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mercoledì 11 settembre 2024

Un museo in una trattoria di campagna


ABBIAMO GUSTATO “FAVE E FOGGHIE” NEL RICORDO DI UN MONDO ANTICO




Trattoria Le Ruote
Alla Trattoria Le Ruote, a Martina, sulla via di Ceglie, incastonata tra pace, silenzio,
viti inginocchiate, chiesette, tratturi, terra rossa














FRANCO PRESICCI





Un museo in una trattoria di campagna, a Martina Franca, sulla via di Ceglie. Una sorpresa, almeno per chi ci entra per la prima volta: decine e decine di testimonianze dei tempi andati, che sarebbe difficile e complicato narrare ai giovani o al forestiero all’oscuro di quel mondo. Anch’io faccio fatica a spiegarmi, per esempio, l’uso di tanti attrezzi agricoli e di finimenti necessari per bardare un cavallo, sparsi anche nel patio. Non posso quindi non soffermarmi a contemplare, prima di andare a sedermi a tavola, questa ricca collezione fatta anche di “’strecature, ”vummile”, ruote di pietra, ruote di carrozze, di traino, lanterne, un torchio in miniatura, una vecchia bilancia, “pile”, “capasoni”... Faccio dietro front e nella prima sala altri arnesi d’epoca. Sono curioso per natura.
Il Capasone
L’ambiente mi stuzzica. Sulle pareti esemplari interessanti, un ritratto da cui occhieggiano i familiari dei titolari Angelo e Giovanni Ceci, e un lungo articolo sul locale e sul papà, Peppino, che è stato un anfitrione eccellente. La striscia, lunga e incorniciata, a sua tempo è apparsa sul “Corriere della Sera”. Non mi sfuggono le riviste che accolgono immagini e giudizi sulla trattoria appilate in una nicchia.
Prendiamo posto. Siamo in cinque: il bravissimo tenore Gianni Nasti, che ci ha invitati; il professor Francesco Lenoci, docente alla Cattolica di Milano, melomane e conferenziere errante; Carmela Maria Ricci, moglie di Gianni, professoressa di matematica, e autrice del bellissimo libro “Quella nevicata del ‘56”; mia moglie, Irene, che ha lo sguardo del brigadiere dei carabinieri in appostamento per evitare che le mie parole si trasformino in un ruscello (dietro quello sguardo vigile c’è però tanta dolcezza). Si avvicina Giovanni, con un vassoio di antipasti, in cui primeggia il capocollo, di fattura casalinga. Lui e l’altro sono compassati, taciturni e simpatici. Lenoci tace, rivolge occhi d’aquila qua e là. Scruta, sbircia, memorizza. Gianni ascolta o commenta. Carmela è seduta fra me e il marito e sorride, mentre silenziosamente Giovanni depone al centro allettanti “fave e fogghie” e poi costine di agnello, salsiccia... I fegatini sono da dividere per tre, ma per distrazione finiscono tutti nel mio piatto, e Francesco, con mossa fulminea, recupera subito quelli che gli spettano. Dov’ero? Ah, parlavo di una mia lontanissima esperienza personale. Senza un motivo legittimo, confesso a Carmela che alle medie la sua materia mi era ostile. Lei mi tranquillizza e mi riferisce come snodava le lezioni ai suoi alunni, affascinandoli. Affascina anche me; ma purtroppo non ho più tempo per sedermi a un banco, avendo di fronte una insegnante come lei.
Francesco, Angelo, Franco, Irene, Maria, Gianni
Rispolvero un antico ricordo, ma lo frantumo. Credo che Lenoci mentalmente indossi per alcuni momenti il cappello di giurato in un concorso di pietanze, alla Edoardo Raspelli dei tempi di Luigi Veronelli, enologo coltissimo (per poco non descriveva in versi le delizie del palato), che lo promuoveva inventore della critica gastronomica. Il nostro simpatico docente si alza impugnando il telefonino e riprende ciò che ci viene servito. Le riprese rimpolperanno il suo folto archivio., a cui a volte attingo anch’io, sperando che non si esaurisca la sua pazienza.
Tra un discorso e l’altro, infilzando una polpetta così tonda da sembrare una pallina da ping-pong, slitto sulla criminalità organizzata a Milano, accennando all’assassinio di un boss di grossissimo calibro nel carcere di Bad’e Carros, in Sardegna; alla sua eredità e alle relative conseguenze. E scopro che Gianni Nasti sull’argomento è informatissimo. Lenoci Imbocca una strada diversa: si accoda al ripescaggio di una mia intervista a un tenore tarantino e resuscita Del Monaco, Rossini e altri grandi della lirica, sollecitando Gianni, che risponde con brevi frasi. Francesco vola anche su Albano e sulla sua voce tonante. E’ suo amico, viene accolto nella tenuta di Cellino San Marco, frequentata a suo tempo anche da Dino Abbascià, saggio imprenditore ortofrutticolo che stimava tanto il cattedratico e l’ugula.
A tavola tutti insieme
In un piatto giace ancora un peperone verde che aspetta di essere inforchettato. Abbiamo gustato tutto, Arriva il caffè, che io prendo amaro, “no pe’ spiùle”, e poi i policromi rosoli di fattura casalinga (non ricordo l’ordine). Ringrazio i padroni di casa e sono nuovamente nel museo, assieme alla compagnia. Diamo un’occhiata alla chiesetta interna con tanto di campanile; osserviamo ancora i vari gioiellini, tra cui un campanaccio, che pende da un’arcata e quasi mi appare il bue che lo ha tenuto appeso al collo. Carmela si avvicina a due cristalliere ben rifornite, poi a un tavolo, a una credenza e li indica in un sonoro dialetto martinese. Non solo matematica, ma studio degli usi della sua città e passione. Sono le 15. Il sole picchia. Tutt’attorno una pace gioiosa, la campagna brilla. mi beo alla vista delle viti che imperlano la terra rossa. Chissà perché il mio pensiero corre ai contadini, alla loro fatica, a Ignazio Silone, a Tommaso Fiore, a Rocco Scotellaro, a mio zio Luigi che a San Severo si curvava sotto il peso della zappa.

