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mercoledì 31 luglio 2024

Indimenticato il “pret de Ratanà

AVEVA FAMA DI GUARITORE DON GIUSEPPE GERVASINI





don Giuseppe
Un colloquio con Angelo Frigerio nipote di Vincenzina Pizzi, devota del “don”, che ai suoi tempi, oltre all’affetto, si attirò anche inimicizie, invidie, cattiverie. Sepolto al cimitero Monumentale, dove riposano i grandi, alla sua tomba s’inginocchiano i fedeli, che gli fanno dir Messa, portano fiori e cambiano l’acqua nei vasi.











Franco Presicci





Ai miei tempi i nonni raccontavano le fiabe ai nipotini soprattutto la sera della vigilia di Natale. Magari stando seduti attorno ad un braciere o a un bacile scheggiato. Non solo fiabe, anche brani di vita vissuta intrecciati con giochi di fantasia. E i virgulti stavano ad ascoltare con attenzione, a volte immedesimandosi nelle trame di Cenerentola e Cappuccetto Rosso, ma anche del passerotto implume caduto dal nido sulla neve, rischiando la vita, se un vecchietto non lo avesse raccolto e ospitato in un cestino cilindrico per i gomitoli di lana.
a sinistra Vincenzina Pizzi
Vincenzina Pizzi, di Carate Brianza, con il piglio da comandante delle forze armate o da carabiniere baffuto, a Natale si stemperava e stando con i nipoti, snocciolava ricordi del “pret de Ratanà”, che seguiva assiduamente anche quando il ministro di Dio diceva messa o riceveva persone che avevano bisogno di un consiglio per guarire. A volte si portava appresso il nipote Angelo, che allora abitava con lei in via Carlo Farini, a Milano, dove si era trasferita con il marito.
Don Giuseppe Gervasini – questo il nome del prete – aveva fama di guaritore, alchimista, erborista e tantissimi credevano che facesse anche miracoli. Si raccontava la storia della donna che, lasciata a casa la figlia ammalata, corse da lui per avere un rimedio, e come risposta ebbe una mano sulla spalla e l’invito a tornare che vi avrebbe trovata la ragazza in piedi in perfetto stato di salute. Si raccontava anche la storia di un lattaio che aveva la faccia piena di gonfiori, arrossamenti e piaghe che gli facevano un dolore bestiale. Un luminare gli aveva prescritto delle iniezioni costose, ma il problema non riusciva a risolverlo. Andò da don Giuseppe, che prima lo riempì di insulti ed improperi per aver obbedito senza pensare a quella ricetta e poi gli suggerì di prendere la schiuma del latte, di metterla sui fornelli e poi di spalmarla sul viso. Detto come sempre in dialetto in milanese e con qualche parola grossolana.
Don Giuseppe aveva anche un’intesa strana con i tram con capolinea a Baggio. Quando doveva prenderlo, non faceva eccezione all’abitudine di procedere con un passo da tartaruga, arrivando appena in tempo. Un giorno il conducente, infastidito dalla sua flemma, mise in moto, il tram partì ma si fermò dopo qualche metro. Il conducente ripetè il comando più volte e il mezzo rimase immobile. Si mosse soltanto dopo che don Giuseppe era salito mormorando: “Adess va pur”. Adesso va’ pure.
Angelo e Gianni Bianchi

Angelo Frigerio
Leggende metropolitane o episodi realmente accaduti? I maligni erano scatenati con don Giuseppe, assegnando pessime interpretazioni ad ogni suo gesto. Di difetti il sacerdote ne aveva: l’11 giugno del 1892, giorno in cui prese i voti, parenti e amici organizzarono una festa, ma lui non si fece vedere se non la sera, trovando il tavolo vuoto dei cibi che erano stati preparati. Ma possedeva anche dei pregi. Stava sempre dalla parte dei poveri, tanto da inimicarsi i padroni delle terre, che si lamentarono con le autorità ecclesiastiche già quando il sacerdote svolgeva la sua missione a Recanate.
In un pomeriggio di pioggia pigra e silenziosa, due nonni, Angelo Frigerio, come detto nipote della devota Vincenzina, e il sottoscritto, hanno ripassato la vicenda di don Giuseppe con più benevolenza. Viveva in una modesta villetta di fianco alla Cascina Linterno, dove per nove anni soggiornò Francesco Petrarca, curando l’orto, correggendo alcune sue opere e godendo il silenzio e la solitudine che aveva cercato (era stato chiamato a Milano come consigliere e ambasciatore da Giovanni Visconti). La cascina – mi piace dirlo – è curata dai fratelli Gianni e Angelo Bianchi, che con le loro mille iniziative calamitano il quartiere nel cortile e nella chiesetta della stessa struttura, non solo tenendo conferenze e scrivendo libri scrupolosamente documentati sulla vita e le attività passate del luogo; ma anche, a volte, parlando di don Gervasini.
Cascina Linterno

