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mercoledì 25 settembre 2024

Un personaggio dalle tante doti

IL CICLISTA BENVENUTO MESSIA E’ ANCHE UN FOTOGRAFO CHIC





Benvenuto Messia
Poeta, attore, simpatico, affabile, alle cilindrate preferisce la due ruote. Con quella portò la figlia all’altare il giorno del matrimonio.










FRANCO PRESICCI




Che vuoi che siano cinque chilometri su via Mottola per Benvenuto Messia, uno che è nato pedalando. Tutti lo hanno visto e ammirato in sella alla sua bici, correndo per le vie di Martina, introducendosi nei budelli del centro storico, uno scenario teatrale con primattori, comprimari, figuranti…
Lui inforca la due ruote e va anche in capo al mondo, dove lo porti la sua curiosità innata e il suo amore per il paesaggio. Francesco Lenoci a Milano lo condusse in piazza Duomo, dove stuoli di colombi volano sulle teste dei turisti, che non si irritano se ricevono da loro una… benedizione. Da quella piazza famosa in tutto il mondo il Benvenuto passò dove svetta la Terrazza Martini e signoreggia il monumento al carabiniere: piazza Diaz Accucciato in un abbraccio del docente, innamorato di Milano più di un indigeno, anche se, pur essendo un dialettologo, non sa molto dell’idioma meneghino, Benvenuto da lì cominciava a scoprire il fascino del capoluogo lombardo.
La distanza tra Milano e Martina non è quella tra Martina e Bari o Foggia, eppure sono convinto che Benvenuto Messia qualche volta sia stato tentato di affrontarla sulla bici che usò per portare la figlia all’altare il giorno delle nozze. A 92 anni Ben sarebbe capace di iniziare quell’avventura, da includere nei suoi record. Comunque domenica scorsa era partito da via Ceglie verso il mio tratturo, ma qualcosa ha interrotto il suo percorso alla zona industriale di fronte alla chiesetta dedicata alla Madonna della Stella. Promessa rimandata. Il mio tratturo, che piange per la solitudine in cui è immerso (da tanto tempo si sono spente le voci dei bimbi e quelle delle mamme e dei papà e dei nonni, aspirati da un mondo che non ammette ritorni), avverte soltanto qualche passo estraneo e rari rumori di auto dirette in cima alla salita., oltre quello d’un trattore che compare un paio di volte all’anno. Vedere arrivare un ciclista dai capelli innevati e dalla sagoma sottile, un sorriso splendente come il biancolatte dei trulli, oltre a un onore e a un piacere per me è una novità che si presenta di rado. Incontro volentieri il Messia, uomo poliedrico e ricco di risorse: poeta, attore con Banfi, Ferilli, Ranieri…, fine dicitore, che altro ancora? Se fate una ricerca scoverete altre virtù. Ah, la simpatia e quel suo modo di parlare, che è anche quello un’arte, in Ben. Lo vidi girovagare per le strade di Martina, mentre raccontava la storia e le storie della città, i palazzi patrizi, le architetture, i luoghi scomparsi, con la telecamera credo di Martina Chanel, e catturavo ogni sua parola, ogni suo gesto.
Messia e Presicci (foto di Eugenio Messia junior)
Camminava quasi dondolando, indicando il Caffè Tripoli, il ringo, la basilica, ‘u Curdòne, ‘u curdunnìdde, ‘u stradòne, i balconi panciiuti, le altane fiorite, gli archi… Senza arie professorali, perché Ben non è tipo di mettersi in cattedra.
Conservo gelosamente un calendario con significative immagini da lui scattate nel tempo. Già, perché, per chi non lo sapesse, e penso che non ci sia al mondo qualcuno che non lo sappia, Benvenuto è un fotografo di grande militanza e figlio di un fotografo, Eugenio, che fu il primo a puntare l’obiettivo sulle bellezze di questa terra benedetta, che porta il nome di Martina Franca, già decantata da Cesare Brandi, Carlo Castellaneta (la visitò tanti anni fa, durante la sua luna di miele) e da altri maestri della penna. Pittori sensibili e consacrati l’hanno dipinta con passione. Senza andare troppo lontano nel tempo, ricordo le opere di Filippo Alto, l’attore barese con casa a Milano e studio e rifugio delle vacanze a Figazzano, da dove partiva per riprendere questo paesaggio unico al mondo: Martina Franca, con la sua terra rossa, i vigneti, le case incappucciate, gli ulivi, il fico, la quercia. In “Paese vivrai” Giuseppe Giacovazzo, già direttore della “Gazzetta del Mezzogiorno”, gli rivolse l’invito a visitare il proprio paese, Locorotondo: “Mentre lo riprendi io lo rivivrò sulla tua tavolozza”. Filippo non aveva bisogno di quell’invito: aveva già celebrato con il suo pennello Cisternino, Martina, lo stesso “locus rotundus”, dove gli hanno dedicato una via.
Cinzia Castellana e Benvenuto Messia

