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mercoledì 14 agosto 2024

Un grande poeta in dialetto tarantino

SCRISSE UN TOCCANTE POEMA “’U TRAVAGGHIE D’U MARE”





Alfredo Lucifero Petrosillo
Tante altre opere di Alfredo Lucifero Petrosillo, anche in lingua, si possono leggere in
quotidiani e settimanali. Era un signore alto, esile, brillante, baffetti alla David Niven. Era gioviale e aveva un sorriso dolce, comunicativo. Guidò “’U Panarijdde”, periodico satirico in vernacolo.













FRANCO PRESICCI


“Quànne hàgghie muèrte, no, no me chiàngìte / peccè chiù male ‘o core me facite / ‘u core ca stè vive e palpetèsce / angòre ‘m mìenze a vvùje e se ne prèsce…”. Sono i primi versi di una bellissima poesia di Alfredo Lucifero Petrosillo, poeta, scrittore e per un periodo direttore d“’u Panarìjdde”, il giornale satirico in dialetto tarantino fondato da Vincenzo Leggieri nella sua tipografia di fronte alla piazza coperta, alle spalle di via D’Aquino, e venduto da Marche Polle.
'u panarjidde

Ero molto giovane, quando conobbi don Alfredo, uomo alto, sottile, elegante, passo svelto e un tantino ballerino. Avevo una gran voglia di intervistarlo per “Sette Giorni”, il periodico barese che mi ospitava, e per “La Tribuna del Salento”, gemello di Lecce del professor Ennio Bonea, diretto da Totò Vergari, ma non mi decidevo mai. Eppure il figlio, Pierino, che frequentava il liceo scientifico nella stessa classe di mio cugino Enzo – che abitava di fronte a me sullo stesso ballatoio dello stabile costruito da mio nonno e con lui studiava il pomeriggio - avrebbe potuto agevolare il contatto.
Un giorno vidi don Alfredo camminare proprio davanti a me, in via Leonida all’angolo con via Dante e non esitai: “Signor Petrosillo, mi concederebbe un po’ di domande per un articolo?”. “Immagino che tu non voglia esplorarmi adesso, fra la gente. Meglio a casa mia”. E mi fissò un appuntamento per il giorno dopo. Mi colpì la sua disponibilità e il suo garbo signorile e mi sentii orgoglioso. Avevo appena letto un suo libretto di poesie e mi era piaciuto tantissimo.
Fui puntualissimo, anzi arrivai mezz’ora prima e aspettai giù nell’androne del palazzo. All’ora prestabilita salii e bussai. Venne ad aprirmi e mi fece sedere in poltrona con un modo di fare quasi paterno.
Mandrillo con i giornalisti Presicci e Baroni

“Allora, come mai questa intervista?”. “Ho letto molto di quello che lei ha scritto e vorrei chiederle tra l’altro quando le è sorta la passione per la poesia”. Una domanda banale, scontata, dovuta all’imbarazzo, ma lui non si scompose e sorridendo mi rispose che era passato tanto tempo da quel giorno. Ero “’nu curciùle” di fronte a un maestro, un nano al cospetto di un gigante. Si alzò per andare a preparare il caffè, si girò di scatto e mi sorrise, fissandomi con i suoi occhi di antracite: “Già, sono molti anni che navigo in questo mare. Traduco in versi ogni attimo della mia vita, i miei stati d’animo”. “Lo sa che so quasi a memoria il suo ’U travàgghie d’u màre?’. Ogni volta che mi viene in mente un verso mi emoziono”. Non rispose, ma gli si accesero gli occhi e credetti di veder vibrare i baffetti alla David Niven.
Sorseggiando la bevanda, mi parlò del dialetto e dell’errore che molti compivano ignorandolo. “Le nostre radici sono nel dialetto; e ascoltare i suoni, la melodia della nostra parlata, l’onomatopeia di certe parole è edificante. Il dialetto deve essere studiato, coltivato, irrorato, altrimenti a poco a poco scompare. Ci sono vocaboli dialettali più efficaci di quelli della lingua italiana, più immediati nel loro significato”. E mi invitò a fare delle passeggiate nella città vecchia, per raccogliere gemme dalle labbra dei pescatori seduti sulla riva di Mar Piccolo a rammendare le reti; per ascoltare “le cozzarùle”, che urlano il pregio della merce: l’oro di Taranto.
Le cozze

Appresa la lezione, iniziai a fare la spola dalla discesa Vasto alla Dogana, a piazza Fontana, tenendo l’orecchio teso alle conversazioni dei passanti e della gente accomodata fuori dei bar e quelle degli uomini raggruppati davanti al banco dei pescivendoli o allo sbarco del pesce dagli scafi: pesce guizzante che andava a ruba. Godetti gli urli “de le “pisciauèle” che invitavano a guardare negli occhi dentici, branzini, sarde, triglie, per notare la freschezza, mentre qualche granchio tentava di scavalcare l’orlo della cassetta riservata ai gasteropodi. E imparai, grazie a Petrosillo, anche la vita della città vecchia, stimolato a tornare tutte le volte che ne avevo la possibilità. Il resto lo fece Ciccillo Passiatore, mio lontano parente, che aveva un’oreficeria da quelle parti e si esprimeva solo nel vernacolo degli… avi. Diceva “’mbote”, “schìfe”, “chiùdde”, “ciuppenesciàte”, “sarchiapòne”...
Attraversavo spesso il ponte girevole e imboccavo ”’a vieremìènze” per andare alla chiesa di San Domenico, dove mi associavo agli esploratori e dipingevo alla bell’e meglio sulle pareti di una sala sottostante sulla sinistra dell’altare maggiore immagini di Topolino e Minnie con la divisa dei fedeli di Baden Powell. Detti loro una mano a realizzare il presepe e una recita in una cappella sconsacrata, che era stata trasformata in teatro. Dal parroco, don Stefano Ragusa, non appresi parole in dialetto, perché era di Martina Franca, ma dai ragazzi, sì: catturavo i termini che mi colpivano di più e le annotavo in una sorta di dizionario personale.
Nicola Giudetti

