto tantissimo.
Fui puntualissimo, anzi arrivai mezz’ora prima e aspettai giù nell’androne del palazzo. All’ora prestabilita salii e bussai. Venne ad aprirmi e mi fece sedere in poltrona con un modo di fare quasi paterno.
Mandrillo con i giornalisti Presicci e Baroni

“Allora, come mai questa intervista?”. “Ho letto molto di quello che lei ha scritto e vorrei chiederle tra l’altro quando le è sorta la passione per la poesia”. Una domanda banale, scontata, dovuta all’imbarazzo, ma lui non si scompose e sorridendo mi rispose che era passato tanto tempo da quel giorno. Ero “’nu curciùle” di fronte a un maestro, un nano al cospetto di un gigante. Si alzò per andare a preparare il caffè, si girò di scatto e mi sorrise, fissandomi con i suoi occhi di antracite: “Già, sono molti anni che navigo in questo mare. Traduco in versi ogni attimo della mia vita, i miei stati d’animo”. “Lo sa che so quasi a memoria il suo ’U travàgghie d’u màre?’. Ogni volta che mi viene in mente un verso mi emoziono”. Non rispose, ma gli si accesero gli occhi e credetti di veder vibrare i baffetti alla David Niven.
Sorseggiando la bevanda, mi parlò del dialetto e dell’errore che molti compivano ignorandolo. “Le nostre radici sono nel dialetto; e ascoltare i suoni, la melodia della nostra parlata, l’onomatopeia di certe parole è edificante. Il dialetto deve essere studiato, coltivato, irrorato, altrimenti a poco a poco scompare. Ci sono vocaboli dialettali più efficaci di quelli della lingua italiana, più immediati nel loro significato”. E mi invitò a fare delle passeggiate nella città vecchia, per raccogliere gemme dalle labbra dei pescatori seduti sulla riva di Mar Piccolo a rammendare le reti; per ascoltare “le cozzarùle”, che urlano il pregio della merce: l’oro di Taranto.
Le cozze

Appresa la lezione, iniziai a fare la spola dalla discesa Vasto alla Dogana, a piazza Fontana, tenendo l’orecchio teso alle conversazioni dei passanti e della gente accomodata fuori dei bar e quelle degli uomini raggruppati davanti al banco dei pescivendoli o allo sbarco del pesce dagli scafi: pesce guizzante che andava a ruba. Godetti gli urli “de le “pisciauèle” che invitavano a guardare negli occhi dentici, branzini, sarde, triglie, per notare la freschezza, mentre qualche granchio tentava di scavalcare l’orlo della cassetta riservata ai gasteropodi. E imparai, grazie a Petrosillo, anche la vita della città vecchia, stimolato a tornare tutte le volte che ne avevo la possibilità. Il resto lo fece Ciccillo Passiatore, mio lontano parente, che aveva un’oreficeria da quelle parti e si esprimeva solo nel vernacolo degli… avi. Diceva “’mbote”, “schìfe”, “chiùdde”, “ciuppenesciàte”, “sarchiapòne”...
Attraversavo spesso il ponte girevole e imboccavo ”’a vieremìènze” per andare alla chiesa di San Domenico, dove mi associavo agli esploratori e dipingevo alla bell’e meglio sulle pareti di una sala sottostante sulla sinistra dell’altare maggiore immagini di Topolino e Minnie con la divisa dei fedeli di Baden Powell. Detti loro una mano a realizzare il presepe e una recita in una cappella sconsacrata, che era stata trasformata in teatro. Dal parroco, don Stefano Ragusa, non appresi parole in dialetto, perché era di Martina Franca, ma dai ragazzi, sì: catturavo i termini che mi colpivano di più e le annotavo in una sorta di dizionario personale.
Nicola Giudetti

Alla Marina tornai molte volte e osservai i volti incartapecoriti dei vecchietti che interpellavo. Feci loro domande mentre armeggiavano sullo scivolo che portava alle imbarcazioni, esposti al sole, con la sola protezione di un cappello di paglia. Sono anche entrato in diversi vicoli per chiacchierare con i titolari dei negozietti, con le donne che passavano con piede lento e con altri vecchietti che facevano o riparavano le nasse. In un secondo incontro con Petrosillo, avvenuto in una delle vie che s’incrociano alle Tre Carrare (in via Dalò Alfieri c’era la sede dei vigili urbani e verso la Thaon di Revel un carbonaio), gli riferii le emozioni provate come viandante in via Garibaldi davanti a quell’acqua sacra che lui chiamava “Mare Picce”. Mi sentii promosso e soprattutto contento di poter parlare ancora una volta con una stella della poesia dialettale tarantina.
Non avevo ancora avuto l’onore di scambiare due parole con don Diego Marturano e don Alfredo Nunziato Maiorano. Con Claudio De Cuia mi vedevo nello studio fotografico del pittore Salinari, in via Di Palma, di fronte all’edicola di Passiatore e del negozio di occhiali Pignatelli. Che gioia leggere e rileggere “’U relògge d’a chiàzze” di Marturano; “’U travàgghie d’u màre” di Petrosillo; ”’U caggiunìere”, “’U trainìere”, “’U rafanìedde”... di Fedele; “Tàrde vècchie mije” di Alfredo Nunziato Maiorano. In quelle poesie si respira tutta la magia di Taranto.
Cataldo Sferra