Alto veniva spesso a Martina, che io adesso ritrovo nelle sue opere anche di grandi dimensioni. Il Messia non può non averlo conosciuto. Filippo mi parlava di lui, come mi parlava di Nico Blasi, quando organizzammo la serata pugliese al Cida (Centro informazioni d’arte) in via Brera, di fronte alla Galleria d’arte “Apollinaire” di un martinese famoso in tutta Europa, che rispondeva al nome di Guido Le Noci, stimato da personaggi di altissimo livello. In quella serata feci leggere all’architetto d’interni Lambros Dose le pagine dello stesso Grassi scritte come presentazione nel libro dell’ingegner Massimo Fumarola, “A passeggio per la Valle d’Itria”, e il rumore degli applausi arrivò fino a via Fiori Chiari, dove aveva lo studio un altro ammiratore di Filippo, il baritono Giuseppe Zecchillo, che aveva cantato alla Scala, al Metropolita, al Goven Garden.
Ho subito un dirottamento; devo ritrovare Benvenuto Messia, anche per dire che quando ho bisogno di una foto del Chiancaro ai tempi dello zio canonico penitenziere don Martino Calianno, Ben me la manda subito. Dello zio mi dette anche una foto introvabile: lui lo aveva conosciuto molto bene. Una volta vidi su facebook in tempo reale una delle riunioni di Teresa Gentile a Palazzo Recupero. Chiamai da Milano e mi risposero Ben e Francesco Lenoci. E non si meravigliò, quando in risposta a una sua battuta gli dissi che all’età di 10 anni avevo fatto il chierichetto in una funzione serale a San Martino concelebrata dallo zio prete.
Messia e Lenoci in piazza Duomo a Milano
Ben è fenomenale. Sa tutto ciò che c’è da sapere su Martina e sulle persone importanti che la abitano o che l’hanno abitata. Ti parlerebbe per ore di un magistrato, di un medico, di un professore, di un sacerdote e anche di quel tale che conduceva quella tale masseria o di quell’altro che faceva il cacciatore o di quell’altro ancora che svolgeva il mestiere cappottaro a Cutrofiano, in provincia di Lecce o di quell’altro ancora che partecipava ai mercati in Calabria.
I martinesi sono persone laboriose, intelligenti, tenaci, che si sono fatti sempre onore ovunque abbiamo prestato la loro opera. A Milano come a Torino, a Roma, nella stessa Martina. Ho avuto parecchi amici fra loro e spesso sono andato a cercarli. A Martina andavo a cercare Benvenuto in via Ceglie. Bussavo quando vedevo la su bicicletta parcheggiata fuori. Diventammo amici e andammo anche con Francesco Lenoci e Giovanni Nardelli - un poeta che mi fa molto ridere con il suo video sul martinese a Torrecanne -,per una conferenza del docente sul pane. E non dimentico Martino Solito., studio di geometra in via Verdi e firma pregevole sotto tanti versi anche sulla storia di Martina e i costumi di una volta. Un giorno dunque aspettavo Benvenuto Messia nella mia modesta casa di campagna nel tratturo prima della vecchia strada per Noci (via Papa Domenico, in fondo alla quale c’è la chiesa della Madonna della Consolata, che si festeggia in agosto) e il desiderio si afflosciò.
Francesco Lenoci e Benvenuto Messia
Qualche volta ho incontrato alla processione anche il notaio Alfredo Aquaro, oltretutto grande uomo di fede.
Che coraggio ha Ben, a pedalare con questo caldo, senza neppure un venticello ristoratore., mi diceva un comune amico che trae sculture dai rami dell’edera e allinea sul muretto della sua campagna pietre che somigliano a volti di animali: “Guarda – gli risposi – che Benvenuto partecipò per anni alla biciclettata del plenilunio d’agosto - ideata e organizzata prprio da Aquaro (uomo generoso purtrppo scomparo), titolare di uno studio elegante ed efficiente in pieno centro a Milano, In quella corsa, partecipava in auto anche Nico Blasi, con il compito di illustrare storia e linee architettoniche delle masserie a cui era diretta. Alle cilindrate Benvenuto preferisce la sella della sua bici: simbolo di passione, sport, libertà, ebrezza della velocità.

mercoledì 18 settembre 2024

I mille ricordi della mia città

L’AMORE PER TARANTO NON SI SPEGNERA’ MAI




Taranto vecchia
Non sono più autonomo e devo attendere che qualcuno abbia la voglia di darmi un passaggio; e quando
sono fortunato non posso andare dove voglio, alla Rotonda o alla Dogana o al Mar Piccolo, perché le mie gambe vacillano.
Mi limito ad ammirare questo gioiello su “Foto Taranto com’era” di Antonio De Florio, o leggendo Giacinto Peluso, a me molto caro.










