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mercoledì 30 ottobre 2024

L’Università del tempo libero e del sapere

FESTEGGIATI I DIECI ANNI DI UNA GRANDE FUCINA



La torta con il nuovo logo

Fondata da Michele Annese, un mito, continua alla grande la sua attività. Al timone sempre Silvia Laddomada, bravissima e capace di vendemmiare consensi.




FRANCO PRESICCI





Michele e Silvia
L’Università del tempo libero e del sapere di Crispiano ha festeggiato il suo decimo anno. Purtroppo senza la presenza di Michele Annese, che rimarrà sempre presente nella memoria e nel cuore di tutti.
Fu lui, con la collaborazione di Silvia Laddomada, la moglie, ad avere l’idea di istituire nella sua città quella fucina di cultura, che per tutti quegli anni è stata frequentata da tante persone interessate a lezioni di letteratura, arte, storia. geografia, economia, diritto, musica, informatica, alimentazione... come ha ricordato nella sua relazione Silvia Laddomada, la direttrice, alla cerimonia del compleanno. A tenere quelle lezioni non è stata soltanto Silvia, somministrando la sua cultura di professoressa di italiano in pensione. In quel salone si sono esibiti anche il virtuoso della fisarmonica Vito Santoro, tra l’altro profondo conoscitore degli usi e dei costumi di una volta, che racconta simpaticamente con i tasti e il mantice del suo strumento; e suonatori come Antonio Palmisano, vecchio collaboratore di Michele anche alla biblioteca comunale.
Silvia è stata bravissima nel calamitare tante persone, sempre puntuali ogni settimana. Con il passare del tempo quelle persone sono aumentate e continuano ad infoltirsi con entusiasmo.
Michele Annese
I dieci anni dell’Università sono stati celebrati a metà ottobre nell’aula consiliare del Comune di Crispiano, con il patrocinio dello stesso Comune e del Centro Servizio Volontariato ETS di Taranto. Moderatore, il giornalista Vincenzo Parabita. Al microfono si sono avvicendati Mariangela Liuzzi, presidente dell’Associazione Minerva e Silvia Laddomada, dopo i saluti del sindaco Luca Lopomo. Sono intervenuti anche Carlo Martello, segretario Confcooperative di Taranto e già presidente Csv della stessa città bimare; Palmina Cannone, presidente dell’Università del Tempo Libero di Fasano. Quindi è stato presentato il libro di Gianpaolo Annese, preziosa firma del “Resto del Carlino”: “Dimmi chi era il chiodo, chiacchierata con Michele Annese, mio padre”. Grande come uomo, come segretario della Comunità montana, come amico e come padre. Gli rivolgo un saluto affettuoso.
Tornando al decimo genetliaco dell’università, al termine al pubblico è stato offerto un programma di intrattenimento nella piazza in cui sorge la sede del Comune, tra la Chiesa della Madonna della Neve e la Biblioteca “Carlo Natale”, che per anni ha avuto Michele come direttore solerte e competente: uno spettacolo per bambini, allietati con l’animazione e le mascotte della Max Magic Music Eventi; e per adulti con i mercatini dell’artigianato e del riuso a cura dell’Associazione Telos. Ospite d’eccezione la violinista e ballerina “performer” Chiara Conte.
Copertina del libro
In occasione di questa festa (“10 anni di Minerva, 10 anni di noi”) in locali di corso Vittorio Emanuele è stata organizzata un’esposizione delle attività dell’Associazione Minerva. La via evoca ancora una volta la figura di Michele Annese, che proprio in quel tratto alloggiò una grande manifestazione per illustrare i risultati di indagini archeologiche condotte da docenti dell’Università di Amsterdam nella masseria Amastuola e in alcuni locali creò il Centro Montaliano, ricco di documentazione: ritagli di giornali, libri, foto.

La festa dei 10 anni è stata inondata da tanta musica eseguita dall’orchestra di Emanuele De Vittorio, Giuliano Taddeo e Tonino Palmisano, da sempre presente accanto a Michele nelle iniziative allestite anche nelle strutture rurali con convegni, chioschi, esposizioni con il don Chisciotte di Mimino Miccoli, autore di opere d’arte originali. Insomma la figura di Michele Annese aleggia in tutto ciò che avviene a Crispiano. Ricordo le cene fatte insieme, l’odore dei fegatini che durante le feste arrivava al balcone della suocera, Antonia, una signora dolce, un sorriso delizioso, dedita all’ascolto, attenta all’osservazione con quei suoi occhi luminosi. Quando morì, Michele mi telefonò cedendo all’emozione.
Silvia continua da sola, ma sempre, immagino, ispirata da Michele, la sua meritoria attività all’Università. “Adesso riprendiamo, dopo la pausa estiva”, ha detto. Con lo slancio di sempre, con quel desiderio di incontrare la gente di Crispiano, interessata alle lezioni sui protagonisti dell’universo letterario e le divertenti serate animate da Vito Santoro con i suoi racconti di persone e cose, modi di dire, vicende, soprannomi, caratteristiche di personaggi dell’epoca dell’albero della cuccagna, dei falò di carnevale, dei giochi racchiusi nella sua memoria di simpatico cantastorie.
Il pubblico  all'Università del tempo libero e del sapere

All’Università della città delle cento Masserie c’è tanta curiosità e voglia di imparare sempre di più o di ripassare. E a giudicare dal pubblico numeroso l’interesse per quel sodalizio è notevole. “Riprendiamo”, ripete Silvia: con la cultura ma anche con cene collettive, per il piacere di stare insieme, con le conversazioni che arricchiscono. L’Università crispianese, dunque, alterna studio e passatempi, musica e feste. La serata dei 10 anni si è conclusa con il logo disegnato sulla torta e disegnato dall’architetto Marzia Annese e dalla giovanissima Ginevra Banfi, entrambe residenti in Lombardia e molto vicine all’Associazione.

