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mercoledì 16 ottobre 2024

Una bella iniziativa alla questura di Lodi


DA ALCUNE LASTRE TRASFORMATE IN FOTO SCENE DELLA CRIMINALITA’ DI UNA VOLTA




La questura di Lodi

In una mostra allestita in un salone anche la strage di largo Tel Aviv nel settembre del ‘67 a Milano. Il questore Pio Russo ha illustrato la rassegna e il lavoro della polizia scientifica dalla sua nascita ad oggi. Intervento di Annamaria Di Giulio, dirigente del Gabinetto regionale polizia scientifica. Dialogo con il capo della Mobile Alessandro Battista.




FRANCO PRESICCI





”A Milano siamo arrivati alla guerra delle “gang”, alle annaffiate di piombo, agli assassini che colpiscono a pagamento. L’inchiesta sulla feroce sparatoria di largo Tel Aviv, dove... un parrucchiere è rimasto ucciso e tre suoi amici feriti, ha già accertato il movente. Tre gangster, nel senso più vero della parola, tre pedine della malavita organizzata, che si arricchiscono esercitando un controllo illegale su attività altrettanto illecite, sono stati mandati a uccidere un avversario che aveva tentato di inserirsi di prepotenza nel lucroso ‘giro’ delle bische clandestine”. Così scriveva Patrizio Fusar sul quotidiano “Il Giorno” il 13 settembre del ‘67, qualche giorno dopo la sparatoria, inizialmente prevista in via Pattari. Un episodio eclatante che suscitò sdegno nei cittadini del capoluogo lombardo, preoccupati per quella scena da Chicago anni Venti.
Il questore di Lodi Pio Russo

L’occasione per rispolverare quel fatto è data da un’interessantissima mostra fotografica allestita in un salone dell’Istituto Bassi, di fianco alla questura di Lodi, dove sulle pareti sono allineate immagini sugli avvenimenti che a Milano hanno suscitato spesso scalpore e paura. Non soltanto per i conflitti a fuoco a causa delle bische clandestine che con il tempo in città andarono aumentando al chiuso e all’aperto, difese armi alla mano, come accadde nel ‘71 alla “belanda” in corso Sempione, ma anche per regolamenti di conti nelle vie e nelle piazze, nei locali pubblici e in altre bische.
La rassegna di Lodi (prima foto appumto su largo Tel Aviv), è stata inaugurata sabato 5 ottobre alle 11 con la proiezione di un filmato sulla scoperta di alcune lastre utilizzate dalla polizia scientifica negli anni ‘70 nella Milano della malavita e su un tratto di storia della stessa sezione sin dai tempi della sua nascita. Quindi ha preso la parola il questore Pio Russo, che tra l’altro ha messo in evidenza il lavoro eseguito dalla stessa polizia scientifica nel trasformare le lastre in foto con tecniche moderne. Dopo un intervento breve e significativo di Annamaria Di Giulio, dirigente regionale della polizia scientifica, Alberto Prina, ideatore e responsabile del Festival della fotografia etica, nel quale l’iniziativa della questura è inserita, ha illustrato in pochi tratti la sua creatura.
Il salone della cerimonia

Osservando ogni immagine, compresa quella della strage di piazza Fontana nel dicembre del ‘69, si ha l’impressione di rivivere quei momenti tragici, che con tutti quei morti provocati da una bomba collocata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura sparsero terrore e indignazione. Quelle foto non si fermano dunque a largo Tel Aviv, iscritto negli annali degli scossoni che hanno lasciato sbigottita Milano: evocano altri fatti, altre scene, come la morte di uno sconosciuto, su cui si dovette indagare a lungo, e l’assassinio di una prostituta, che non è stato il solo: ad essere uccisa,, nel gennaio del ‘53, fu anche Mary Pirimpo, una bella ragazza del Sud venuta a Milano con la famiglia per trovare un posto di lavoro. Dopo di lei altre donne vennero massacrate sui marciapiedi lottizzati dagli sfruttatori.
Dopo l’intervento del questore, breve, efficace, sostanzioso, è stata data la parola ad un cronista, che ne ha approfittato per aprire diverse pagine della malandra nella terra di Carlo Porta: la rapina di via Osoppo, il 27 febbraio 1958, quando le tute blu assaltarono un furgone portavalori; la banda Cavallero, che dopo aver rapinato alle 15.15 l’agenzia del Banco di Napoli di largo Zandonai e rastrellato 12 milioni, fuggì a bordo di una 1100 blu. Arrivarono molte auto della polizia; il mresciallo Ferdinando Oscuri, volò anche lui sul posto, mentre i banditi cercavano una via di fuga, sparando all’impazzata con i mitra. “Spara, spara” urlava Cavallero al più giovane della banda, 17 anni e mezzo. Cavallero era deciso a trovare un varco e lo cercava a colpi di mitra. La polizia afferrò un complice, poi un altro.
Presicci, il questore Russo e la dottoressa Di Giulio