FRANCO PRESICCI



Lampare a Mar Piccolo
Galoppano i ricordi. Come cavalli che sulla pista non si lasciano fermare da nessuno; ruscelli che gorgogliando scorrono tra pietre e atri intoppi; fluiscono come fiumi in piena, limpidi come l’acqua del mare a due passi dalla battigia. Quando rompono l’argine non si riesce a trattenerli. Così emergono Taranto e l’oratorio dei Salesiani; le chiese di San Domenico e del Cuore di Gesù; piazza Marconi, dove nelle feste innalzavano l’albero della cuccagna; “’u monde de le vàcche”, che oggi è sepolto sotto l’ospedale e ieri si offriva ai ragazzi vogliosi di giocare al pallone; il ponte di ferro, che a dieci anni percorrevo di corsa con tantissimi coetanei appena si riabbracciava... Via Nettuno, dove sono nato e cresciuto sino ai trent’anni, è più limpida nella mia memoria: la campagna che iniziava dopo via Giovan Giovine con l’orto di “mèsta Ronze”, che al limite incrociava quello del signor Capone, dotato anche di una noria (“‘a ‘ngègne”), fatta girare da un cavallo bendato; Santa Lucia, stabilimento balneare frequentato per lo più dagli operai dell’arsenale, che sorseggiavano la birra Raffo su una rotonda che a distanza di anni mi veniva in mente ogni volta che sentivo Fred Buongusto cantare “Una rotonda sul mare”.
Diego Marturano


Da anni sogno la mia amata città. Avevo 16 anni quando cominciai ad attraversare la ringhiera o “’a vieremìenze” per raggiungere il tempio da cui esce l’Addolorata il Giovedì Santo. Il parroco era don Stefano Ragusa e il sacrestano, Antonio, “mundevàte” con il solo soprannome: “’a caggiàne”, per il suo modo di camminare con le braccia sollevate come le ali di un uccello (detto con rispetto, anche perché era una persona mite e buona, e ogni volta che si verificava un inconveniente se la prendeva con un ragazzo che si chiamava Sferra).
Passarono gli anni e io non smettevo di peregrinare nella città vecchia. Ancora oggi adoro il Mar Piccolo e la dogana, allora piena di banchi con il pesce e i frutti di mare. Anche lungo la sponda di quell’Eden c’erano venditori di cozze “gnòre”, l’oro di Taranto, ostriche, “cacasànghe”, “còzze pelòse”, “nuce”, “spuènze” in grossi piatti di terracotta disposti su “scalinate” in legno... “’U cuzzarùle”, a richiesta, apriva le valve e serviva il contenuto al cliente. Io ci andavo anche per ascoltare la gente che parlava il dialetto; e facevo domande agli anziani per captare i suoni, le cadenze, le finali strascicate. A casa, piegato sul tavolo fattomi da zio Dionigi, il mio mito, li ritrovavo nei versi di Diego Marturano, Alfredo Nunziato Maiorano, Alfredo Lucifero Petrosillo, Diego Fedele, Claudio De Cuia… Diego a volte mi recitava il suo ultimo parto concludendo con un sorriso paterno. Andavo spesso da lui. La mamma e la moglie mi volevano bene e io in quelle camere di via Messapia mi comportavo come fossi al pianterreno di via Nettuno 10, dove abitavo. Di tanto in tanto accompagnavo il poeta dal salumiere e una volta mi volle offrire un panino con la mortadella. Mi presentò una famiglia siciliana che ospitava una bella nipote che lui, per protezione, seguiva anche quando andava ad aprire la porta e Indossava occhiali leggeri di vetro per darsi un tono.
Alfredo Lucifero Petrosillo

Una sera mi accomodai in quarta fila al Teatro Orfeo, affollatissimo, e applaudii Diego che interpretava sul palcoscenico un suo pezzo bellissimo dedicato alla primavera. Era un bel ragazzo e amava parlare di letteratura. Dopo un po’ di anni, amante del teatro, all’Orfeo andai per intervistare di volta in volta Eduardo De Filippo, Alighiero Noschese, Ernesto Calindri, Milva; e poi Elsa Merlini ed Emma Gramatica, che di Viola era amica, impegnate in “Venerdì Santo”, commedia di Cesare Giulio Viola. Quelle interviste le pubblicavo sul settimanale barese “Sette Giorni”, direttore Papandrea.
Frequentavo anche il teatro Alfieri, dove vidi ballare la “balalaika” da una compagnia del Bolshioi. All’Odeon andavo quando proiettavano i film di Stanlio e Ollio. A Taranto allora c’erano molti cinema: il Fusco, il Rex, il Savoia, il Fiamma; le arene Artiglieria, Arsenale, Monacelli, ltalia, Corallo, dove una sera assistetti all’esibizione della compagnia di Arturo Vetrano. Al cinema Savoia una domenica mattina spiegò la sua voce tonante Uccio Armento, che cantava l’”Ave Maria” al Sacro Cuore prima dell’arrivo di don Pietro Saracino. Uccio abitava nel mio stabile e dopo qualche anno entrò in seminario e lo lasciò prima di prendere i voti, preferendo il Liceo Classico “Archita”.
Io servivo messa e mio nonno Ciccio, orgoglioso, s’inginocchiava tra i primi banchi e poi si vantava delle mie prestazioni da chierichetto. Quando nella campagna di Martina riceveva gli amici mi chiedeva di cantare il “Tantum ergo” o “Dominus vobiscum et spiritu tuo”, ma stonato com’ero non facevo una bella figura. Con la veste nera e la cotta bianca, accompagnavo i morti fino alla chiesa di San Pasquale, in corso Umberto, reggendo la croce con l’asta, che mi faceva sentire più importante. Don Pietro m’imponeva quella senz’asta, se i familiari del defunto avevano pagato poco. Era un sant’uomo, polemizzava spesso con i parenti degli oltrepassati e con quelli degli sposi, che cercavano di ottenere il massimo sconto. Don Cipolletta stava a guardare.
Diego Fedele

