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mercoledì 26 febbraio 2025

Un giorno scoprii un tesoro a Corsico

LA TIPOGRAFIA DI UNA VOLTA DEL MAESTRO GIUSEPPE CALERI

 



Giuseppe Caleri
Ho rivisto cassettiera, tipometro, pinze, vantaggio, balestra, tirabozze, rullo, che un tempo regnavano nella tipografia del quotidiano “Il Giorno”, in via Fava, dove lavoravo. L’odore del piombo mi seguì per anni, provocandomi nostalgia. Poi, ecco Peppino Caleri con il suo piccolo mondo  antico.

 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 Per anni ho desiderato rivedere una tipografia vecchio stampo. Sentivo ancora l’odore del piombo delle notti trascorse al “Giorno”, il rumore delle linotype, il vocìo dei tipografi attorno ai banconi, impegnati a disporre le colonne secondo il disegno del menabò. Quando mi arrivava quell’odore mi riappariva tutto il mondo frequentato per tanto tempo.
Caleri e il figlio Alberto
Un giorno riuscii a intercettare un tipografo in pensione, innamorato dei disegni di Walter Molino, e fu una gioia. Stavo quasi per rinunciare all’idea di entrare in un regno popolato di cassettiere, balestre, monotipo, tipometro, rullo inchiostratore, rullio compressore, ed ecco l’occasione. “A Corsico lavora un personaggio che fa al tuo caso”. In un angolo del suo enorme stabilimento tipografico custodisce la vecchia tipografia con la cassettiera, il tipometro, , il tirabozze, il vantaggio; e di fianco la vecchia Pedalina, usata ne “La banda degli onesti”, il film con Totò, Peppino De Filippo e Giacomo Furia del 1956; e più in là una “Heidelberg Stella” di fabbricazione tedesca, di almeno 120 anni, e altre macchine...
Mi precipitai in via De Gasperi, appena oltre il confine di Milano, scampanellai al cancello, si aprì una porta e mi venne incontro a passo svelto un signore sui sessanta, in pantaloni grigi e camicia bianca, pantofole e con i baffetti su un sorriso brillante e incoraggiante “Mi dica, sono Giuseppe Caleri”. Mi fece accomodare in cucina, mise sul fornello la macchinetta del caffè e attese che gli spiegassi il motivo della visita. Era mezzogiorno e sul fuoco già bolliva l’acqua per la pasta con le cozze, il piatto preferito dal padrone di casa.
Caleri all'ombra

