LA TIPOGRAFIA DI UNA VOLTA DEL MAESTRO GIUSEPPE CALERI
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Giuseppe Caleri |
FRANCO PRESICCI
Per anni ho desiderato rivedere una tipografia vecchio stampo. Sentivo ancora l’odore del piombo delle notti trascorse al “Giorno”, il rumore delle linotype, il vocìo dei tipografi attorno ai banconi, impegnati a disporre le colonne secondo il disegno del menabò. Quando mi arrivava quell’odore mi riappariva tutto il mondo frequentato per tanto tempo.
Un giorno riuscii a intercettare un tipografo in pensione, innamorato dei disegni di Walter Molino, e fu una gioia. Stavo quasi per rinunciare all’idea di entrare in un regno popolato di cassettiere, balestre, monotipo, tipometro, rullo inchiostratore, rullio compressore, ed ecco l’occasione. “A Corsico lavora un personaggio che fa al tuo caso”. In un angolo del suo enorme stabilimento tipografico custodisce la vecchia tipografia con la cassettiera, il tipometro, , il tirabozze, il vantaggio; e di fianco la vecchia Pedalina, usata ne “La banda degli onesti”, il film con Totò, Peppino De Filippo e Giacomo Furia del 1956; e più in là una “Heidelberg Stella” di fabbricazione tedesca, di almeno 120 anni, e altre macchine...
Mi precipitai in via De Gasperi, appena oltre il confine di Milano, scampanellai al cancello, si aprì una porta e mi venne incontro a passo svelto un signore sui sessanta, in pantaloni grigi e camicia bianca, pantofole e con i baffetti su un sorriso brillante e incoraggiante “Mi dica, sono Giuseppe Caleri”. Mi fece accomodare in cucina, mise sul fornello la macchinetta del caffè e attese che gli spiegassi il motivo della visita. Era mezzogiorno e sul fuoco già bolliva l’acqua per la pasta con le cozze, il piatto preferito dal padrone di casa.
Quando dissi di essere un giornalista desideroso di vedere il suo pezzo di modernariato mi sorrise ancora, invitandomi a tavola e tra un’infilzata e l’altra tra gli spaghetti, dichiarò di essere pronto a raccontarsi. “Prima mangiamo e beviamo un bicchiere, poi andiamo nell’ufficio e parliamo. Abbiamo tempo”. Lo stabilimento era una piazza d’armi, lo studio un bugigattolo, con la scrivania del principale di fronte a quella del figlio Alberto e un quadro del pittore albanese Ibrahim Kodra a una parete. Mi sentivo a mio agio, come se quell’uomo dinamico e ospitale non fosse nuovo alla mia vista. “Preferisce parlare qui oppure nel mio orto, qui accanto, o sotto quell’ombrello di fico, che comincia a tenere appesi i suoi frutti come palline dell’albero di Natale?”. “Dove vuole lei, qui o lì per me va bene”.
E cominciò a dirmi del suo primo lavoro presso grandi maestri; della volta in cui mentre andava verso la Svizzera con la motoretta regalatagli dal titolare ebbe un incidente, si fratturò i polsi, ma continuò a fare il suo dovere; dalle opere che aveva realizzato; dei sacrifici fatti per mettere su la nuova realtà; dei riconoscimenti ottenuti da personalità di altissimo livello. Non narrava vantandosi, ma come se stesse snocciolando la storia di un altro. Una storia bellissima, esemplare di un grande professionista che aveva iniziato quasi dal niente.
Ogni tanto rispondeva al telefono, pregava chi stava dall’altra parte del filo di richiamare e riprendeva il discorso. Io lo ascoltavo senza bisogno di prendere nota, perché quel suo discorso era così affascinante che meritavano tanta attenzione, da imprimersi subito nella memoria. Erano come quelle di una favola. Avevo di fronte un uomo pieno di energia, di amore per il suo mestiere; infaticabile, generoso, schietto, che si sarebbe voluto avere come amico. E amici con il tempo siamo diventati. Andavo a trovarlo, mi portava a vedere i carciofi e le melanzane, l’insalata e i peperoni e ammiravo la pergola gravida di grappoli inarcata sulla porta. Un orto sapientemente curato. In un angolo c’erano zappa e rastrello, cesoie e badile.
