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mercoledì 29 gennaio 2025

Il direttore di “Umanesimo della Pietra”

NICO BLASI ACCOLTO NELL’UNESCO PER I SUOI ALTI MERITI CULTURALI




Nico Blasi
La storia di Nico, le sue iniziative, la sua profonda cultura gli hanno fatto meritare appieno questa soddisfazione, come altre ricevute nel tempo.
















FRANCO PRESICCI


La notizia è di quelle che ti riempiono il cuore. E io l’ho letta con grande piacere. Nico Blasi, direttore dell’interessantissima rivista “Umanesimo della Pietra” (responsabile Agostino Quero), è stato nominato socio benemerito del Club dell’Unesco di Bisceglie. La cerimonia si è svolta a Napoli nella sala del tesoro di San Gennaro. Un riconoscimento non da poco anche per gli estimatori di questo intellettuale severo, che fa onore a Martina e alla Puglia.
Copertina di Umanesimo
Anni fa fu incluso come socio onorario nel Rotary Club di Merate, dove ogni volta veniva accolto come un principe; e durante una manifestazione tenne, tra altre – una dotta conferenza sulla Puglia che attirò l’attenzione e l’interesse dei partecipanti per un’ora e mezza. Ero seduto a un tavolo con l’industriale di Manduria Gildo Bandelli e un magistrato meridionale. La gentilissima Delly Giuliani Gatti, che era stata presidente della sezione femminile del prestigioso sodalizio, mi diceva: “I suoi interventi sono lezioni universitarie” . Tra l’altro Nico parlò, con semplicità e speditezza da conoscitore profondo dell’argomento, dell’uomo di Altamura (si pensa vissuto circa 180 mila anni fa), i cui resti furono scoperti nella grotta di Amalunga.
Adesso è l’Unesco ad includerlo nella sua famiglia, grazie ai tantissimi meriti che Nico Blasi ha sul suo medagliere. Io l’ho sempre seguito e ho trascorso ore con lui, quando avevo la possibilità di stare per mesi a Martina. Andavo a trovarlo nel suo ufficio nel ringo, in uno stabile signorile che sapeva di antico, e quando si trasferì in via Caracciolo, una via accucciata dietro la basilica di San Martino. Purtroppo, ho smesso quando armi e bagagli è passato in un locale del Comune in piazza Roma, dove le gambe scricchiolanti s’inceppano e non mi permettono di affrontare le scale. Peccato davvero. Gli anni avanzano.
Quando conversavo con lui avevo sempre qualcosa da imparare. Una sera amici di “Umanesimo” mi portarono ad Alberobello, dove il professor Liuzzi teneva una conferenza nel Trullo Sovrano, presentato da Nico come sempre senza retorica e parole inutili. Lui è un uomo concreto, oltre che dotto, e non ama i discorsi circolari e noiosi. Quando spiega un concetto è sempre chiaro e sintetico. I suoi discorsi sono come l’acqua della fontana dell’angolo: l’apri, riempi la bottiglia e la chiudi. L’ho ascoltato nella chiesa di San Francesco, che è quasi ai margini tra città e campagna. Su Santa Comasia. L’ho ascoltato alle presentazioni di “Umanesimo della Pietra”, sempre affollate, e l’ho ascoltato in tante altre circostanze, anche in agosto, alla commemorazione di Elio Greco in un salone di Palazzo Ducale (Leo Pizzigallo, sempre cortese e disponibile, fedele a “Umanesimo e rispettoso di Nico, mi ha guidato fino all’ascensore). Intervento succoso, breve, lucido ed efficace.
Alfredo Aquaro e Michele Annese

Pubblicai sul “Giorno” la cronaca della serata da lui organizzata all’Università di Bari sul Rutilio e un’altra di un pomeriggio in piena Valle d’Itria, tra il profumo dei fiori, la vista di vigneti gravidi, di ulivi dal tronco imponente. Scrissi anche della passeggiate del plenilunio d’agosto allestita dal compianto Alfredo Aquaro, notaio a Milano e grande uomo di fede. Non potevo più cavalcare la sella e non potetti infilarmi nel corteo di pedalatori diretti ad una masseria, fulcro del lavoro contadino, dove Nico Blasi all’arrivo, descriveva con sapienza le linee architettoniche, la storia, la produzione e la sua qualità antica e recente della struttura rurale… I ciclisti lo ascoltavano a bocca aperta, felici di scoprire il fascino di luoghi a loro fino a quel momento sconosciuti.
Prima di ripartire Aquaro dava a ciascuno un regalo e una volta a Benvenuto Messia addirittura una tre ruote fiammante. Lo ricordo spesso, Alfredo Aquaro. Lo rividi l’ultima volta in coda alla processione della Madonna della Consolata in via Papa Domenico, che si allarga proprio di fronte a quella chiesa. Scioltosi il corteo liturgico, Aquaro acquistò mezzo sacchetto di arachidi e nocciole per due bimbi sfortunati che gli stavano a cuore. Ma questa è un’altra storia, sicuramente nota a Nico Blasi, amico fraterno del notaio, che aveva lo studio in Foro Bonaparte.
Abbascia' e Nico Blasi
Una sera, con Oronzo Carbotti, collaboratore di “Umanesimo” con articoli sui mestieri di una volta e sulle tradizioni, lo seguii fino all’ospedale, dove lui doveva passare la notte per assistere il padre, ricoverato da giorni. Grazie a lui, giorni dopo, conobbi un bravissimo ebanista di cognome Brescia, che faceva sculture di alto livello ed era in grado di rispondere con garbata e singolare ironia a quella di NicoBlasi, spiritoso e divertente. Sarebbero tanti gli episodi da snocciolare.
A volte m’invitava nella tipografia in cui stava confezionando il giornale, in letizia. Di quando in quando fa le cose serie giocando, senza mai distrarsi. Peppino Montanaro, tanti anni fa solerte collaboratore del sindaco Alberico Motolese e lettore accanito di libri e quotidiani (appassionato ai racconti di Gaetano Afeltra, al quale mi fece portare un piccolo trullo di Peppino Cito), nella sua campagna mi disse: “Se Nico Blasi a Martina non ci fosse, bisognerebbe inventarlo”. Pierino Pavone, noto cappottaro di Martina con punto vendita a Cutrofiamo, nel Leccese, con la mente piena delle imprese di papa Galeazzo, durante una passeggiata serale tra le vie e viuzze della città dei trulli e del belcanto, parlandomi del suo mestiere e “du Curdunnìdde”, riferendosi a Nico disse: “Quello è geniale”.
Dino Abbascia' in bici