Una giornata da mezzogiorno di fuoco. Il capobanda riuscì ad eclissarsi, ma venne scoperto in uno scalo ferroviario deserto e arrestato. All’ergastolo trovò la fede, ne scriveva nel giornale confezionato con altri detenuti.
La mattinata di Lodi si è svolta alla presenza di tanti poliziotti non solo della città, agenti e dirigenti; e con l’uniforme anche Annamaria Di Giulio e il vicecommissario Attilio D’Agostino.
Quindici le foto. Il vicequestore Alessandro Battista, capo della Squadra Mobile di Lodi, ha informato il cronista su ogni particolare. “Le lastre sono state scoperte nell’archivio della polizia scientifica e trattate da specialisti molto esperti”. Battista è persona squisita, disponibile. Lui e il questore, a sua volta gentile e ospitale, hanno accompagnato il giornalista nella visita. Fuori c’era il sole, l’ambiente silenzioso. Battista ha risposto a tante domande, soddisfacendo ogni curiosità sulla rassegna, voluta e incoraggiata dal questore.
Il questore Russo e il commissario D'Agostino

L’esposizione finisce qui o avrà un seguito l’anno venturo, coinvolgendo magari anche il pubblico? Le forze dell’ordine sono una fortezza contro il crimine organizzato e sarebbe bello andare verso la gente, ricordando la brutalità di tanti criminali, dimostrata per esempio con l’uccisione dii tre malavitosi in un campo di granturco di via Selvanesco nell’aprile dell’80 e l’eliminazione di una coppia nei pressi dell’Innocenti, nello stesso anno. Episodi che Alessandro Battista conosce, come è informato sulle tante fughe dal carcere di quella specie di Vidoq di casa nostra, che per anni ha fatto parlare di sé, ispirando anche un film.
Il questore Russo e la dottoressa Annamaria di Giulio

Da molti anni l’ex “cane da tartufo” non entrava in una questura. A Milano la frequentò per anni. Lì aveva lavorato Mario Nardone, “il mito”, il gatto”, tale per il suo fiuto quasi infallibile; e lavoravano il maresciallo Ferdinando Oscuri, che risolse un delitto in tre ore anche trattando paternamente l’assassino, un giovane di sedici anni; Vito Plantone, “il re delle notti milanesi” e grande investigatore; Mario Jovine, che investigò sul colpo dei marsigliesi all’oreficeria Colombo in via Montenapoleone il 15 aprile ‘64, bottino 350 milioni; Antonio Pagnozzi, che consigliava alle famiglie dei rapiti di fingere scioperi nelle fabbriche per accorciare l’ammontare del riscatto; Enzo Caracciolo, che andò in pensione con lo scrupolo di non aver risolto il delitto di Simonetta Ferrero all’Università Cattolica, avvenuto il 24 luglio ‘71; il maresciallo Nino Giannattasio, che interrogò più volte Joe Adonis senza riuscire a fargli aprire bocca... Questi poliziotti furono pilastri di via Fatebenefratelli. Oggi non ci sono più, ma è rimasto il loro ricordo. Almeno nei colleghi anziani. Un cenno era dovuto a Paolo Scrofani, che, intervenuto per placare un folle mentre era fuori servizio, ci rimise la vita. Il cronista a Lodi, ha rivisto dopo una vita, con gioia, volti noti.
Presicci e la moglie con il capo della Mobile Battista
Al termine, sosta prolungata di fronte alla questura e ancora ricordi. Le parole a volte sono come le ciliege: ne cogli una e ne cade un’altra; se sono in coppia le appendi alle orecchie. Se l’argomento attira l’attenzione il discorso diventa un fiume in piena. Parlando con il vicecommissario Attilio D’Agostino, ho espresso il desiderio che la manifestazione del 5 ottobre abbia lunga vita. I protagonisti sono persone entusiaste e preparate e sono convinto che scopriranno altri “flash” sulla criminalità di un tempo, diversa da quella di oggi. La differenza me la illustrò a Catanzaro il questore Vito Plantone in un’intervista. Una sera con alcuni colleghi e rispettive mogli andarono in un ristorante del centro di Milano, dove a un tavolo erano seduti quattro o cinque capibanda. Alla vista dei poliziotti, passati cinque o sei minuti, si alzarono e uscirono. Poco dopo un giovane si presentò ai poliziotti con un grosso mazzo di rose rosse per le signore. “Noi restituimmo al mittente. Dunque ieri la malandra aveva rispetto per le forze dell’ordine, oggi spara anche contro di loro”.