La festa in piazza

Scrosci di applausi e parole di esortazione. Anche quello che arriva sarà un anno pieno di eventi. Silvia è brava, ha idee felici, spirito d’iniziativa, una grande voglia di fare, di rendere sempre più interessante il programma. Questi dieci anni sono stati ben nutriti, affascinanti anche, senza soluzioni di continuità. Silvia ha saputo coinvolgere tante persone, è stata capace di tenere sempre vivo il focolare. L’Università del Tempo Libero e del Sapere ha una lunga vita davanti a sé, perché Silvia Laddomada non lascia le cose a metà percorso, sa come alimentarle, farle crescere. E l’Università è cresciuta, tra il favore e la partecipazione della cittadinanza.
Michele, Lenoci, Presicci
Il libro di Gianpaolo, il figlio giornalista di ottima stoffa che dall’agosto del 2023 a dicembre, poco prima che Michele volasse via, gli ha posto decine di domande Dall’intervista sono nate quelle pagine emozionanti: “Dimmi chi era il chiodo – Chiacchierata con Michele Annese, mio padre”. Già il titolo colpisce, timbra il viaggio. Dal dialogo emerge un ritratto icastico di Michele, che va dalle sue umili origini all’infanzia, al suo incontro con Silvia, passando per i sacrifici fatti per andare a scuola, i concorsi vinti (il primo a Torino), la passione per la lettura, la biblioteca, il Centro Montaliano, di cui andava orgoglioso, l’attività politica, l’incarico di segretario generale alla Comunità Montana, il carattere, l’inflessibilità nella difesa del bene pubblico, le cene con gli amici, i rapporti con le giunte comunali, il suo amore per la buona tavola… Un ritratto fedele, eseguito senza enfasi, senza linee marcate. “Mi dispiace solo di lasciare voi e di non portare a termine gli ultimi libri, di cui sto raccogliendo il materiale...”.
Nonostante la malattia galoppasse e non gli lasciasse più molto tempo, Michele aveva voglia di raccontarsi, mostrando una memoria solida dei fatti di cui è stato protagonista o spettatore. Gianpaolo da ottimo professionista della carta stampata gli ha rivolto domande appropriate e lui ha risposto con sincerità. Questo è un libro che affascina, fa rivere la figura di Michele, uomo schietto, generoso, una fucina di idee messe in cantiere e realizzate. In queste pagine parla anche della sua famiglia d’origine: il papà agricoltore, originario di Monopoli, coltivava il terreno nelle masserie, e la mamma smaltiva le incombenze nella casa della “padrona” (a quei tempi il termine era in voga). Dopo la scuola elementare era necessario il consenso del padre per continuare gli studi. Grazie all’intervento di una persona che conosceva le doti di Michele e la sua volontà di andare avanti ottenne l’autorizzazione, ma con la condizione che facesse il percorso con le sue sole forze. E Michele quel percorso lo fece, racimolando i soldi un po’ qua e un po’ là, con lavoretti, anche organizzando un doposcuola. Gianpaolo ha raccolto queste gemme e ce le offre. Ho divorato il suo libro in mezza giornata: mi ha catturato subito e mi ha coinvolto.

mercoledì 23 ottobre 2024

Un personaggio incancellabile


MICHELE LAMANTEA RIGATTIERE A BRERA



Michele Lamantea
Per oltre cinquant’anni allestì il suo “esercizio” all’angolo tra le
vie Brera e Fiori Chiari. Ogni mattina da corso Como, dove abitava, andava in quel punto di fronte all’Accademia ed esponeva la sua roba.







FRANCO PRESICCI






“Non viene più qui Michele?”. Il baritono Giuseppe Zecchillo, che amava farsi due passi dal suo studio, in via Fiori Chiari, al bar dell’angolo, al signore elegante, segaligno, imbiancato, faccia da Peppino De Filippo, rispose che Michele arrivava di solito verso le 10.30.
Bar Giamaica

Doveva quindi aspettare una decina di minuti. Zecchillo sparì nel bar per sorseggiare un caffè e da lì vide il rigattiere in sella al suo carretto a pedali, scendere e scaricare senza fatica i suoi esemplari di modernariato e qualche pezzo antico. Ma non il candelabro stile Liberty richiesto; anzi, in quello stile non aveva niente. In quel momento tornò il baritono, che fu nuovamente interpellato, sottovoce. “No, a Brera c’è soltanto Michele ad avere un mercato all’aperto e non ne troverà altri neppure in altre parti di Milano”.
A Brera Michele lo conoscevano tutti. Gli volevano bene e lo stimavano. Simpatico, a volte loquace, a volte taciturno, pensieroso, impenetrabile. Seduto su una vecchia e solida sedia, braccia conserte, gambe accavallate, sguardo vigile che roteava tra l’Accademia con l’ingresso sempre affollato e il Bar Giamaica, un tempo meta di pittori, scrittori, poeti, che comodi ai tavoli all’esterno del locale discutevano.
Michele era pugliese. Nato il 23 gennaio del 1926 a Trinitapoli, in Puglia, da una famiglia modesta (il padre, Ruggero, faceva i pozzi artesiani), con i parenti aveva pochi rapporti. Abitava in corso Como 9, in un abbaino: casa e magazzino. Lasciava nel cortile il carretto, senza il timore che glielo rubassero.
Michele va al lavoro

Al suo arrivo a Milano, oltre 50 anni fa, c’erano ancora i “ghisa” sulla pedana, e lui quando ne vedeva uno lo osservava incuriosito. Geloso della sua vita privata, non aveva mai confidato a nessuno che di cognome faceva Lamantea. Fu il nipote Domenico, vicecommissario in via Fatebenefratelli, in servizio alla sezione omicidi, a dirlo ai giornalisti, quando Michele morì. E i cronisti, affamati di notizie di questo personaggio caratteristico molto amato e rispettato nella zona, scrissero lunghi articoli dotati di foto.
La biografia del rigattiere venuto dal Sud pezzo dopo pezzo s’infoltì di dettagli. Michele lasciò i banchi di scuola da ragazzo ed era analfabeta. Partì per Milano su un carro-bestiame. Dormì per quattro anni sotto i ponti, per un piatto di minestra frequentò la mensa dei preti, in seguito affittò una stanza in corso Como al civico 9, prendeva vasi in frantumi, li rimetteva in sesto e li vendeva. Poi fece un salto di qualità, trattando oggetti sani e più importanti. Occupò quel posto, in cui via Brera incrocia via Fiori Chiari, e a poco a poco divenne il beniamino di tutti, un po’ lunatico ma generoso.
Ritratto di Michele sul libro della Berner