Infaticabile, un’idea dietro l’altra, grande ricercatore, conoscitore anche di masserie, grande comunicatore, quando passa per le vie della sua Martina tanti lo salutano con rispetto, altri con confidenza, altri ancora gli stringono la mano. Entra spesso dal giornalaio di piazza Roma, dove Paolo, il titolare, lo accoglie fraternamente. Giovani universitari gli chiedono suggerimenti e notizie; una ragazza lo pregò di accompagnarla con le sue amiche e colleghe in una visita a Palazzo Ducale, ricco di dipinti. E’ un personaggio.
Fu il principe di una serata dedicata a Martina allestita dal Rotary di Merate in un salone di Burago Molgora. Una serata sfavillante con il profumo del rosmarino regalato a pacchi da Dino Abbascià, imprenditore ortofrutticolo di Bisceglie con impero a Milano, e quello delle mozzarelle fatte sul posto da Fragnelli e da servire dopo le orecchiette e ogni altro cibo portato, con cuochi e chef da Martina da Paolo Centrone del Park Hotel San Michele. E anche in quella manifestazione Nico fece il suo brillante intervento, in cui spiegò le qualità dei piatti, mentre il compianto Dino Abbascià, che lo stimava moltissimo, non smetteva di battere le mani. Serata memorabile in cui lui ebbe il posto migliore come socio onorario del club e come martinese illustre.
Fragnelli al lavoro

Nico è un uomo generoso e disponibile. Se lo citi, se scrivi di lui si affretta a chiamarti per ringraziarti. Con me lo ha fatto più volte. Anche quando nella celebrazione dei 700 anni di Martina al Circolo della Stampa di Milano, nel Palazzo Serbelloni in corso Venezia, accennai a lui e a “Umanesimo della Pietra”. In quel salone lo conoscevano tutti: la Sala Montanelli era così gremita che parte del pubblicò debordava nelle sale contigue. Fu Dely Gatti a riferirgli che io avevo accennato, presenti Franco Punzi, presidente del Festival della Valle d’Itria. In seguito venne al Circolo personalmente per la presentazione di un bellissimo volume di foto sulla Puglia e fu intervistato da un cronista dell’Ansa.
Non riesco a ricordare quando l’ho incontrato la prima volta, e dove. A volte il cassettone della memoria non si apre o fa fatica; poi all’improvviso, come per dispetto si spalanca. Ma questo non è elemento indispensabile nell’economia del discorso. L’importante è averlo conosciuto. Adesso non lo vedo, ma ogni tanto lo sento. A volte per salutarlo, altre volte per chiedergli una notizia. Lui sempre pronto a dare risposte adeguate.
Le Noci e Fontana
Non deve avere un buon rapporto con il telefono. In verità è un po’ burbero; ma, se la chiedi, una mano te la dà. Un giorno mi regalò un’arnia a forma piramidale, spettacolare. Non lo fece per disfarsene, perché tra l’altro ben figurava su un mobile del suo ufficio nel ringo, ma per farmi piacere: un gesto di cortesia, di amicizia. Una domenica in piazza Roma gli presentai Francesco Colucci, questore di Lecce e già capo della Squadra Mobile di Milano, e dopo una cordiale conversazione, rimasti soli davanti a una fumante pasta con i ceci indiavolata da un habanero, a casa mia, in via Alfieri, nel centro storico, Francesco commentò: “Sono contento, ho conosciuto una persona ammirevole”. Avrei voluto incontrarlo quando tanto tempo fa Nico stava a Milano con un altro grande martinese, mercante d’arte di respiro europeo e gallerista in via Brera: il notissimo Guido Le Noci, altro suo amico. Ebbe rapporti anche con Paolo Grassi. Oggi sono lieto di sapere che è entrato a far parte dell’Unesco.

mercoledì 22 gennaio 2025

Accolse D’Annunzio e Ungaretti

LA LIBRERIA MANDESE A TARANTO HA SPENTO PER SEMPRE LE LUCI



La "Casa del libro"

Era anche casa editrice: i suoi volumi hanno la firma di autori di rilievo: Giacinto Peluso, Giuseppe
Francobandiera e tanti altri. Molti usano “Il dizionario della parlata tarantina” di Gigante, pubblicato dalla Casa del Libro. Un’epoca si chiude.









FRANCO PRESICCI




Sino a qualche mese fa in via D’Aquino, a Taranto, c’era “La Casa del Libro”. E’ rimasta soltanto l’insegna. I libri dentro occupano ancora gli scaffali, ma presto saranno trasferiti altrove. Quel tempio era di Nicola Mandese, che l’aveva ereditata dal padre Antonio, uomo buono, gentile, occhiali spessi, bassino, solerte, sempre in giacca e cravatta.
Cav. Antonio Mandese