mercoledì 9 ottobre 2024

L’ultimo cantastorie a Milano

HA APPESO DEFINITIVAMENTE AL MURO LA SUA CHITARRA





Trincale in paizza Duomo
Milano non ha dimenticato le sue ballate. Ebbe l’Ambrogino
d’oro e tanti altri riconoscimenti, ha inciso 45 giri ed LP, si esibiva in piazza San Babila, il pomeriggio.










FRANCO PRESICCI



Quante volte sono andato ad ascoltarlo all’angolo tra piazza San Babila e corso Vittorio Emanuele, a Milano. Con la chitarra in mano come il Barbapedana, pizzicava le corde della chitarra e cantava.
La folla per Trincale

Schietto, chiaro, polemico, a volte ironico. Era l’ultimo dei cantastorie nel capoluogo lombardo. Alle spalle il cartellone che lui stesso aveva realizzato, denunciava le ingiustizie sociali e tutti gli altri mali che affliggono ancora oggi il mondo, grandi e piccoli. Franco Trincale, menestrello di Militello - il paese di Pippo Baudo - che per vivere un tantino meglio aveva preso in mano il volante di un taxi, e continuava ad esibirsi sempre nello stesso punto. Alcuni si aggruppavano molto prima dell’orario in cui di solito arrivava e rimaneva deluso se per una corsa un po’ più lunga o per il traffico Trincale tardava.
Una domenica pomeriggio ero impegnato su un altro teatro e una collega mi sostituì con il taccuino in mano davanti al menestrello siciliano. Quando rientrò al giornale promise che sarebbe tornata ad applaudirlo. Erano le 16, era andata in quella piazza da dove partono quattro strade e aveva trovato lo spazio vuoto. Avevo chiamato Franco a casa ed ecco la risposta: “Nessun problema, rimetto il bagaglio in macchina e corro”.
Franco Trincale a casa

A Milano lo conoscevano bene e il suo nome era sulla bocca di tutti. Di giovani e anziani. Qualcuno domanda: “Trincale? Dov’è finito Trincale?” E giù a ricordare la sua bravura, la sua capacità di raccontare. Lo avevo ascoltato tanti anni prima al festival dei cantastorie di Monticello d’Ongina, un paese di oltre 5mila abitanti quasi bagnato dal Po, presso Piacenza, e lo avevo apprezzato molto, dedicandogli un articolo sull’autorevole quotidiano “L’Italia”, che aveva la sede in piazza Duca d’Aosta, di fronte alla stazione centrale.
Serio, puntuale, amabile, una coppola a coprirgli quel po’ di calvizie, poteva cantare per ore senza che il pubblico si annoiasse. Dopo qualche anno l’ho ascoltato in piazza Duomo, di fronte a Palazzo Reale e anche lì fece la sua mietitura di consensi, mentre i colombi si tenevano lontani dalla scena e beccavano nell’altra sponda della piazza. Bella, quella piazza, enorme, con il monumento equestre. Ha accolto malumori, urli dai palchi dei comizianti, cortei, processioni, celebrazioni, esaltazioni per la vitoria del Milan o dell’Inter, preghiere collettive, discorsi del cardinale, le proteste e il presepe mobile e l’albero a Natale. E le ballate di Franco Trincale. Che ha attraversato brutti periodi, risollevandosi con la legge Bacchelli. Oggi si è ritirato in una struttura assieme alla moglie, che non sta bene, a Baggio. Vive in una stanza dignitosa, ordinata, dove dalle pareti occhieggiano i ricordi di una vita. “Sono poche cose, anzi pochissime, il resto è raccolto nel museo di Militello, il mio paese”. Dove lo adorano e dove scrosciarono applausi interminabili durante un suo concerto.
Trincale con la moglie

