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mercoledì 21 agosto 2024

Francesco Colucci, prefetto in pensione

VICECAPO DELLA MOBILE CONOSCEVA BENE LA MALA




Il prefetto Francesco Colucci
Bande, banditi, scassa vetrine e mani di velluto, rapinatori, ladri, sequestratori, molte pellacce di Milano non avevano segreti, per lui.















Franco Presicci




Non parla mai delle operazioni di polizia a cui ha partecipato; e men che meno di quelle che ha diretto. Francesco Colucci, oggi prefetto in pensione, schiva l’argomento, preferendo parlare d’altro.
Intervista a Colucci

Degli eventi della vita, per esempio. E dire che ne avrebbe di cose da raccontare e con dovizia di particolari. E’ stato vicecapo della Squadra Mobile, a Milano, dirigente della Criminalpol, con sede in piazza San Sepolcro, dove al primo piano si aprono le porte del primo distretto, e ha rivestito tanti altri incarichi, accumulando esperienze e incontri con ogni tipo di persone dell’una e dell’altra sponda. Non si è mai messo in mostra, non è mai andato alla ricerca della sua immagine sui giornali. Pur avendone avuto la possibilità. I cronisti lo hanno incalzato, facendo siepe attorno a lui; lo hanno atteso in via Fatebenefratelli, all’ingresso della questura, e lui, sempre gentile, misurato, un sorriso appena accennato, si schermiva, chiarendo che a imporgli il silenzio era la segretezza delle indagini. Non parlava come l’oracolo di Apollo, creando perplessità, incertezza nei cacciatori di notizie, che trascorrevano più ore sulla strada che a casa e le inventavano tutte per poter catturare particolari di un delitto, di un sequestro di persona, di una rapina clamorosa. E’ vero che lui e i suoi uomini avevano a che fare con banditi agguerriti, bene organizzati e forniti di ogni mezzo necessario per le loro imprese criminali e che se all’investigatore sfuggiva una parola di troppo ne avrebbero approfittato chiudendosi a riccio. Il lavoro era spesso delicato, impegnativo, faticoso e quindi se raggiungevano un risultato e rimanevano delle appendici occorreva tacere. Avevano scoperto un covo, arrestando dei malviventi? Bisognava tenere segreta la notizia, perché i poliziotti erano appostati nei pressi e all’interno del luogo in attesa di altri della banda. Ma i mastini della stampa si accanivano e avrebbero violato anche un tabernacolo pur di strappare una sillaba.
Francesco Colucci

Nell’agosto dell’84 andai a Santa Maria di Leuca a far visita ad un amico della Squadra Mobile di Milano, che mi invitò a cena. La moglie andò a comperare le cozze e lui rimase a conversare con me. Ogni tanto si alzava e andava nella villa di fronte per parlare al telefono a voce bassa. Il movimento m’insospettì. Durante il banchetto gli facevo domande e lui deviava. “Niente, stai tranquillo, gusta gli spaghetti, comune amministrazione. Quando noi siamo in ferie non siamo così lontani dai ‘topi’”.
Tornato a casa chiamai Franco Colucci: “Sta succedendo qualcosa? Ho l’impressione che il tuo collega sia un po’ agitato. E’ con te che parla? Se è così mi puoi dare una dritta?”. “Ma no, in pentola non bolle niente. Possibile che tu non riesca mai a riposarti?”. Allora mi rivolsi a uno dei cronisti più esperti e dotati del mio giornale, Giancarlo Rizza, che da una vita respirava l’aria di via Fatebenefratelli, dove conosceva tutti o quasi. Una sera era riuscito a sgattaiolare da un ristorante, dove il dottor Pippo Micalizio cercava di tenerci buoni perché aveva appena ricevuto una notizia prelibata e cercava di evitare che qualcuno di noi, uscendo, potesse iniziare una battuta di caccia, e quando si accorse che Rizza si era volatilizzato, mangiò la foglia. Infatti il cane da tartufi azzannò la preda. Ma questa volta neppure Giancarlo riuscì, come si dice, a cavare il ragno dal buco; anche perché erano pochissimi in questura quelli che sapevano dell’operazione.
Caricatura di Colucci