Quando dissi di essere un giornalista desideroso di vedere il suo pezzo di modernariato mi sorrise ancora, invitandomi a tavola e tra un’infilzata e l’altra tra gli spaghetti, dichiarò di essere pronto a raccontarsi. “Prima mangiamo e beviamo un bicchiere, poi andiamo nell’ufficio e parliamo. Abbiamo tempo”. Lo stabilimento era una piazza d’armi, lo studio un bugigattolo, con la scrivania del principale di fronte a quella del figlio Alberto e un quadro del pittore albanese Ibrahim Kodra a una parete. Mi sentivo a mio agio, come se quell’uomo dinamico e ospitale non fosse nuovo alla mia vista. “Preferisce parlare qui oppure nel mio orto, qui accanto, o sotto quell’ombrello di fico, che comincia a tenere appesi i suoi frutti come palline dell’albero di Natale?”. “Dove vuole lei, qui o lì per me va bene”.
E cominciò a dirmi del suo primo lavoro presso grandi maestri; della volta in cui mentre andava verso la Svizzera con la motoretta regalatagli dal titolare ebbe un incidente, si fratturò i polsi, ma continuò a fare il suo dovere; dalle opere che aveva realizzato; dei sacrifici fatti per mettere su la nuova realtà; dei riconoscimenti ottenuti da personalità di altissimo livello. Non narrava vantandosi, ma come se stesse snocciolando la storia di un altro. Una storia bellissima, esemplare di un grande professionista che aveva iniziato quasi dal niente.
Ogni tanto rispondeva al telefono, pregava chi stava dall’altra parte del filo di richiamare e riprendeva il discorso. Io lo ascoltavo senza bisogno di prendere nota, perché quel suo discorso era così affascinante che meritavano tanta attenzione, da imprimersi subito nella memoria. Erano come quelle di una favola. Avevo di fronte un uomo pieno di energia, di amore per il suo mestiere; infaticabile, generoso, schietto, che si sarebbe voluto avere come amico. E amici con il tempo siamo diventati. Andavo a trovarlo, mi portava a vedere i carciofi e le melanzane, l’insalata e i peperoni e ammiravo la pergola gravida di grappoli inarcata sulla porta. Un orto sapientemente curato. In un angolo c’erano zappa e rastrello, cesoie e badile.
Caleri nell'orto
Non aveva altro che la famiglia e il lavoro, Peppino Caleri. Tante volte mi sono presentato in via De Gasperi, e ogni volta m’invitava a pranzo. Un giorno andò a comperare le cozze e un grosso sarago, che cucinò con gioia e maestria. Lo invitai a cena a casa mia, con la moglie e il figlio Alberto e gli scrissi una filastrocca scherzosa, sulla sua abilità culinaria e lui sorrise.
Ogni anno andava, forse ci va ancora, in Sicilia da un amico in occasioni speciali come la vendemmia, per dare una mano “gratis et amore Dei”. Per le persone care è disposto a qualunque gesto, anche quello di sostituire una tapparella. Uomo di compagnia, è felice quando sta con gli altri, quando un commensale alza il calice e fa un brindisi inneggiando alla comitiva e alla vita. Avevo cercato un tipografo con la cassettiera e lo avevo trovato. Ma avevo trovato anche un amico leale. Ogni tanto ricordava i tempi dei suoi maestri, i primi di Milano. E Maestri si chiamava uno di questi. Io evocavo l’atmosfera della tipografia del “Giorno” e mi balzava in mente il linotipista Bardaro, che nelle pause per la mensa leggeva Diabolik e poi lo passava a chi glielo chiedeva.
la Tipografia Leggieri a Taranto
Un pomeriggio ho detto a Giuseppe che quando avevo 13 anni, a Taranto avevo frequentato la tipografia di Vincenzo Leggeri (proveniente da Altamura, la città di Tommaso Fiore): stava di fronte alla piazza coperta, in via Anfiteatro, alle spalle di via D’Aquino, dove, come diceva il poeta Alfredo Luicifero Petrosillo, si faceva la ronda da piazza Maria Immacolata a piazza Garibaldi. E lui: “Con il piombo ho stampato tutta una vita”. Anche Peppino forse aveva un po’ di nostalgia per quell’epoca. Ricordo quando, seduti accanto alla tagliatrice con il figlio Alberto, discutevamo dei navigli tanto cari all’architetto scrittore Empio Malara e lui, avendo in mano un volume da tre chili della Celip del barese Nicola Partipilo, sfogliava e commentava.
E’ innamorato di Milano e si irrita se qualcuno afferma che non è una bella città. L’ho sentito al telefono giorni fa, il mio vecchio amico Caleri. Sempre gioviale. Mi ha invitato a una mangiata in tipografia, in quella cucina poco spaziosa, ma ricca di luce e di accoglienza. I fremiti della strada qui non arrivano; se sei nell’orto vedi passare il treno che parte dalla stazione di San Cristoforo, a Milano. Se ami i treni provi emozione, come ne prova lui. Il fischio della locomotiva stimola i ricordi. “Lavorai da Rosignani, poi questo complesso si trasferì a Pero e io fui assunto dal grande Maestri, famosissimo, dove facevamo lavori artistici, compresa “La Divina Commedia”, con illustrazioni di Dova, Migneco, Crippa, Guttuso… un impegno durato tre anni”.
Continua: “Quando ebbi l’incidente sulla strada verso la Svizzera e mi ingessarono i polsi, siccome eravamo alle prese con ’Il viaggio attorno all’Africa’, con un taglierino mi liberai gli arti, mi feci mandare il lavoro a casa e continuai tenendo appoggiate le pagine di piombo sulle reti del letto”. Poi con un collega della Maestri mise in piedi la tipografia tradizionale in uno scantinato di San Siro e poi nell’89 eccolo nel suo capannone di mille metri quadrati nel cuore di Corsico, quasi attaccato a Milano.
Il fu Palazzo del "Giorno" in via Fava
“A partire dagli anni Settanta il piombo è stato detronizzato fino a scomparire, sopraffatto dalle nuove tecnologie, basate sulla stampa a freddo e sull’uso del personal computer”. Con grande tristezza di chi entrando in tipografia si toglieva il cappello; e chi non lo faceva+ veniva redarguito dal proto. Ci tenevano anche gli operai.
Frammenti di vita esaltanti, che in Giuseppe Caleri emergono di tanto in tanto, soprattutto quando è stuzzicato. E ricorda i giorni della Bovisa, quartiere di Milano un tempo ricco di fabbriche e di tute, dove lavorò quando aveva 13 anni. “Dopo l’apprendistato fui assunto dalle Arti Grafiche Rosignani, dove feci lavori di alto prestigio; e quando il complesso si trasferì a Pero fui preso dal grande Maestri, la cui attività venne celebrata dal Comune di Milano in una mostra alla Terrazza Martini, in piazza Diaz”. Ha buona memoria, Peppino, limpida e scorrevole. “Dall’89 sono qui, dove mi hai rintracciato”.
Quanto tempo è passato, Peppino, dall’ultima volta che ci siamo visti in via De Gasperi e anche dall’ultima telefonata! Forse sette anni. Fortunatamente ti ho fatto squillare il telefono qualche giorno fa e mi hai risposto con la voce scoppiettante di sempre. Vecchio tipografo con la cassettiera. Lo so che ogni tanto riapri i cassetti, prendi in mano qualche lettera, componi il nome e il cognome di un amico, come hai fatto con me, e pensi al tempo che passa inesorabilmente. Scherzando gli dico che pare un sosia di Errol Flynn, l’attore cinematografico irlandese elegante, prestante, alto, baffetti delicati, come i suoi, e mi risponde che non ha mai usato né la cappa né la spada. 

mercoledì 19 febbraio 2025

Nella “bottega” di Nicola Giudetti, a Taranto

IN VIA DANTE, NELLA CITTA’  VECCHIA UNA RACCOLTA DI  OGGETTI ANTICHI

 



Giudetti finto conzagràste
Pittore, poeta, cultore delle tradizioni,una memoria inossidabile, insegna a grandi e a “peccerìedde” come era la loro “culla” tanti anni or sono. Si esibì all’Auchan nei panni di un “conzagràste”: riparatore di vasi in  terracotta.