Lo incontrai l’ultima volta in una fotocopisteria di via Lorenteggio e mi fece festa. Strano. Lo credevo un musone, un orso, e invece poteva capitare che ti battesse la mano sulla spalla e ti regalasse un sorriso aperto come una porta spalancata. Ad un Natale mi mandò un suo disegno, dove dalla firma si sviluppava un volto. Che fantasia! Bravo anche in quell’arte. Ha una matita decisa, sicura, senza soluzione di continuità. Schizza volti e paesaggi. Adesso canta non brani di protesta, ma di poesia, sottovoce, quasi sussurrati, per la moglie, che non sta bene. Un amore duraturo e profondo.
Trincale salì a Milano nel dopoguerra e cominciò i suoi spettacoli sotto il Duomo, nel ‘92 si trasferì in piazza San Babila. Negli anni ‘70 ha cantato davanti ai cancelli delle fabbriche per gli operai in sciopero, ispirandosi sempre alla realtà quotidiana, ai fatti di cronaca. Durante la sua attività ha ricevuto tanti riconoscimenti. Nel ‘67 e nel ‘68 fu consacrato “Trovatore d’Italia”, alla Sagra dei cantastorie dell’Associazione della categoria; nel 2008 gli venne consegnato l’Ambrogino d’oro, ambito da molti.
Il suo palcoscenico, dunque, piazza San Babila, dove zampilla una fontana artistica e accende le sue luci l’omonimo teatro, dove Ernesto Calindri recitò fra l’altro “Uno sporco egoista” e il mio collega e scrittore Piero Lotito disegnò efficacemente Edoardo De Filippo, seduto davanti a lui. Quando mostrò il lavoro riconobbi subito l’autore di “Natale in casa Cupiello” e di tantissime altre opere teatrali, nonostante fosse ripreso di spalle.
Trincale in piazza

Mi vengono in mente altri cantastorie siciliani, prima di tutti Ciccio Busacca. Alcuni andavano di strada in strada e di paese e paese, ambulanti come i vecchi mestieri, dall’arrotino all’ombrellaio, mentre il caldarrostaio non si muove mai dal punto prescelto. Alcuni cantastorie si rifacevano a testi tramandati dagli antichi che rielaboravano a seconda della propria inventiva. Altri raccontavano l’amore. Trincale no, i suoi argomenti erano altri: stava sempre dalla parte dei poveri, degli ultimi, di chi doveva faticare per guadagnarsi da vivere, di chi non riusciva a tirare fino alla coda del mese. Era un menestrello stanziale, che si ritirò quando la sua barba diventò del tutto bianca.
Trincale ama Militello, ma anche Milano, che apprezza il lavoro e la fatica. Un giorno gli ho domandato: “Tu hai capito perché i meneghini vanno sempre d fretta? Sembra che debbano conquistare un record o riscuotere una vincita al totocalcio o debbano prendere un treno”. “Non lo so, ti assicuro che non lo so, ma la cosa non mi crea problemi, Ognuno va come vuole”. E sorrise. Ormai corriamo anche noi, che veniamo da luoghi in cui i passi sono lenti: paesi del sole, della luce, dei colori squillanti come quelli dei fischietti in terracotta che si fabbricano a Grottaglie e a Rutigliano.
Trincale in piazza Duomo

Vorrei tanto sentirle ancora le cantate di Franco Trincale, ma se si è rifugiato nella Rsa di Baggio vuol dire che ha appeso al muro per sempre la chitarra. E ha arrotolato i cartelloni. Ma lui è iscritto nell’albo d’oro della città, e non solo in questa. Chi può escludere dalla memoria il menestrello venuto da Militello, il paese delle chiese e dei monumenti, quasi 7mila abitanti e sede della Sagra del ficodindia (ogni paese ha la sua sagra: a Crispiano, in terra di Taranto, va in scena quella del peperoncino piccante e a Rutigliano, Bari, quella del fischietto in terracotta, manufatti spesso d’arte che riproducono Benigni, De Sica, Fabrizi ed altrie figure, compresi il farmacista, il vigile urbano, il netturbino, il maresciallo dei carabinieri, chissà perché raffigurato sempre con espressione burbera e le braccia poste come i manici delle giare. Non mi meraviglierei se su uno scaffale di Maria Matarrese ad Alberobello m’imbattessi in un Franco Trincale plasmato nell’argilla.
Franco Trincale ha 88 anni, classe 1936. A vent’anni fece il servizio militare in marina ed era fidanzato con una bellissima ragazza diventata sua moglie. Chissà se da ragazzo già pensava di appostarsi sulla strada per narrare le ferite del pianeta.
Trincale all'opera