La città vecchia affascinava anche Piero Mandrillo, nato a Pulsano. Il nostro dialetto per lui non aveva segreti. Studiò la voce “chiùdde”, su cui si sofferma Giacinto Peluso nel dizionario della parlata tarantina di Gigante. Parlata a cui io non rinuncerò mai. Nelle giornate che trascorro nella campagna di Martina, con i miei cari amici Argese e Giacobelli, mi lascio andare e recito a volte un mio sonetto scherzoso dedicato a un mio ex compagno di scuola che si chiamava Tortito e veniva dalla provincia. Non posso esimermi dal dovere di confessare che per quella elaborazione mi aiutò Claudio De Cuia nello studio dello stesso Salinari, divertendosi anche lui a creare le rime alternate. E’ una minuzia, ma contiene alcuni suoni dialettali che mi prendono sempre.
A qualche familiare non piace quando io per gioco uso espressioni come “’a schètàzze” , “s’hà’ ‘mbernacchiàte” , “’a femenàzze”, ma io non mi arrendo. Subii in parte il volere di quella santa donna di mia mamma, che bandiva il dialetto dalla nostra casa (come tante altre mamme) e già allora lo abbracciavo clandestinamente. Così parlavano i nostri nonni e così don Antonio “’u scarpàre”, che aveva il deschetto nell’androne nel palazzo di fianco al mio. Perché io no?
Un mio professore - che sicuramente non vorrebbe essere citato – insegnava più in dialetto che in italiano. Io lo amavo, quel docente, che rideva quando io e il mio compagno di banco alle medie, destinato a fare l’avvocato, Mosca, scimmiottavamo il dialetto barese.
Antonio De Florio

Nelle nostre serate nell’insegna dell’allegria, da grande, ripetevo la solfa a Filippo Alto, barese verace, e lui mi scudisciava con le parole “minghiarìle e cremòne” (usate da Colìne e Mariètte nella trasmissione “La Caravalla” su Radio Bari). Questo è l’aspetto giocoso del mio uso del dialetto, ma sono in grado di recitare senza scorrere il testo le composizioni di Alfredo Lucifero Petrosillo in cui immagino, anzi, sento rumoreggiare rabbioso il mare, con le onde che si infrangono sulla scogliera, schiumando.
“’N’ote favore po’ v’hàgghia circare / peccè l’anema mèje vògghie salvàre: Mittìteme ‘u Rusarie fra le màne...”. Certamente Nicola Giudetti, Cataldo Sferra, Antonio De Florio e altri, cultori del nostro dialetto e delle nostre tradizioni, hanno conosciuto Alfredo Lucifero Petrosillo, come Nerio Tebano, Arturo Caforio e altri; e a loro vorrei chiedere più notizie su questi grandi.
Ho letto che Alfredo Nunziato Maiorano andava nel borgo antico per sentire la gente parlare in vernacolo. Ricordo che Diego Fedele usava il nostro vernacolo con una sonorità particolare; e anche la poesia da lui dedicata al poeta con il bastone, che era Diego Marturano, di cui ebbi il piacere di recitare, ai tempi dell’università, “’U cuèrne de Marìe ‘a Canzìrre”, commedia in un atto molto divertente. Quanti ricordi trascina quello di don Alfredo Lucifero Petrosillo.

mercoledì 7 agosto 2024

Redattore conduttore di Padre Pio Tv

TONI AUGELLO RACCONTA LA STORIA DELLE NEVIERE





Un angolo della Masseria Pavone
Il libro è stato presentato domenica 4 agosto nella bellissima masseria di Paolo Pavone,
a Martina Franca, tra ulivi e luminarie, aiuole e capasoni trulli e piscina. Pubblico numeroso e attento, tra cui Giovanni Potenza, il famoso scalatore dei grattacieli di New York.