Alla Marina tornai molte volte e osservai i volti incartapecoriti dei vecchietti che interpellavo. Feci loro domande mentre armeggiavano sullo scivolo che portava alle imbarcazioni, esposti al sole, con la sola protezione di un cappello di paglia. Sono anche entrato in diversi vicoli per chiacchierare con i titolari dei negozietti, con le donne che passavano con piede lento e con altri vecchietti che facevano o riparavano le nasse. In un secondo incontro con Petrosillo, avvenuto in una delle vie che s’incrociano alle Tre Carrare (in via Dalò Alfieri c’era la sede dei vigili urbani e verso la Thaon di Revel un carbonaio), gli riferii le emozioni provate come viandante in via Garibaldi davanti a quell’acqua sacra che lui chiamava “Mare Picce”. Mi sentii promosso e soprattutto contento di poter parlare ancora una volta con una stella della poesia dialettale tarantina.
Non avevo ancora avuto l’onore di scambiare due parole con don Diego Marturano e don Alfredo Nunziato Maiorano. Con Claudio De Cuia mi vedevo nello studio fotografico del pittore Salinari, in via Di Palma, di fronte all’edicola di Passiatore e del negozio di occhiali Pignatelli. Che gioia leggere e rileggere “’U relògge d’a chiàzze” di Marturano; “’U travàgghie d’u màre” di Petrosillo; ”’U caggiunìere”, “’U trainìere”, “’U rafanìedde”... di Fedele; “Tàrde vècchie mije” di Alfredo Nunziato Maiorano. In quelle poesie si respira tutta la magia di Taranto.
Cataldo Sferra

La città vecchia affascinava anche Piero Mandrillo, nato a Pulsano. Il nostro dialetto per lui non aveva segreti. Studiò la voce “chiùdde”, su cui si sofferma Giacinto Peluso nel dizionario della parlata tarantina di Gigante. Parlata a cui io non rinuncerò mai. Nelle giornate che trascorro nella campagna di Martina, con i miei cari amici Argese e Giacobelli, mi lascio andare e recito a volte un mio sonetto scherzoso dedicato a un mio ex compagno di scuola che si chiamava Tortito e veniva dalla provincia. Non posso esimermi dal dovere di confessare che per quella elaborazione mi aiutò Claudio De Cuia nello studio dello stesso Salinari, divertendosi anche lui a creare le rime alternate. E’ una minuzia, ma contiene alcuni suoni dialettali che mi prendono sempre.
A qualche familiare non piace quando io per gioco uso espressioni come “’a schètàzze” , “s’hà’ ‘mbernacchiàte” , “’a femenàzze”, ma io non mi arrendo. Subii in parte il volere di quella santa donna di mia mamma, che bandiva il dialetto dalla nostra casa (come tante altre mamme) e già allora lo abbracciavo clandestinamente. Così parlavano i nostri nonni e così don Antonio “’u scarpàre”, che aveva il deschetto nell’androne nel palazzo di fianco al mio. Perché io no?
Un mio professore - che sicuramente non vorrebbe essere citato – insegnava più in dialetto che in italiano. Io lo amavo, quel docente, che rideva quando io e il mio compagno di banco alle medie, destinato a fare l’avvocato, Mosca, scimmiottavamo il dialetto barese.
Antonio De Florio

Nelle nostre serate nell’insegna dell’allegria, da grande, ripetevo la solfa a Filippo Alto, barese verace, e lui mi scudisciava con le parole “minghiarìle e cremòne” (usate da Colìne e Mariètte nella trasmissione “La Caravalla” su Radio Bari). Questo è l’aspetto giocoso del mio uso del dialetto, ma sono in grado di recitare senza scorrere il testo le composizioni di Alfredo Lucifero Petrosillo in cui immagino, anzi, sento rumoreggiare rabbioso il mare, con le onde che si infrangono sulla scogliera, schiumando.
“’N’ote favore po’ v’hàgghia circare / peccè l’anema mèje vògghie salvàre: Mittìteme ‘u Rusarie fra le màne...”. Certamente Nicola Giudetti, Cataldo Sferra, Antonio De Florio e altri, cultori del nostro dialetto e delle nostre tradizioni, hanno conosciuto Alfredo Lucifero Petrosillo, come Nerio Tebano, Arturo Caforio e altri; e a loro vorrei chiedere più notizie su questi grandi.
Ho letto che Alfredo Nunziato Maiorano andava nel borgo antico per sentire la gente parlare in vernacolo. Ricordo che Diego Fedele usava il nostro vernacolo con una sonorità particolare; e anche la poesia da lui dedicata al poeta con il bastone, che era Diego Marturano, di cui ebbi il piacere di recitare, ai tempi dell’università, “’U cuèrne de Marìe ‘a Canzìrre”, commedia in un atto molto divertente. Quanti ricordi trascina quello di don Alfredo Lucifero Petrosillo.

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