Certo oggi non può più tirare il carrello con su il fagotto di scena, ma forse nella struttura di Baggio gli consentiranno almeno qualche volta di fare il Barbapedana, il progenitore dei cantastorie milanesi, l’attore Enrico Molaschi, morto nel 1910, che, con un cappello che richiamava “el barchett de Boffalora” e una zimarra cantava, anche lui con la chitarra, ballate e filastrocche (“El Barbapedana el gh’aveva on gilè/ senza ed denanz cond via ed dedrè/ cont i oggioeu long ona spana/ l’era el gil del Barbapedama…”). Abitava in un piccolo vicolo di Porta Tosa, faceva la spola tra osteria e osteria e interpretava antichi brani popolari che egli stesso aveva scoperto e rimaneggiato. Un altro menestrello milanese fu Giuseppe Beccali, famoso e molto applaudito. Si ispirava a eventi disastrosi, terremoti, risvegli di vulcani…
Tornando a Trincale, nel ‘69 incise tre dischi sulla scomparsa di Ermanno Lavorini a Viareggio, che fece parlare i giornali per mesi. Dodici anni, Ermanno sparì mentre cavalcava la sua bicicletta e fu ritrovato il 12 marzo ‘69 sulla spiaggia di Marina di Vecchiano. Alle ricerche contribuirono anche alcuni veggenti stranieri. Uno diceva di vedere sabbia e alberi. Nei suoi versi Franco Trincale, definito l’ultimo cantastorie, esortava i rapitori a restituire il ragazzo alla sua mamma. Grande Trincale, prima o poi riascolterò i suoi testi.

mercoledì 2 ottobre 2024

Per un vecchio cronista è gioia

RACCONTARE LA MADAMA E I SUOI SPIETATI RIVALI







Jovine, Max Monti, Plantone, Giuliani, Colucci
Il ricordo di poliziotti bravissimi, che hanno risolto casi complicati magari a tempo di record: Oscuri, Plantone, Nardone, Serra, Ninni, Pagnozzi, Jovine.


















FRANCO PRESICCI


Ricevo spesso telefonate, anche quando sono in vacanza a Martina Franca, da giovani colleghi, che mi chiedono una data, il profilo di un personaggio della “mala” o della polizia ai tempi che furono. Mi chiedono di Mario Nardone, Vito Plantone, Enzo Caracciolo, Antonio Pagnozzi, Achille Serra… o delle operazioni anticrimine più rilevanti. Mi fa piacere dare una mano a chi comincia a cimentarsi con un agone difficile per ogni neofita che non sia pronto a consumare scarpe sulle strade e alle lunghe attese dietro la porta di qualche investigatore in via Fatebenefratelli o in un commissariato per carpire notizie. Così, se sto passeggiando nel tratturo, dove il telefonino è meno capriccioso, mi faccio spremere.
Caracciolo, Pagnozzi e Colucci

Alla mia età di solito si chiude l’archivio e si pensa ad altro: per esempio, all’hobby che si sta praticando per passare il tempo. Io, pur stando a riposo da anni, non mi sono mai allontanato da quello che considero un mestiere ricco di soddisfazioni, e non sono avaro di risposte.
Alcune domande riguardano Mario Nardone, detto “il mito”. Andai a trovarlo nel suo ufficio di questore a Como, per un’intervista sulla droga e sui suoi aspetti motivazionali, e una seconda volta a casa sua quando andò in pensione. Era un napoletano cordiale, ma severo e non facile ad esaudire domande su un’indagine, rendendo difficoltoso il lavoro del cronista in anni in cui non c’era la sala-stampa in questura. Con lui collaborarono gli investigatori più abili e più preparati, compreso il maresciallo Ferdinando Oscuri, poliziotto arguto e temuto, nato a San Ferdinando di Puglia. Arrestarono e interrogarono la donna che aveva ucciso la moglie del proprio amante e i suoi figli, negando con forza di aver rivolto l’arma sui bambini, anche quando usci dall’ergastolo. Per far confessare un delitto Nardone e il suo gruppo usavano la testa e non ricorreva mai alle mai.
Così Vito Plantone, di Noci, che fra le sue azioni memorabili ci fu quella dell’arresto di un “boss” famoso non solo in Lombardia sull’orlo della piscina di un lussuoso albergo siciliano. L’uomo era in compagnia del suo luogotenente, di un paio di gregari e delle loro donne. Plantone non estrasse l’arma, ma li convinse ad arrendersi con le buone. Gli stessi metodi adottava Enzo Caracciolo, un bell’uomo alto, atletico, colto, capelli bianchi, austero. Lo conobbi agli albori degli anni Settanta, quando era capo della Squadra Mobile. All’epoca Achille Serra era un giovane commissario alle Volanti, con Micalizio, D’Orta e altri.
Plantone e Borsellino