Non aveva altro che la famiglia e il lavoro, Peppino Caleri. Tante volte mi sono presentato in via De Gasperi, e ogni volta m’invitava a pranzo. Un giorno andò a comperare le cozze e un grosso sarago, che cucinò con gioia e maestria. Lo invitai a cena a casa mia, con la moglie e il figlio Alberto e gli scrissi una filastrocca scherzosa, sulla sua abilità culinaria e lui sorrise.
Ogni anno andava, forse ci va ancora, in Sicilia da un amico in occasioni speciali come la vendemmia, per dare una mano “gratis et amore Dei”. Per le persone care è disposto a qualunque gesto, anche quello di sostituire una tapparella. Uomo di compagnia, è felice quando sta con gli altri, quando un commensale alza il calice e fa un brindisi inneggiando alla comitiva e alla vita. Avevo cercato un tipografo con la cassettiera e lo avevo trovato. Ma avevo trovato anche un amico leale. Ogni tanto ricordava i tempi dei suoi maestri, i primi di Milano. E Maestri si chiamava uno di questi. Io evocavo l’atmosfera della tipografia del “Giorno” e mi balzava in mente il linotipista Bardaro, che nelle pause per la mensa leggeva Diabolik e poi lo passava a chi glielo chiedeva.
Un pomeriggio ho detto a Giuseppe che quando avevo 13 anni, a Taranto avevo frequentato la tipografia di Vincenzo Leggeri (proveniente da Altamura, la città di Tommaso Fiore): stava di fronte alla piazza coperta, in via Anfiteatro, alle spalle di via D’Aquino, dove, come diceva il poeta Alfredo Luicifero Petrosillo, si faceva la ronda da piazza Maria Immacolata a piazza Garibaldi. E lui: “Con il piombo ho stampato tutta una vita”. Anche Peppino forse aveva un po’ di nostalgia per quell’epoca. Ricordo quando, seduti accanto alla tagliatrice con il figlio Alberto, discutevamo dei navigli tanto cari all’architetto scrittore Empio Malara e lui, avendo in mano un volume da tre chili della Celip del barese Nicola Partipilo, sfogliava e commentava.
E’ innamorato di Milano e si irrita se qualcuno afferma che non è una bella città. L’ho sentito al telefono giorni fa, il mio vecchio amico Caleri. Sempre gioviale. Mi ha invitato a una mangiata in tipografia, in quella cucina poco spaziosa, ma ricca di luce e di accoglienza. I fremiti della strada qui non arrivano; se sei nell’orto vedi passare il treno che parte dalla stazione di San Cristoforo, a Milano. Se ami i treni provi emozione, come ne prova lui. Il fischio della locomotiva stimola i ricordi. “Lavorai da Rosignani, poi questo complesso si trasferì a Pero e io fui assunto dal grande Maestri, famosissimo, dove facevamo lavori artistici, compresa “La Divina Commedia”, con illustrazioni di Dova, Migneco, Crippa, Guttuso… un impegno durato tre anni”.
Continua: “Quando ebbi l’incidente sulla strada verso la Svizzera e mi ingessarono i polsi, siccome eravamo alle prese con ’Il viaggio attorno all’Africa’, con un taglierino mi liberai gli arti, mi feci mandare il lavoro a casa e continuai tenendo appoggiate le pagine di piombo sulle reti del letto”. Poi con un collega della Maestri mise in piedi la tipografia tradizionale in uno scantinato di San Siro e poi nell’89 eccolo nel suo capannone di mille metri quadrati nel cuore di Corsico, quasi attaccato a Milano.
“A partire dagli anni Settanta il piombo è stato detronizzato fino a scomparire, sopraffatto dalle nuove tecnologie, basate sulla stampa a freddo e sull’uso del personal computer”. Con grande tristezza di chi entrando in tipografia si toglieva il cappello; e chi non lo faceva+ veniva redarguito dal proto. Ci tenevano anche gli operai.