Dopo qualche giorno circolò la voce che due banditi al soldo di un boss determinato e feroce si aggiravano dalle parti di Misiano di Rimini per individuare un luogo in cui avviare degli affari, estendendo quelli che già gestivano con forti guadagni in Lombardia. I due si presentavano come commercianti e soggiornavano in una villa, non immaginando di essere stati intercettati e di essere seguiti in ogni passo. Vennero arrestati e dopo meno di un paio di mesi nella trappola cadde anche il capo.
Esaurite le ferie e rientrato a Milano, incontrai Colucci nei corridoi della questura. Mi sorrise, aspettandosi una lagnanza, ma io, sempre discreto e rispettoso, come lo era lui, lo invitai a bere un caffè e parlammo d’altro. Un’operazione del genere doveva essere per forza tenuta al riparo dalle nostre orecchie, altrimenti sarebbe saltata. C’era tutta una banda da smantellare. Qualche settimana dopo la notizia serpeggiando finì sui giornali, ma con tanti “forse” e “sembrerebbe”, perché i segugi della questura continuavano a tenere la bocca cucita. Poi, al momento giusto, conquistò le pagine di tutti i quotidiani, non solo milanesi.
I questori Caracciolo e Plantone
Colucci conosceva tutta l’attività di via Fatebenefratelli e uno per uno tutti gli agenti, i sottufficiali, e ovviamente i dirigenti, compresi quelli dei commissariati, gli avamposti della sicurezza cittadina. Mi capitò d’imbattermi in una suora laica, che era stata nella banda gestita da un famoso e temuto, baldanzoso personaggio, a cui hanno dedicato anche un film. Volle offrirmi un caffè e mi guidò in un bar della periferia frequentato da elementi della malandra, alla Comasina. Avevo scritto un’imprecisione sui suoi passati rapporti con il clan e lei voleva soltanto rimproverarmi e regalarmi una medaglietta con l’immagine della Madonna. Lo riferii a Franco Colucci e mi disse di conoscere molto bene quella donna, che indossava, e forse continua ad indossarlo, un abito talare cucito da lei stessa. “Un giorno la suora venne a sapere che alcune pellacce in libertà avevano fatto dei torti ai suoi compagni che stavano dentro, prese la pistola e stava per uscire per regolare i conti, quando sentì una voce: ‘Dove vai con quel ‘cannone’? “Era – mi confidò lei stessa - la voce di Gesù, che mì cambiò la vita”. Franco Colucci confermò.
Dopo qualche tempo andò a dirigere la Criminalpol, venne nominato questore, con sede a Bergamo, da lì a Lecce, a Genova, e poi prefetto, ma non è solito spifferare l’esperienza fatta durante la sua carriera. Come Antonio Pagnozzi, Vito Plantone, Mario Jovine, che andai a intervistate a Venezia e poi a Bologna, città che lo aveva avuto prefetto. Il questore Vito Plantone era mio amico fraterno, cugino di Costantino Muscau, inviato speciale del “Corriere della Sera”; e quando ci trovavamo a cena nella casa dell’uno o dell’altro ci regalava qualche racconto, certo che non avremmo mai tradito la condizione di non utilizzarlo mai (eravamo tutti in pensione), e noi abbiamo rispettato la sua volontà.
E quando Enzo Catania, allora direttore del “Giorno”, gli chiese di assumere l’incarico di commentare per il giornale i fatti più clamorosi, lui rispose di no, perché anche se fuori dalla polizia lui rimaneva fedele allo Stato. Così Franco Colucci. Altrettanto come detto Antonio Pagnozzi, che non c’è più, come Plantone e come Enzo Caracciolo, che è stato un grande capo della squadra ai tempi del questore Allitto Bonanno, negli anni Settanta. Una sera tentai di intervistarlo e lui mi rispose soltanto che aveva lo scrupolo di non essere riuscito ad acciuffare l’assassino di Simonetta Ferrero, la studentessa che perse la vita nel bagno dell’Università Cattolica di Milano.
Prefetti Pagnozzi, Colucci e il gionalista Catania 

Sono stati tutti dei pilastri di via Fatebenefratelli. Alcuni di loro aveva collaborato con il grande Mario Nardone, detto “il gatto” per il fiuto di cui era dotato. E tutti, come Nardone, quando accettavano di parlare con un cronista osservavano una regola per loro sacra: raccontiamo i fatti, ma senza fare nomi. Chiesi il motivo a Nardone nella sua casa di via Savona e lo chiesi anche a Vito Plantone. La risposta fu chiara: anche un uomo che delinque ha una famiglia, i figli possono avere un lavoro onesto o essere all’università e non è giusto che leggano sui giornali che il padre è stato quello che è stato.
Andai a Catanzaro, a intervistare Plantone, che era stato nominato questore di quella città, e lui su questo fu inflessibile. Chiamai Guido Gerosa, intellettuale di notevoli dimensioni, vicedirettore e capocronista del giornale, che scriveva libri e conosceva a memoria la storia della nera a Milano (se n’era occupato al quotidiano del pomeriggio “la Notte”), e mi disse che andava bene così. Ho dimenticato Colucci? No, mi resta da dire che merita la stima di cui gode, anche fra tanti amici che con la polizia non hanno niente a che fare.

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