Spesso la notte andavo a trovarli per cogliere l’umore della città. Enzo Caracciolo si presentava in ufficio all’improvviso, anche alle 23; e qualche poliziotto piombava nella centrale operativa per avvertire: “C’è il capo”. Io stavo facendo un’inchiesta sulla prostituzione e il commissario Enzo Sciscio, di Stornara, mi ospitava su una macchina della polizia per farmi vedere la vita della città di notte e le schiere di “falene” appostate sotto un palo della luce o ai margini dei marciapiedi. Ero autorizzato dal questore Allitto Bonanno, che non considerava i cronisti come zecche.
Cominciai così a conoscere Milano e l’ambiente e gli uomini della questura. Sciscio era spiritoso, a volte goliardico, ma un’ottima persona, soprattutto un poliziotto nato: intelligente, già esperto, preparato. Stabilimmo subito un bel rapporto. Anni dopo lo ritrovai vicequestore e dirigente del commissariato Scalo Romana, dove aveva le sue gatte da pelare. Nel suo “staff” c’erano i marescialli Mario Parretta, Ennio Gregolin, l’agente Peppe De Feo, poi promosso…
Gino Cervi, Allitto Bonanno, Caracciolo a destra

Un giorno arrivai quando avevano sequestrato un camion di trenini; un altro avevano arrestato “Alì Babà”, il soprannome nell’ambito della malavita di un ricettatore, che, si diceva, aveva i suoi tesori anche in Svizzera. Lo vidi mentre lo portavano a San Vittore, e lui in manette supplicava gli agenti di prendersi cura del suo gatto (“Adesso che io vado al ‘gabbio’, chi gli darà da mangiare, chi lo accarezzerà?”, e piangeva). Da quelle parti abitava un vecchietto arzillo che spacciava, vivendo con una ragazza a cui gli stupefacenti avevano fatto cadere tutti i denti e lui calava un po’ di soldi in un salvadanaio per pagare il dentista. Almeno così sosteneva.
Fuori del commissariato, oggi un locale in cui si preparano panini con i nomi dei più noti rappresentanti della “mala”, incappai in un personaggio che dopo essere stato acciuffato per un grosso reato si era dato allo spaccio. Era stato preso in un bar dopo una colluttazione proprio da Gregolin, cintura nera di karate. Una mattina quasi tutto il commissariato, escluso ovviamente il piantone, salì sulle auto partendo a razzo verso il luogo in cui, secondo la segnalazione di un contadino, era tenuto prigioniero un industriale. Li seguii con la mia vettura: il covo c’era, con una branda, qualche trabiccolo e pezzi di formaggio, ma non il rapito.
Ninni, secondo a sinistra