”Mia nonna era affezionata a don Giuseppe – mi dice Angelo - da quando durante la guerra si trasferì da Carate Brianza nel capoluogo. Lo era tanto, che durante il conflitto mondiale all’ululato della sirena non correva mai al ricovero antiaereo, ma rimaneva in casa incurante dei bombardanti, che sventravano case, strade, edifici, sicura che don Gervasini l’avrebbe protetta”.
Vincenzina era amica di Carolina, la perpetua del prete, e insieme, quando lui, famoso non soltanto in Lombardia, morì sollecitarono la gente a raccogliere ciò che era necessario per i funerali e il resto, compresa la sepoltura al cimitero Monumentale, dove riposano i grandi: Antonio Ascari, Antonio Beretta, primo sindaco di Milano, Camillo e Arrigo Boito, Arturo Toscanini, Ferdinando Bocconi, Arnoldo Mondadori, Giovanni Battista Pirelli e tanti altri. “Pina andava tutti i giorni a far visita alla tomba del prete, vi portava i fiori, che distribuiva anche alle tombe vicine, cambiando l’acqua nei vasi, e poi recitava, con altri devoti, il rosario e faceva dire la Messa. Rito osservato per anni e anni, e anche oggi.
Particolare di Cascina Linterno

Vincenzina in questi percorsi portava con sé anche il nipote Angelo, e strada facendo gli raccontava qualche brano dell’attività e del carattere del “don”. Oltrepassata la soglia del camposanto, vedendo tanta gente raccolta attorno al sepolcro, se rallegrava. “Ho imparato a conoscerlo – dice Angelo - fin da quando cominciai ad andare alle elementari. Mia nonna era un caporale, voleva decidere tutto lei, tenere il bastone sempre in mano”; ma quando parlava di don Giuseppe Gervasini attenuava i toni, manifestando una stima e un rispetto assoluti, una vera e propria devozione”.
Da Baggio e dalla cascina Linterno le voci sulle sue doti arrivavano a Milano con la velocità della luce, suscitando malignità e malumori, invidie, dicerie e cattiverie. Lui lo sapeva, ma non se ne curava, forse ispirandosi al “Non ti curar di lor, ma guarda e passa”. Andava avanti per la sua strada muovendosi tra leggenda e storia, erbe e pranoterapie. I tanti libri, fra cui quello di Francesco Ogliari e Franco Fava, “La Milano del Pret de Ratanà”, lo definiscono burbero benefico, ma guai se questo giudizio ai suoi tempi fosse arrivato alle orecchie di Vincenzina Pizzi, che come moltissimi altri lo riteneva degno di santificazione, promozione che spetta alla Chiesa e non al popolo.
Angelo Frigerio osservava i gesti e ascoltava le parole di Vincenzina con la curiosità e l’attenzione dei piccini della sua età, e mi dice che per lei le virtù di don Giuseppe non erano fantasie dei suoi devoti, ma guarigioni vere, miracoli. Ogliari e Fava sostengono, e ci crediamo, che era una persona buona, generosa, amante del prossimo, che non chiedeva mai compensi per quanto faceva per gli altri. I suoi erano slanci di umanità, nonostante fosse aspro, irascibile e a volte volgare. Si dice, ma a noi è simpatico lo stesso.
Monumento a don Giuseppe

Il cardinale Schuster aveva per don Gervasini simpatia e benevolenza, e a volte concelebrava la messa con lui: Gli chiese anche un rimedio per il mal di gola, e revocò il provvedimento emesso dal cardinal Ferrari di sospensione “a divinis”. Don Giuseppe era dunque un prete scomodo, i detentori della scienza medica si erano ribellati, accusandolo di esercitare la loro professione abusivamente, senza titolo ed esperienze specifiche. Neppure il suo appoggio alle persone deboli, indifese, povere, come i contadini, era visto di buon occhio da chi deteneva il potere, cioè i proprietari di terre. E questo alla fine aveva prodotto il suo esonero dalla cappellania di Ratanà, che aveva tenuto dal 1897 al 1901.
Immaginetta di don Giuseppe