Era anche editore, soprattutto di volumi che riguardavano la città e poesie di grandi nomi, tra cui Claudio De Cuia (viene in mente “Arie de Paschje”), “Zazzareddire” di Alfredo Nunziato Majorano, il “Dizionario della parlata tarantina”, di Nicola Gigante , “La città al Borgo – Taranto fra ‘800 e ‘900” con interventi di firme nobili, come quelle di P. Massafra, R. Nistri, P. Mandrillo. G. Francobandiera…).
Prima si essere alloggiata nella via dello struscio, la storica libreria, stava in via De Cesare, di fronte a una latteria. E lì collaborava anche un fratello del cavalier Antonio, che poi apri un ufficio in via Di Palma. Da Mandese entravano anche allora personalità famose e il cavaliere era sempre premuroso, sorridente, ossequioso. Io allora avevo 14 anni e in estate, non amando andare al mare o giocare al pallone in strada con la palla di pezza e le porte fatte con le pietre, andavo in libreria a fare il garzone. In cambio a volte ricevevo un libro che divoravo subito. Ricordo “Il cavalier de Lagardère” e “I tre moschettieri”. La lettura mi ha sempre assorbito, tanto che quando in libreria non c’erano clienti mi tuffavo in qualche testo di Salgari. Il cavaliere aveva verso di me un atteggiamento paterno. E quando andavo a fargli visita nelle mie rimpatriate da Milano mi accoglieva come uno di famiglia. Seppi nel capoluogo lombardo che Antonio Mandese non c’era più e che la “Casa del Libro” continuava l’attività con il figlio Nicola, che ha ereditato dal padre la gentilezza e la disponibilità.
Nicola Mandese
Nicola mi raccontava la vita di Taranto, mi diceva che la stessa via D’Aquino era cambiata (e questo lo vedevo anch’io) e che se facevo un salto in viale Magna Grecia, mi sarei perso tra le nuove vie e viuzze, intorno alla piazzetta in cui si svolgeva il mercatino delle pulci, dove si potevano trovare perfino i cardellini in gabbia per 10 euro l’uno. Io per un euro comprai la storia della letteratura greca di Gennaro Perrotta e la Letteratura latina di Concetto Marchesi, che avevo usato al liceo. Questione di nostalgia. Nicola mi telefonava a Milano e in una di questi squilli mi comunicò che era morto Giacinto Peluso, un gentiluomo che conoscevo da quando avevo 17 anni. Chissà quante volte ho letto il suo “Taranto da un ponte all’altro”, con gioia, con piacere. Nicola si commosse quando gli dissi che un giorno su un pullman che andava a Solito mi sentii chiamare da una voce squillante: mi avvicinai a un signore basso, calvo, che mi sommerso di domande. Bastò una parola per capire che era lui, il professor Peluso. Mi commossi anch’io, quando mi ricordai che Giacinto un mese prima mi aveva mandato l’ultima sua opera restituendomi un’”ex libris” che gli avevo regalato 50 anni prima. In un biglietto era scritto: “A me non serve più”. Grande, caro Giacinto.
Giacinto Peluso e Nicola Mandese

Nella Casa del libro avvertivo sempre la sua presenza, come quella del cavalier Antonio. E, quando il tempio della cultura si svuotava o il flusso della clientela si alleggeriva mi si avvicinava Nicola e parlavamo di Giacinto, Mandrillo, Barbalucca, De Cuia, Marturano. Franconbandiera, Majorano, Diego Fedele... E poi Nicola mi raccontava di Raphael Alberti, Sandra Milo Riccardo Bacchelli, Vittorio Gorresio, che erano entati tutti nella sua libreria. Nicola organizzava anche iniziative interessanti.. Proprio davanti al suo ingresso allestì un tavolo, a cui si sedettero il professor Francesco Sabbatini, dell’Accademia dei Lincei, ed altri per parlare di letteratura; e poi una bella manifestazione in cui si avvicendarono i cittadini per leggere ciascuno una pagina di Kafka. Era una serata fredda eppure la gente uscì per prendere parte a quell’incontro.
La Casa del libro era già stata inserita nell’elenco delle librerie storiche. Nicola ne andava orgoglioso e mi telefonò ringraziandomi per aver pubblicato un trafiletto sul “Giorno”, come avevo fatto in occasione dell’uscita di una sua creatura, grazie a Giancarlo Vigorelli, grande critico letterario che curava le pagine culturali del quotidiano. Pubblicai tanti articoli sulla libreria tarantina. Una volta un nipote di Nicola riuscì a vincere la ritrosia di Claudio De Cuia, invitandolo a parlare delle sue poesie. E questo voleva fare Nicola quando ha abbassato la saracinesca ed era indeciso su che cosa fare della sua attività. Trasformare il luogo in un’istituzione culturale con un programma denso di incontri con i cittadini (conferenze, dialoghi con i grandi scrittori, premi letterari…). Poi non se n’è fatto nulla e il sacrario ha spento le luci.
Riccardo Bacchelli  e Antonio Mandese

Quando una libreria chiude è un pezzo importante della città che se va. Infatti ai tarantini la Casa del Libro manca. Manca anche a me. Sono tornato e ho sentito l’impulso di fare un salto a Taranto, ma non ho trovato un passaggio e ho pensato che vedere quel luogo del cuore mi avrebbe procurato malinconia. E ho frenato i ricordi pensando ad altro. Ma mi era difficile chiudere momentaneamente la porta ai poeti, da Alfredo Lucifero Petrosillo, che tra l’altro per un periodo diresse con abilità e bravura “’U panarijdde” di Leggeri, a Diego Fedele, amico mio da quando ero ragazzo pieno di sogni, ad Alfredo Nunziato Majorano, che andava nella città vecchia per ascoltare il dialetto dalle labbra dei pescatori, per venerare Mar Piccolo, “’u màre peccerjidde”, di cui a me piace ascoltare la musica “ca fàce nazzecà’ le lambàre” e il profumo che spande tutt’intorno. “Tàrde vècchie mije” ha scritto Majorano. “Cande ‘stu Tarde vecchie“ Diego Fedele. “Tàrde vècchie mjie”, recito io, pur non essendo un poeta e non avendo grande dimestichezza con il dialetto, che adoro.
Nicola Mandese, il padre Antonio, Bacchelli
Martedì 5 marzo “Il Corriere di Taranto” titolava: “La Casa del Libro” di Nicola Mandese saluta definitivamente”. “Le saracinesche sono state abbassate per l’ultima volta dalla dipendente Vita Tortorella, dopo 30 anni di servizio…La città perde un punto di riferimento”. “La Repubblica” ricorda che tra quegli scaffali s’intrattennero Gabriele d’Annunzio e Giuseppe Ungatetti. Peccato! Dolore per chi è affezionato a Taranto e alla sua storia e alla sua vita culturale. Una libreria storica attiva dal 1920 non c’è più. Immagino la nostalgia di chi passa da quel tratto di via D’Aquino, di fronte al bar che colloca i suoi tavoli in mezzo alla strada, chiusa al traffico.
“La Casa del libro” era nota a tutti, non soltanto in Puglia, ma anche ai tanti turisti che sciamano nella città, magari per andare a fare il bagno a Canneto Beach o su spiagge libere e dorate sulla Litoranea.
Antonio Mandese e Sandra Milo