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
 

 

Giudetti nella sua bottega
“Nà, hònn’abbevesciùte le conzagràste!”, disse un uomo al figlio e alla moglie entrando all’Auscian, a Taranto, e vedendo un signore anziano che con il trapano a mano stava facendo buchi a “’nu lìmme”, recipiente di terracotta, per ripararlo. “Jè ‘na ‘ndìcchie a l’andìche peccè mò stònne còlle putènde e le capàse no’nge l’accònzene cchiù accussì” . “No, po’ èssere ‘nu puverìedde ca cu le tìembe d’òsce hà’ rumàste ‘ndèrre cu le ròte e addà purtà ‘u pàn’a ccàse, ‘mbruvvesànne quìdde mestìere?”. Ma no, era Nicola Giudetti, custode delle tradizioni tarantine e mèmore dei vecchi mestieri, che stava svolgendo una dimostrazione di come un tempo si rimettevano assieme i pezzi rotti di un oggetto d’argilla: vasi, “capasùne” e altro. Il riparatore di vasi girava nei vicoli della città vecchia e della nuova urlando “Capàse, vuccàle, piàtte! Hà’ arrevàte ‘u conzagràste!”. E le donne correvano in strada per affidargli ciò che aveva bisogno di essere rappezzato.
Quella voce è scomparsa da tanto tempo dalle vie della città, e sono scomparse le voci “d’u cadaràre”, “d’u ‘mbagghiasègge”, “de l’ammulatòre”, “d’u ‘mbrellàre”, sparpagliati quel giorno all’Auchan nei panni di… figuranti.
Antonio De Florio, anch’egli appassionato delle sopravvivenze del passato, cultore del dialetto ed esploratore delle bellezze di Taranto, mi ha raccontato della trovata di Nicola Giudetti, poeta in vernacolo, pittore, raccoglitore di cose antiche, che costituiscono una sorta di museo nella sua bottega in via Duomo, una delle più famose “de Tàrde vècchie”, “ca tène sècule de stòrie”, come ricordava in un suo empito poetico anche Alfredo Nunziato Majorano.
Antonio De Florio

Io, che ho molti anni sulle spalle, ricordo anche l’acchiappacani, il pianino con il pappagallo che con il becco sceglieva l’oroscopo (ogni foglio un colore diverso) e lo consegnava all’interessato. “Era gente che veniva da fuori, dai paesi vicini”, m’informa Giudetti, che può tenerti ore a raccontare la storia e le storie di Taranto, compresi nomi, cognomi, soprannomi, parentele di chi abitava vicino a lui e oltre. Una memoria inossidabile. Qualunque notizia si cerchi e non si trovi da nessuna parte, si entra da Giudetti e lui illustra, spiega, racconta come un nonno ai nipoti “azzettàte ‘ngàt’a vrascère” con la pedana, “mèndre sòtt’a cènere s’arròstene le cìcere”.
Anni fa, passai qualche ora con Nicola, nel suo “sacrario”. Lui mi parlava a tappe, “a spìzzech’e muèzzeche, e io ascoltavo, nutrendomi di novità. Si presentavano gruppi di turisti e raccoglievano volentieri l’invito ad entrare, chiedendo nomi e funzioni dei vari pezzi, facendosi capire soprattutto con i gesti. Per Nicola era un’ottima occasione per far conoscere brani di Taranto attraverso bilance, catene, ”camàstre”, a cui si appendevano i paioli nella gola del camino, lo strumento utilizzato per potare le piante...
La Taranto vecchia di Giudetti

Neppure oggi, che ha superato gli ottanta, quella sua voglia e quella sua passione viene meno. E’ un uomo entusiasta, ricco di idee, di iniziative, di amore per la sua città, di desiderio di farla conoscere a grandi e piccoli, a stranieri; di ricordarla agli spatriati. Le sue parole rinverdiscono la vita di una volta a “Tàrde vècchie”, che nonostante le pareti screpolate come le labbra “de le pisciauèle” e “de le cozzarùle” (detto con il massimo rispetto), rimane un tesoro, tanto da essere decantata dai poeti più consacrati. Anche Nicola compone versi e quando li declama, per la sonorità del dialetto, la forza della recitazione, il sentimento con cui accompagna ogni vocabolo, tocca il cuore. Come nella poesia per la moglie Maria, il giorno del suo compleanno.Lo vedo e lo ascolto nei video che realizza quel mago di Antonio De Florio, che sa scegliere l’ambientazione giusta, le musiche più toccanti e i paesaggi più suggestivi. Ascolto e guardo con attenzione ed emozione, godendo quei suoni, quelle cadenze, quelle pause degni delle ribalte più celebri. Chissà che cosa darei per poterlo ascoltare più spesso. Queste ventate che arrivano dalla città vecchia mi portano la musica del Mar Piccolo che bacia la battigia e si ritira, per ripetersi subito dopo. Non l’ho mai visto rabbuiato, “’u Peccerìedde”, il Mare Piccolo, e avrei voluto vederlo quando fa i capricci, quando rumoreggia, facendo ballare pericolosamente le barche. Ricordo sempre il capolavoro di Alfredo Lucifero Petrosillo, “’U travàgghie d’u màre”, e mi si velano gli occhi, anche perché don Alfredo l’ho conosciuto e intervistato, quando non avevo neppure vent’anni.
Nicola Giudetti fra i suoi quiadri