Molti erano anche gelosi dell’attenzione che gli dedicavano i giornali, considerando pregi e difetti. I titoli si avvicendarono anche dopo la sua morte. “Vogliono santo il pret de Ratanà”; “La gente ricorda ancora il prete che faceva miracoli”; “Sulle orme magiche del pret de Ratanà”… La sua storia è stata ripercorsa in un film del ‘73, “Stregoni di città”. Il sacerdote, nato 1° marzo del 1897 e deceduto il 22 novembre del 1941, non è mai stato dimenticato. Anni fa un ladro s’impossessò del crocifisso che stava sulla sua tomba e i devoti si rivolsero al “Giorno”, chiedendo un articolo che favorisse la restituzione, intanto ne acquistarono uno nuovo. Una mattina l’originale fu rimesso al suo posto.
Il “pret” ancora oggi è ricordato, venerato. Una moltitudine di persone, non solo milanesi, vanno a portare fiori sulla sua tomba, a dire preghiere. Alcuni, andando alla Cascina Linterno, si fermano davanti alla sua casa e sussurrano: “Qui abitava el pret de Ratanà”. Che aveva carisma e parlava in dialetto.

giovedì 25 luglio 2024

Tra luglio e agosto vanno in scena

LE BELLE SAGRE DEL FEGATINO E DEL PEPERONCINO PICCANTE





Michele Annese
Michele Annese non potrà esserci essendo scomparso qualche mese fa. Crispiano lo
immaginerà passeggiare tra la folla, salutato dagli amici e dai conoscenti, che sono un esercito.














Franco Presicci





Questo sarà il primo anno che non vedrà Michele Annese fare la ronda lungo via Martellotta a San Simone fino alla piazza che fronteggia la chiesa di San Michele Arcangelo. Michele è mancato qualche mese fa a Crispiano, lasciando un vuoto enorme e non soltanto nell’ambito della sua famiglia. Già in questi giorni mi telefonava per dirmi di tenermi pronto, di non prendere altri appuntamenti, perchè ne avevo un paio più importanti: la Sagra del fegatino e quella “d’u diavulìcchie asquànde”. Non avevo bisogno di prendere nota e neppure d’interrogare la mia memoria: dicevo sì e basta, aspettando con ansia la sera dell’inaugurazione. “Quest’anno ci sarà anche il professor Biagi, un esperto di alto livello, con le sue specialità in polvere. Una novità assoluta, mi assicurano gli organizzatori”, primo Alfredo De Lucretiis, degli “Amici da sempre”, noto anche per i presepi con la pasta, il pane, i biscotti scaduti, allestiti con gli altri del gruppo. Michele mi richiamava il giorno prima: ”Ricordi la promessa?”.
Annese mi consegna laltro suo libro

E io correvo. Era un onore oltre che un piacere essere invitato a quegli eventi, dove incontravo persone importanti non soltanto nel settore, come il dottor D’Addario, presidente dell’Associazione dedicata a Oria “’o peperusse asquànde”, meglio all’habanero, che si coltiva nello Yucatan e allora al primo posto in quanto a “piccantezza”. Una signora superottantenne una sera durante la festa cucinò orecchiette con il sugo cosparse di peperoncino: a tavola, come su un palco, io. D’Addario, Michele, Silvia, Irene ad ascoltare come alunni al liceo lezioni dotte sulla spezie e le sue virtù. Alla fine non dico che fossimo pronti per un esame di maturità, ma ne sapevamo abbastanza. D’Addario mi invitò a Oria per approfondire il discorso e mi gratificò di una bellissima rivista in carta patinata pubblicata da qualche parte in Calabria, forse a Diamante, dove si svolge un concorso che richiama divoratori del diavolicchio da ogni parte d’Italia; e forse anche dall’estero.
Ultimo libro di Michele Annese