Qualche volta suonavo le campane, le cui corde erano dietro la porta del corridoio che sbucava nella sacrestia. Ero vanitoso e timido. Mario Mazzarino, più grande di me di 11 anni, destinato ad essere nominato ministro, mi scelse come protagonista nella commedia Il ribelle”, rappresentata nel teatro della chiesa di San Francesco. Dovevo piangere e non ci riuscivo, Mario ebbe l’idea di darmi un leggero schiaffo mentre stavo per affrontare la platea e versai lacrime di rabbia, recitando “Papà, tu che di lassù mi guardi, tu che per la patria tua bella hai dato il sangue, la vita, ascoltami in quest’ora...” (miracoli della memoria). Anche il pubblico, commosso, pianse. Quando rientrai dietro le quinte Mazzarino mi abbracciò. Avevo 13 anni e continuai a battere per diletto le tavole del palcoscenico. Recitai ai Salesiani di viale Virgilio “Il piccolo ateo”, scritto da me saccheggiando altri testi.
Giacinto Peluso e Presicci

Questi brani di vita vissuta mi si presentano quando sono con le braccia incrociate e guardo fisso un cedro del Libano o il volo di un colombo sul giardino della mia casa meneghina. Ma è Laino d’Intelvi il luogo in cui i ricordi si avvicendano più spesso, anche quando le campane del paese di fronte (Ramponio, che si sta svuotando) suonano suscitando nostalgia per la mia terra, per i batacchi che sollecitavo al Sacro Cuore. Ho lasciato la mia città 60 anni fa, andando a vivere a 900 chilometri di distanza, ma le mie radici sono sempre vive. Possono vivere un ulivo, un fico, un noce senza radici? Io lo chiedo, quando sono a Martina, al mio ulivo preferito, perché lo feci mettere a dimora io mezzo secolo fa. Lui muove le foglie e sicuramente vuol darmi la risposta, ma non ha una voce né un linguaggio. E’ lì da tanto tempo, resistendo alla siccità e ad altre avversità, fortificando il suo apparato radicale. Lo chiamo maestro. Come la maestra Carrozzo alla scuola Acanfora, quando frequentavo le elementari e lei invitava la mia mamma a tagliarmi un cespuglio di capelli neri e ricci, senza ottenere risultati. I compagni di gioco ironizzavano chiamandomi “Rezzetìedde”, facendo inalberare mio nonno, che ripeteva: “Mio nipote si chiama Franco”, Che nonno, il mio nonno. L’ho sempre cercato, ma dove trovarlo? Dove abitano le persone care che hanno preso l’ultimo treno? Continuano a vivere, ne sono convinto, ma dove giocano a carte, dove fumano la pipa, a chi raccontano la loro vita passata?
Piero Mandrillo

Quante cose avrei da raccontare io, al nonno. Per esempio che cosa provo quando sono a Taranto, quali sono gli angoli che sono scomparsi e quelli nuovi? Viale Venezia, prima una spianata di verde, oggi ricoperta di palazzi, negozi, auto, voci, clacson rabbiosi. Via Nettuno, dove rimangono nell’aria i nomi delle persone di una volta, gli Schirano, i Fischetti, i Venuto… ha un altro volto. Neppure i Presicci ci sono più. C’è una via intitolata a questo cognome da qualche parte, ma la mia famiglia non c’entra. Non la vedo da un po’ di tempo, Taranto, dove incontravo Nicola Mandese, titolare della Casa del Libro, inserita nell’elenco delle librerie storiche d’Italia, E’ Nicola che m’informava su Taranto, su ciò che vi accadeva. Come anni fa faceva Piero Mandrillo, che veniva spesso a trovarmi nei suoi approdi milanesi. A pranzo parlavamo di com’era cambiata la città, delle amicizie comuni, dei frutti di mare che andava a gustare nella pescheria sotto il vecchio ospedale. A Milano leggo e rileggo le tante pagine di Giacinto Peluso, per sentirmi fra le vie di Taranto, “indr’a le strìttele” d’u burgh’andìche”. Qualcuno mi ha rimproverato per la dichiarazione d’amore a Martina, pubblicata su “Noi Notizie”, quasi accusandomi di essere “double face”. No, non è peccato amare due città: la prima per avermi dato i natali; l’altra per avermi aperto le porte quando avevo 11-12 anni.