“La Casa del libro” poteva diventare un centro di aggregazione, un’istituzione culturale, come hanno ribadito gli stessi giornali e tanti altri che hanno fatto il panegirico della libreria, che accolse anche Sandra Milo, ai tempi in cui il “dominus” era il cavaliere Antonio. Nicola continua a sperare che la sua libreria possa essere, per esempio, trasformata in un luogo in cui si svolgano dialoghi tra i lettori e gli autori, tra gli arredi e gli scaffali ancora pieni di libri. Per questo ha avuto contatti con il Comune, che non ha risposto come molti si aspettavano. Il sindaco avrà avuto le sue ragioni, Nicola pure, con gli acciacchi che da un po’ di tempo gli rendono la vita difficile, ma una soluzione onorevole per la “Casa del Libro” bisognerebbe trovarla. Era un vanto per la Bimare. Il riconoscimento di libreria storica gli venne anni fa da Milano e fu una giornata luminosa. Purtroppo le librerie chiudono anche a Milano, dov’è scomparsa la libreria di Nicola Partipilo. Storica anche quella. Vide entrare grandi personalità, tra cui Enzo Biagi e Gianni Brera.

mercoledì 15 gennaio 2025

Le voci dentro le mura della città

CATALDO SFERRA RACCONTA IN DIALETTO LA TARANTO ANTICA



Sferra discute su Taranto
Nel suo libro c’è un po’ anche il borgo meno lontano: Marche Polle, lo strillone che vendeva strada per strada “’U Panarijdde” e le schedine della Sisal e del Totip.

















FRANCO PRESICCI



Immagino Cataldo Sferra passare le ore chino sui libri a rispolverare pagine, chiuso in una stanza per non essere disturbato, mentre fa ricerche sulla Taranto di una volta. Lo immagino nell’atto di prendere appunti, meditare, immergersi con il pensiero in quei giorni così lontani, pescare personaggi, storie, ambienti, monumenti trasformati... Lo immagino mentre fa scorrere la penna su fogli bianchi per raccontare agli altri ciò che ha scoperto o ritrovato.
Il ponte girevole

Il suo sapere lo ha coltivato leggendo, sgobbando, parlando con gente dal cervello fino, fermandosi davanti a chiese, edifici patrizi, piazze, strade... per verificare, confermare. Un ultraottantenne mai stanco di girovagare per entrare nel cuore della città che non esiste più; per conoscere le leggende, la storia, i palpiti antichi, gli usi, i costumi, i luoghi della preghiera, la volontà dell’uomo di abbattere per ricostruire con stile nuovo, magari peggiorando. E scrive, tanto.
Immagino la sua ansia nel recuperare ciò che non ha potuto apprendere frequentando normalmente una scuola. Ed è andato oltre, ha superato i confini, i muri, le barriere. Nel suo testo su Anna Fougez dall’infanzia in poi, parlò con amici, parenti, conoscenti della diva che con la sua arte conquistò città e paesi.
Sferra non è uno scrittore che colma i vuoti con l’invenzione. E in “Aveva scè’ accussì” fa emergere Maria Annina Laganà Pappacena, in arte Anna Fougez, con tratti icastici, regalando al lettore anche curiosità e novità.
Adesso affida alla casa editrice Edita “Indr’a le mure-voci dei vicoli, storie di uomini e vicende notevoli della Taranto che fu”. Il libro lo hanno presentato Domenico Selliti e Antonio Fornaro; e lo stesso Sferra s’introduce parlando del suo amore per il dialetto di casa nostra. Personalmente mi ha commosso il ricordo che Cataldo fa di Enzo Murgolo, alla ribalta Enzo Valle, attore e figlio di un attore che nella vita faceva il brigadiere dei vigili urbani. Anche a Enzo piaceva il vernacolo, tanto che, per un certo periodo, anni fa, tentò di ridare vita a “’U Panarjidde”.
Copertina del libro

Cataldo raccontava episodi, persone, situazioni, quando Enzo lo esortò a mettere nero su bianco, perché le sue parole rimanessero. Lui lo ha fatto. Già scriveva poesie, sempre in dialetto, e altre cose e dipingeva la sua Taranto, la nostra Taranto che ci dà luce e calore.
Apriamo “Indr’a le mure” e ci attira il titolo “Le fundane d’a chiazza”, quella più importante “de Tàrde vècchie”. Aveva due entrate, una per chi veniva da fuori, ed entrambe erano presidiate dai gendarmi, pronti a impacchettare i malintenzionati. La descrive nel dettaglio: l’entrata dal porto mercantile era sempre affollata, dato che non c’era ancora la ferrovia e ogni tipo di merce veniva scaricata dai bastimenti; l’ingresso di Porta Napoli era più vicina a Mare Piccolo e si entrava dalla parte della Torre di Raimondello Orsini , dove aveva alloggio il comandante della cittadella. Sotto quella torre erano allocate la Dogana regia e la direzione “de l’ufficiale de chiazze”. La piazza era ben arredata e tutt’intorno si aprivano ristoranti, “maiazzènere”, ‘a Torre d’u relogge, “‘u Cadaròne p’u sgranatorie de le puveridde ca stave proprie ’gànne ‘o Ponde de pètre”. Una descrizione minuziosa, che comprende la decisione di Carlo V di far costruire “indr’a chiazze” una fontana monumentale per fornire acqua ai tarantini. Quella fontana era molto bella, precisa Cataldo, che non si ferma lì, va avanti con il discorso, dotandolo di immagini significative.
E arriva il turno della balenottera Carolina catturata nelle nostre acque e subito oggetto di discussioni e di polemiche, inscenate dai soliti saputi. Chi la definiva balena, chi capodoglio, chi balenottera e non riuscivano a trovare un punto d’incontro.
Cataldo Sferra e la padrona di casa a Martina
Il giudizio insindacabile venne dagli esperti dell’Istituto Talassografico (fu poi diretto dal professor Pietro Parenzan, a cui toccò studiare un pescecane nato a due teste, pescato sempre “indr’ o màre peccerjidde” e studiare i fondali dello stesso mare). Quella specie di siluro venne esposto nella rotonda della Villa Peripato” e tantissimi cittadini si affrettarono ad andare ad ammirarlo (io c’ero) e a commentare, impressionati in particolare dai fanoni. Anche qui Sferra fornisce tanti particolari, dai pescatori che lo avevano avvistato ed erano sul posto per catturarlo insieme alle autorità; fa nomi, cognomi, età, discendenze, le fasi della cattura, le ore richieste per il recupero, i mezzi impiegati, inclusi quelli della Capitaneria di Porto. Insomma tutto ciò che può appagare la curiosità di chi legge.
Era il 16 dicembre del ‘49. Una giornata dunque molto animata e così anche le successive. Cataldo l’ha sicuramente visto, quel cetaceo, nella rotonda della villa. Poi si è informato dal direttore dell’Istituto talassografico, attingendo notizie anche da altre fonti, memorizzando mille dettagli nella sua memoria di osservatore attento e minuzioso.
Le pagine continuano ad essere intense. Tre di queste si riempiono del coraggio di un uomo che sfidò a duello un ufficiale francese, lanciando il guanto, in un periodo in cui le truppe d’oltralpe ci stringevano in una tenaglia.
Il giovane Sferra dipinge

