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mercoledì 2 ottobre 2024

Per un vecchio cronista è gioia

RACCONTARE LA MADAMA E I SUOI SPIETATI RIVALI







Jovine, Max Monti, Plantone, Giuliani, Colucci
Il ricordo di poliziotti bravissimi, che hanno risolto casi complicati magari a tempo di record: Oscuri, Plantone, Nardone, Serra, Ninni, Pagnozzi, Jovine.


















FRANCO PRESICCI


Ricevo spesso telefonate, anche quando sono in vacanza a Martina Franca, da giovani colleghi, che mi chiedono una data, il profilo di un personaggio della “mala” o della polizia ai tempi che furono. Mi chiedono di Mario Nardone, Vito Plantone, Enzo Caracciolo, Antonio Pagnozzi, Achille Serra… o delle operazioni anticrimine più rilevanti. Mi fa piacere dare una mano a chi comincia a cimentarsi con un agone difficile per ogni neofita che non sia pronto a consumare scarpe sulle strade e alle lunghe attese dietro la porta di qualche investigatore in via Fatebenefratelli o in un commissariato per carpire notizie. Così, se sto passeggiando nel tratturo, dove il telefonino è meno capriccioso, mi faccio spremere.
Caracciolo, Pagnozzi e Colucci

Alla mia età di solito si chiude l’archivio e si pensa ad altro: per esempio, all’hobby che si sta praticando per passare il tempo. Io, pur stando a riposo da anni, non mi sono mai allontanato da quello che considero un mestiere ricco di soddisfazioni, e non sono avaro di risposte.
Alcune domande riguardano Mario Nardone, detto “il mito”. Andai a trovarlo nel suo ufficio di questore a Como, per un’intervista sulla droga e sui suoi aspetti motivazionali, e una seconda volta a casa sua quando andò in pensione. Era un napoletano cordiale, ma severo e non facile ad esaudire domande su un’indagine, rendendo difficoltoso il lavoro del cronista in anni in cui non c’era la sala-stampa in questura. Con lui collaborarono gli investigatori più abili e più preparati, compreso il maresciallo Ferdinando Oscuri, poliziotto arguto e temuto, nato a San Ferdinando di Puglia. Arrestarono e interrogarono la donna che aveva ucciso la moglie del proprio amante e i suoi figli, negando con forza di aver rivolto l’arma sui bambini, anche quando usci dall’ergastolo. Per far confessare un delitto Nardone e il suo gruppo usavano la testa e non ricorreva mai alle mai.
Così Vito Plantone, di Noci, che fra le sue azioni memorabili ci fu quella dell’arresto di un “boss” famoso non solo in Lombardia sull’orlo della piscina di un lussuoso albergo siciliano. L’uomo era in compagnia del suo luogotenente, di un paio di gregari e delle loro donne. Plantone non estrasse l’arma, ma li convinse ad arrendersi con le buone. Gli stessi metodi adottava Enzo Caracciolo, un bell’uomo alto, atletico, colto, capelli bianchi, austero. Lo conobbi agli albori degli anni Settanta, quando era capo della Squadra Mobile. All’epoca Achille Serra era un giovane commissario alle Volanti, con Micalizio, D’Orta e altri.
Plantone e Borsellino

Spesso la notte andavo a trovarli per cogliere l’umore della città. Enzo Caracciolo si presentava in ufficio all’improvviso, anche alle 23; e qualche poliziotto piombava nella centrale operativa per avvertire: “C’è il capo”. Io stavo facendo un’inchiesta sulla prostituzione e il commissario Enzo Sciscio, di Stornara, mi ospitava su una macchina della polizia per farmi vedere la vita della città di notte e le schiere di “falene” appostate sotto un palo della luce o ai margini dei marciapiedi. Ero autorizzato dal questore Allitto Bonanno, che non considerava i cronisti come zecche.
Cominciai così a conoscere Milano e l’ambiente e gli uomini della questura. Sciscio era spiritoso, a volte goliardico, ma un’ottima persona, soprattutto un poliziotto nato: intelligente, già esperto, preparato. Stabilimmo subito un bel rapporto. Anni dopo lo ritrovai vicequestore e dirigente del commissariato Scalo Romana, dove aveva le sue gatte da pelare. Nel suo “staff” c’erano i marescialli Mario Parretta, Ennio Gregolin, l’agente Peppe De Feo, poi promosso…
Gino Cervi, Allitto Bonanno, Caracciolo a destra

Un giorno arrivai quando avevano sequestrato un camion di trenini; un altro avevano arrestato “Alì Babà”, il soprannome nell’ambito della malavita di un ricettatore, che, si diceva, aveva i suoi tesori anche in Svizzera. Lo vidi mentre lo portavano a San Vittore, e lui in manette supplicava gli agenti di prendersi cura del suo gatto (“Adesso che io vado al ‘gabbio’, chi gli darà da mangiare, chi lo accarezzerà?”, e piangeva). Da quelle parti abitava un vecchietto arzillo che spacciava, vivendo con una ragazza a cui gli stupefacenti avevano fatto cadere tutti i denti e lui calava un po’ di soldi in un salvadanaio per pagare il dentista. Almeno così sosteneva.
Fuori del commissariato, oggi un locale in cui si preparano panini con i nomi dei più noti rappresentanti della “mala”, incappai in un personaggio che dopo essere stato acciuffato per un grosso reato si era dato allo spaccio. Era stato preso in un bar dopo una colluttazione proprio da Gregolin, cintura nera di karate. Una mattina quasi tutto il commissariato, escluso ovviamente il piantone, salì sulle auto partendo a razzo verso il luogo in cui, secondo la segnalazione di un contadino, era tenuto prigioniero un industriale. Li seguii con la mia vettura: il covo c’era, con una branda, qualche trabiccolo e pezzi di formaggio, ma non il rapito.
Ninni, secondo a sinistra