Una sera, uscito da una ricevitoria di via San Marco, dove aveva ritirato una modesta vincita al lotto, una signora, facendo marcia indietro con l’auto, lo travolse. Michele rimase in coma una ventina di giorni. Una mattina i nipoti Domenico e Giuseppe andarono a trovarlo in ospedale e sul comodino notarono un biglietto. Lo aprirono: era una poesia firmata Isabel. Chi era, questa Isabel? Una giovane tedesca, che ammirava moltissimo Michele. Lo aveva conosciuto in un bar durante un suo soggiorno a Milano con “Erasmus” ed era rimasta incantata dal personaggio. Studiava arte audiovisivi multimediali all’Università di Colonia”. Nacque una bella amicizia schietta, sincera. E quando era ricoverato in ospedale tutti i giorni andava ia trovarlo, si avvicinava al letto, gli accarezzava la mano e gli parlava sommessamente di sé, della sua vita, dei suoi studi. All’epoca Isabel aveva 25 anni ed era molto carina. Nata a Straubing, si chiama Briskorn.
Grazie a Domenico, la giovane tedesca ha accettato di rispondere alle mie domande: è gentilissima, paziente e si esprime molto bene nella nostra lingua. Nel 2003 girò un video amatoriale sulla giornata di Michele. “Se vuole glielo mando”. Nel giro di pochi minuti me lo sono trovato sul computer. Un video interessante, ben fatto, in cui rivedo Michele mentre si racconta, carica la sua roba nel cortile di casa, attraversa le vie della città in sella al suo carretto, fa colazione nel bar di fronte alla sua postazione quotidiana, parla un po’ con gli avventori e poi monta il suo “mercatino”. Insomma, Isabel in quel filmato lo fa rivivere, Michele; e lo coglie nei momenti in cui ha voglia di aprirsi, magari mentre s’infila la giacca.
“Era un maestro di vita, saggio, con una sua visione del mondo, autentico, senza filtri, senza maschera, capace di fare da trait-union tra persone diverse davanti al suo spazio. Era libero come un uccello”. Scomparve a 77 anni.
Michele Lamantea

Poco prima dei funerali a Domenico e Giuseppe, che fa il ristoratore, si accostò un giovane, che disse di essere il primo violoncellista della Scala e desiderava suonare durante la cerimonia nella chiesa di San Marco l”Ave Maria” di Schubert e musiche di Bach. In un angolo c’era Isabel, tenera, bella, addolorata. Domenico la vide e la invitò a sedersi nella fila riservata alla famiglia.
Deliziosa Isabel! Fece anche la tesi di laurea su Michele, e per realizzare il video andò a Trinitapoli a parlare con i familiari, che le dissero tutto quello che serviva per realizzare la sua opera. Una storia esemplare di amicizia pura, vera.
Intanto Domenico e Giuseppe erano tornati sul luogo dell’incidente per recuperare il carretto. “In due facemmo uno sforzo notevole, mentre lo zio ce la faceva da solo”. E attraversando le vie che portano a corso Como, la gente li fermava, chiedendo con modi bruschi dove avessero preso quel veicolo, credendo che lo avessero rubato a Michele.
Michele a Brera era dunque un’istituzione. Ricordo i giornalisti di tutte le testate intervistare le persone disposte a rispondere.
Michele in un ritratto di Peppino Bruno

Qualche cittadino piangeva, raccontando scampoli delle giornate di Michele, che a volte indossava un cappello alla Fellini, altre volte un cilindro. I fotografi, come il mio amico Peppino Bruno, di professione dentista, lo riprendevano vicino a un grammofono a tromba o seduto come un Papa, da solo o impegnato in una conversazione con qualche conoscente più assiduo. Migliaia gli scatti dei turisti, per cui immagini di Michele sono quasi in tutto il mondo.
Per merito di Isabel, anche i nipoti sanno molto di più dello zio, che come detto era persona semplice e gelosa della sua vita privata. Non sanno neppure oggi se fosse davvero sposato, come scrisse qualche giornale, aggiungendo che giocava in tutte le ricevitorie di Milano, “ma non era certo un ludopatico, se è vero. Era parsimonioso e non aveva voglia di sprecare i soldi”. Domenico parla con con commozione.
Nel bellissimo libro di ritratti di Federica Berner, con testi di Guido Vergani, Andrea Del Guercio, Elisabetta Bossi Fedrigotti campeggia anche il volto di Michele, accanto a quelli di Raffaele De Grada, Guido Ballo, Emilio Tadini, Osvaldo Patani, Enrico Baj, Ernesto Treccani, Luciano Minguzzi... C’è anche quello, fra gli altri, della nota pellicciaia Nuccia Bossi e del gioielliere Francesco Mereu. Insomma,
Zecchillo a Brera

Michele era incastonato nella storia del quartiere, assieme agli artigiani, ai titolari di negozi storici, allo stesso Bar Giamaica e alla latteria delle pie sorelle Pirovini, dove Ibrahim Kodra oltre 60 anni fa aveva un conto chilometrico, incrementato dagli amici che seguivano ogni suo passo. Da tempo Brera è cambiata, ma nel quartiere rimane il ricordo del pittore albanese, uomo simpatico, spiritoso, colto, amante della compagnia, divenuto col tempo famosissimo a Milano, ma anche nel resto d’Italia e altrove.
Incancellabile dunque la figura di Michele Lamantea, che dovrebbe essere commemorato con qualche evento: gli abitanti con cui ho avuto modo di scambiare due parole hanno esternato molto affetto per il rigattiere di Brera che per tanti anni ha venduto candelabri e altri oggetti agli appassionati del mondo lontano. Per qualche tempo ha avuto tra l’altro il busto, somigliantissimo all’originale, di Benito Mussolini. Poi è riuscito a venderlo.
Vidi Michele l’ultima volta qualche anno fa, quando andai al bar di fronte a lui, dove il baritono Giuseppe Zecchillo aveva appeso al muro alcuni dei suoi quadri realizzati con la pasta (spaghetti, maccheroni, linguine…) irrorata di porporina.

mercoledì 16 ottobre 2024

Una bella iniziativa alla questura di Lodi


DA ALCUNE LASTRE TRASFORMATE IN FOTO SCENE DELLA CRIMINALITA’ DI UNA VOLTA




La questura di Lodi

In una mostra allestita in un salone anche la strage di largo Tel Aviv nel settembre del ‘67 a Milano. Il questore Pio Russo ha illustrato la rassegna e il lavoro della polizia scientifica dalla sua nascita ad oggi. Intervento di Annamaria Di Giulio, dirigente del Gabinetto regionale polizia scientifica. Dialogo con il capo della Mobile Alessandro Battista.