FRANCO PRESICCI










Una masseria suggestiva, quella del professor Paolo Pavone, dotata di una neviera così profonda, che per raggiungere il fondo occorre affrontare molti scalini (ma è possibile vederla anche dall’alto, attraverso lastre di vetro antiproiettile). Sotto un gazebo elegante e spazioso, con decine e decine di comode sedie, il docente della Cattolica di Milano, Francesco Lenoci, domenica 4 agosto ha presentato il libro “La porta della neve” di Toni Augello.
Prof. Paolo Pavone
Non me la sento di salire in cattedra per parlare di una neviera, che è, come tanti sanno, il luogo in cui veniva conservata la neve, che trasformata in ghiaccio era venduta ai negozi in estate: dai vecchi e dai competenti più di vent’anni fa appresi sommarie notizie della struttura e proprio nella masseria di Pavone, la cui aia a suo tempo è stata modificata in un ampio cortile all’ombra di ulivi frondosi. Alla bellezza del luogo si aggiunge il pregio di poter vedere in lontananza la Basilica di San Martino, la torre dell’orologio e le case che fanno loro da corona.
Stando in macchina con Leo Pizzigallo non avevo capito che la destinazione era raggiungibile voltando a destra alla rotonda sulla via per Locorotondo, e lo stesso Leo, martinese doc e conoscitore di questa autentica perla, che è la Valle d’Itria, era un po’ disorientato, pur avendo le mappe nel cuore. Quindi, qualche momentanea indecisione e infine la targa: “Masseria Pavone”. Subito dopo l’ingresso, stupore, piacere, sorpresa, incanto, ammirazione per i valori aggiunti nel tempo. Per un tratto mi ha fatto da guida lo stesso titolare, che poi , richiamato dagli impegni, mi ha affidato alla figlia Costanza, una bellissima ragazza che per sua natura conosce bene l’arte dell’ospitalità.
Verso le 19, il pubblico sparso ad osservare i trulli, il corpo di fabbrica, la chiesetta… è stato invitato a sedersi davanti al tavolo già occupato da Augello, simpaticamente spiritoso e contento di poter raccontare il libro e la propria storia; e Francesco Lenoci, abile esploratore dell’animo umano e diffusore della bellezza della Puglia, di Martina Franca e della Valle d’Itria in particolare in ogni parte d’Italia.
Toni Augello

Valle d’Itria, paradiso in terra. Chi è l’autore di questo gioiello? Bernini, Michelangelo, Brunelleschi? Chi? Chiedono in tanti. “E’ stato un contadino, un umile figlio della terra”, ha risposto un poeta domenica, Sante Ancona, con la voce di Lenoci, nato da un sarto di grande talento, Martino. E queste case incappucciate? “Un muratore. L’uno e l’altro analfabeti, ma nel cuore l’Arte e l’Amore”. Sei grande, contadino!”. E’ lui che ha messo in piedi questo scenario maestoso, questo paesaggio, a cui si ispirano ancora artisti del pennello e poeti. Il bracciante usò le pietre sparse nel suo stesso pezzo di terra. Pietra su pietra. Sante Ancona, martinese trapiantato a Firenze, sogna Martina, la celebra con passione, la esalta: “Tu costellasti questa cittadina/ di fazzoletti d’oro e di smeraldi…”, viti nane (rubo l’immagine a Raffaele Carrieri), terra rossa accarezzata dal sole, “casedde” biancolatte, ulivi, muri a secco antropomorfi, pietre che parlano, testimoni del tempo.
Parte del pubblico

Lenoci, che vanta molti titoli, tra cui quello di ambasciatore della cultura sammarchese nel mondo, e ieri vicepresidente dell’Associazione regionale pugliese ai tempi dell’indimenticabile Dino Abbascià, ha bersagliato di domande l’autore di “La porta della neve”, scandagliandone il pensiero, la cultura, le conoscenze, strappandogli anche brani di storia antica. “Prima di giungere in Puglia un superiore mi ha raccontato che persino una parte dell’esercito di Spartaco si rifugiò sulla montagna del Gargano per sfuggire alle truppe imperiali, durante la Terza Guerra Servile”, dice nel libro un comprimario…
Augello non ha perso un colpo, ha dominato la scena soprattutto quando la domanda è caduta sulla propria esperienza nell’ambito enogastronomico, spaziando fra gelati e loro provenienza. E Lenoci approfondiva, incalzando. “Nel ‘700 i martinesi conservavano la neve nelle neviere. E quando non nevicava i proprietari e gli appaltatori la facevano arrivare dalla Basilicata, dalla Calabria e persino dalla Grecia”...
Un duello dialettico interessante. Come interessante è il libro, scritto con stile vibrante, limpido come l’acqua d’un ruscello. Un libro avvincente, in cui l’autore parla anche dei briganti, il cui capo era braccato con tutti i suoi uomini; le autorità si erano riunite presso il Palazzo di Città per stabilire strategie efficaci a metterlo in trappola, ma lui e il suo esercito erano imprendibili.
Un Capasone