mercoledì 11 settembre 2024

Un museo in una trattoria di campagna


ABBIAMO GUSTATO “FAVE E FOGGHIE” NEL RICORDO DI UN MONDO ANTICO




Trattoria Le Ruote
Alla Trattoria Le Ruote, a Martina, sulla via di Ceglie, incastonata tra pace, silenzio,
viti inginocchiate, chiesette, tratturi, terra rossa














FRANCO PRESICCI





Un museo in una trattoria di campagna, a Martina Franca, sulla via di Ceglie. Una sorpresa, almeno per chi ci entra per la prima volta: decine e decine di testimonianze dei tempi andati, che sarebbe difficile e complicato narrare ai giovani o al forestiero all’oscuro di quel mondo. Anch’io faccio fatica a spiegarmi, per esempio, l’uso di tanti attrezzi agricoli e di finimenti necessari per bardare un cavallo, sparsi anche nel patio. Non posso quindi non soffermarmi a contemplare, prima di andare a sedermi a tavola, questa ricca collezione fatta anche di “’strecature, ”vummile”, ruote di pietra, ruote di carrozze, di traino, lanterne, un torchio in miniatura, una vecchia bilancia, “pile”, “capasoni”... Faccio dietro front e nella prima sala altri arnesi d’epoca. Sono curioso per natura.
Il Capasone
L’ambiente mi stuzzica. Sulle pareti esemplari interessanti, un ritratto da cui occhieggiano i familiari dei titolari Angelo e Giovanni Ceci, e un lungo articolo sul locale e sul papà, Peppino, che è stato un anfitrione eccellente. La striscia, lunga e incorniciata, a sua tempo è apparsa sul “Corriere della Sera”. Non mi sfuggono le riviste che accolgono immagini e giudizi sulla trattoria appilate in una nicchia.
Prendiamo posto. Siamo in cinque: il bravissimo tenore Gianni Nasti, che ci ha invitati; il professor Francesco Lenoci, docente alla Cattolica di Milano, melomane e conferenziere errante; Carmela Maria Ricci, moglie di Gianni, professoressa di matematica, e autrice del bellissimo libro “Quella nevicata del ‘56”; mia moglie, Irene, che ha lo sguardo del brigadiere dei carabinieri in appostamento per evitare che le mie parole si trasformino in un ruscello (dietro quello sguardo vigile c’è però tanta dolcezza). Si avvicina Giovanni, con un vassoio di antipasti, in cui primeggia il capocollo, di fattura casalinga. Lui e l’altro sono compassati, taciturni e simpatici. Lenoci tace, rivolge occhi d’aquila qua e là. Scruta, sbircia, memorizza. Gianni ascolta o commenta. Carmela è seduta fra me e il marito e sorride, mentre silenziosamente Giovanni depone al centro allettanti “fave e fogghie” e poi costine di agnello, salsiccia... I fegatini sono da dividere per tre, ma per distrazione finiscono tutti nel mio piatto, e Francesco, con mossa fulminea, recupera subito quelli che gli spettano. Dov’ero? Ah, parlavo di una mia lontanissima esperienza personale. Senza un motivo legittimo, confesso a Carmela che alle medie la sua materia mi era ostile. Lei mi tranquillizza e mi riferisce come snodava le lezioni ai suoi alunni, affascinandoli. Affascina anche me; ma purtroppo non ho più tempo per sedermi a un banco, avendo di fronte una insegnante come lei.
Francesco, Angelo, Franco, Irene, Maria, Gianni
Rispolvero un antico ricordo, ma lo frantumo. Credo che Lenoci mentalmente indossi per alcuni momenti il cappello di giurato in un concorso di pietanze, alla Edoardo Raspelli dei tempi di Luigi Veronelli, enologo coltissimo (per poco non descriveva in versi le delizie del palato), che lo promuoveva inventore della critica gastronomica. Il nostro simpatico docente si alza impugnando il telefonino e riprende ciò che ci viene servito. Le riprese rimpolperanno il suo folto archivio., a cui a volte attingo anch’io, sperando che non si esaurisca la sua pazienza.
Tra un discorso e l’altro, infilzando una polpetta così tonda da sembrare una pallina da ping-pong, slitto sulla criminalità organizzata a Milano, accennando all’assassinio di un boss di grossissimo calibro nel carcere di Bad’e Carros, in Sardegna; alla sua eredità e alle relative conseguenze. E scopro che Gianni Nasti sull’argomento è informatissimo. Lenoci Imbocca una strada diversa: si accoda al ripescaggio di una mia intervista a un tenore tarantino e resuscita Del Monaco, Rossini e altri grandi della lirica, sollecitando Gianni, che risponde con brevi frasi. Francesco vola anche su Albano e sulla sua voce tonante. E’ suo amico, viene accolto nella tenuta di Cellino San Marco, frequentata a suo tempo anche da Dino Abbascià, saggio imprenditore ortofrutticolo che stimava tanto il cattedratico e l’ugula.
A tavola tutti insieme
In un piatto giace ancora un peperone verde che aspetta di essere inforchettato. Abbiamo gustato tutto, Arriva il caffè, che io prendo amaro, “no pe’ spiùle”, e poi i policromi rosoli di fattura casalinga (non ricordo l’ordine). Ringrazio i padroni di casa e sono nuovamente nel museo, assieme alla compagnia. Diamo un’occhiata alla chiesetta interna con tanto di campanile; osserviamo ancora i vari gioiellini, tra cui un campanaccio, che pende da un’arcata e quasi mi appare il bue che lo ha tenuto appeso al collo. Carmela si avvicina a due cristalliere ben rifornite, poi a un tavolo, a una credenza e li indica in un sonoro dialetto martinese. Non solo matematica, ma studio degli usi della sua città e passione. Sono le 15. Il sole picchia. Tutt’attorno una pace gioiosa, la campagna brilla. mi beo alla vista delle viti che imperlano la terra rossa. Chissà perché il mio pensiero corre ai contadini, alla loro fatica, a Ignazio Silone, a Tommaso Fiore, a Rocco Scotellaro, a mio zio Luigi che a San Severo si curvava sotto il peso della zappa.

