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mercoledì 18 settembre 2024

I mille ricordi della mia città

L’AMORE PER TARANTO NON SI SPEGNERA’ MAI




Taranto vecchia
Non sono più autonomo e devo attendere che qualcuno abbia la voglia di darmi un passaggio; e quando
sono fortunato non posso andare dove voglio, alla Rotonda o alla Dogana o al Mar Piccolo, perché le mie gambe vacillano.
Mi limito ad ammirare questo gioiello su “Foto Taranto com’era” di Antonio De Florio, o leggendo Giacinto Peluso, a me molto caro.










FRANCO PRESICCI



Lampare a Mar Piccolo
Galoppano i ricordi. Come cavalli che sulla pista non si lasciano fermare da nessuno; ruscelli che gorgogliando scorrono tra pietre e atri intoppi; fluiscono come fiumi in piena, limpidi come l’acqua del mare a due passi dalla battigia. Quando rompono l’argine non si riesce a trattenerli. Così emergono Taranto e l’oratorio dei Salesiani; le chiese di San Domenico e del Cuore di Gesù; piazza Marconi, dove nelle feste innalzavano l’albero della cuccagna; “’u monde de le vàcche”, che oggi è sepolto sotto l’ospedale e ieri si offriva ai ragazzi vogliosi di giocare al pallone; il ponte di ferro, che a dieci anni percorrevo di corsa con tantissimi coetanei appena si riabbracciava... Via Nettuno, dove sono nato e cresciuto sino ai trent’anni, è più limpida nella mia memoria: la campagna che iniziava dopo via Giovan Giovine con l’orto di “mèsta Ronze”, che al limite incrociava quello del signor Capone, dotato anche di una noria (“‘a ‘ngègne”), fatta girare da un cavallo bendato; Santa Lucia, stabilimento balneare frequentato per lo più dagli operai dell’arsenale, che sorseggiavano la birra Raffo su una rotonda che a distanza di anni mi veniva in mente ogni volta che sentivo Fred Buongusto cantare “Una rotonda sul mare”.
Diego Marturano


Da anni sogno la mia amata città. Avevo 16 anni quando cominciai ad attraversare la ringhiera o “’a vieremìenze” per raggiungere il tempio da cui esce l’Addolorata il Giovedì Santo. Il parroco era don Stefano Ragusa e il sacrestano, Antonio, “mundevàte” con il solo soprannome: “’a caggiàne”, per il suo modo di camminare con le braccia sollevate come le ali di un uccello (detto con rispetto, anche perché era una persona mite e buona, e ogni volta che si verificava un inconveniente se la prendeva con un ragazzo che si chiamava Sferra).
Passarono gli anni e io non smettevo di peregrinare nella città vecchia. Ancora oggi adoro il Mar Piccolo e la dogana, allora piena di banchi con il pesce e i frutti di mare. Anche lungo la sponda di quell’Eden c’erano venditori di cozze “gnòre”, l’oro di Taranto, ostriche, “cacasànghe”, “còzze pelòse”, “nuce”, “spuènze” in grossi piatti di terracotta disposti su “scalinate” in legno... “’U cuzzarùle”, a richiesta, apriva le valve e serviva il contenuto al cliente. Io ci andavo anche per ascoltare la gente che parlava il dialetto; e facevo domande agli anziani per captare i suoni, le cadenze, le finali strascicate. A casa, piegato sul tavolo fattomi da zio Dionigi, il mio mito, li ritrovavo nei versi di Diego Marturano, Alfredo Nunziato Maiorano, Alfredo Lucifero Petrosillo, Diego Fedele, Claudio De Cuia… Diego a volte mi recitava il suo ultimo parto concludendo con un sorriso paterno. Andavo spesso da lui. La mamma e la moglie mi volevano bene e io in quelle camere di via Messapia mi comportavo come fossi al pianterreno di via Nettuno 10, dove abitavo. Di tanto in tanto accompagnavo il poeta dal salumiere e una volta mi volle offrire un panino con la mortadella. Mi presentò una famiglia siciliana che ospitava una bella nipote che lui, per protezione, seguiva anche quando andava ad aprire la porta e Indossava occhiali leggeri di vetro per darsi un tono.
Alfredo Lucifero Petrosillo

Una sera mi accomodai in quarta fila al Teatro Orfeo, affollatissimo, e applaudii Diego che interpretava sul palcoscenico un suo pezzo bellissimo dedicato alla primavera. Era un bel ragazzo e amava parlare di letteratura. Dopo un po’ di anni, amante del teatro, all’Orfeo andai per intervistare di volta in volta Eduardo De Filippo, Alighiero Noschese, Ernesto Calindri, Milva; e poi Elsa Merlini ed Emma Gramatica, che di Viola era amica, impegnate in “Venerdì Santo”, commedia di Cesare Giulio Viola. Quelle interviste le pubblicavo sul settimanale barese “Sette Giorni”, direttore Papandrea.
Frequentavo anche il teatro Alfieri, dove vidi ballare la “balalaika” da una compagnia del Bolshioi. All’Odeon andavo quando proiettavano i film di Stanlio e Ollio. A Taranto allora c’erano molti cinema: il Fusco, il Rex, il Savoia, il Fiamma; le arene Artiglieria, Arsenale, Monacelli, ltalia, Corallo, dove una sera assistetti all’esibizione della compagnia di Arturo Vetrano. Al cinema Savoia una domenica mattina spiegò la sua voce tonante Uccio Armento, che cantava l’”Ave Maria” al Sacro Cuore prima dell’arrivo di don Pietro Saracino. Uccio abitava nel mio stabile e dopo qualche anno entrò in seminario e lo lasciò prima di prendere i voti, preferendo il Liceo Classico “Archita”.
Io servivo messa e mio nonno Ciccio, orgoglioso, s’inginocchiava tra i primi banchi e poi si vantava delle mie prestazioni da chierichetto. Quando nella campagna di Martina riceveva gli amici mi chiedeva di cantare il “Tantum ergo” o “Dominus vobiscum et spiritu tuo”, ma stonato com’ero non facevo una bella figura. Con la veste nera e la cotta bianca, accompagnavo i morti fino alla chiesa di San Pasquale, in corso Umberto, reggendo la croce con l’asta, che mi faceva sentire più importante. Don Pietro m’imponeva quella senz’asta, se i familiari del defunto avevano pagato poco. Era un sant’uomo, polemizzava spesso con i parenti degli oltrepassati e con quelli degli sposi, che cercavano di ottenere il massimo sconto. Don Cipolletta stava a guardare.
Diego Fedele