Il luogo in cui gustammo i piatti preparati per noi mi sembrava un luogo di appostamento adatto a sbirciare la marea, ondulante, qui frastagliata, lì compatta. Poi ci immergemmo in quel fiume, captando parole, gesti, smorfie sulle qualità dell’habanero e dei suoi fratelli, a migliaia sparsi nel mondo. Molti conferenzieri improvvisati erano anche sprovveduti. Ho ancora in mente un sosia dello Smilzo dei film di Peppone e don Camillo: “L’ho provato io, e non vi dico la potenza erogena di questo cibo. Mi ha ridato la vita, il rigore, mi ha rimascolinizzato”. La signora di fianco a lui assumeva espressioni che al marito, se le avesse notate, non sarebbero piaciute. Come se dicesse: “Bah, io non me sono accorta”. Michele e io sentivamo le sparate, un sorriso divertito e via avanti c’è posto. E più avanti passeggiava un altro mingherlino, basso e con un “papillon” da circo equestre: “Vi consiglio, non esitate, spargetelo pure sul gelato, nel caffè, nel latte, sulle friselle, sulle mozzarelle, vedrete i benefici” soprattutto nell’alcova. La moglie s’indignava per quei discorsi così espliciti sciolti in pubblico, sia pure fra amici e in un paese mille chilometri lontani dal proprio.
Ed eccoci nello stand del professor Biagi, che veniva da Pisa. “Professore, possiamo fare due chiacchiere?”. “Certo, accomodatevi”. E cominciò mostrandoci una pianta inventata e coltivata da lui. Michele ammirava le decine e decine di piatti allineati su un tavolo: una tavolozza vegetale originale, costituita da ogni tipo di peperoncino. Il professor Biagi ci illustrò quelli che poteva, perché doveva anche soddisfare la clientela, tra l’altro affascinata dall’ambiente. Eravamo fra i “Peperoncini dal mondo”.
Silvia e Michele a Martina

Quest’anno, nonostante l’accaduto, mi aspetto la telefonata di Michele, Non la farà, non potrà farla. All’ombra dell’ulivo che accoglie le mie confidenze farò un tuffo fra i ricordi: Michele e io seduti su un muretto di via Martellotta a guardare il flusso degli appassionati, a sentire le battute di Giorgio Di Presa, laureato, negozio di erboristeria a Martina e una simpatia spontanea e immediata; la voce di un tizio che proclamava il suo amore per il peperoncino, così grande da indurmi alla prova: uno intero, e i commensali allarmati, pronti a chiamare i vigili del fuoco, per spegnere il fuoco che m’infiammava il palato. “Non ti pare di essere esagerato?”, fu il commento di uno dei centomila amici di Michele che si era aggiunto a noi. “A volte le esagerazioni rendono meglio l’idea”.
Quanta umanità sfilava a San Simone, e altrettanta sfilerà nella seconda domenica di settembre: un appuntamento che molti hanno già inciso nel proprio taccuino. Anch’io l’avevo fatto. Stando a Martina, nella campagna a cinque chilometri su via Mottola, in un balzo ero a Crispiano. Prima tappa la bella villa di Michele e Silvia. Qualche volta eravamo lì all’ora di cena in un’atmosfera di allegria. In via Lecce mi sentivo a casa. C’era allora anche la mamma di Silvia, Antonietta, di cui ricordo lo sguardo, i modi, il sorriso, i silenzi eloquenti. Ed è dal balcone di casa sua che vedevamo le luminarie, le siepi animate, il movimento; ascoltavamo i voci della Sagra del fegatino, e catturavano gli odori e anche i sapori, visto che Michele arrivava con le mani piene. Stando su quel balcone, con il mento poggiato sulle mani aggrappate alla ringhiera mi sentivo come in un palco della Scala a seguire le scene del “Rigoletto” o della “La Tosca”.
Michele Annese

Anche quella era, ed è, una festa attesa. Come lo fu la sagra delle lumache, inventata da Liuzzi, e tante altre manifestazioni, tra cui il Carnevale estivo, con tanti carri originali e tanti figuranti in costume. Io ero sotto il palco con Michele e a tratti ci salivo per poter immortalare i momenti più belli. E il presepe vivente, alloggiato nelle grotte basiliane? Ci andavo con Michele. E con Michele facevo lunghe passeggiate per le vie di Crispiano. Con un cicerone come lui, che mi illustrava i nomi delle targhe, mi parlava della biblioteca, che dirigeva con sapienza e intelligenza, galvanizzando i collaboratori, arricchendo gli scaffali, creando ambienti per lo studio e corsi di specializzazione con un ritmo frenetico, assorbivo cultura. Ricordo le iniziative che sono servite anche da esempio per altri, facendo della città una fucina di idee e di progetti, testimone l’Università del tempo libero e del sapere, dove ogni settimana Silvia tiene o fa tenere conferenze sulla letteratura, sull’arte, sui problemi che si presentano ogni giorno nel Paese.
Grazie a Michele ho conosciuto persone amabili: Vito Santoro, fisarmonicista virtuoso e conoscitore di tutte le tradizioni locali e non, il sindaco Luizzi, l’ex parroco della chiesa di San Simone, autore di libri sulla Crispiano di una volta: i giochi, le feste, le cene di Natale, i pranzi di Pasqua, le processioni della Madonna della Neve, l’albero della cuccagna...
Silvia, Santoro, Michele

