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martedì 4 febbraio 2025

Un ricordo del prefetto Mario Jovine

DA CAPO DELLA MOBILE ARRESTO’ I MARSIGLIESI



Mario Jovine
Condusse le indagini sui fatti più clamorosi, come la rapina all’oreficeria Colombo in via Montenapoleone. Era elegante, rispettoso, intelligente, dai modi signorili.















FRANCO PRESICCI


Jovine nel suo ufficio
Il primo quartiere che frequentò di più al suo arrivo a Milano fu il Ticinese.
Era commissario di polizia, veniva da Napoli e il dialetto era un problema. “La vecchietta veniva a protestare contro l’inquilina del piano di sopra, che innaffiando le piante faceva sgocciolare l’acqua sul suo balcone e lui stava ad ascoltare senza capire niente”. Allora chiamava il brigadiere e si faceva tradurre. Ma ben presto imparò alcuni termini del vocabolario meneghino e di tanto in tanto scherzando le usava con i suoi collaboratori. Quando era era capo della Squadra Mobile, discutendo di un’indagine conclusasi felicemente, spifferò “Ghe pensi mi” e il maresciallo Oscuri, che era di San Ferdinando di Puglia e legato alla parlata di casa sua, rimase perplesso.
“Eravamo nel ‘53, e i giovincelli in divisa fiammante venivamo spediti nei commissariati di periferia; e a me era toccato quello di Porta Cicca, dove di solito non avvenivano fatti eclatanti come la strage di Moncucco, nel novembre del ‘79, quando io ero però da tempo alla guida della Squadra Mobile; e l’uccisione, l’8 gennaio dell’80 da parte delle Br di quei tre bravi poliziotti e ottime persone, Cestari, Tatulli e Santoro.
Caracciolo, Plantone e un amico
“Per accennare a poche pagine di storia, in tempi lontani nella zona aveva operato la ‘ligera’, fatta di elementi che rasentavano il codice penale e qualche volta ci cadevano dentro per piccoli reati” La combriccola aveva dato filo da torcere al ‘Dondina’, (all’anagrafe Mazza), poliziotto del ‘900 un tantino claudicante, severo e instancabile, al quale quei birbanti dedicarono una canzone che intonavano appena lo vedevano spuntare. Bazzicavano soprattutto Porta Genova, base anche degli “sfrosador” (contrabbandieri), non lontana dal Ticinese, popolato anche da quelli che praticavano il gioco delle tre carte (trucco delle sfogliose in gergo). Altra cosa la Teppa, che frequentava le osterie periferiche, le sale da biliardo e non sapeva che tra gli spettatori ci poteva essere un “trombettiere” della polizia. “Ma questa, ripeto, è roba d’altri tempi.
Di questo e di altro parlammo un pomeriggio che andai a fargli visita nella sua accogliente abitazione di Bologna, dove era rimasto a godersi la pensione. Mi aveva invitato tante volte, ma non ero riuscito a ritagliarmi un po’ di tempo per fare un salto nella città felsinea. Mario Jovine ripercorreva volentieri i tempi in cui guidava la Mobile e aveva in anticamera un agente educato, riservato, sempre attento alle insidie delle domande dei cronisti. Si chiamava Fina e quando lasciò il servizio, acquistò una cinepresa e si mise a scarpinare per Milano filmando monumenti e giardini.
Jovine leggeva molto. Nell’85 ero andato a intervistarlo a Venezia, dov’era questore, e mi mostrò un libro che raccoglieva tutte le rapine più clamorose fatte nel mondo, compresa quella di via Osoppo, febbraio del ‘58, bottino 400 milioni in titoli e assegni e 114 milioni in contanti’ Da lì al colpo all’oreficeria Colombo, in via Montenapoleone, la via della moda, elegante, ricca di negozi di lusso, un salotto nel centro di Milano, con il Caffè Cova, dove a mezzogiorno Wanda Osiris andava a fare colazione. Poi passò ad argomenti più leggeri: i davanzali in ferro battuto, “sciostre” di corso San Gottardo, l’antico “borg di formaggiat, dove ai primi del ‘900 nei locali dei lunghi cortili si conservavano 200mila ruote di grana.
Presicci, Oriani, Jovine. Olivieri

Ripescai il discorso sulla rapina all’oreficeria Colombo, le cui indagini furono condotte da lui. Intuì che la “dura” aveva la mano dei marsigliesi, li scovò, li interrogò e aprì il sipario. Quando venne il turno di “Bocca di pietra”, detto così, perché era uno di quelli che non parlavano neppure sotto tortura, nel tentativo di smuovergli la lingua, ricorse ad uno stratagemma, facendo un salto da un capo all’altro della scrivania, tenendo poggiata una mano sul piano, e sfidò il dirimpettaio ad imitarlo. Quello accettò il confronto, ma continuò a tacere. Era nota la sua durezza, la sua inflessibilità.
Agli inizi alla Mobile era stato il vice di Mario Nardone. Tempi difficili. Non potevano muovere un passo senza ricevere una telefonata d’allarme. Una volta lo squillo li sorprese ad un matrimonio.
Era piacevole conversare con Jovine, nel linguaggio e nei fatti a volte portava una ventata di Napoli, pur parlando di Milano. Alto, signorile, elegante, colto, simpatico. A Bologna quel giorno splendeva il sole e piazza Maggiore era affollatissima. “Preferisci conversare facendo due passi in questa bellissima città, che ha i portici più lunghi del mondo?”. “Stiamo così bene qui”. Ed ecco evocare piazza Vetra - nel capoluogo lombardo - anticamente teatro di esecuzioni, tra cui quelle di “Cicca Berlicca”, leggendario personaggio che per i tatuaggi che ostentava su un braccio (uno sperone, una forca, un leone), si diceva avesse fatto un patto con il diavolo): e di Giacomo Legorino e Battista Scorlino, due lestofanti che nella seconda metà del ‘500 avevano reso impraticabile il bosco della Merlata.
I nostri ricordi s’intrecciavano. Ce li scambiavamo piacevolmente. Piazza Vetra! Lo storico meneghino Raffaele Bagnoli in “Storia delle vie di Milano” racconta una toccante vicenda d’amore: la figlia di un conciapelli, che, innamorata perdutamente di uno dei “polentatt” che avevano il punto vendita nella piazza e urlavano “l’è gialda, l’e calda, l’è cotta”; quando il giovane morì impazzì. Merito di Jovine il ricordo di quella vicenda.
Vito Plantone