FRANCO PRESICCI





”A Milano siamo arrivati alla guerra delle “gang”, alle annaffiate di piombo, agli assassini che colpiscono a pagamento. L’inchiesta sulla feroce sparatoria di largo Tel Aviv, dove... un parrucchiere è rimasto ucciso e tre suoi amici feriti, ha già accertato il movente. Tre gangster, nel senso più vero della parola, tre pedine della malavita organizzata, che si arricchiscono esercitando un controllo illegale su attività altrettanto illecite, sono stati mandati a uccidere un avversario che aveva tentato di inserirsi di prepotenza nel lucroso ‘giro’ delle bische clandestine”. Così scriveva Patrizio Fusar sul quotidiano “Il Giorno” il 13 settembre del ‘67, qualche giorno dopo la sparatoria, inizialmente prevista in via Pattari. Un episodio eclatante che suscitò sdegno nei cittadini del capoluogo lombardo, preoccupati per quella scena da Chicago anni Venti.
Il questore di Lodi Pio Russo

L’occasione per rispolverare quel fatto è data da un’interessantissima mostra fotografica allestita in un salone dell’Istituto Bassi, di fianco alla questura di Lodi, dove sulle pareti sono allineate immagini sugli avvenimenti che a Milano hanno suscitato spesso scalpore e paura. Non soltanto per i conflitti a fuoco a causa delle bische clandestine che con il tempo in città andarono aumentando al chiuso e all’aperto, difese armi alla mano, come accadde nel ‘71 alla “belanda” in corso Sempione, ma anche per regolamenti di conti nelle vie e nelle piazze, nei locali pubblici e in altre bische.
La rassegna di Lodi (prima foto appumto su largo Tel Aviv), è stata inaugurata sabato 5 ottobre alle 11 con la proiezione di un filmato sulla scoperta di alcune lastre utilizzate dalla polizia scientifica negli anni ‘70 nella Milano della malavita e su un tratto di storia della stessa sezione sin dai tempi della sua nascita. Quindi ha preso la parola il questore Pio Russo, che tra l’altro ha messo in evidenza il lavoro eseguito dalla stessa polizia scientifica nel trasformare le lastre in foto con tecniche moderne. Dopo un intervento breve e significativo di Annamaria Di Giulio, dirigente regionale della polizia scientifica, Alberto Prina, ideatore e responsabile del Festival della fotografia etica, nel quale l’iniziativa della questura è inserita, ha illustrato in pochi tratti la sua creatura.
Il salone della cerimonia

Osservando ogni immagine, compresa quella della strage di piazza Fontana nel dicembre del ‘69, si ha l’impressione di rivivere quei momenti tragici, che con tutti quei morti provocati da una bomba collocata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura sparsero terrore e indignazione. Quelle foto non si fermano dunque a largo Tel Aviv, iscritto negli annali degli scossoni che hanno lasciato sbigottita Milano: evocano altri fatti, altre scene, come la morte di uno sconosciuto, su cui si dovette indagare a lungo, e l’assassinio di una prostituta, che non è stato il solo: ad essere uccisa,, nel gennaio del ‘53, fu anche Mary Pirimpo, una bella ragazza del Sud venuta a Milano con la famiglia per trovare un posto di lavoro. Dopo di lei altre donne vennero massacrate sui marciapiedi lottizzati dagli sfruttatori.
Dopo l’intervento del questore, breve, efficace, sostanzioso, è stata data la parola ad un cronista, che ne ha approfittato per aprire diverse pagine della malandra nella terra di Carlo Porta: la rapina di via Osoppo, il 27 febbraio 1958, quando le tute blu assaltarono un furgone portavalori; la banda Cavallero, che dopo aver rapinato alle 15.15 l’agenzia del Banco di Napoli di largo Zandonai e rastrellato 12 milioni, fuggì a bordo di una 1100 blu. Arrivarono molte auto della polizia; il mresciallo Ferdinando Oscuri, volò anche lui sul posto, mentre i banditi cercavano una via di fuga, sparando all’impazzata con i mitra. “Spara, spara” urlava Cavallero al più giovane della banda, 17 anni e mezzo. Cavallero era deciso a trovare un varco e lo cercava a colpi di mitra. La polizia afferrò un complice, poi un altro.
Presicci, il questore Russo e la dottoressa Di Giulio


Una giornata da mezzogiorno di fuoco. Il capobanda riuscì ad eclissarsi, ma venne scoperto in uno scalo ferroviario deserto e arrestato. All’ergastolo trovò la fede, ne scriveva nel giornale confezionato con altri detenuti.
La mattinata di Lodi si è svolta alla presenza di tanti poliziotti non solo della città, agenti e dirigenti; e con l’uniforme anche Annamaria Di Giulio e il vicecommissario Attilio D’Agostino.
Quindici le foto. Il vicequestore Alessandro Battista, capo della Squadra Mobile di Lodi, ha informato il cronista su ogni particolare. “Le lastre sono state scoperte nell’archivio della polizia scientifica e trattate da specialisti molto esperti”. Battista è persona squisita, disponibile. Lui e il questore, a sua volta gentile e ospitale, hanno accompagnato il giornalista nella visita. Fuori c’era il sole, l’ambiente silenzioso. Battista ha risposto a tante domande, soddisfacendo ogni curiosità sulla rassegna, voluta e incoraggiata dal questore.
Il questore Russo e il commissario D'Agostino