L’episodio avvenne nella città vecchia nel 1799 e il motivo non si è mai saputo. L’ufficiale aveva forse insultato Giovan Camillo Boffoluto, lo sfidante tarantino fumantino che mal tollerava l’atteggiamento arrogante dei francesi? Cataldo fa le sue ipotesi, approfondisce lo stato di famiglia di Giovan Camillo, le sue discendenze, il suo matrimonio con una nobile, da cui aveva avuto due figli. Il duello? Si concluse con l’uccisione del francese, Camillo fu costretto a darsela a gambe vestito da donna, correndo verso il Pizzone, continuò la corsa… E quasi dispiaciuto l’autore dice che del fatto non si è saputo più nulla e passa ad altri argomenti: Giovanni Paisiello, Mario Costa per arrivare a Marche Polle, Amedeo Orlolla, il personaggio caratteristico di Taranto, che vendeva il periodico “’U Panarijdde”, fondato da Leggeri, e le schedine della Sisal e del Totip. E qui Cataldo racconta la storia del simpaticissimo strillone e la provenienza del soprannome, dovuto al fatto che il padre, Giovanni, aveva fatto il marinaio sulla corazzata Marco Polo. Ma lui vuole andare a fondo, scavare, incidere nel cuore della storia e fa i conti fra le date, la vita della nave, che dopo il varo rimase due anni nel cantiere di Castellammare di Stabia per i lavori di rifinitura ed entrò in servizio a Napoli il 21 luglio del 1894; e Giovanni era nato a Taranto il 23 giugno del 1859.
Sferra e il poeta Claudio De Cuia

Concilia questa data con le vicende della nave? Sferra è come san Tommaso, deve toccare tutto con mano, non dà niente per scontato. Il dialetto di Sferra è comprensibile, lo stile sciolto, semplice con il tono del nonno che racconta ai nipoti, ma anche ai grandi, che amano conoscere facce della città perduta.
Cataldo Sferra è un sostenitore del dialetto, lo difende, vorrebbe diffonderlo, introdurlo anche nelle scuole. Il nostro dialetto è musica, con il dialetto ci esprimiamo di più e meglio, il dialetto ci tiene più legati alla città, ce la fa amare di più. Quando parliamo in dialetto a volte ci ascoltiamo, proviamo gioia, ci fa sentire come in una fortezza. Da giovani i genitori ce lo impedivano, perché secondo loro era un linguaggio da scaricatore di porto (con tutto il rispetto). Credo che Cataldo sia andato in qualche aula, tra i banchi, a recitare qualcuna delle sue poesie in vernacolo.
Sferra con due signore a Martina

Ho letto volentieri il suo libro, per il dialetto e per il contenuto: è una raccolta di fatti e personaggi rilevanti, come scrive Antonio Fornaro, che di Taranto ha scandagliato negli anni ogni aspetto, riti e abitudini, carattere delle persone, ogni respiro dai tempi più lontani. “Trovano spazio nel lavoro di Sferra luoghi della memoria magno-greca, ma anche di importanti monumenti, come la chiesa di Sant’Andrea degli Armeni.
Domenico Sellitti sostiene che l’autore rappresenta una voce viva e pulsante della cultura e della tradizione tarantina. Una voce antica che, ahinoi!, si va a poco a poco affievolendo tra le vie, i vichi e le posterle del Borgo Antico, per essere tristemente dimenticata dalla ultramodernizzata nuova generazione informatizzata da un avanguardismo tecnologico in cui la memoria collettiva non trova assolutamente riparo tra i solchi della memoria virtuale degli insostituibili personal computer”. Comunque noi il dialetto lo parliamo lo stesso e lo leggiamo anche in libri come questo.

giovedì 9 gennaio 2025

I pugliesi a Milano

MOLTI SONO IN PLANCIA E TENGONO BENE LA ROTTA


Dolmen
Accorrono ad ogni richiamo della loro terra, amano stare
insieme. A volte senti parlare in meneghino su un pullman o su un tram e poi scopri che quella voce è di matrice brindisina o leccese.