Un paio di volte sono stato in quel luogo tranquillo e silenzioso, pieno di ricordi di Giudetti. Ho in mente la sagoma del ciabattino “c’u sunàle” (il grembiule) con il suo “bangarìedde cu semenzèlle, ‘sugghie, ‘tenàgghie” e “’matìedde” ca bàtte sus’u tàcche”. Quanto c’è da imparare in questo locale pieno di ricordi. “Fino a quando ci sarà un solo bambino a cui insegnare la città vecchia e farla amare; fino a quando verrà qui un solo turista da stupire io ci sarò a trasmettere antiche memorie”, a narrare Taranto con passione a chi vorrà scoprirla. Così disse al bravissimo giornalista Angelo Diofano, Giudetti. E quei bambini, quei turisti ci saranno sempre: Taranto è una calamita, è celebre in tutto il mondo, con i suoi tramonti deliziosi; i suoi giardini impreziositi “da còzze gnòre”; il Galeso che scorre sempre placido e tacito; il ponte girevole che scioglie il suo abbraccio per consentire il passaggio delle navi; le lampare che luccicano di notte per adescare i pesci; il faro che spia le onde; il Castello che nelle sue sale accoglie i palpiti degli artisti... A scuola i ragazzi studiano il Galeso e imparano che Orazio avrebbe voluto la sua tomba su quelle sponde. Spesso mi vengono in mente quei versi: “... le dolci acque del Galeso caro alle pecore avvolte nelle pelli, e gli ubertosi campi che un dì furono di Falanto lo Spartano…”.
Giudetti con le "parecèdde"
Anche Nicola Giudetti canta questa città; la vede sempre più affascinante, sempre più animata, sempre più attraente, sempre più bella. Ho sentito parlare di lui anche a Milano: un tarantino immigrato da anni, casa sul Naviglio Grande - a due passi da vicolo dei Lavandai, che il poeta Beonio Brocchieri definì “chiesa di pittori, con il ricciolo d’acqua che sfugge al canale per andare chissà dove, con i cortili intrecciati, il ricordo delle donne inginocchiate sul “brellin” a lavare i panni - raccontava a un gruppo di meneghini il suo soggiorno nella patria di Cesare Giulio Viola, Domenico Porzio, Raffaele Carrieri… e quindi di Nicola, che lo aveva ricevuto nella sua bottega di via Duomo. Anche questo tarantino ormai meneghino era amareggiato per aver preso, una sera, il treno della speranza, al tempo in cui la gente s’infilava nello scompartimento dal finestrino, perché la piattaforma era una scatola di sardine. Su quel convoglio sono salito tante volte anch’io, riparato nel gabinetto di decenza, seduto su una delle tante valigie lì accatastate. Notti insonni tra mille voci con orditi di esperienze, fatiche, delusioni, fallimenti, chiusure di porte... In quelle ore conoscevo molto della vita di chi mi stava di fronte. Ma questa è un’altra storia.
Se dunque chiedi a qualcuno se conosce Giudetti può capitare di sentirti rispondere di sì con un accento di soddisfazione.
Giudetti in un incontro a Martina

“Sì, lo conosco, Giudetti”, mi rispose a Martina la compianta Mara Sarotto, signora dolce e discreta. Era nata in via Cava e di Nicola aveva sentito parlare un’infinità di volte. Poi lo incontrò. Che se ne parli anche a Milano non è cosa strana. E non sono una novità neppure i turisti che si portano a casa quel nome, il ricordo dei momenti trascorsi nella bottega di via Duomo e i racconti diluiti da quel giovane vecchietto vivace e generoso, spiritoso e simpatico, schietto, dalla voce sottile, dagli occhi piccoli e vibranti.
Quando entrai per la prima volta in quel sacrario anch’io imparai molte cose: il bisso per esempio, di cui le nostre donne un tempo erano maestre; “le parecèdde”, che vivono con la punta saldamente conficcata nella sabbia. In quelle valve il pittore Raffaele D’Addario, che non dimenticherò mai vita natural durante, creava i suoi paesaggi e il suoi fiori.


mercoledì 12 febbraio 2025

Autorevole e intransigente

EDOARDO RASPELLI “DETECTIVE” IN CUCINA

 

 

Edoardo Raspelli

Cominciò lavorando come giornalista professionista al “Corriere d’Informazione”, rivelandosi cronista di razza in occasione del feroce delitto della giovane Simonetta Ferrero all’Università Cattolica, nel luglio ‘71.