L’esposizione finisce qui o avrà un seguito l’anno venturo, coinvolgendo magari anche il pubblico? Le forze dell’ordine sono una fortezza contro il crimine organizzato e sarebbe bello andare verso la gente, ricordando la brutalità di tanti criminali, dimostrata per esempio con l’uccisione dii tre malavitosi in un campo di granturco di via Selvanesco nell’aprile dell’80 e l’eliminazione di una coppia nei pressi dell’Innocenti, nello stesso anno. Episodi che Alessandro Battista conosce, come è informato sulle tante fughe dal carcere di quella specie di Vidoq di casa nostra, che per anni ha fatto parlare di sé, ispirando anche un film.
Il questore Russo e la dottoressa Annamaria di Giulio

Da molti anni l’ex “cane da tartufo” non entrava in una questura. A Milano la frequentò per anni. Lì aveva lavorato Mario Nardone, “il mito”, il gatto”, tale per il suo fiuto quasi infallibile; e lavoravano il maresciallo Ferdinando Oscuri, che risolse un delitto in tre ore anche trattando paternamente l’assassino, un giovane di sedici anni; Vito Plantone, “il re delle notti milanesi” e grande investigatore; Mario Jovine, che investigò sul colpo dei marsigliesi all’oreficeria Colombo in via Montenapoleone il 15 aprile ‘64, bottino 350 milioni; Antonio Pagnozzi, che consigliava alle famiglie dei rapiti di fingere scioperi nelle fabbriche per accorciare l’ammontare del riscatto; Enzo Caracciolo, che andò in pensione con lo scrupolo di non aver risolto il delitto di Simonetta Ferrero all’Università Cattolica, avvenuto il 24 luglio ‘71; il maresciallo Nino Giannattasio, che interrogò più volte Joe Adonis senza riuscire a fargli aprire bocca... Questi poliziotti furono pilastri di via Fatebenefratelli. Oggi non ci sono più, ma è rimasto il loro ricordo. Almeno nei colleghi anziani. Un cenno era dovuto a Paolo Scrofani, che, intervenuto per placare un folle mentre era fuori servizio, ci rimise la vita. Il cronista a Lodi, ha rivisto dopo una vita, con gioia, volti noti.
Presicci e la moglie con il capo della Mobile Battista
Al termine, sosta prolungata di fronte alla questura e ancora ricordi. Le parole a volte sono come le ciliege: ne cogli una e ne cade un’altra; se sono in coppia le appendi alle orecchie. Se l’argomento attira l’attenzione il discorso diventa un fiume in piena. Parlando con il vicecommissario Attilio D’Agostino, ho espresso il desiderio che la manifestazione del 5 ottobre abbia lunga vita. I protagonisti sono persone entusiaste e preparate e sono convinto che scopriranno altri “flash” sulla criminalità di un tempo, diversa da quella di oggi. La differenza me la illustrò a Catanzaro il questore Vito Plantone in un’intervista. Una sera con alcuni colleghi e rispettive mogli andarono in un ristorante del centro di Milano, dove a un tavolo erano seduti quattro o cinque capibanda. Alla vista dei poliziotti, passati cinque o sei minuti, si alzarono e uscirono. Poco dopo un giovane si presentò ai poliziotti con un grosso mazzo di rose rosse per le signore. “Noi restituimmo al mittente. Dunque ieri la malandra aveva rispetto per le forze dell’ordine, oggi spara anche contro di loro”.

mercoledì 9 ottobre 2024

L’ultimo cantastorie a Milano

HA APPESO DEFINITIVAMENTE AL MURO LA SUA CHITARRA





Trincale in paizza Duomo
Milano non ha dimenticato le sue ballate. Ebbe l’Ambrogino
d’oro e tanti altri riconoscimenti, ha inciso 45 giri ed LP, si esibiva in piazza San Babila, il pomeriggio.










FRANCO PRESICCI



Quante volte sono andato ad ascoltarlo all’angolo tra piazza San Babila e corso Vittorio Emanuele, a Milano. Con la chitarra in mano come il Barbapedana, pizzicava le corde della chitarra e cantava.
La folla per Trincale

Schietto, chiaro, polemico, a volte ironico. Era l’ultimo dei cantastorie nel capoluogo lombardo. Alle spalle il cartellone che lui stesso aveva realizzato, denunciava le ingiustizie sociali e tutti gli altri mali che affliggono ancora oggi il mondo, grandi e piccoli. Franco Trincale, menestrello di Militello - il paese di Pippo Baudo - che per vivere un tantino meglio aveva preso in mano il volante di un taxi, e continuava ad esibirsi sempre nello stesso punto. Alcuni si aggruppavano molto prima dell’orario in cui di solito arrivava e rimaneva deluso se per una corsa un po’ più lunga o per il traffico Trincale tardava.
Una domenica pomeriggio ero impegnato su un altro teatro e una collega mi sostituì con il taccuino in mano davanti al menestrello siciliano. Quando rientrò al giornale promise che sarebbe tornata ad applaudirlo. Erano le 16, era andata in quella piazza da dove partono quattro strade e aveva trovato lo spazio vuoto. Avevo chiamato Franco a casa ed ecco la risposta: “Nessun problema, rimetto il bagaglio in macchina e corro”.
Franco Trincale a casa