Frammenti di vita esaltanti, che in Giuseppe Caleri emergono di tanto in tanto, soprattutto quando è stuzzicato. E ricorda i giorni della Bovisa, quartiere di Milano un tempo ricco di fabbriche e di tute, dove lavorò quando aveva 13 anni. “Dopo l’apprendistato fui assunto dalle Arti Grafiche Rosignani, dove feci lavori di alto prestigio; e quando il complesso si trasferì a Pero fui preso dal grande Maestri, la cui attività venne celebrata dal Comune di Milano in una mostra alla Terrazza Martini, in piazza Diaz”. Ha buona memoria, Peppino, limpida e scorrevole. “Dall’89 sono qui, dove mi hai rintracciato”.
Quanto tempo è passato, Peppino, dall’ultima volta che ci siamo visti in via De Gasperi e anche dall’ultima telefonata! Forse sette anni. Fortunatamente ti ho fatto squillare il telefono qualche giorno fa e mi hai risposto con la voce scoppiettante di sempre. Vecchio tipografo con la cassettiera. Lo so che ogni tanto riapri i cassetti, prendi in mano qualche lettera, componi il nome e il cognome di un amico, come hai fatto con me, e pensi al tempo che passa inesorabilmente. Scherzando gli dico che pare un sosia di Errol Flynn, l’attore cinematografico irlandese elegante, prestante, alto, baffetti delicati, come i suoi, e mi risponde che non ha mai usato né la cappa né la spada.
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Caleri e il figlio Alberto |
Mi precipitai in via De Gasperi, appena oltre il confine di Milano, scampanellai al cancello, si aprì una porta e mi venne incontro a passo svelto un signore sui sessanta, in pantaloni grigi e camicia bianca, pantofole e con i baffetti su un sorriso brillante e incoraggiante “Mi dica, sono Giuseppe Caleri”. Mi fece accomodare in cucina, mise sul fornello la macchinetta del caffè e attese che gli spiegassi il motivo della visita. Era mezzogiorno e sul fuoco già bolliva l’acqua per la pasta con le cozze, il piatto preferito dal padrone di casa.
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Caleri all'ombra |
Quando dissi di essere un giornalista desideroso di vedere il suo pezzo di modernariato mi sorrise ancora, invitandomi a tavola e tra un’infilzata e l’altra tra gli spaghetti, dichiarò di essere pronto a raccontarsi. “Prima mangiamo e beviamo un bicchiere, poi andiamo nell’ufficio e parliamo. Abbiamo tempo”. Lo stabilimento era una piazza d’armi, lo studio un bugigattolo, con la scrivania del principale di fronte a quella del figlio Alberto e un quadro del pittore albanese Ibrahim Kodra a una parete. Mi sentivo a mio agio, come se quell’uomo dinamico e ospitale non fosse nuovo alla mia vista. “Preferisce parlare qui oppure nel mio orto, qui accanto, o sotto quell’ombrello di fico, che comincia a tenere appesi i suoi frutti come palline dell’albero di Natale?”. “Dove vuole lei, qui o lì per me va bene”.
E cominciò a dirmi del suo primo lavoro presso grandi maestri; della volta in cui mentre andava verso la Svizzera con la motoretta regalatagli dal titolare ebbe un incidente, si fratturò i polsi, ma continuò a fare il suo dovere; dalle opere che aveva realizzato; dei sacrifici fatti per mettere su la nuova realtà; dei riconoscimenti ottenuti da personalità di altissimo livello. Non narrava vantandosi, ma come se stesse snocciolando la storia di un altro. Una storia bellissima, esemplare di un grande professionista che aveva iniziato quasi dal niente.
Ogni tanto rispondeva al telefono, pregava chi stava dall’altra parte del filo di richiamare e riprendeva il discorso. Io lo ascoltavo senza bisogno di prendere nota, perché quel suo discorso era così affascinante che meritavano tanta attenzione, da imprimersi subito nella memoria. Erano come quelle di una favola. Avevo di fronte un uomo pieno di energia, di amore per il suo mestiere; infaticabile, generoso, schietto, che si sarebbe voluto avere come amico. E amici con il tempo siamo diventati. Andavo a trovarlo, mi portava a vedere i carciofi e le melanzane, l’insalata e i peperoni e ammiravo la pergola gravida di grappoli inarcata sulla porta. Un orto sapientemente curato. In un angolo c’erano zappa e rastrello, cesoie e badile.