 

 

 










FRANCO PRESICCI



Conosco Edoardo Raspelli da una cinquantina d’anni. Da quando faceva il giornalista al “Corriere d’Informazione”, il quotidiano del pomeriggio del “Corsera”, entrambi in via Solferino.
Edoardo Raspelli intervistato

Era un giovane sveglio, schietto, preparato. Era ancora iscritto all’Università Statale di Milano, in via Festa del Perdono, di fronte alla Libreria di Aldo Cortina, che era stato come pittore allievo di De Pisis e aveva lo studio in vicolo dei Lavandai, dove riceveva personaggi di rilievo, tra cui Bettino Craxi. Seguivo il lavoro di Raspelli sujl giornale che fu diretto da Gaetano Afeltra, poi da Cesare Lanza, che proveniva dal “Secolo XIX” di Genova… dove già manifestava il suo talento, come mi disse una sera in un ristorante genovese Adriano Bet, capo ufficio stampa della Società di navigazione “Italia”, a cui appartenevano le regine del mare “Raffaello” e “Michelangelo”.
Di talento, eccome, ne aveva anche Edoardo, che, esortato dallo stesso Lanza, che poi passò al “Giorno” di via Fava, cominciò ad esplorare i ristoranti. Entrava, si sedeva a tavola, ordinava e poi pagava; e al momento di scrivere il pezzo se aveva osservato mancanze giù con la clava. Spesso finiva nelle carte bollate, ma lui non cambiava strada. Chiesi a Luigi Veronelli, anch’egli giornalista, critico gastronomico, filosofo, conduttore televisivo, un’autorità nel settore e firma nobile del quotidiano “Il Giorno”.
Raspelli a tavola
“Raspelli? Ha il grande merito di aver creato la critica gastronomica, elevandola allo stesso piano di quelle letteraria, d’arte e cinematografica,. E’ bravissimo”. Il poeta della scrittura – tale consideravo Veronelli - m’invitò a Bergamo Alta, dove abitava, a sorseggiare un bicchiere di nettare della sua cantina, e aggiunse altre lodi su questo severo investigatore culinario: Raspelli appunto.
Quando poi con Filippo Alto aprii il cantiere del Premio Milano di Giornalismo al ristorante “La Porta Rossa” di Chechele e Nennella, in via Vittor Pisani, un tiro di fionda dalla stazione Centrale, come primo membro della giuria emerse Raspelli. Poi il poeta Alberico Sala, del “Corsera”; il critico d’arte Raffaele De Grada, il pittore Giuseppe Migneco, il direttore della “Gazzetta del Mezzogiorno” Giuseppe Giacovazzo, Baldassare Molossi, ammiraglio de “La Gazzetta di Parma”… Nelle discussioni, che duravano fino alle due del mattino, i giudizi di Edoardo erano sempre misurati, succinti e razionali. Poi lo scoprii su Canale 5, dove conduceva una trasmissione interessantissima che si snodava da una cascina all’altra; da un agricoltore ad un altro, illustrando cibi, specialità prodotte nei fulcri del lavoro contadino, usi e costumi locali: insomma la vita tra le architetture rurali di ogni parte del Paese. Vedendolo, il telespettatore entrava subito negli ambienti, coglieva l’atmosfera, immaginava la fatica del lavoro in campagna, veniva a conoscere i ruoli dei vari lavoranti, dal cavallante all’addetto all’irrigazione.
Raspelli a casa


Chi accendeva la televisione mentre andava in onda Raspelli cambiava canale, se voleva, solo alla fine. Edoardo ha un linguaggio semplice, che arriva subito al cuore. Non parla soltanto di aiò che riguarda la tavola, i piatti, il vino. Veronelli disse che “il vino non è certo più necessario nella vita della musica e della poesia”. Sì, e c’è chi ha declamato versi gustando un vino genuino e chi ne ha scritti ispirato dall’aria che respirava. O no? Edoardo può confermare o smentire. Chiaro e sintetico come al solito.
Anche quando si racconta, iniziando dal giorno in cui superò la porta del giornale di via Solferino: una porta che suscita ansia anche nei più spigliati. “Erano le 7 del mattino di lunedì 26 luglio 1971, giusto 50 anni fa. Vestito completo, giacca e cravatta, varcavo quella soglia storica, stretta porta a vetri che immetteva al ‘Corriere della Sera’ ed al ‘Corriere d’Informazione’… come dipendente. Era il mio primo giorno di lavoro come ‘praticante giornalista’. In tasca la lettera di assunzione del direttore...Giovanni Spadolini… Al secondo piano, nello studiolo che si affacciava sullo stanzone della cronaca, mi aspettava il capocronista Giovanni Raimondi…”, anche lui arruolato poi al “Giorno” nelle truppe di don Gaetano Afeltra.
Edoardo capì subito com’è movimentata la vita di un cronista divoratore di polvere. Sull’auto del giornale il radiotelefono gracidò: “Corri all’Università Cattolica in largo Gemelli”.
Raspelli a destra