Fermarono una ragazza sui vent’anni che si era fatta portare da un taxi a Lodi, uscì dicendo all’autista di aspettare. Dopo dieci minuti tornò per farsi riportare a Milano, ma confessò di non avere una lira. Il ritorno si concluse al commissariato. Mentre la portavano via su un’ambulanza verso il reparto psichiatrico del Policlico, perché dava segni di alterazione mentale, cantava “Sotto la tunica sono nuda, il mio corpo è tutto tatuato, domani mi ucciderò...”. Con me c’era il collega Carlo De Barberis, da tempo scomparso in Costa Azzurra. Due giorni dopo, il mattino presto un tale la vide tuffarsi nelle acque dell’Idroscalo con le braccia allargate, come se volesse volare”. Lo stesso De Barberis, colta la notizia da un “trombettiere” (informatore), corse sul posto e mi telefonò. “Credo sia la donna che abbiamo visto ieri sera mentre la sistemavano sull’autolettiga”. Era lei: lo accertarono i carabinieri, che ci mandarono una fotografia nel tentativo di consentire il riconoscimento e reperire eventuali familiari.
Qualunque cronista che abbia consumato scarpe ha questo bagaglio di ricordi, che, se ne ha voglia, travasa nel carniere del pivello desideroso di raccogliere accadimenti che un giorno gli possono essere utili. Soprattutto personaggi di spicco delle forze dell’ordine. Mi viene in mente Filippo Ninni, che aveva molti meriti: individuò in breve tempo gli assassini di un famoso nome della moda e all’epoca in cui guidava il commissariato Cenisio fece tante di quelle “brillanti” che gli stessi malavitosi lo indicavano come ispettore Callagan. Ninni, di Taranto, è stato anche dirigente della Squadra Mobile di Milano e come tale portò a termine diverse operazioni anticrimine. Ebbe anche a che fare con una pericolosa pellaccia che accusò un malessere per farsi trasferire dal “gabbio” all’ospedale Fatebenefratelli, dove improvvisò un trambusto squagliandosela in tutta fretta.
Mario Nardone e Caracciolo

I ricordi si susseguono e a volerli fermare rompono gli argini. Uno dei miei ascoltatori prossimo a diventare un segugio come quelli di una volta, mi sollecita e io non mi tiro indietro. Gli raccontò anche la bravura dei cronisti della cosiddetta vecchia guardia. Tra questi, Arnaldo Giuliani e Fabio Mantica, del “Corriere della Sera”; Patrizio Fusar e Giancarlo Rizza, del “Giorno”, Eugenio Falletta, transfuga da “L’Italia” per il giornale di via Solferino, dove in cronaca spiccava anche Max Monti... Mantica ebbe da Franco Di Bella, allora capocronista del “Corriere”, di andare a cercare Joe Adonis e intervistarlo, Impresa ardua, perché l’indirizzo era sconosciuto e il cronista era un castoro ma non un indovino. Alla fine l’angelo custode lo illuminò prendendo le sembianze di un informatore e Mantica dopo aver sgambato per giorni come i maratoneti della Stramilano, riempì il taccuino.
La vita del cronista è complicata, ma se la si affronta con passione, senza guardare l’orologio e senza cedere alla stanchezza, si hanno grandi soddisfazioni, come quella del cane da tartufo che dopo aver annusato qua e là scopre il “tesoro”. Non sempre la tenacia premia, ma quando succede tocchi il cielo con un dito. Giuliano e Mantica si appiattirono una notte sull’erba dell’Idroscalo, assistendo a un duello rusticano, di cui poi si occupò il maresciallo Ferdinando Oscuri, nato a San Ferdinando che aveva risolto delitti in tempi da record.
Colaprico e Alberto Sala

Quanto l’ho ascoltato il caro Ferdinando! Si era ammalato e andavo spesso a fargli visita, a volte con il vicequestore Fabiani, brindisino stimatore di questa colonna di via Fatebenefratelli. Durante la visita rimanevo in piedi vicino al suo letto, ammirando la sua voglia di raccontare, forse pensando che avrei scritto un libro. Il libro non l’ho scritto, ma ho scritto tante pagine anche sul “Giorno”, definendolo un Ercole che aveva l’intuito di Poirot. Potrei dire tanto anche di Antonio Pagnozzi, uomo straordinario e poliziotto di stoffa pregiata. “Per salvare un rapito, ci siamo inventati molti scioperi per alleggerire il riscatto richiesto per il rilascio di un imprenditore”, mi disse quando era capo della Criminalpol, prima della nomina a questore e poi a prefetto. E di Paolo Scarpis, di Raffaele Valentini, di Salvatore Arcodia, di Lecce, di Francesco Colucci, che arrestò a Misiano di Rimini due luogotenenti del capo di un clan spietato. E dell’ispettore Alberto Rocco Maria Sala, che collaborò con l’Fbi e fece indagini in mezzo pianeta. Alla mia età fa piacere condividere spazio e tempo con gli altri e narrare. Il mio grande collega Piero Colaprico, già inviato speciale di “Repubblica” e autore di colpi notevoli, scrive libri di successo e dirige il famoso Teatro Gerolamo. Io trasmetto le mie memorie.

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