Gianni al volante fiancheggia la chiesa di Monticello, in cui si sono sposati, attraversa tratturi lunghi, corti, a gomito, strozzati; e penso a quello di Gabriele d’Annunzio e al mio, rimasto senza voci. Gianni conosce il percorso, forse lo ha programmato con Carmela. “Quella è la casa che nel ’56 subì l’assedio della neve, costringendoci a rimanere prigionieri per giorni. Mio padre sbucava dal rifugio per prendere la legna”. Lì c’era…una donna che venne rifornita dall’elicottero…”. E allora le mie domande si fanno più fitte. Guardo i trulli e mi ritrovo nel libro di Carmela, che non smetterò mai di elogiare per le emozioni che mi ha suscitato, per lo stile e per la storia. Dalla mia memoria affiorano episodi lontani. Era quella la nevicata che invase Martina e che io vedevo dalla finestra della casa dello zio canonico, in via Marangi? Sarei stato testimone di un evento eccezionale? Lo zio raccomandò a me e a mio cugino Enzo, che adesso viaggia fra le stelle, di non uscire. Io infatti, che per l’altezza non arrivavo al bancone del salumiere, rischiavo di essere sepolto.
Carmela Maria Ricci e Gianni Nasti
Che giornata, questa di martedì 27 agosto! Ho attraversato gran parte di Martina Franca, la città della luce e della musica. Che non conoscevo. Assaporo i profumi della campagna purtroppo sitibonda. Sono felice di essere ancora in questa bellezza che non tramonterà mai. Una bellezza singolare, che invita al sogno. Una bellezza magica. Con la Valle d’Itria benedetta da Dio, come scrisse Alessandro Caroli. Una città, che, secondo un collega, bisognerebbe mettere sotto una campana di vetro. “Un giorno tu verrai al mio paese, lo dipingerai e io lo rivivrò sulla tua tavolozza”, disse Giuseppe Giacovazzo a Filippo Alto a proposito di Locorotondo. Io non ho una tavolozza né pennelli, non sono un artista, non sono capace di dipingere la bellezza di Martina, ma Carmela e Gianni mi hanno instillato un amore più grande.
Buongiorno mister Cesare Brandi, oggi ho ripercorso una buona parte del tuo itinerario tracciato nel libro “Martina Franca”, edito nel ‘70 da Guido Le Noci, martinese doc, che a Milano a volte ricordava la trama dei tratturi dell’amato paese, i campanili, gli archi, le “nchiostre”, le fontane che ancora oggi riempiono bidoni d’acqua fresca, come quella sul Chiancaro vecchia di cent’anni, i muri a secco, alcuni purtroppo screpolati, come certi trulli abbandonati e rosicchiati dai rovi.
Tornando a Gianni Nasti, aggiungo che sono un suo fan. Lo ascolto sui video postati su Facebook mentre si esibisce al salotto culturale di Teresa Gentile, la fata di Palazzo Recupero. Carmela, a quando il prossimo libro? E’ in gestazione. Francesco Lenoci è già pronto per la presentazione.
Adesso l’appuntamento è al “Locus Rotundus”, dove signoreggia la villa di Giacovazzo e aleggia il ricordo dei suoi interventi su “Paese vivrai”. A domenica primo settembre, per un pomeriggio tra arte e poesia. Io ci andrò, accompagnato in macchina dal mio amico Donato, che cura le mie zolle. E per l’occasione visiterò la via dedicata a Filippo Alto. E’ in periferia, mi dicono. L’essenziale è il pensiero, il riconoscimento a un artista che ha celebrato la Puglia, Martina, Cisternino… in opere che moltissimi hanno ancora davanti agli occhi e vorrebbero vederle esposte in una mostra, a Milano o a Figazzano, dove l’artista aveva il secondo studio nella casa delle vacanze. Lo ricordo sempre, Filippo, alto, biondo: un vichingo. Di lui ho fatto cenno, alla Trattoria delle Ruote, a Carmela, Gianni, Francesco.

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