FRANCO PRESICCI



Poche volte ho visto tanti pugliesi riuniti in occasioni dedicate alla nostra terra. Tantissimi nelle feste solenni all’Hotel Quark e alla celebrazione dei 700 anni di Martina, organizzata da Francesco Lenoci, docente di materie economiche alla Cattolica di Milano, al Circolo della Stampa. Al “Quark” ammiravo fra l’altro la grande capacità dei corregionali, tarantini, martinesi, leccesi, brindisini ... d’intrecciare valzer e di avvitarsi nel tango, e l’eleganza di Dino Abbascià, allora presidente dell’Associazione regionale pugliesi, con cui intratteneva gli ospiti, chiamando poi al telefono il suo amico Al Bano, che dava gli auguri con fervore.
Trulli di Martina
Che serate! Allestite dall’Arp, che faceva e fa susseguire una manifestazione dietro l’altra, compreso il famoso Premio “Ambasciatore Terra di Puglia, la cui cerimonia di consegna si tiene in un salone della Regione Lombardia.
Memorabile anche quella messa in piedi al Circolo della Stampa di corso Venezia da Lenoci, che fece salire a Milano Franco Punzi, che ricordo con affetto, il rettore della Basilica di San Martino don Franco Semeraro e altri “itriani” (rubo il termine dal titolo del libro di Giovanni Rosario Cavallo), che non se la sentivano di mancare a una festa così importante per la loro città, e non solo. Ricordo gli invitati, numerosi, attenti, soddisfatti, entusiasti. Debordava nelle altre sale, perché la “Indro Montanelli”, pur essendo una piazza d’armi, non ce la faceva a contenerli tutti. I relatori parlarono in modo eccellente della città dei trulli e del belcanto, del sole e della campagna dalla terra rossa, esaltata da Filippo Alto nelle sue tele appassionate. Poi Lenoci dette la parola a un giornalista sedotto da Martina, che dette inizio all’intervento affermando di non credere che questo gioiello avesse raggiunto quella montagna di anni, vedendolo sempre così bello, così attraente, così splendente. E aggiunse subito che non poteva che avere quegli anni, visto che lo dicono i libri e gli studiosi. Dunque Martina era come una donna d’altri tempi, che nonostante l’avanzare dell’età, rimane intatta nel suo fulgore. Miracoli che fa soltanto il Superiore. Alle prime parole del cronista impertinente si era creata in qualcuno un po’ d’ansia, subito placata nel prosieguo del discorso. Breve, succoso, senza retorica, farcito d’amore per un luogo che ha tante preziosità da offrire.
Rivado agli anni ‘70, quando un altro richiamo attirò molti pugliesi. Grazie forse a Mario Azzella, di Trani, giornalista e documentarista, che aveva offerto il microfono della Rai in una trasmissione nazionale allo stesso cronista per fargli spiegare i motivi dell’appello. E accorsero, i pugliesi: avvocati, rappresentanti della carta stampata, galleristi, docenti… Il primo ad entrare nel salone del Cida (Centro internazionale d’ informazioni d’arte” di Gastone Nencini, proprietario anche della Galleria Boccioni, fu Guido Le Noci, che aveva il suo Centro d’arte “Apollinaire”, proprio di fronte, in via Brera , chiuso da un po’ di tempo.
L'Europeo

Le Noci, martinese nel sangue e nel cuore, fece appendere a una parete alcuni quadri di pittori d’avanguardia, che aveva ospitato nelle sue sale di respiro europeo. Fece di più, consentendo la proiezione di un filmato sulle tarantolate di Galatina dello scultore Paradiso. La serata fu aperta da Lambros Dose, direttore del Cida, con la lettura della presentazione di Paolo Grassi al libro “Passeggiando in Valle d’Itria”, di Massimo Fumarola. Seguirono interventi di Vincenzo Buonassisi, gastronomo di fama e inviato speciale de “Il Corriere della Sera”; e di Domenico Porzio, scrittore e giornalista, capo ufficio stampa della Mondadori e assistente del presidente Arnoldo. A dare l’occasione alla manifestazione era stata la pubblicazione sull’”Europeo” di un’inchiesta di Salatore Giannella su “I trulli che vanno in rovina”. Presente anche Giovanni Valentini, barese, a 29 anni direttore del famoso settimanale della Rizzoli (nelle sue pagine aveva scritto anche Oriana Fallaci). Era figlio di Oronzo, che negli anni Cinquanta, mentre nella Bimare si svolgeva il Premio Taranto e tre o quattro pittori locali - tra cui Giuseppe Pignataro, studio nell’androne di uno stabile di via Di Palma - scrivevano sui muri “Abbasso Pirandello” (il pittore; n.d.a,) e viva Raffaello”, lui rispondeva dalle colonne de “La Gazzetta del Mezzogiorno”. A Giovanni fu poi dato il Premio Milano, che si confezionava nel ristorante “La Porta Rossa” di Chechele e Nennella, in via Vittor Pisani.
Nennella, Giacovazzo, Chechele, Presicci

I pugliesi accettano sempre gli inviti, quando alla ribalta si esibisce sua eccellenza Puglia, che ha dato a Milano persone geniali, come appunto Guido Le Noci, amico a Martina di Elio Greco e a Milano di Raffaele Carrieri, Dino Buzzati, Pierre Restany… Guido era anche molto vicino a Paolo Grassi, re dello spettacolo. Grazie a lui conobbi Buzzati, un signore, un gentiluomo, che mi dette addirittura il numero di telefono di casa.
Tra i pugliesi che si distinguevano a Milano c’era anche Peppino Strippoli, che aprì parecchi ristoranti. Tra questi, “Ndèrre a la lanze”, a due passi dall’Università Statale e dalla Libreria Universitaria di Aldo Cortina, bellunese cresciuto come pittore nello studio di De Pisis. Strippoli era di Cerignola, ma tutti lo ritenevano barese. Era ospitale, accoglieva nei suoi locali gli amici più rappresentativi, compresi Gillo Pontecorvo e il pittore Filippo Alto, che aveva la casa e lo studio delle vacanze a Figazzano, Sisto, un tiro di fionda da Martina Franca. Anche lì Filippo realizzava serate affollate di personalità: il ministro ai Beni Culturali Vernola; il direttore della “Gazzetta” Giacovazzo (bello il suo libro “Puglia il suo cuore”), presentato a suo tempo nel teatro dell’Angelicum a Milano, con Al Bano che tuonò facendo fremere i muri); il direttore del Circolo Italsider della Bimare, alloggiato nella masseria Vaccarella, Giuseppe Francobandiera, scrittore e grande anfitrione (chiamò per tenere conferenze Gianni Brera, Morando Morandini e altri e inanellava idee continuamente, come il teatro sull’erba e le gare dei concerti (assistetti a una commedia con Luca De Filippo).
Bisceglie porto turistico

Da Alto ascoltai una brillante esibizione di un vecchio contadino, don Oronzo, come lo chiamavano noi, che raccontò brani della sua vita d’imperatore delle vigne, spargendo risate e mietendo applausi. Per ringraziarmi di un’intervista fattagli seduti su una “chianca” di trullo, all’aria aperta, un sera in cui in cielo palpitavano le stelle, mi regalò un fiasco di vino, dopo un ballo con il critico e storico dell’arte Raffaele De Grada, ospite dell’artista. Don Oronzo era un personaggio estroverso, Mi raccontò che in occasione della festa della Madonna doveva arrivare padre Cionfoli, ma il cantante ebbe un imprevisto e per la domenica non era disponibile: si poteva rimandare al lunedì. Sacrilegio! La Madonna non poteva aspettare i comodi di un’ugola sia pure famosa. “Io ho le chiavi della chiesa, la chiudo e vi attaccate al tram!”. Detto e fatto.
Sono, questi, ricordi di un pugliese a Milano fra pugliesi, che tornano sempre al nido e nelle lontananze lo sognano. Uno che resta legato alla sua Bisceglie, pur viaggiando da un capo all’altro dello Stivale, è Pino Selvaggi (Ambrogino d’oro e cavaliere al merito della Repubblica), già bancario, scrittore, poeta e anima dell’Associazione regionale pugliesi.
Mercato del martedì a Noci