Quante volte sono andato a trovarlo in biblioteca, Michele. Lo sorprendevo seduto dietro la scrivania nel suo ufficio, si alzava, mi offriva una sedia e mi parlava dei suoi programmi. Grazie a lui ho visitato tante masserie: la Monti Del Duca, la Pilano, la Belmonte. La Francesca, la Pizzica, le Monache…, in cui si allestivano spettacoli ispirati o organizzati da lui, si tenevano conferenze, presentazioni di libri: molto interessante quella per il volume di Giuseppe Giacovazzo, “Puglia, il tuo cuore”, seguita da una lunga tavolata con specialità locali. Una sera colsi le voci contrastanti sulla pittura di Ernesto Treccani fra cui un critico di Taranto e un altro a me sconosciuto. Urlavano, gesticolavano, si alzavano, si sedevano su una panca di pietra, abbassavano la voce arrendendosi: teatro.
Tutto ricordo di Crispiano: voci, persone, eventi. Fui invitato a un convegno sulle lumache in una masseria e mi furono offerte sette coppe di gasteropodi con il sugo, per cortesia dell’ex sindaco Liuzzi, simpatico, comunicativo, gentilissimo soprattutto con gli ospiti. Fui invitato, per intercessione di Michele, alla Sagra dei funghi, organizzata dal ristorante “C’era una volta”, dove feci una memorabile mangiata di boleti, mai più ripetuta nella mia vita. Il titolare, Cosimo Basile, dai modi e dalle idee squisiti, mi salutò offrendomi in regalo un “cubo” (non ricordo il nome), da cui fiorirono decine di ottimi prataioli.
Michele e Donato Basso

Michele mi ha fatto accomodare in alcuni dei migliori ristoranti della sua città, di cui era innamorato, ricevendo stima, rispetto. Era colto, acuto, generoso. Al ristorante della masseria Belmonte ci intrattenemmo sul brigante “Pizzichicchio”, ascoltando buona musica e gustando piatti confezionati con sapienza.
Gli ho voluto bene. Ogni sua iniziativa trovava pronta la mia penna. Erano iniziative sagge, nuove; la biblioteca con lui era una fucina di cultura. Quando chiuse mi venne in mente Dino Buzzati, che su “Il Corriere d’Informazione” - confratello pomeridiano del “Corriere della Sera”- quando si spensero definitivamente le luci della gloriosa Galleria “Apollineaire” di Guido Le Noci in via Brera, pubblicò un necrologio.

mercoledì 17 luglio 2024

Rileggendo su un periodico scomparso

GLI ARTICOLI DI ENZO CATANIA SUL “SURF” IN POLINESIA



Articolo di Enzo Catania su "Tempo Illustrato"
Con “Tempo Illustrato” ritrovo i ricordi del collega che diresse la cronaca del
quotidiano “Il Giorno” negli anni 70 e 80, fra quelli più felici del giornale di Enrico Mattei.












Franco Presicci





“Siete in vacanza nell’Oceano Pacifico e volete conquistare le grazie d’una polinesiana? I bicipiti non contano, la taglia atletica neanche, i soldi ancora meno. Dovete solo navigare in groppa a un’onda. Vi giudicano come lo fate. E c’è un perché: i polinesiani stanno sulle onde meglio che in poltrona a casa loro. Per secoli e secoli si sono divertiti a rincorrere i cavalloni...”. Sfogliando le pagine del ‘68 di “Tempo Illustrato”, con mio grande piacere mi sono imbattuto in questo bellissimo articolo del compianto Enzo Catania, che s’intrattiene sulla pratica del surf, il cui legno all’epoca poteva costare anche 60mila lire. “L’azione dell’atleta è scandita da un invisibile orologio. Egli attende l’onda, l’affronta di petto…”. La cavalca, si lascia travolgere, inghiottire, fa salti mortali, acrobazie spettacolari, vivendo l’ebrezza dell’impresa.
Catania, Ottavia Piccolo, Lotito