L’autista mise le ali alla macchina ed ecco Raspelli sul teatro di un terribile delitto. Uccisa con 33 coltellate Simonetta Ferrero, laureata da poco. “A quell’epoca i cronisti di nera dovevano essere orfani, scapoli e… ”figli di buona donna (in verità non solo a quell’epoca, perché se il cronista non ha quelle doti è meglio che cambi mestiere: n. d. a.)”. E il suo fotografo, Peppino Colombo, scalò una cancellata e riuscì a fare scatti sul lago di sangue. Enzo Caracciolo, andato in pensione da questore, aveva ancora lo scrupolo di non essere riuscito ad acchiappare l’autore di quella brutalità. Edoardo Raspelli, stendendo l’articolo su quel fattaccio ebbe il suo battesimo del fuoco nel tempio del giornalismo, i cui celebranti erano personaggi come Giovanni Mosca, Egisto Corradi, Dino Buzzati, Ferruccio De Bortoli, Gian Antonio Stella, Ferruccio Lanfranchi…
Erano gli anni di piombo, in cui il sangue si spandeva nelle strade, nei luoghi di cultura, sotto i ponti. E proprio sotto un ponte vennero fulminati da un gruppo di terroristi i tre poliziotti del commissariato Ticinese: Cestari, Tatulli, Santoro. Ricordo gli occhi rossi del capo della Mobile di allora (8 gennaio ‘80) Antonio Pagnozzi.
Raspelli era nato cronista. E lo confermò proprio andando per ristoranti su iniziale ispirazione, ripeto, di Cesare Lanza. Proseguì alla “Stampa”, intensificando la critica alla ristorazione che non guardava in faccia a nessuno e unico al mondo quella agli alberghi.
Raspelli osserva un panettone

Cominciarono le persecuzioni: telefonate velenose, corone da morto sotto casa, rischio di finire nelle mire della malavita, perché il “Faccino nero” con cui marchiava le cucine discutibili aveva colpito quella di un pezzo grosso della mala. Quando chiuse “Il Corriere d’Informazione”, il direttore de “La Notte”, altro quotidiano del pomeriggio, Livio Caputo, gli offrì spazio sulle sue pagine; poi Raspelli lasciò piazza Cavour per la “Domenica del Corriere” pilotata da Pierluigi Magnaschi, già vicedirettore de “Il Giorno” di Guglielmo Zucconi… Grande Raspelli, giramondo della penna. Approda alla radio da Pier Quinto Cariaggi, agente di Frank Sinatra e marito di Lara Saint Paul; quindi a Rai 2 da Giovanni Minoli a “Che fai, mangi?” con Anna Bartolini e Carla Urban, poi con Enza Sampò: “Piacere Rai 1 con Toto Cotugno e Simona Marchini; a Melaverde su Rete 4 e Canale 5, “L’Italia che mi piace in viaggio con Raspelli”… La lista è lunga: trasmissioni su trasmissioni, canali su canali, Raspelli diventa un personaggio notissimo, seguito, apprezzato, osannato.
Uomo tenace, intelligente, colto, dalla parola facile, intuitivo, un colpo grosso l’aveva realizzato nel ‘69 con un articolo su Corrado Alvaro per il Giornale Letterario del “mio padrino di battesimo, l’editore Mario Gastaldi”, una notizia sulla “Libertà” di Piacenza e finalmente l’ingresso in via Solferino. Il primo pezzo, “Un lettore ci scrive”, esce il 23 settembre del ‘69. Alle spalle, dunque, un rodaggio non indifferente. All’Università aveva frequentato la facoltà di lettere moderne, fatto 7 esami, con 110 e lode in Storia dell’Arte con Anna Maria Brizio e 110 in critica d’arte con Marco Rosci, entrambi luminari.
Il giorno dopo percorre via Solferino, entra al civico 28, sale le scale, entra in redazione, è nell’olimpo della carta stampata, dove con Giove siede anche Gino Palumbo, al quale nel ‘79 assegnammo il Premio Milano di Giornalismo.
Edoardo Raspelli tra i monti


E’ una gioia ricostruire la vita professionale di Edoardo Raspelli, ricca di iniziative, successi, consensi, riconoscimenti. Lo volevo anche come membro della giuria nel Premio successivo, “Le Porte di Milano”, accanto a Domenico Porzio e a Piero Colaprico, ma era così pieno di impegni che proprio un altro non riusciva a piazzarlo neppure con la forza., Quindi non fu tra noi quando assegnammo il premio al professor Alberto Dall’Ora (nel ‘65 aveva preso un volo per la Sicilia per assumere il patrocinio gratuito della ragazza rapita e violentata e tenacemente decisa ad opporsi al matrimonio riparatore) e l’anno successivo al professor Silvio Garattini.
Ho risentito Edoardo giorni fa, per chiedergli ricordi di Peppino Strippoli, il pugliese di Cerignola ritenuto barese, che aprì ristoranti a Milano, tra cui “Ndèrr’a la lanze” in via Festa del Perdono, dove si sedevano personalità illustri del giornalismo, della letteratura, dell’arte, dell’industria, del cinema, della politica. Ci andava anche lui, Edoardo, con la fidanzata poi diventata sua moglie.

martedì 4 febbraio 2025

Un ricordo del prefetto Mario Jovine

DA CAPO DELLA MOBILE ARRESTO’ I MARSIGLIESI



Mario Jovine
Condusse le indagini sui fatti più clamorosi, come la rapina all’oreficeria Colombo in via Montenapoleone. Era elegante, rispettoso, intelligente, dai modi signorili.