A lui si deve il Premio “Ambasciatori Terre di Puglia” che riempie il luogo in cui la cerimonia di consegna si svolge. Quando dettero il riconoscimento a Renzo Arbore, che è foggiano, tutti i posti del Teatro Urban erano occupati e molti stavano in piedi. Sul palco Nicla Pastore di Studio Cento di Taranto e il compianto Dino Abbascià, in abito scuro, quasi appoggiato a una delle quinte per non togliere la scena alla giornalista della Bimare, signorile, spigliata, bella.
Questi pugliesi! Sono encomiabili per il loro attaccamento al paese d’origine, pur amando Milano, la gente, “dotati di cortesia e di grande ospitalità”, mi disse il coreografo e ballerino Don Lurio, che era di New York, quando a “Prospettive d’arte” del barlettano Mimmo Dabbrescia, tenne una mostra dei suoi quadri. Dopo essere stato valente fotografo al “Corriere della Sera”, Mimmo aveva aperto il suo spazio in via Carlo Poma, presso il Naviglio Grande ospitando artisti di altissimo livello, da Treccani a Dova, a Kodra.
Questi pugliesi! Li trovavo dappertutto. Non è da meravigliarsi se viaggiando su un tram o su un pullman avverti un’aria di casa. O incontri qualcuno che usa il dialetto che per te non ha misteri. Molti di quelli che parlano un meneghino corretto sono pugliesi mascherati, come riferiva anche Giuseppe Giacovazzo nel suo libro.
Taranto
Un pomeriggio a un fotografo del mio giornale che credevo milanese di nascita scappò un vocabolo in dialetto forestiero, che m’impietrì; se ne accorse e confessò di essere di Cerignola. “Mi hai stupito. Tradisci le tue origini con tanta disinvoltura, la tua gente, che non si vergogna di dire ‘ciucce’ invece di asino; ‘pateme’ invece di mio padre. I pugliesi che conosco io vanno a testa alta, affermano con orgoglio di appartenere alla terra, di essere del tacco. Io amo “Mare Picce” e “Tarde vecchie”; l’aria e l’odore di Martina, il verde e le forme della sua campagna, il fico e l’ulivo, la quercia, le case a cappuccio, il borgo antico con le sue quinte e i suoi fondali da teatro, le sue “’nghiostre” , le sue “vedovelle”, da cui sgorga acqua fresca e pura, i suoi tratturi, le sue porte con il chiavistello, le sue altane, da cui pendono fiori di vario colore… Lo griderei da un balcone. La Puglia è la mamma, la grazia, la bellezza, il sole… Un incanto

venerdì 3 gennaio 2025

Sorge in via Fratelli Zoia, zona Forze Armate

UNA DELIZIA, LA CASCINA LINTERNO IN CUI SOGGIORNO’ IL PETRARCA




Angelo e Gianni Bianchi
I fratelli Gianni e Angelo Bianchi sono i premurosi custodi della storica struttura rurale. La fanno rivivere anche scrivendo libri interessantissimi, facendo ricerche, organizzando conferenze sul granturco, sull’aratro, sul “pret de Ratanà”, visite guidate al Parco delle Cave, momenti di svago e altro.
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 


Sono passati anni da quando entrai per la prima volta nella cascina Linterno, in via Fratelli Zoia, a Milano. Invitato dai fratelli Angelo e Gianni Bianchi, che impiegano tutte le loro forze per tenere vivo il nome della struttura, ammirai la squisitezza dell’ospitalità e la bellezza, il fascino del luogo. Mi trovai tra centinaia di persone che di solito partecipano alle iniziative che vengono organizzate per far conoscere le attività in esso svolte oggi e nei secoli e la sua storia, che comprende il soggiorno per nove anni di Francesco Petrarca, da sempre alla ricerca della pace, della solitudine, del silenzio, infastidito dagli orpelli e dalle cerimonie dell’ambiente di corte. In quel luogo sacro il Poeta aretino si dedicò , fra l’altro alla cura dell’orto e alla correzione di alcuni suoi scritti.
Cascina Linterno
I fratelli Bianchi hanno il grande merito di aver fatto di tutto per evitare alla Linterno la sorte toccata ad altre opere rurali, lasciate al degrado o demolite, magari di notte per sfuggire alle proteste dei cittadini.
Con fantasia e volontà incrollabile, competenza e passione, i Bianchi hanno ricreato la vita in quel gioiello, mobilitando tutto il quartiere, legato al verde e alle vicende della terra del Porta. Tengono conferenze (sul granturco, sui fontanili, sull’aratro...), hanno scritto libri densi di fatti, chicche, avvenimenti, sulla vita e il lavoro nella cascina di una volta, accolto personaggi di rilievo innamorati di Milano. Tullio Barbato, per esempio, già pilastro del quotidiano “La Notte”, scrittore (“Case e casini di Milano”, “Cucina e osterie della vecchia Milano”, “Per una storia di Meneghin e Cecca”…), fondatore e direttore di Radio Meneghina;, conoscitore profondo di Milano, fornitore di idee anche per il Carnevale.
Distribuzione piantine di riso (A. Bianchi)
Conosco neme, dunque, questa fucina di cultura, assistendo alle conversazioni nella chiesetta interna o nel cortile o nei dintorni; e vi ho incontrato persone di ogni ceto e provenienza, oltre ad attori, sceneggiati televisivi, che qui hanno avuto come podio una specie di poggio incastonato in un paesaggio delizioso. Ho ascoltato Angelo e Gianni mentre parlavano delle attività agricole o del pret de Ratanà, un personaggio straordinario ancora oggi venerato. La cascina Linterno non è soltanto una meta domenicale di persone che vogliono stare in compagnia, ma un luogo in cui si fa cultura. Il mio collega Piero Lotito, che è anche uno scrittore affermato (il suo libro più recente, “Di Freccia e di Gelo”, è pubblicato da Mondadori), scrisse, sul quotidiano “Il Giorno”, un pezzo esemplare, da cui traspariva molta stima per i fratelli Bianchi e per il lavoro che fanno instancabilmente. E lo scrisse con l’anima.
Raccolta del fieno (A. Bianchi)