Che soddisfazione incontrare nelle pagine di questo prestigioso settimanale, che ebbe tra i suoi direttori Nicola Cattedra (lavorò al Giorno con Romeo Giovannini, fiorentino pepato e simpatico, traduttore dal latino dei testi classici) e come collaboratori, fra i tanti, Ermanno Rea, Morando Morandini, che poi passarono con altri al “Giorno”. (Morandini come critico cinematografico e Rea come redattore insigne, noto anche come prestigioso scrittore). Con loro trovo anche Sandro Paternostro con un articolo intitolato “La Cina verso l’età della ragione) e un pezzo di John Dyson: “Sognando conosceremo il futuro”. Andando avanti ripercorro anni all’indietro anche rileggendo Vittorio Gorresio: “La nostra avventura sulla Luna”, vista in diretta da milioni di persone.
Torno a Enzo Catania, e lo ricordo cronista, capocronista, vicedirettore, inviato e infine direttore del quotidiano dell’Eni, che ha avuto anni felicissimi con “segugi” entusiasti del loro mestiere, quasi sempre i primi ad arrivare sui fatti, veri cercatori di notizie, dotati di esperienza e intuito, come Tanino Gadda, Giancarlo Rizza, che lavorarono per la testata fin dai tempi della fondazione. Erano i giorni gloriosi del quotidiano, presente puntualmente nelle edicole di tutta Italia, della Tunisia, in Svizzera e altrove. Che soddisfazione un giorno del luglio1987, quando, seguendo fino a Tunisi il delitto del catamarano, lessi il mio articolo pubblicato in mezza pagina. Me lo portò all’ingresso dell’albergo Mustafà (che parlava un po’ calabrese per via di un cognato nato in quella terra), l’autista che mi aveva accompagnato alla spiaggia di Gaar el Mel e da allora compagno delle mie giornate per una settimana.
La cronaca

Enzo Catania aveva lasciato il volante della Cronaca e ripreso l’attività svolta al “Tempo”: l’inviato. Fu colpito da quel fattaccio (una skipper, Annarita Curina uccisa da un presunto ospite sulla sua imbarcazione, gettata in mare e scoperta dopo qualche giorno imbrigliata nella rete di alcuni pescatori) e scrisse subito un libro, uno dei tanti che la sua casa editrice aveva mandato in libreria. Era frenetico lo spirito che aveva creato in Cronaca: nessuno di noi guardava mai l’orologio. Alla notizia di un omicidio, di un incendio disastroso, di un sequestro di persona, di una rapina in banca correvamo con il fotografo anche se mancavano pochi minuti alla scadenza del nostro turno, che era su un foglio di carta compilato dal bravissimo collega Giorgio Guaiti e appeso accanto al calendario. Nessuno di noi si tirava mai indietro, trascorrevamo notti intere sulla strada, diventavamo levrieri alla telefonata di un brigatista che ci annunciava un volantino di rivendicazione in un cestino portarifiuti. A volte avvisavamo Enzo già quando eravamo a bordo dell’auto, guidati da veri esperti del volante (Ricciardi, Napolitano, Gusmaroli, Camarda…) e il fotografo (Mario Taito, D’Anna, Pizzamiglio, Dell’Abate, Moningelli, Zanni…), che avevano il laboratorio al decimo piano). Lo chiamavamo al telefono dalla macchina, e quando rientravamo al giornale lui aveva già scritto il titolo e predisposto lo spazio. Aveva un fiuto straordinario. Tutti i direttori che si avvicendarono, da Guglielmo Zucconi a Gaetano Afeltra, a Lino Rizzi lo stimavano; e lui aveva grande rispetto per i cronisti, li lasciava liberi di andare e venire, senza mai chiedere i motivi delle fughe, immaginando che fossero appostati da qualche parte con le orecchie tese. E quando uno di noi tornava con il “carnet” pieno, scattava urlando come un lupo nella foresta.
Catania e Kodra

Noi sapevamo che Enzo aveva un “curriculum” straordinario. Conservo una foto che lo coglie a cavallo su un monte della Sardegna alla ricerca di qualche latitante da intervistare, seguito dall’immancabile fotografo, forse Uliano Lukas, che era anche suo amico. Il giornale era per lui casa e bottega. A volte si presentava alle 6 del mattino e usciva a mezzanotte o a quell’ora tornava. Girava per i tavoli con il suo passo da bersagliere, scambiava una battuta spesso con Adelaide Murgia, che si occupava di cultura, e prendeva l’ascensore per andare dal direttore o in tipografia.
Non stava mai fermo, se non quando scriveva, a volte si rabbuiava di fronte a una contrarietà. Il mercoledì alle 16 andava ad Antennatrè Lombardia, per la quale confezionavamo il telegiornale e lui conduceva una trasmissione sui fatti del giorno. Era in buoni rapporti con pilastri della concorrenza, da Arnaldo Giuliani a Pasanisi. Passò la notte con il cronista in strada durante la rapina con ostaggi in un istituto di credito dalle parti di piazza degli Affari. Curioso, effervescente, volpino, generoso. La domenica raggiungeva il giornale in sella ad una moto fiammante; quando ripartiva ricordava di avere lasciato gli occhiali da sole al giornale e allora prendeva i miei, se lo accompagnava fino al cortile. Altre volte andavamo a bere uno “zibibbo”al bar dell’angolo o a mangiare i ”pescetti” da poco pescati (lo affermava l’oste) nel ristorante all’angolo con via Melchiorre Gioia.
Nino Gorio