Fermarono una ragazza sui vent’anni che si era fatta portare da un taxi a Lodi, uscì dicendo all’autista di aspettare. Dopo dieci minuti tornò per farsi riportare a Milano, ma confessò di non avere una lira. Il ritorno si concluse al commissariato. Mentre la portavano via su un’ambulanza verso il reparto psichiatrico del Policlico, perché dava segni di alterazione mentale, cantava “Sotto la tunica sono nuda, il mio corpo è tutto tatuato, domani mi ucciderò...”. Con me c’era il collega Carlo De Barberis, da tempo scomparso in Costa Azzurra. Due giorni dopo, il mattino presto un tale la vide tuffarsi nelle acque dell’Idroscalo con le braccia allargate, come se volesse volare”. Lo stesso De Barberis, colta la notizia da un “trombettiere” (informatore), corse sul posto e mi telefonò. “Credo sia la donna che abbiamo visto ieri sera mentre la sistemavano sull’autolettiga”. Era lei: lo accertarono i carabinieri, che ci mandarono una fotografia nel tentativo di consentire il riconoscimento e reperire eventuali familiari.
Qualunque cronista che abbia consumato scarpe ha questo bagaglio di ricordi, che, se ne ha voglia, travasa nel carniere del pivello desideroso di raccogliere accadimenti che un giorno gli possono essere utili. Soprattutto personaggi di spicco delle forze dell’ordine. Mi viene in mente Filippo Ninni, che aveva molti meriti: individuò in breve tempo gli assassini di un famoso nome della moda e all’epoca in cui guidava il commissariato Cenisio fece tante di quelle “brillanti” che gli stessi malavitosi lo indicavano come ispettore Callagan. Ninni, di Taranto, è stato anche dirigente della Squadra Mobile di Milano e come tale portò a termine diverse operazioni anticrimine. Ebbe anche a che fare con una pericolosa pellaccia che accusò un malessere per farsi trasferire dal “gabbio” all’ospedale Fatebenefratelli, dove improvvisò un trambusto squagliandosela in tutta fretta.
Mario Nardone e Caracciolo

I ricordi si susseguono e a volerli fermare rompono gli argini. Uno dei miei ascoltatori prossimo a diventare un segugio come quelli di una volta, mi sollecita e io non mi tiro indietro. Gli raccontò anche la bravura dei cronisti della cosiddetta vecchia guardia. Tra questi, Arnaldo Giuliani e Fabio Mantica, del “Corriere della Sera”; Patrizio Fusar e Giancarlo Rizza, del “Giorno”, Eugenio Falletta, transfuga da “L’Italia” per il giornale di via Solferino, dove in cronaca spiccava anche Max Monti... Mantica ebbe da Franco Di Bella, allora capocronista del “Corriere”, di andare a cercare Joe Adonis e intervistarlo, Impresa ardua, perché l’indirizzo era sconosciuto e il cronista era un castoro ma non un indovino. Alla fine l’angelo custode lo illuminò prendendo le sembianze di un informatore e Mantica dopo aver sgambato per giorni come i maratoneti della Stramilano, riempì il taccuino.
La vita del cronista è complicata, ma se la si affronta con passione, senza guardare l’orologio e senza cedere alla stanchezza, si hanno grandi soddisfazioni, come quella del cane da tartufo che dopo aver annusato qua e là scopre il “tesoro”. Non sempre la tenacia premia, ma quando succede tocchi il cielo con un dito. Giuliano e Mantica si appiattirono una notte sull’erba dell’Idroscalo, assistendo a un duello rusticano, di cui poi si occupò il maresciallo Ferdinando Oscuri, nato a San Ferdinando che aveva risolto delitti in tempi da record.
Colaprico e Alberto Sala

Quanto l’ho ascoltato il caro Ferdinando! Si era ammalato e andavo spesso a fargli visita, a volte con il vicequestore Fabiani, brindisino stimatore di questa colonna di via Fatebenefratelli. Durante la visita rimanevo in piedi vicino al suo letto, ammirando la sua voglia di raccontare, forse pensando che avrei scritto un libro. Il libro non l’ho scritto, ma ho scritto tante pagine anche sul “Giorno”, definendolo un Ercole che aveva l’intuito di Poirot. Potrei dire tanto anche di Antonio Pagnozzi, uomo straordinario e poliziotto di stoffa pregiata. “Per salvare un rapito, ci siamo inventati molti scioperi per alleggerire il riscatto richiesto per il rilascio di un imprenditore”, mi disse quando era capo della Criminalpol, prima della nomina a questore e poi a prefetto. E di Paolo Scarpis, di Raffaele Valentini, di Salvatore Arcodia, di Lecce, di Francesco Colucci, che arrestò a Misiano di Rimini due luogotenenti del capo di un clan spietato. E dell’ispettore Alberto Rocco Maria Sala, che collaborò con l’Fbi e fece indagini in mezzo pianeta. Alla mia età fa piacere condividere spazio e tempo con gli altri e narrare. Il mio grande collega Piero Colaprico, già inviato speciale di “Repubblica” e autore di colpi notevoli, scrive libri di successo e dirige il famoso Teatro Gerolamo. Io trasmetto le mie memorie.