Mario al mio arrivo aveva spento il televisore; e c’era tutt’attorno un silenzio da chiesetta di campagna. Mi preparò il caffè e collocò sul tavolo del salottino un vassoio di dolci. L’amico Vito Plantone mi aveva detto: “Ah, vai da Jovine, se me lo avessi detto prima, sarei venuto anch’io”. Erano stati Mario prefetto, e Vito questore a Palermo nello stesso periodo. Si stimavano e si volevano bene. Gli altri della compagnia erano Antonio Pagnozzi e Enzo Caracciolo, uno prefetto e l’altro questore.
Improvvisamente Jovine si fermò come se fosse stato rapito da un pensiero. Poi rientrò: “Negli anni ‘50 bisognava risparmiare su tutto. Tanto per fare un esempio, quando arrivava una lettera veniva consegnata a un agente ‘esperto’, che riusciva ad aprire una busta senza rovinarla e a rivoltarla per poterla riutilizzare. I pavimenti del commissariato Musocco erano fatti con i marmi delle tombe disfatte del cimitero”. Quanta ricchezza di episodi nella memoria di questo poliziotto arguto e umano, che diresse anche il commissariati Garibaldi e Scalo Romana, per approdare in questura, accanto al “Gatto”, soprannome usato con affetto per Mario Nardone, che aveva un suo fiuto felino.
“Ricordo il freddo di Milano. Abitavo in una casa popolare in una traversa di via Diomede. Non aveva riscaldamento come non ne aveva il mio ufficio. Ma ho trovato grande calore nella gente. Allora perfino la malavita aveva rispetto per la polizia.
Jovine, Plantone, Caracciolo, il giallista Olivieri

Il personaggio che gli era rimasto più impresso era un “boss” della mafia americana, che, estradato dagli Usa come indesiderabile, era venuto a Milano, alloggiando in uno stabile sotto il Duomo, prima di essere mandato al soggiorno obbligato in un paese del centro Italia. Una mattina Jovine lo fece convocare nel suo ufficio e gli pose alcune domande, anche sui mezzi che gli permettevano di vivere a Milano. Lui s’inchinò più volte, ma non si sedette; e quando il poliziotto gli chiese la data di nascita non rispose. Poi spiegò che negli Stati Uniti era finito in carcere proprio per aver sbagliato quella data. Era presente il maresciallo Nino Giannattasio.
Jovine, come Vito Plantone, Antonio Pagnozzi, Enzo Caracciolo e lo stesso Mario Nardone era gentile anche negli interrogatori. Una notte, facendo una perquisizione nell’abitazione di un pesce grosso capì che in un’altra stanza dormivano i bambini, quindi pregò gli agenti di non accendere la luce, di usare le pile e di lavorare in silenzio. Pochi giorni dopo, per gratitudine, l’uomo gli rivelò il posto in cui aveva nascosto 15 milioni di lire, la sua quota della rapina di via Osoppo. “Io guadagnavo 80mila lire al mese”.
Ricordava una donna che ai tempi della Mobile, andava a trovarlo, chiedendo aiuto, perché era incinta da 16 anni. Per 15 anni tornò ogni 15 giorni.
Jovine la sera del Premio

Un episodio dietro l’altro, la sua era una memoria inossidabile. Chi poteva dimenticare don Mimì, un truffatore internazionale che era riuscito a vendere una nave con tutto il carico, sostenendo di esserne il proprietario?
Concludendo, accennò ai pilastri della questura, tra cui i marescialli Ferdinando Oscuri e Nino Giannattasio. “Mario, adesso che sei in pensione, come passi il tempo?”. “Leggendo. Leggo tanto, ho sempre letto, lo sai” “E la chitarra?”. “Qualche volta la strimpello”, altro che strimpellare: un napoletano non strimpella, suona”. E mi venne in mente l’edizione del Premio “Le Porte di Milano” assegnato al professor Alberto Dall’Ora. Jovine venne apposta da Roma, dove era questore, per assistere alla cerimonia di consegna del riconoscimento al principe del foro. Arnaldo Giuliani, capo cronista del “Corriere della sera”, che intervistava brillantemente questi colossi della questura, disse che non si era mai visto un “bouquet” di questori come quella sera. Mario Jovine non c’è più da tempo.

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