Qualche volta suonavo le campane, le cui corde erano dietro la porta del corridoio che sbucava nella sacrestia. Ero vanitoso e timido. Mario Mazzarino, più grande di me di 11 anni, destinato ad essere nominato ministro, mi scelse come protagonista nella commedia Il ribelle”, rappresentata nel teatro della chiesa di San Francesco. Dovevo piangere e non ci riuscivo, Mario ebbe l’idea di darmi un leggero schiaffo mentre stavo per affrontare la platea e versai lacrime di rabbia, recitando “Papà, tu che di lassù mi guardi, tu che per la patria tua bella hai dato il sangue, la vita, ascoltami in quest’ora...” (miracoli della memoria). Anche il pubblico, commosso, pianse. Quando rientrai dietro le quinte Mazzarino mi abbracciò. Avevo 13 anni e continuai a battere per diletto le tavole del palcoscenico. Recitai ai Salesiani di viale Virgilio “Il piccolo ateo”, scritto da me saccheggiando altri testi.
Giacinto Peluso e Presicci

Questi brani di vita vissuta mi si presentano quando sono con le braccia incrociate e guardo fisso un cedro del Libano o il volo di un colombo sul giardino della mia casa meneghina. Ma è Laino d’Intelvi il luogo in cui i ricordi si avvicendano più spesso, anche quando le campane del paese di fronte (Ramponio, che si sta svuotando) suonano suscitando nostalgia per la mia terra, per i batacchi che sollecitavo al Sacro Cuore. Ho lasciato la mia città 60 anni fa, andando a vivere a 900 chilometri di distanza, ma le mie radici sono sempre vive. Possono vivere un ulivo, un fico, un noce senza radici? Io lo chiedo, quando sono a Martina, al mio ulivo preferito, perché lo feci mettere a dimora io mezzo secolo fa. Lui muove le foglie e sicuramente vuol darmi la risposta, ma non ha una voce né un linguaggio. E’ lì da tanto tempo, resistendo alla siccità e ad altre avversità, fortificando il suo apparato radicale. Lo chiamo maestro. Come la maestra Carrozzo alla scuola Acanfora, quando frequentavo le elementari e lei invitava la mia mamma a tagliarmi un cespuglio di capelli neri e ricci, senza ottenere risultati. I compagni di gioco ironizzavano chiamandomi “Rezzetìedde”, facendo inalberare mio nonno, che ripeteva: “Mio nipote si chiama Franco”, Che nonno, il mio nonno. L’ho sempre cercato, ma dove trovarlo? Dove abitano le persone care che hanno preso l’ultimo treno? Continuano a vivere, ne sono convinto, ma dove giocano a carte, dove fumano la pipa, a chi raccontano la loro vita passata?
Piero Mandrillo

Quante cose avrei da raccontare io, al nonno. Per esempio che cosa provo quando sono a Taranto, quali sono gli angoli che sono scomparsi e quelli nuovi? Viale Venezia, prima una spianata di verde, oggi ricoperta di palazzi, negozi, auto, voci, clacson rabbiosi. Via Nettuno, dove rimangono nell’aria i nomi delle persone di una volta, gli Schirano, i Fischetti, i Venuto… ha un altro volto. Neppure i Presicci ci sono più. C’è una via intitolata a questo cognome da qualche parte, ma la mia famiglia non c’entra. Non la vedo da un po’ di tempo, Taranto, dove incontravo Nicola Mandese, titolare della Casa del Libro, inserita nell’elenco delle librerie storiche d’Italia, E’ Nicola che m’informava su Taranto, su ciò che vi accadeva. Come anni fa faceva Piero Mandrillo, che veniva spesso a trovarmi nei suoi approdi milanesi. A pranzo parlavamo di com’era cambiata la città, delle amicizie comuni, dei frutti di mare che andava a gustare nella pescheria sotto il vecchio ospedale. A Milano leggo e rileggo le tante pagine di Giacinto Peluso, per sentirmi fra le vie di Taranto, “indr’a le strìttele” d’u burgh’andìche”. Qualcuno mi ha rimproverato per la dichiarazione d’amore a Martina, pubblicata su “Noi Notizie”, quasi accusandomi di essere “double face”. No, non è peccato amare due città: la prima per avermi dato i natali; l’altra per avermi aperto le porte quando avevo 11-12 anni.

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