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mercoledì 15 gennaio 2025

Le voci dentro le mura della città

CATALDO SFERRA RACCONTA IN DIALETTO LA TARANTO ANTICA



Sferra discute su Taranto
Nel suo libro c’è un po’ anche il borgo meno lontano: Marche Polle, lo strillone che vendeva strada per strada “’U Panarijdde” e le schedine della Sisal e del Totip.

















FRANCO PRESICCI



Immagino Cataldo Sferra passare le ore chino sui libri a rispolverare pagine, chiuso in una stanza per non essere disturbato, mentre fa ricerche sulla Taranto di una volta. Lo immagino nell’atto di prendere appunti, meditare, immergersi con il pensiero in quei giorni così lontani, pescare personaggi, storie, ambienti, monumenti trasformati... Lo immagino mentre fa scorrere la penna su fogli bianchi per raccontare agli altri ciò che ha scoperto o ritrovato.
Il ponte girevole

Il suo sapere lo ha coltivato leggendo, sgobbando, parlando con gente dal cervello fino, fermandosi davanti a chiese, edifici patrizi, piazze, strade... per verificare, confermare. Un ultraottantenne mai stanco di girovagare per entrare nel cuore della città che non esiste più; per conoscere le leggende, la storia, i palpiti antichi, gli usi, i costumi, i luoghi della preghiera, la volontà dell’uomo di abbattere per ricostruire con stile nuovo, magari peggiorando. E scrive, tanto.
Immagino la sua ansia nel recuperare ciò che non ha potuto apprendere frequentando normalmente una scuola. Ed è andato oltre, ha superato i confini, i muri, le barriere. Nel suo testo su Anna Fougez dall’infanzia in poi, parlò con amici, parenti, conoscenti della diva che con la sua arte conquistò città e paesi.
Sferra non è uno scrittore che colma i vuoti con l’invenzione. E in “Aveva scè’ accussì” fa emergere Maria Annina Laganà Pappacena, in arte Anna Fougez, con tratti icastici, regalando al lettore anche curiosità e novità.
Adesso affida alla casa editrice Edita “Indr’a le mure-voci dei vicoli, storie di uomini e vicende notevoli della Taranto che fu”. Il libro lo hanno presentato Domenico Selliti e Antonio Fornaro; e lo stesso Sferra s’introduce parlando del suo amore per il dialetto di casa nostra. Personalmente mi ha commosso il ricordo che Cataldo fa di Enzo Murgolo, alla ribalta Enzo Valle, attore e figlio di un attore che nella vita faceva il brigadiere dei vigili urbani. Anche a Enzo piaceva il vernacolo, tanto che, per un certo periodo, anni fa, tentò di ridare vita a “’U Panarjidde”.
Copertina del libro

Cataldo raccontava episodi, persone, situazioni, quando Enzo lo esortò a mettere nero su bianco, perché le sue parole rimanessero. Lui lo ha fatto. Già scriveva poesie, sempre in dialetto, e altre cose e dipingeva la sua Taranto, la nostra Taranto che ci dà luce e calore.
Apriamo “Indr’a le mure” e ci attira il titolo “Le fundane d’a chiazza”, quella più importante “de Tàrde vècchie”. Aveva due entrate, una per chi veniva da fuori, ed entrambe erano presidiate dai gendarmi, pronti a impacchettare i malintenzionati. La descrive nel dettaglio: l’entrata dal porto mercantile era sempre affollata, dato che non c’era ancora la ferrovia e ogni tipo di merce veniva scaricata dai bastimenti; l’ingresso di Porta Napoli era più vicina a Mare Piccolo e si entrava dalla parte della Torre di Raimondello Orsini , dove aveva alloggio il comandante della cittadella. Sotto quella torre erano allocate la Dogana regia e la direzione “de l’ufficiale de chiazze”. La piazza era ben arredata e tutt’intorno si aprivano ristoranti, “maiazzènere”, ‘a Torre d’u relogge, “‘u Cadaròne p’u sgranatorie de le puveridde ca stave proprie ’gànne ‘o Ponde de pètre”. Una descrizione minuziosa, che comprende la decisione di Carlo V di far costruire “indr’a chiazze” una fontana monumentale per fornire acqua ai tarantini. Quella fontana era molto bella, precisa Cataldo, che non si ferma lì, va avanti con il discorso, dotandolo di immagini significative.
E arriva il turno della balenottera Carolina catturata nelle nostre acque e subito oggetto di discussioni e di polemiche, inscenate dai soliti saputi. Chi la definiva balena, chi capodoglio, chi balenottera e non riuscivano a trovare un punto d’incontro.
Cataldo Sferra e la padrona di casa a Martina
Il giudizio insindacabile venne dagli esperti dell’Istituto Talassografico (fu poi diretto dal professor Pietro Parenzan, a cui toccò studiare un pescecane nato a due teste, pescato sempre “indr’ o màre peccerjidde” e studiare i fondali dello stesso mare). Quella specie di siluro venne esposto nella rotonda della Villa Peripato” e tantissimi cittadini si affrettarono ad andare ad ammirarlo (io c’ero) e a commentare, impressionati in particolare dai fanoni. Anche qui Sferra fornisce tanti particolari, dai pescatori che lo avevano avvistato ed erano sul posto per catturarlo insieme alle autorità; fa nomi, cognomi, età, discendenze, le fasi della cattura, le ore richieste per il recupero, i mezzi impiegati, inclusi quelli della Capitaneria di Porto. Insomma tutto ciò che può appagare la curiosità di chi legge.
Era il 16 dicembre del ‘49. Una giornata dunque molto animata e così anche le successive. Cataldo l’ha sicuramente visto, quel cetaceo, nella rotonda della villa. Poi si è informato dal direttore dell’Istituto talassografico, attingendo notizie anche da altre fonti, memorizzando mille dettagli nella sua memoria di osservatore attento e minuzioso.
Le pagine continuano ad essere intense. Tre di queste si riempiono del coraggio di un uomo che sfidò a duello un ufficiale francese, lanciando il guanto, in un periodo in cui le truppe d’oltralpe ci stringevano in una tenaglia.
Il giovane Sferra dipinge