Gianni al volante fiancheggia la chiesa di Monticello, in cui si sono sposati, attraversa tratturi lunghi, corti, a gomito, strozzati; e penso a quello di Gabriele d’Annunzio e al mio, rimasto senza voci. Gianni conosce il percorso, forse lo ha programmato con Carmela. “Quella è la casa che nel ’56 subì l’assedio della neve, costringendoci a rimanere prigionieri per giorni. Mio padre sbucava dal rifugio per prendere la legna”. Lì c’era…una donna che venne rifornita dall’elicottero…”. E allora le mie domande si fanno più fitte. Guardo i trulli e mi ritrovo nel libro di Carmela, che non smetterò mai di elogiare per le emozioni che mi ha suscitato, per lo stile e per la storia. Dalla mia memoria affiorano episodi lontani. Era quella la nevicata che invase Martina e che io vedevo dalla finestra della casa dello zio canonico, in via Marangi? Sarei stato testimone di un evento eccezionale? Lo zio raccomandò a me e a mio cugino Enzo, che adesso viaggia fra le stelle, di non uscire. Io infatti, che per l’altezza non arrivavo al bancone del salumiere, rischiavo di essere sepolto.
Carmela Maria Ricci e Gianni Nasti
Che giornata, questa di martedì 27 agosto! Ho attraversato gran parte di Martina Franca, la città della luce e della musica. Che non conoscevo. Assaporo i profumi della campagna purtroppo sitibonda. Sono felice di essere ancora in questa bellezza che non tramonterà mai. Una bellezza singolare, che invita al sogno. Una bellezza magica. Con la Valle d’Itria benedetta da Dio, come scrisse Alessandro Caroli. Una città, che, secondo un collega, bisognerebbe mettere sotto una campana di vetro. “Un giorno tu verrai al mio paese, lo dipingerai e io lo rivivrò sulla tua tavolozza”, disse Giuseppe Giacovazzo a Filippo Alto a proposito di Locorotondo. Io non ho una tavolozza né pennelli, non sono un artista, non sono capace di dipingere la bellezza di Martina, ma Carmela e Gianni mi hanno instillato un amore più grande.
Buongiorno mister Cesare Brandi, oggi ho ripercorso una buona parte del tuo itinerario tracciato nel libro “Martina Franca”, edito nel ‘70 da Guido Le Noci, martinese doc, che a Milano a volte ricordava la trama dei tratturi dell’amato paese, i campanili, gli archi, le “nchiostre”, le fontane che ancora oggi riempiono bidoni d’acqua fresca, come quella sul Chiancaro vecchia di cent’anni, i muri a secco, alcuni purtroppo screpolati, come certi trulli abbandonati e rosicchiati dai rovi.
Tornando a Gianni Nasti, aggiungo che sono un suo fan. Lo ascolto sui video postati su Facebook mentre si esibisce al salotto culturale di Teresa Gentile, la fata di Palazzo Recupero. Carmela, a quando il prossimo libro? E’ in gestazione. Francesco Lenoci è già pronto per la presentazione.
Adesso l’appuntamento è al “Locus Rotundus”, dove signoreggia la villa di Giacovazzo e aleggia il ricordo dei suoi interventi su “Paese vivrai”. A domenica primo settembre, per un pomeriggio tra arte e poesia. Io ci andrò, accompagnato in macchina dal mio amico Donato, che cura le mie zolle. E per l’occasione visiterò la via dedicata a Filippo Alto. E’ in periferia, mi dicono. L’essenziale è il pensiero, il riconoscimento a un artista che ha celebrato la Puglia, Martina, Cisternino… in opere che moltissimi hanno ancora davanti agli occhi e vorrebbero vederle esposte in una mostra, a Milano o a Figazzano, dove l’artista aveva il secondo studio nella casa delle vacanze. Lo ricordo sempre, Filippo, alto, biondo: un vichingo. Di lui ho fatto cenno, alla Trattoria delle Ruote, a Carmela, Gianni, Francesco.

mercoledì 4 settembre 2024

Staffetta d’autore a Locorotondo

IN QUINDICI MINUTI ESATTI IL RACCONTO DI UN LIBRO





Paolo Giacovelli
Una iniziativa interessante dovuta a Paolo Giacovelli, giovanissimo editore già noto in
Italia. Tra gli scrittori presenti Maria Carmela Ricci, che ha letto due sue toccanti poesie, in lingua e in dialetto, e Giovanni Rosario Cavallo.