Di fianco alla Linterno c’è la villetta che fu abitata del “pret di Ratanà”, al quale Angelo riservò un pomeriggio raccontandone il carattere, le imprese, le doti, le curiosità, le leggende. Come quella del tram che si rifiutò di partire perché aspettava che don Giuseppe Gervasini, che avanzava a passi lenti, salisse e si mettesse comodo. Don Giuseppe, un uomo un po’ brusco, un po’ anarchico, riluttante ad accettare le convenzioni, le regole da lui ritenute inutili, schietto, generoso, che ancora oggi i fedeli vanno a visitare al Cimitero Monumentale (dove sono sepolti i grandi personaggi), portando fiori e recitando preghiere.
Mi soffermai a lungo in cascina in un angolo ricco di attrezzi agricoli, tra cui un carretto che aveva trasportato chissà quanta roba. Forse una sopravvivenza dei primi del ‘900. Alle pareti erano appesi manifesti con la descrizione dei singoli pezzi e l’uso a cui erano destinati.
Attrezzi
Tempo fa ripresi in mano i volumi dei Bianchi per rinfrescare la memoria. Passai ore e ore su quelle pagine, che ogni appassionato delle vicende milanesi dovrebbe leggere. Apprezzo molto l’attività di Angelo e Gianni, che tra l’altro nelle loro ricerche hanno perlustrato gli angoli più riposti che risuonano ancora dei passi del Poeta del “Canzoniere”, che fu a Montepellier, a Bologna, ad Avignone. Sono volati secoli dal suo soggiorno alla cascina Linterno e rivive nelle parole e negli scritti di due fratelli intellettuali, che non si stancano mai di produrre idee e progetti, perché l’importanza della Linterno non venga mai meno. Il loro impegno, prezioso, deve essere premiato. La Linterno è una delizia da custodire con amore. Lo voleva anche Tullio Barbato, uomo e collega generoso, disponibile, intelligente., legatissimo alla sua città. La sua mente era un cantiere sempre aperto e produttivo. Quando ho avuto bisogno di qualche notizie sulla storia della città mi sono rivolto a lui e ho ricevuto puntualmente risposte dettagliate. Un giorno gli chiesi informazioni sulle balere e mi inviò una ventina di fotocopie ricavate da un libro.
Trebbiatura sull'aia (A. Bianchi)

I fratelli Gianni e Angelo Bianchi hanno dato notevoli contributi alla conoscenza della Linterno (che per la verità ha qualche acciacco), con parecchi libri e in “Vita di Cascina”, realizzata a cura dell’Associazione Amici della Cascina Linterno, edita dal Comune . Un libro molto interessante anche per le molte fotografie che contiene sulle fatiche quotidiane dei braccianti. Vi emergono figure come il capostalla, che aveva competenza su tutti i bovini; i cavallanti che governavano i cavalli; il loro capo, che riceveva ordini soltanto dal padrone, al quale doveva rispondere in caso di errori e di emergenze; i ragazzi della cascina, che imparavano a familiarizzare con i cavalli e ad amarli”; gli addetti alla stalla, chiamati “famei” o “bergamin”... Questi lavoranti facevano tutto a mano, dalla mungitura alla consegna del latte, al rifornimento delle mangiatoie con erba e fieno.
I fratelli Bianchi descrivono le cascine, in ogni aspetto. Le immagini fanno il resto. Colgono per esempio un lavorante alla guida di uno dei primi trattori. I personaggi di una volta e quelli di oggi. “Vita di cascina” mi ha fornito una sorpresa: l’arte di Angelo, “elemento della natura” - come lo definì un amico intellettuale - uomo di grande talento, dal sapere enciclopedico, profondo, di origini contadine e operaie, ma geniale. Umile. Ed è questa sua ammirevole umiltà che gli impedisce di esporre le sue opere di pittore e disegnatore; opere di ambiente agreste che rivelano la sua alta capacità di far rivivere momenti della fatica contadina con pennellate rimiche, con tratti veloci. Incantano le sue teste di cavallo, di mucca; e altre figure, di operai che attraversano infagottati sentieri innevati, mungono, curano l’orto.... Angelo Bianchi è artista che seduce, affascina anche con la sua tavolozza delicata. Peccato che si rifiuti di allestire una mostra, magari nel cortile della cascina. Bellissimo quel contadino con la pala in spalla, mantello e cappello, (el campèe, addetto all’irrigazione dei campi) che torna a casa al tramonto; e bellissimo il disegno sull’insaccamento del granturco sull’aia dopo l’essiccazione.
Cappella della cascina
“Vita in cascina” è dunque “un quadro della passata vita contadina, un doveroso riconoscimento alla fatica di ci ha preceduto e posto le basi per consentirci l’attuale tenore di vita”, scrivono in copertina gli Amici della Cascina Linterno, Associazione di volontariato senza scopi di lucro, sorta nel 1994 per la protezione della cascina e del suo territorio, di cui si hanno notizie certe dal XII secolo. Il sodalizio è attento ad evitare speculazioni edilizie, a mantenere l’attività agricola, la divulgazione di usi e costumi rurali…
La prima volta ci andai per assistere a una manifestazione organizzata dai fratelli Bianchi nella chiesetta interna. Al termine il pubblico, sempre numeroso, si sparse sull’aia anche a consultare i volumi di Angelo e Gianni Bianchi, scambiarsi opinioni sulle linee architettoniche del fabbricato.
Insomma la Cascina Linterno palpita. Per chi ama Milano è un piacere che questo manufatto storico susciti l’interesse di tanti cittadini. E’ come tante “dame d’antan” che nella gloria dell’età conservano ostinatamente il fascino del tempo che fu. E’ testimone del rapporto dell’uomo con la terra, irrorata dal sudore del contadino.