L’episodio avvenne nella città vecchia nel 1799 e il motivo non si è mai saputo. L’ufficiale aveva forse insultato Giovan Camillo Boffoluto, lo sfidante tarantino fumantino che mal tollerava l’atteggiamento arrogante dei francesi? Cataldo fa le sue ipotesi, approfondisce lo stato di famiglia di Giovan Camillo, le sue discendenze, il suo matrimonio con una nobile, da cui aveva avuto due figli. Il duello? Si concluse con l’uccisione del francese, Camillo fu costretto a darsela a gambe vestito da donna, correndo verso il Pizzone, continuò la corsa… E quasi dispiaciuto l’autore dice che del fatto non si è saputo più nulla e passa ad altri argomenti: Giovanni Paisiello, Mario Costa per arrivare a Marche Polle, Amedeo Orlolla, il personaggio caratteristico di Taranto, che vendeva il periodico “’U Panarijdde”, fondato da Leggeri, e le schedine della Sisal e del Totip. E qui Cataldo racconta la storia del simpaticissimo strillone e la provenienza del soprannome, dovuto al fatto che il padre, Giovanni, aveva fatto il marinaio sulla corazzata Marco Polo. Ma lui vuole andare a fondo, scavare, incidere nel cuore della storia e fa i conti fra le date, la vita della nave, che dopo il varo rimase due anni nel cantiere di Castellammare di Stabia per i lavori di rifinitura ed entrò in servizio a Napoli il 21 luglio del 1894; e Giovanni era nato a Taranto il 23 giugno del 1859.
Sferra e il poeta Claudio De Cuia

Concilia questa data con le vicende della nave? Sferra è come san Tommaso, deve toccare tutto con mano, non dà niente per scontato. Il dialetto di Sferra è comprensibile, lo stile sciolto, semplice con il tono del nonno che racconta ai nipoti, ma anche ai grandi, che amano conoscere facce della città perduta.
Cataldo Sferra è un sostenitore del dialetto, lo difende, vorrebbe diffonderlo, introdurlo anche nelle scuole. Il nostro dialetto è musica, con il dialetto ci esprimiamo di più e meglio, il dialetto ci tiene più legati alla città, ce la fa amare di più. Quando parliamo in dialetto a volte ci ascoltiamo, proviamo gioia, ci fa sentire come in una fortezza. Da giovani i genitori ce lo impedivano, perché secondo loro era un linguaggio da scaricatore di porto (con tutto il rispetto). Credo che Cataldo sia andato in qualche aula, tra i banchi, a recitare qualcuna delle sue poesie in vernacolo.
Sferra con due signore a Martina

Ho letto volentieri il suo libro, per il dialetto e per il contenuto: è una raccolta di fatti e personaggi rilevanti, come scrive Antonio Fornaro, che di Taranto ha scandagliato negli anni ogni aspetto, riti e abitudini, carattere delle persone, ogni respiro dai tempi più lontani. “Trovano spazio nel lavoro di Sferra luoghi della memoria magno-greca, ma anche di importanti monumenti, come la chiesa di Sant’Andrea degli Armeni.
Domenico Sellitti sostiene che l’autore rappresenta una voce viva e pulsante della cultura e della tradizione tarantina. Una voce antica che, ahinoi!, si va a poco a poco affievolendo tra le vie, i vichi e le posterle del Borgo Antico, per essere tristemente dimenticata dalla ultramodernizzata nuova generazione informatizzata da un avanguardismo tecnologico in cui la memoria collettiva non trova assolutamente riparo tra i solchi della memoria virtuale degli insostituibili personal computer”. Comunque noi il dialetto lo parliamo lo stesso e lo leggiamo anche in libri come questo.

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