FRANCO PRESICCI



Tra “cummerse” e piante rampicanti che s’inerpicano sui balconi, sui cornicioni e sulle porte è andato in scena l’altra sera in un budello di Locorotondo la sesta edizione della “Staffetta d’autore”, organizzata da Paolo Giacovelli, titolare della casa editrice omonima. Una ventina di scrittori, venuti da ogni parte d’Italia, si sono avvicendati al microfono, a cominciare da Carmela Maria Ricci, che ha recitato, da diva del palcoscenico, in lingua e in dialetto, due toccanti poesie sul gioiello in cui vive, Martina Franca, tratte dal suo libro, “Quella nevicata del ‘56”, che sta facendo il giro d’Italia.
Carmela Maria Ricci

Non mi aspettavo una manifestazione così interessante, durata alcune ore senza mai annoiare, tra l’altro intervallata dai virtuosismi di un giovanissimo batterista, Giandomenico, che con le sue note spaccatimpani è stato invaso da uno scroscio di applausi. Dopo l’ovazione per il tenore Gianni Nasti, martinese doc. la cui ugola ha fatto quasi fremere i vetri delle case.
Ogni autore ha avuto il suo presentatore, tra cui il professor Francesco Lenoci, a cui è toccato fare domande all’autrice di “Messalina”. Ero seduto quasi sulla soglia della libreria di Paolo e da lì ho seguito ogni parola di Bruna Osimo, che interrogata da Federica, una delle belle ragazze, vestite di bianco, che collaborano con Giacovelli, ha scolpito lo stile e le virtù manageriali di Marisa Bellisario, una donna eccezionale, iscritta nell’albo d’oro del nostro Paese, purtroppo scomparsa anzitempo. Dopo di lei Annalisa Scialpi, che con la sua una valanga di racconti ha quasi smorzato le domande dell’intervistatore…
Ho ascoltato tutto, attento, stupito, avido: esperienze sciamaniche, una lezione di storia sull’Illuminismo e sui suoi più alti rappresentanti; ho visto libri per bambini; ho ammirato la celebrazione della Valle d’Itria, un incanto, una magia, una bellezza insolita. La bellezza ha in sé la capacità di salvare il mondo, ha esclamato un‘autrice; la scuola deve essere informazione e educazione, oltre che istruzione, ha detto e ripetuto una direttrice scolastica, intervistata da una sua allieva.
Francesco Lenoci intervista Annalisa Scialpi