Lotito, bravissimo cronista e scrittore (La sua opera più recente, “Di ghiaccio e di frecce”, uscita da Mondadori), Giorgio Guaiti, Giulio Giuzzi, Giovanni Basso erano la squadra affiata della “nera”... Con noi Enzo scherzava, ci affibbiava dei soprannomi con quel suo sorriso mimetizzato sotto il pelo che gli incorniciava il viso. Insomma era una bella cronaca che lasciava la preda soltanto quando l’aveva spolpata. E spesso il racconto dei fatti accaduti grondava di chicche costate ore e ore d’impegno, succhiando da amici disposti a darci una mano. Tutti apprezzavano lo zelo di questi cronisti infaticabili, cani da tartufi dal fiuto felino. La mattina dopo, sfogliando i giornali, il capo, come direbbe Saverio Sardone che navigava tra i vertici della testata, si mostrava soddisfatto per il lavoro compiuto; e non mancava di battere una mano sulla spalla di chi si era distinto.
Qualche collega voleva venire in cronaca e faceva di tutto per raggiungere l’obiettivo, ma il direttore d’orchestra, che sapeva scegliere, faceva finta di non sentire, per timore di arruolare una voce stonata. Tutti erano molto bravi a suonare il proprio strumento. E nessuno se ne vantava. Nino Gorio, solista al Palazzo di Giustizia, vinse anche il Premio Cronista dell’anno per uno scoop che molti avrebbero voluto mettere a segno. Quando volò a Senigaglia per riceverlo, con lui c’era anche Enzo Catania, fiero della conquista.
Tutti questi ricordi sono emersi da quell’articolo di Enzo Catania su “Tempo Illustrato”, uno dei periodici più letti e più seri. Già ben collaudato, in quel giornale spaziava tra “nera” e “bianca”, ed era già una firma. Lessi tutti i suoi libri: da “Sono Innocente” alla storia dell’Inter, alla storia della mafia in cinque volumi. Enzo Biagi lo indicò come vero esperto di Cosa nostra. Badalamenti, Liggio, Gaetano Fidanzati… erano per lui nomi e storie senza segreti. Non aveva invidia per nessuno, tanto che in queste pagine coinvolse anche un collega che si occupava di nera con autentica passione.
Al centro Giancarlo Rizza

Questa era la Cronaca del “Giorno”ai tempi di Enzo Catania e tale continuò ad essere con Guido Gerosa, che sostituì Enzo quando diventò inviato e piombò in diversi Stati esteri. La sala degli inviati era di fronte alla nostra e spesso ci veniva a far visita un altro grande, Mario Zoppelli, che era stato cronista con Giorgio Susini e poi corrispondente da Mosca. Una penna memorabile, come quella di Guido Nozzoli, che tra l’altro si occupò della clamorosa rapina della banda Cavallero all’agenzia del Banco di Napoli di largo Zandonai e delle sanguinose ore che la seguirono nelle strade terrorizzate di Milano. In quell’occasione il “Giorno” impegnò diversi cronisti. E lo fece anche per la strage di Moncucco, nel ristorante “La Strega”, il 2 novembre del ‘79, con 8 morti spietatamente assassinati.
Enzo Catania non c’è più da qualche mese, e io non smetto di ricordarlo con affetto. Chiudo la raccolta di “Tempo Illustrato”, dopo aver riletto a volo d’uccello i suoi pezzi e quello di Guido Vergani, scomparso anche lui (dopo aver diretto la redazione milanese di “Repubblica”), sui giovani, che impongono i loro gusti e sono la punta più avanzata di quella rivoluzione del costume, che è stata al centro di questa nostra inchiesta”.

mercoledì 10 luglio 2024

Un bellissimo libro da leggere subito

LO SCRITTORE PIERO LOTITO FA RIVIVERE UN UOMO NATO TANTI  MILLENNI OR SONO





Lo racconta, immaginando, nel suo libro “Di freccia e di gelo”, esposto al Salone del libro di Torino e ora presentato in città e paesi dal Nord al Sud. E’ già un successo. Piero Lotito non è alla sua prima esperienza letteraria.