A Milano lo conoscevano bene e il suo nome era sulla bocca di tutti. Di giovani e anziani. Qualcuno domanda: “Trincale? Dov’è finito Trincale?” E giù a ricordare la sua bravura, la sua capacità di raccontare. Lo avevo ascoltato tanti anni prima al festival dei cantastorie di Monticello d’Ongina, un paese di oltre 5mila abitanti quasi bagnato dal Po, presso Piacenza, e lo avevo apprezzato molto, dedicandogli un articolo sull’autorevole quotidiano “L’Italia”, che aveva la sede in piazza Duca d’Aosta, di fronte alla stazione centrale.
Serio, puntuale, amabile, una coppola a coprirgli quel po’ di calvizie, poteva cantare per ore senza che il pubblico si annoiasse. Dopo qualche anno l’ho ascoltato in piazza Duomo, di fronte a Palazzo Reale e anche lì fece la sua mietitura di consensi, mentre i colombi si tenevano lontani dalla scena e beccavano nell’altra sponda della piazza. Bella, quella piazza, enorme, con il monumento equestre. Ha accolto malumori, urli dai palchi dei comizianti, cortei, processioni, celebrazioni, esaltazioni per la vitoria del Milan o dell’Inter, preghiere collettive, discorsi del cardinale, le proteste e il presepe mobile e l’albero a Natale. E le ballate di Franco Trincale. Che ha attraversato brutti periodi, risollevandosi con la legge Bacchelli. Oggi si è ritirato in una struttura assieme alla moglie, che non sta bene, a Baggio. Vive in una stanza dignitosa, ordinata, dove dalle pareti occhieggiano i ricordi di una vita. “Sono poche cose, anzi pochissime, il resto è raccolto nel museo di Militello, il mio paese”. Dove lo adorano e dove scrosciarono applausi interminabili durante un suo concerto.
Trincale con la moglie

Lo incontrai l’ultima volta in una fotocopisteria di via Lorenteggio e mi fece festa. Strano. Lo credevo un musone, un orso, e invece poteva capitare che ti battesse la mano sulla spalla e ti regalasse un sorriso aperto come una porta spalancata. Ad un Natale mi mandò un suo disegno, dove dalla firma si sviluppava un volto. Che fantasia! Bravo anche in quell’arte. Ha una matita decisa, sicura, senza soluzione di continuità. Schizza volti e paesaggi. Adesso canta non brani di protesta, ma di poesia, sottovoce, quasi sussurrati, per la moglie, che non sta bene. Un amore duraturo e profondo.
Trincale salì a Milano nel dopoguerra e cominciò i suoi spettacoli sotto il Duomo, nel ‘92 si trasferì in piazza San Babila. Negli anni ‘70 ha cantato davanti ai cancelli delle fabbriche per gli operai in sciopero, ispirandosi sempre alla realtà quotidiana, ai fatti di cronaca. Durante la sua attività ha ricevuto tanti riconoscimenti. Nel ‘67 e nel ‘68 fu consacrato “Trovatore d’Italia”, alla Sagra dei cantastorie dell’Associazione della categoria; nel 2008 gli venne consegnato l’Ambrogino d’oro, ambito da molti.
Il suo palcoscenico, dunque, piazza San Babila, dove zampilla una fontana artistica e accende le sue luci l’omonimo teatro, dove Ernesto Calindri recitò fra l’altro “Uno sporco egoista” e il mio collega e scrittore Piero Lotito disegnò efficacemente Edoardo De Filippo, seduto davanti a lui. Quando mostrò il lavoro riconobbi subito l’autore di “Natale in casa Cupiello” e di tantissime altre opere teatrali, nonostante fosse ripreso di spalle.
Trincale in piazza

Mi vengono in mente altri cantastorie siciliani, prima di tutti Ciccio Busacca. Alcuni andavano di strada in strada e di paese e paese, ambulanti come i vecchi mestieri, dall’arrotino all’ombrellaio, mentre il caldarrostaio non si muove mai dal punto prescelto. Alcuni cantastorie si rifacevano a testi tramandati dagli antichi che rielaboravano a seconda della propria inventiva. Altri raccontavano l’amore. Trincale no, i suoi argomenti erano altri: stava sempre dalla parte dei poveri, degli ultimi, di chi doveva faticare per guadagnarsi da vivere, di chi non riusciva a tirare fino alla coda del mese. Era un menestrello stanziale, che si ritirò quando la sua barba diventò del tutto bianca.
Trincale ama Militello, ma anche Milano, che apprezza il lavoro e la fatica. Un giorno gli ho domandato: “Tu hai capito perché i meneghini vanno sempre d fretta? Sembra che debbano conquistare un record o riscuotere una vincita al totocalcio o debbano prendere un treno”. “Non lo so, ti assicuro che non lo so, ma la cosa non mi crea problemi, Ognuno va come vuole”. E sorrise. Ormai corriamo anche noi, che veniamo da luoghi in cui i passi sono lenti: paesi del sole, della luce, dei colori squillanti come quelli dei fischietti in terracotta che si fabbricano a Grottaglie e a Rutigliano.
Trincale in piazza Duomo

Vorrei tanto sentirle ancora le cantate di Franco Trincale, ma se si è rifugiato nella Rsa di Baggio vuol dire che ha appeso al muro per sempre la chitarra. E ha arrotolato i cartelloni. Ma lui è iscritto nell’albo d’oro della città, e non solo in questa. Chi può escludere dalla memoria il menestrello venuto da Militello, il paese delle chiese e dei monumenti, quasi 7mila abitanti e sede della Sagra del ficodindia (ogni paese ha la sua sagra: a Crispiano, in terra di Taranto, va in scena quella del peperoncino piccante e a Rutigliano, Bari, quella del fischietto in terracotta, manufatti spesso d’arte che riproducono Benigni, De Sica, Fabrizi ed altrie figure, compresi il farmacista, il vigile urbano, il netturbino, il maresciallo dei carabinieri, chissà perché raffigurato sempre con espressione burbera e le braccia poste come i manici delle giare. Non mi meraviglierei se su uno scaffale di Maria Matarrese ad Alberobello m’imbattessi in un Franco Trincale plasmato nell’argilla.
Franco Trincale ha 88 anni, classe 1936. A vent’anni fece il servizio militare in marina ed era fidanzato con una bellissima ragazza diventata sua moglie. Chissà se da ragazzo già pensava di appostarsi sulla strada per narrare le ferite del pianeta.
Trincale all'opera