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Caleri nell'orto |
Ogni anno andava, forse ci va ancora, in Sicilia da un amico in occasioni speciali come la vendemmia, per dare una mano “gratis et amore Dei”. Per le persone care è disposto a qualunque gesto, anche quello di sostituire una tapparella. Uomo di compagnia, è felice quando sta con gli altri, quando un commensale alza il calice e fa un brindisi inneggiando alla comitiva e alla vita. Avevo cercato un tipografo con la cassettiera e lo avevo trovato. Ma avevo trovato anche un amico leale. Ogni tanto ricordava i tempi dei suoi maestri, i primi di Milano. E Maestri si chiamava uno di questi. Io evocavo l’atmosfera della tipografia del “Giorno” e mi balzava in mente il linotipista Bardaro, che nelle pause per la mensa leggeva Diabolik e poi lo passava a chi glielo chiedeva.
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la Tipografia Leggieri a Taranto |
E’ innamorato di Milano e si irrita se qualcuno afferma che non è una bella città. L’ho sentito al telefono giorni fa, il mio vecchio amico Caleri. Sempre gioviale. Mi ha invitato a una mangiata in tipografia, in quella cucina poco spaziosa, ma ricca di luce e di accoglienza. I fremiti della strada qui non arrivano; se sei nell’orto vedi passare il treno che parte dalla stazione di San Cristoforo, a Milano. Se ami i treni provi emozione, come ne prova lui. Il fischio della locomotiva stimola i ricordi. “Lavorai da Rosignani, poi questo complesso si trasferì a Pero e io fui assunto dal grande Maestri, famosissimo, dove facevamo lavori artistici, compresa “La Divina Commedia”, con illustrazioni di Dova, Migneco, Crippa, Guttuso… un impegno durato tre anni”.
Continua: “Quando ebbi l’incidente sulla strada verso la Svizzera e mi ingessarono i polsi, siccome eravamo alle prese con ’Il viaggio attorno all’Africa’, con un taglierino mi liberai gli arti, mi feci mandare il lavoro a casa e continuai tenendo appoggiate le pagine di piombo sulle reti del letto”. Poi con un collega della Maestri mise in piedi la tipografia tradizionale in uno scantinato di San Siro e poi nell’89 eccolo nel suo capannone di mille metri quadrati nel cuore di Corsico, quasi attaccato a Milano.
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Il fu Palazzo del "Giorno" in via Fava |
Frammenti di vita esaltanti, che in Giuseppe Caleri emergono di tanto in tanto, soprattutto quando è stuzzicato. E ricorda i giorni della Bovisa, quartiere di Milano un tempo ricco di fabbriche e di tute, dove lavorò quando aveva 13 anni. “Dopo l’apprendistato fui assunto dalle Arti Grafiche Rosignani, dove feci lavori di alto prestigio; e quando il complesso si trasferì a Pero fui preso dal grande Maestri, la cui attività venne celebrata dal Comune di Milano in una mostra alla Terrazza Martini, in piazza Diaz”. Ha buona memoria, Peppino, limpida e scorrevole. “Dall’89 sono qui, dove mi hai rintracciato”.
Quanto tempo è passato, Peppino, dall’ultima volta che ci siamo visti in via De Gasperi e anche dall’ultima telefonata! Forse sette anni. Fortunatamente ti ho fatto squillare il telefono qualche giorno fa e mi hai risposto con la voce scoppiettante di sempre. Vecchio tipografo con la cassettiera. Lo so che ogni tanto riapri i cassetti, prendi in mano qualche lettera, componi il nome e il cognome di un amico, come hai fatto con me, e pensi al tempo che passa inesorabilmente. Scherzando gli dico che pare un sosia di Errol Flynn, l’attore cinematografico irlandese elegante, prestante, alto, baffetti delicati, come i suoi, e mi risponde che non ha mai usato né la cappa né la spada.
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