L’autore è appassionato di storia, anche di quella che non si studia nelle scuole. E descrive momenti salienti con scioltezza e prontezza. “Ci sono cinque bande che operano tra San Marco in Lamis, Apricena, San Severo e Torremaggiore, e due a Monte Sant’Angelo, una a Mattinata, una a San Nicandro e una a Cagnano. Una brutta gatta da pelare per chi ha il compito di stendere una rete per afferrare “‘U Zambr”, sammarchese al secolo Angelomario Del Sambro, che seminava terrore nelle campagne fino a San Severo. Per neutralizzarlo si decise anche di trasformare alcune masserie in presidi difensivi.
Il dialogo tra Lenoci e Augello, redattore conduttore di Padre Pio Tv, attira, cattura, seduce. Il docente insiste sulla trama del libro: “Michele, Giovanni e Giuseppe presero a rimuovere le assi di legno, i rami e le frasche che fungevano da copertura a quello che era un vero e proprio serbatoio di ghiaccio ricavato nella nuda terra... Questa era la funzione di una neviera: conservare intatta per tutta la durata della stagione estiva la neve caduta l’inverno precedente”. Augello è preciso, amante dei dettagli, descrive anche il ruolo della paglia tra uno strato di circa un paio di palmi di neve e l’altro. Al momento opportuno, cioè quando si rimuove la paglia, ecco comparire la neve”.
Tanti fatti, tante discussioni tra i personaggi di questa egregia opera che Augello ha già presentato in diverse sedi. “San Giovanni Rotondo prima dell’arrivo del frate diventato santo era un borgo con pochissime anime. Conquistò la fama nel mondo con le opere di quel frate giunto da Pietrelcina (la Casa Sollievo della Sofferenza, nel ‘51, tra queste). E con la fama le offerte per la costruzione dell’ospedale e altro.
La piscina

Lenoci ha ricordato che dalla neve diventata ghiaccio nelle neviere martinesi ricavavano e vendevano, in estate, “i famosi e voluttuosi sorbetti al limone, al rosolio, alla menta, al vincotto...”, fornendo l’occasione ad Augello di ripescare la storia di questa delizia, che ristora le nostre giornate estive. Subito dopo ha ripetuto gli altri titoli di questa trilogia della neve “dedicata all’affascinante figura del nevialo”: “Il mercante del freddo”, nel 2011, “La neve cade ancora, nel 2021 e nel 2023 “la porta della neve”, che narra le vicende di Nannì, che conserva la neve d’inverno sul promontorio per rivenderla d’estate presso “la porta della neve”. La copertina del romanzo, come quella dei libri precedenti, è opera dell’illustratore e graphic designer Donato Turano.
Il pubblico ha seguito la presentazione in un silenzio totale e con grande attenzione e interesse. Qualcuno avrebbe voluto fare domande, ma si faceva tardi e calava il buio. In prima fila Benvenuto Messia (fotografo di altissimo livello di Martina Franca, attore, poeta in vernacolo, il Bartali della città del Festival della Valle d’Itria); Giovanni Potenza, il famoso scalatore dei grattacieli di New York; il professor Pavone; l’editore Silvio Laddomada con la moglie Alba… Sarebbe stato bello anche visitare la neviera, di cui è dotata la masseria (la visita era infatti in programma), ma è saltata per l’ora inoltrata. Ma sicuramente è stata solo rimandata.
La masseria

Nella masseria si svolgono iniziative soprattutto culturali che non lasciano indifferenti. Testimoni, luminarie e luci solari che illuminano soprattutto i tronchi degli ulivi e le cuspidi dei trulli. Il luogo è riposante, tranquillo, silenzioso. Non vi si sente neppure lo sferragliare della Littorina che da Martina corre a Lecce.
La ricordo fin dagli anni ‘50, quando dopo mezzanotte la prendevo per andare a Brindisi, per confezionare, con il giornalista Livio De Luca, abruzzese-milanese- tarantino, il settimanale “Il Meridionale” dell’avvocato Alberto Margherita. Da Taranto a Martina viaggiava invece la locomotiva a vapore, che sbuffava, ansimava, fischiava, avvolta dal fumo emesso dalla ciminiera che aveva sulla fronte. Erano i tempi della piattafoma girevole che le consentiva di mutare direzione. Per la cronaca quell’aggeggio c’è ancora, ma è arrugginito e mezzo sepolto.