Certo oggi non può più tirare il carrello con su il fagotto di scena, ma forse nella struttura di Baggio gli consentiranno almeno qualche volta di fare il Barbapedana, il progenitore dei cantastorie milanesi, l’attore Enrico Molaschi, morto nel 1910, che, con un cappello che richiamava “el barchett de Boffalora” e una zimarra cantava, anche lui con la chitarra, ballate e filastrocche (“El Barbapedana el gh’aveva on gilè/ senza ed denanz cond via ed dedrè/ cont i oggioeu long ona spana/ l’era el gil del Barbapedama…”). Abitava in un piccolo vicolo di Porta Tosa, faceva la spola tra osteria e osteria e interpretava antichi brani popolari che egli stesso aveva scoperto e rimaneggiato. Un altro menestrello milanese fu Giuseppe Beccali, famoso e molto applaudito. Si ispirava a eventi disastrosi, terremoti, risvegli di vulcani…
Tornando a Trincale, nel ‘69 incise tre dischi sulla scomparsa di Ermanno Lavorini a Viareggio, che fece parlare i giornali per mesi. Dodici anni, Ermanno sparì mentre cavalcava la sua bicicletta e fu ritrovato il 12 marzo ‘69 sulla spiaggia di Marina di Vecchiano. Alle ricerche contribuirono anche alcuni veggenti stranieri. Uno diceva di vedere sabbia e alberi. Nei suoi versi Franco Trincale, definito l’ultimo cantastorie, esortava i rapitori a restituire il ragazzo alla sua mamma. Grande Trincale, prima o poi riascolterò i suoi testi.

mercoledì 2 ottobre 2024

Per un vecchio cronista è gioia

RACCONTARE LA MADAMA E I SUOI SPIETATI RIVALI







Jovine, Max Monti, Plantone, Giuliani, Colucci
Il ricordo di poliziotti bravissimi, che hanno risolto casi complicati magari a tempo di record: Oscuri, Plantone, Nardone, Serra, Ninni, Pagnozzi, Jovine.


















FRANCO PRESICCI


Ricevo spesso telefonate, anche quando sono in vacanza a Martina Franca, da giovani colleghi, che mi chiedono una data, il profilo di un personaggio della “mala” o della polizia ai tempi che furono. Mi chiedono di Mario Nardone, Vito Plantone, Enzo Caracciolo, Antonio Pagnozzi, Achille Serra… o delle operazioni anticrimine più rilevanti. Mi fa piacere dare una mano a chi comincia a cimentarsi con un agone difficile per ogni neofita che non sia pronto a consumare scarpe sulle strade e alle lunghe attese dietro la porta di qualche investigatore in via Fatebenefratelli o in un commissariato per carpire notizie. Così, se sto passeggiando nel tratturo, dove il telefonino è meno capriccioso, mi faccio spremere.
Caracciolo, Pagnozzi e Colucci

Alla mia età di solito si chiude l’archivio e si pensa ad altro: per esempio, all’hobby che si sta praticando per passare il tempo. Io, pur stando a riposo da anni, non mi sono mai allontanato da quello che considero un mestiere ricco di soddisfazioni, e non sono avaro di risposte.
Alcune domande riguardano Mario Nardone, detto “il mito”. Andai a trovarlo nel suo ufficio di questore a Como, per un’intervista sulla droga e sui suoi aspetti motivazionali, e una seconda volta a casa sua quando andò in pensione. Era un napoletano cordiale, ma severo e non facile ad esaudire domande su un’indagine, rendendo difficoltoso il lavoro del cronista in anni in cui non c’era la sala-stampa in questura. Con lui collaborarono gli investigatori più abili e più preparati, compreso il maresciallo Ferdinando Oscuri, poliziotto arguto e temuto, nato a San Ferdinando di Puglia. Arrestarono e interrogarono la donna che aveva ucciso la moglie del proprio amante e i suoi figli, negando con forza di aver rivolto l’arma sui bambini, anche quando usci dall’ergastolo. Per far confessare un delitto Nardone e il suo gruppo usavano la testa e non ricorreva mai alle mai.
Così Vito Plantone, di Noci, che fra le sue azioni memorabili ci fu quella dell’arresto di un “boss” famoso non solo in Lombardia sull’orlo della piscina di un lussuoso albergo siciliano. L’uomo era in compagnia del suo luogotenente, di un paio di gregari e delle loro donne. Plantone non estrasse l’arma, ma li convinse ad arrendersi con le buone. Gli stessi metodi adottava Enzo Caracciolo, un bell’uomo alto, atletico, colto, capelli bianchi, austero. Lo conobbi agli albori degli anni Settanta, quando era capo della Squadra Mobile. All’epoca Achille Serra era un giovane commissario alle Volanti, con Micalizio, D’Orta e altri.
Plantone e Borsellino

Spesso la notte andavo a trovarli per cogliere l’umore della città. Enzo Caracciolo si presentava in ufficio all’improvviso, anche alle 23; e qualche poliziotto piombava nella centrale operativa per avvertire: “C’è il capo”. Io stavo facendo un’inchiesta sulla prostituzione e il commissario Enzo Sciscio, di Stornara, mi ospitava su una macchina della polizia per farmi vedere la vita della città di notte e le schiere di “falene” appostate sotto un palo della luce o ai margini dei marciapiedi. Ero autorizzato dal questore Allitto Bonanno, che non considerava i cronisti come zecche.
Cominciai così a conoscere Milano e l’ambiente e gli uomini della questura. Sciscio era spiritoso, a volte goliardico, ma un’ottima persona, soprattutto un poliziotto nato: intelligente, già esperto, preparato. Stabilimmo subito un bel rapporto. Anni dopo lo ritrovai vicequestore e dirigente del commissariato Scalo Romana, dove aveva le sue gatte da pelare. Nel suo “staff” c’erano i marescialli Mario Parretta, Ennio Gregolin, l’agente Peppe De Feo, poi promosso…
Gino Cervi, Allitto Bonanno, Caracciolo a destra