FRANCO PRESICCI


Jovine nel suo ufficio
Il primo quartiere che frequentò di più al suo arrivo a Milano fu il Ticinese.
Era commissario di polizia, veniva da Napoli e il dialetto era un problema. “La vecchietta veniva a protestare contro l’inquilina del piano di sopra, che innaffiando le piante faceva sgocciolare l’acqua sul suo balcone e lui stava ad ascoltare senza capire niente”. Allora chiamava il brigadiere e si faceva tradurre. Ma ben presto imparò alcuni termini del vocabolario meneghino e di tanto in tanto scherzando le usava con i suoi collaboratori. Quando era era capo della Squadra Mobile, discutendo di un’indagine conclusasi felicemente, spifferò “Ghe pensi mi” e il maresciallo Oscuri, che era di San Ferdinando di Puglia e legato alla parlata di casa sua, rimase perplesso.
“Eravamo nel ‘53, e i giovincelli in divisa fiammante venivamo spediti nei commissariati di periferia; e a me era toccato quello di Porta Cicca, dove di solito non avvenivano fatti eclatanti come la strage di Moncucco, nel novembre del ‘79, quando io ero però da tempo alla guida della Squadra Mobile; e l’uccisione, l’8 gennaio dell’80 da parte delle Br di quei tre bravi poliziotti e ottime persone, Cestari, Tatulli e Santoro.
Caracciolo, Plantone e un amico
“Per accennare a poche pagine di storia, in tempi lontani nella zona aveva operato la ‘ligera’, fatta di elementi che rasentavano il codice penale e qualche volta ci cadevano dentro per piccoli reati” La combriccola aveva dato filo da torcere al ‘Dondina’, (all’anagrafe Mazza), poliziotto del ‘900 un tantino claudicante, severo e instancabile, al quale quei birbanti dedicarono una canzone che intonavano appena lo vedevano spuntare. Bazzicavano soprattutto Porta Genova, base anche degli “sfrosador” (contrabbandieri), non lontana dal Ticinese, popolato anche da quelli che praticavano il gioco delle tre carte (trucco delle sfogliose in gergo). Altra cosa la Teppa, che frequentava le osterie periferiche, le sale da biliardo e non sapeva che tra gli spettatori ci poteva essere un “trombettiere” della polizia. “Ma questa, ripeto, è roba d’altri tempi.
Di questo e di altro parlammo un pomeriggio che andai a fargli visita nella sua accogliente abitazione di Bologna, dove era rimasto a godersi la pensione. Mi aveva invitato tante volte, ma non ero riuscito a ritagliarmi un po’ di tempo per fare un salto nella città felsinea. Mario Jovine ripercorreva volentieri i tempi in cui guidava la Mobile e aveva in anticamera un agente educato, riservato, sempre attento alle insidie delle domande dei cronisti. Si chiamava Fina e quando lasciò il servizio, acquistò una cinepresa e si mise a scarpinare per Milano filmando monumenti e giardini.
Jovine leggeva molto. Nell’85 ero andato a intervistarlo a Venezia, dov’era questore, e mi mostrò un libro che raccoglieva tutte le rapine più clamorose fatte nel mondo, compresa quella di via Osoppo, febbraio del ‘58, bottino 400 milioni in titoli e assegni e 114 milioni in contanti’ Da lì al colpo all’oreficeria Colombo, in via Montenapoleone, la via della moda, elegante, ricca di negozi di lusso, un salotto nel centro di Milano, con il Caffè Cova, dove a mezzogiorno Wanda Osiris andava a fare colazione. Poi passò ad argomenti più leggeri: i davanzali in ferro battuto, “sciostre” di corso San Gottardo, l’antico “borg di formaggiat, dove ai primi del ‘900 nei locali dei lunghi cortili si conservavano 200mila ruote di grana.
Presicci, Oriani, Jovine. Olivieri

Ripescai il discorso sulla rapina all’oreficeria Colombo, le cui indagini furono condotte da lui. Intuì che la “dura” aveva la mano dei marsigliesi, li scovò, li interrogò e aprì il sipario. Quando venne il turno di “Bocca di pietra”, detto così, perché era uno di quelli che non parlavano neppure sotto tortura, nel tentativo di smuovergli la lingua, ricorse ad uno stratagemma, facendo un salto da un capo all’altro della scrivania, tenendo poggiata una mano sul piano, e sfidò il dirimpettaio ad imitarlo. Quello accettò il confronto, ma continuò a tacere. Era nota la sua durezza, la sua inflessibilità.
Agli inizi alla Mobile era stato il vice di Mario Nardone. Tempi difficili. Non potevano muovere un passo senza ricevere una telefonata d’allarme. Una volta lo squillo li sorprese ad un matrimonio.
Era piacevole conversare con Jovine, nel linguaggio e nei fatti a volte portava una ventata di Napoli, pur parlando di Milano. Alto, signorile, elegante, colto, simpatico. A Bologna quel giorno splendeva il sole e piazza Maggiore era affollatissima. “Preferisci conversare facendo due passi in questa bellissima città, che ha i portici più lunghi del mondo?”. “Stiamo così bene qui”. Ed ecco evocare piazza Vetra - nel capoluogo lombardo - anticamente teatro di esecuzioni, tra cui quelle di “Cicca Berlicca”, leggendario personaggio che per i tatuaggi che ostentava su un braccio (uno sperone, una forca, un leone), si diceva avesse fatto un patto con il diavolo): e di Giacomo Legorino e Battista Scorlino, due lestofanti che nella seconda metà del ‘500 avevano reso impraticabile il bosco della Merlata.
I nostri ricordi s’intrecciavano. Ce li scambiavamo piacevolmente. Piazza Vetra! Lo storico meneghino Raffaele Bagnoli in “Storia delle vie di Milano” racconta una toccante vicenda d’amore: la figlia di un conciapelli, che, innamorata perdutamente di uno dei “polentatt” che avevano il punto vendita nella piazza e urlavano “l’è gialda, l’e calda, l’è cotta”; quando il giovane morì impazzì. Merito di Jovine il ricordo di quella vicenda.
Vito Plantone