A ognuno 15 minuti, cronometrati dalle collaboratrici di Giacovelli. Facevano la ronda fra la libreria e il podio e lo stesso editore sembrava un corridore in allenamento: appariva, scompariva, attraversava lo spazio lasciato libero per il passaggio, si sedeva sugli scalini di pietra di una casa di fronte, prendeva libri dagli scaffali e andava a deporli su un banco in cassette costruite come quelle della frutta, parlottava, presentava, suggeriva chissà che cosa alle sue giovani vestali della cultura. Volgo lo sguardo in alto e su un’altana vedo la testa di una signora anziana intenta a godersi i suoni, le voci, le storie come se assistesse a uno spettacolo teatrale; e infatti il centro antico di Locorotondo è fatto di quinte, fondali, ribalte, fiori ovunque come tavolozze vegetali.
Questa è la terra di Giuseppe Giacovazzo, già direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno” e principe della Rai, dove nel ‘70 realizzò il primo documentario a colori, su Domenico Cantatore, di Ruvo di Piglia. Da un momento all’altro potrebbe arrivare il figlio Piero, che legge il telegiornale e fa l’inviato sulla stessa rete. Ha ereditato la rivista “Paese vivrai” ideata dal padre, autore di “Puglia, il tuo cuore”. Non lo vedo: la vita di giornalista, costringe ad impegni improvvisi.
La sedia che occupo, pur bella, pur elegante, non ha rispetto per il mio fondoschiena; e mi costringe ad assumere varie posizioni, che mi fanno sembrare pizzicato dalla tarantola. Ma è un disagio che mi conviene sopportare. Oltretutto è da tempo che desideravo rivedere questo spettacolo e l’ambiente in cui viene incastonato: un vicolo già ripreso dal pittore Filippo Alto, a cui qui hanno dedicato una via.
Sono in prima fila, posizione ideale per entrare in libreria senza disturbare e chiedere a Federica notizie sulla storia dell’iniziativa. E’ gentile, disponibile, presa dal suo ruolo. Il pianto di un bambino si spande sulla platea, ma non sovrasta i dialoghi, per due volte benedetti dal suono delizioso delle campane, che stimola ricordi.
Libreria "L'angolo Retto"
Dalla strettoia tra il muro e le sedie passano spesso coppie, singoli, giovani, anziani con una coda di ragazzini. “Saranno tedeschi ronza il mio vicino. Certo sono stranieri”. Hanno macchine fotografiche in mano e zaini sulle spalle. Si fermano, osservano e s’immergono in un vicoletto che sta in fondo a sinistra. Siamo in via Montanaro; gli altoparlanti sono quasi sulla mia testa. Vi lascio immaginare lo stato delle mie orecchie, quando Giandomenico si scatena fra piatti e tamburo. Bravo, bravissimo, ragazzo, sussurrano un paio di signore accomodate di fianco a me. Alto quanto un soldo di cacio (senti chi parla: non lo so supero di un centimetro). Al termine di ogni brano si toglie il berretto calato sulla fronte, lo sventola, lo lancia sul computer che ha in terra. Simpatico, apparentemente sbarazzino.
Prende la parola una scrittrice che conosce bene la ‘ndrangheta, i suoi crimini, la sua potenza, e rivela la solidarietà che induce i cittadini a raccogliere fondi per ricostruire ciò che le bombe delle ‘ndrine hanno distrutto. “Questa mafia ha tentacoli dappertutto e come le altre è il male oscuro del Paese”. Tace quando fa buoni affari, mi disse un giorno il pm antimafia Francesco Di Maggio, uomo tra l’altro coltissimo e avveduto, con papà maresciallo dei carabinieri. E’ necessario che lo Stato non lasci soli i suoi uomini migliori. La mafia non demorde. I boss al “gabbio” trasmettono ordini all’esterno. Muore un capo ne fanno un altro. Decide la cupola. I boss sono come la coda della lucertola: la tagli e ricresce.
Sulla via del ritorno sollecito un giudizio su Giandomenico a Gianni Nasti. “Bravo”. Asciutto, sintetico. Le strade che percorriamo per rientrare a Martina sono poco illuminate, ma lui guida con perizia. “Ti è piaciuta la serata?”. “Moltissimo”. D’accordo Carmela, che accompagna alle risposte un sorriso dolce. Ho in mente le parole con cui Paolo ha ringraziato tutti, me compreso. Sono io che ringrazio lui per l’ospitalità.
Il tenore Gianni Nasti
Interessantissima questa “Staffetta di autore” di Locorotondo, che alterna la poesia al racconto della realtà contemporanea: adolescenti che bullizzano, si picchiano, sfoderano il coltello, mariti che uccidono le mogli. E le guerre. Il mondo è sull’orlo del precipizio. E’ tornata la paura, l’angoscia, il terrore. L’Europa trema, il Medio Oriente viene devastato. L’Ucraina è un ammasso di macerie. La gente invoca la pace, basta con le distruzioni, si ha voglia di tranquillità. Questi scossoni non hanno avuto molto largo alla “Staffetta”, ma i presenti dopo gli accenni di alcuni autori sicuramente li hanno pensati. La Tivù trasmette immagini terrificanti, i commenti degli esperti non sono rassicuranti. La preside afferma che la scuola deve essere capace di educare, di ripristinate il rispetto per gli insegnanti, con genitori che siano con loro in armonia.
Concordo con le varie voci della “Staffetta”. Con la celebrazione della bellezza, che può essere salvifica. E penso alla Valle d’Itria, oasi di pace; al centro storico di Martina. E’ più bello di quello di Locorotondo? Il sindaco del “Locus Rotundus”, ha preso il microfono per un breve, frettoloso intervento e ha nascosto il suo pensiero (diplomazia dettata dalla posizione). Ma sicuramente tifa per il suo paese. Anche il centro storico di Martina ha il suo fascino.
Giandomenico il batterista

Ah! la prima cosa che mi ha colpito a Locorotondo è stata una “vedovella”: fontana che arricchisce la scenografia di un paese. Ha un difetto: rotto il vecchio rubinetto, lo hanno sostituito con un uno moderno. E la fontana non è più un monumento che potrebbe raccontare mille storie, come quelle sviluppate alla “Staffetta”.
Tonando a Carmela Maria Ricci, ricca di idee, custode di usi e costumi tramontati, docente di matematica in pensione, prima di arrivare alla “Staffetta”, con un sorriso divertito, ha fatto un’osservazione originale: la matematica nasce da noi, è dentro di noi: due occhi, un naso, una bocca, due orecchie, un cuore, due gambe, due braccia, venti dita distribuite fra due mani e due piedi: sono numeri. Già, sono numeri anche i piani dei palazzi, gli scalini e le navate delle chiese, gli alberi, le vigne. E numeri si trovano nel suo libro, “Quella nevicata del ‘56”, dove la voce narrante è lei, bimba di cinque anni, che non ignora la fatica del padre contadino nello strappare la terra ai sassi, i rapporti che aveva con gli altri, gli attrezzi che usava, i caratteri delle persone... Una chicca, almeno per me: il caffè a quei tempi si ricavava dalla radice della cicoria selvatica, e prese poi il none di “ciofeca”. Quante nozioni si apprendono conversando con la scrittrice. Peccato che queste cose non le abbia dette al pubblico della “Staffetta”.