Un giorno arrivai quando avevano sequestrato un camion di trenini; un altro avevano arrestato “Alì Babà”, il soprannome nell’ambito della malavita di un ricettatore, che, si diceva, aveva i suoi tesori anche in Svizzera. Lo vidi mentre lo portavano a San Vittore, e lui in manette supplicava gli agenti di prendersi cura del suo gatto (“Adesso che io vado al ‘gabbio’, chi gli darà da mangiare, chi lo accarezzerà?”, e piangeva). Da quelle parti abitava un vecchietto arzillo che spacciava, vivendo con una ragazza a cui gli stupefacenti avevano fatto cadere tutti i denti e lui calava un po’ di soldi in un salvadanaio per pagare il dentista. Almeno così sosteneva.
Fuori del commissariato, oggi un locale in cui si preparano panini con i nomi dei più noti rappresentanti della “mala”, incappai in un personaggio che dopo essere stato acciuffato per un grosso reato si era dato allo spaccio. Era stato preso in un bar dopo una colluttazione proprio da Gregolin, cintura nera di karate. Una mattina quasi tutto il commissariato, escluso ovviamente il piantone, salì sulle auto partendo a razzo verso il luogo in cui, secondo la segnalazione di un contadino, era tenuto prigioniero un industriale. Li seguii con la mia vettura: il covo c’era, con una branda, qualche trabiccolo e pezzi di formaggio, ma non il rapito.
Ninni, secondo a sinistra

Fermarono una ragazza sui vent’anni che si era fatta portare da un taxi a Lodi, uscì dicendo all’autista di aspettare. Dopo dieci minuti tornò per farsi riportare a Milano, ma confessò di non avere una lira. Il ritorno si concluse al commissariato. Mentre la portavano via su un’ambulanza verso il reparto psichiatrico del Policlico, perché dava segni di alterazione mentale, cantava “Sotto la tunica sono nuda, il mio corpo è tutto tatuato, domani mi ucciderò...”. Con me c’era il collega Carlo De Barberis, da tempo scomparso in Costa Azzurra. Due giorni dopo, il mattino presto un tale la vide tuffarsi nelle acque dell’Idroscalo con le braccia allargate, come se volesse volare”. Lo stesso De Barberis, colta la notizia da un “trombettiere” (informatore), corse sul posto e mi telefonò. “Credo sia la donna che abbiamo visto ieri sera mentre la sistemavano sull’autolettiga”. Era lei: lo accertarono i carabinieri, che ci mandarono una fotografia nel tentativo di consentire il riconoscimento e reperire eventuali familiari.
Qualunque cronista che abbia consumato scarpe ha questo bagaglio di ricordi, che, se ne ha voglia, travasa nel carniere del pivello desideroso di raccogliere accadimenti che un giorno gli possono essere utili. Soprattutto personaggi di spicco delle forze dell’ordine. Mi viene in mente Filippo Ninni, che aveva molti meriti: individuò in breve tempo gli assassini di un famoso nome della moda e all’epoca in cui guidava il commissariato Cenisio fece tante di quelle “brillanti” che gli stessi malavitosi lo indicavano come ispettore Callagan. Ninni, di Taranto, è stato anche dirigente della Squadra Mobile di Milano e come tale portò a termine diverse operazioni anticrimine. Ebbe anche a che fare con una pericolosa pellaccia che accusò un malessere per farsi trasferire dal “gabbio” all’ospedale Fatebenefratelli, dove improvvisò un trambusto squagliandosela in tutta fretta.
Mario Nardone e Caracciolo

I ricordi si susseguono e a volerli fermare rompono gli argini. Uno dei miei ascoltatori prossimo a diventare un segugio come quelli di una volta, mi sollecita e io non mi tiro indietro. Gli raccontò anche la bravura dei cronisti della cosiddetta vecchia guardia. Tra questi, Arnaldo Giuliani e Fabio Mantica, del “Corriere della Sera”; Patrizio Fusar e Giancarlo Rizza, del “Giorno”, Eugenio Falletta, transfuga da “L’Italia” per il giornale di via Solferino, dove in cronaca spiccava anche Max Monti... Mantica ebbe da Franco Di Bella, allora capocronista del “Corriere”, di andare a cercare Joe Adonis e intervistarlo, Impresa ardua, perché l’indirizzo era sconosciuto e il cronista era un castoro ma non un indovino. Alla fine l’angelo custode lo illuminò prendendo le sembianze di un informatore e Mantica dopo aver sgambato per giorni come i maratoneti della Stramilano, riempì il taccuino.
La vita del cronista è complicata, ma se la si affronta con passione, senza guardare l’orologio e senza cedere alla stanchezza, si hanno grandi soddisfazioni, come quella del cane da tartufo che dopo aver annusato qua e là scopre il “tesoro”. Non sempre la tenacia premia, ma quando succede tocchi il cielo con un dito. Giuliano e Mantica si appiattirono una notte sull’erba dell’Idroscalo, assistendo a un duello rusticano, di cui poi si occupò il maresciallo Ferdinando Oscuri, nato a San Ferdinando che aveva risolto delitti in tempi da record.
Colaprico e Alberto Sala

Quanto l’ho ascoltato il caro Ferdinando! Si era ammalato e andavo spesso a fargli visita, a volte con il vicequestore Fabiani, brindisino stimatore di questa colonna di via Fatebenefratelli. Durante la visita rimanevo in piedi vicino al suo letto, ammirando la sua voglia di raccontare, forse pensando che avrei scritto un libro. Il libro non l’ho scritto, ma ho scritto tante pagine anche sul “Giorno”, definendolo un Ercole che aveva l’intuito di Poirot. Potrei dire tanto anche di Antonio Pagnozzi, uomo straordinario e poliziotto di stoffa pregiata. “Per salvare un rapito, ci siamo inventati molti scioperi per alleggerire il riscatto richiesto per il rilascio di un imprenditore”, mi disse quando era capo della Criminalpol, prima della nomina a questore e poi a prefetto. E di Paolo Scarpis, di Raffaele Valentini, di Salvatore Arcodia, di Lecce, di Francesco Colucci, che arrestò a Misiano di Rimini due luogotenenti del capo di un clan spietato. E dell’ispettore Alberto Rocco Maria Sala, che collaborò con l’Fbi e fece indagini in mezzo pianeta. Alla mia età fa piacere condividere spazio e tempo con gli altri e narrare. Il mio grande collega Piero Colaprico, già inviato speciale di “Repubblica” e autore di colpi notevoli, scrive libri di successo e dirige il famoso Teatro Gerolamo. Io trasmetto le mie memorie.