Mario al mio arrivo aveva spento il televisore; e c’era tutt’attorno un silenzio da chiesetta di campagna. Mi preparò il caffè e collocò sul tavolo del salottino un vassoio di dolci. L’amico Vito Plantone mi aveva detto: “Ah, vai da Jovine, se me lo avessi detto prima, sarei venuto anch’io”. Erano stati Mario prefetto, e Vito questore a Palermo nello stesso periodo. Si stimavano e si volevano bene. Gli altri della compagnia erano Antonio Pagnozzi e Enzo Caracciolo, uno prefetto e l’altro questore.
Improvvisamente Jovine si fermò come se fosse stato rapito da un pensiero. Poi rientrò: “Negli anni ‘50 bisognava risparmiare su tutto. Tanto per fare un esempio, quando arrivava una lettera veniva consegnata a un agente ‘esperto’, che riusciva ad aprire una busta senza rovinarla e a rivoltarla per poterla riutilizzare. I pavimenti del commissariato Musocco erano fatti con i marmi delle tombe disfatte del cimitero”. Quanta ricchezza di episodi nella memoria di questo poliziotto arguto e umano, che diresse anche il commissariati Garibaldi e Scalo Romana, per approdare in questura, accanto al “Gatto”, soprannome usato con affetto per Mario Nardone, che aveva un suo fiuto felino.
“Ricordo il freddo di Milano. Abitavo in una casa popolare in una traversa di via Diomede. Non aveva riscaldamento come non ne aveva il mio ufficio. Ma ho trovato grande calore nella gente. Allora perfino la malavita aveva rispetto per la polizia.
Jovine, Plantone, Caracciolo, il giallista Olivieri

Il personaggio che gli era rimasto più impresso era un “boss” della mafia americana, che, estradato dagli Usa come indesiderabile, era venuto a Milano, alloggiando in uno stabile sotto il Duomo, prima di essere mandato al soggiorno obbligato in un paese del centro Italia. Una mattina Jovine lo fece convocare nel suo ufficio e gli pose alcune domande, anche sui mezzi che gli permettevano di vivere a Milano. Lui s’inchinò più volte, ma non si sedette; e quando il poliziotto gli chiese la data di nascita non rispose. Poi spiegò che negli Stati Uniti era finito in carcere proprio per aver sbagliato quella data. Era presente il maresciallo Nino Giannattasio.
Jovine, come Vito Plantone, Antonio Pagnozzi, Enzo Caracciolo e lo stesso Mario Nardone era gentile anche negli interrogatori. Una notte, facendo una perquisizione nell’abitazione di un pesce grosso capì che in un’altra stanza dormivano i bambini, quindi pregò gli agenti di non accendere la luce, di usare le pile e di lavorare in silenzio. Pochi giorni dopo, per gratitudine, l’uomo gli rivelò il posto in cui aveva nascosto 15 milioni di lire, la sua quota della rapina di via Osoppo. “Io guadagnavo 80mila lire al mese”.
Ricordava una donna che ai tempi della Mobile, andava a trovarlo, chiedendo aiuto, perché era incinta da 16 anni. Per 15 anni tornò ogni 15 giorni.
Jovine la sera del Premio

Un episodio dietro l’altro, la sua era una memoria inossidabile. Chi poteva dimenticare don Mimì, un truffatore internazionale che era riuscito a vendere una nave con tutto il carico, sostenendo di esserne il proprietario?
Concludendo, accennò ai pilastri della questura, tra cui i marescialli Ferdinando Oscuri e Nino Giannattasio. “Mario, adesso che sei in pensione, come passi il tempo?”. “Leggendo. Leggo tanto, ho sempre letto, lo sai” “E la chitarra?”. “Qualche volta la strimpello”, altro che strimpellare: un napoletano non strimpella, suona”. E mi venne in mente l’edizione del Premio “Le Porte di Milano” assegnato al professor Alberto Dall’Ora. Jovine venne apposta da Roma, dove era questore, per assistere alla cerimonia di consegna del riconoscimento al principe del foro. Arnaldo Giuliani, capo cronista del “Corriere della sera”, che intervistava brillantemente questi colossi della questura, disse che non si era mai visto un “bouquet” di questori come quella sera. Mario Jovine non c’è più da tempo.