Franco Presicci






Nella pace e nel silenzio di un trullo, a Martina Franca, ho letto il gioiello di Piero Lotito, sbirciando, a tratti, l’ulivo più vicino incorniciato dalla finestra. Il libro, “Di freccia e di gelo”, edito da Mondadori, arricchisce, anche perché il delicatissimo scrittore, oltre a catturare subito l’attenzione, dà gioia. La trama del racconto è insolita e trascina in un mondo lontanissimo, in cui il protagonista si cibava di animali uccisi nel bosco con l’arco e le frecce.
Lotito a Laino
Queste pagine si ispirano al ritrovamento nel 1991 di un corpo immerso nell’acqua di un ghiacciaio. Lotito, cronista scrupoloso, intuitivo, attento e valente scrittore, non poteva lasciarsi scappare l’occasione per “ricostruire” la vita quotidiana di quel corpo ossificato, che ha battezzato Ots, e aiutandosi con ricerche meticolose, ha dato spazio all’immaginazione ed elaborato gli intrecci del romanzo.
Ots viveva con i genitori, in una delle capanne d’un villaggio sperduto, il cui capo era Iush, un uomo a cui non sfuggiva mai niente, voleva sapere sempre tutto, e quando parlava non affrontava mai i discorsi in modo diretto: consigliava, suggeriva, ipotizzava, lasciava intendere… Nel villaggio scoppiò una pestilenza, che lo decimò, ma poi arrivarono altre persone, costrette ad abbandonare il proprio territorio perché non aveva più erba per le pecore; e la comunità di Ots si rimpolpò.
I nuovi venuti erano pastori e non cacciatori, e a poco a poco si amalgamarono con gli indigeni e non ci furono scosse. Tra di loro c’era una giovane bellissima, Alesh, che scambiò subito uno sguardo con Ots e fu quasi un’intesa.
Locandina presentazione libro
A mano a mano che si va da una pagina all’altra l’interesse e la curiosità crescono. Con quel suo stile agile, limpido, senza orpelli e con la sua grande capacità nel raccontare, Lotito trascina il lettore e a volte lo commuove e crea “suspense”. Ed è talmente efficace la sua esposizione che dà al lettore l’impressione di stare nella capanna di fianco a quella di Ots, e di condividere i suoi stessi giorni, le sue stesse ore.
In Lotito tra l’altro piace la passione per il dettaglio, come per esempio nella descrizione della lavorazione dell’arco e delle frecce realizzati da Ots con mestiere, esperienza , cura dell’equilibrio che l’arma deve avere per per poter colpire l’animale con precisione tra un occhio e l’altro, come gli ha insegnato il padre.
Nel suo accurato lavoro usa il legno dell’albero della morte, che nessuno nel villaggio vuole neppure toccare. Tutti si tengono a debita distanza, perchè secondo una vecchia credenza provoca la morte solo a sfiorarlo.
Ma non voglio svelare tutto il contenuto di queste bellissime pagine; altrimenti al lettore resta meno da gustare. Ma Ots? Dov’era nato Ots? Com’era vissuto millenni addietro? Chi era? Un cacciatore, un pastore? Un pastore non porta con sé un pugnale e un arco, oggetti trovati da due turisti accanto al suo corpo, dalle parti di Bolzano, durante un’escursione.
Lotito si è posto tante domande e si dato altrettante risposte, dopo aver studiato centinaia di carte, ripeto, per appagare il desiderio di conoscenza di chi prende in mano quest’opera, in cui delinea ambienti, personaggi, usi, costumi, la mentalità del tempo... Un libro che coinvolge, spinge a rileggerlo.
E’ forte, Ots, non tanto però da sentirsi sicuro di vincere lottando contro Jef, il suo compagno di giochi più alto, più vigoroso, più robusto, deciso ad ucciderlo sospettando la sua notte d’amore con Alesh, la pastora, una notte infiammata dalla passione che li travolge, mentre Jef è affondato nel suo sonno pesante. Alesh è diventata la donna di Jef, che vuole vendetta, e Ots non può sottrarsi allo scontro; se vuole rimanere nel villaggio, deve stimolare il suo impeto recalcitrante e battersi al centro di tutto il villaggio riunito e compatto. Deve affrontare e vincere il rivale, che lui non considera tale, per non dover abbandonare la sua capanna, il villaggio.
Lotito a Lanzo d'Intelvi
Quella capanna conosce tutti i sentimenti di chi ci abita. Alla morte del padre per il villaggio la sua famiglia era ignorata, estinta, come invisibile agli occhi della comunità. “Le donne evitavano mia madre, io non avevo più amici”. Una capanna senza un uomo adulto era un guscio vuoto. E tra madre e figlio era lei ad essere rimasta nella solitudine più nera. Così era in quel contesto, così era sempre stato. Lotito non tralascia neanche le minuzie, entra nell’anima dei soggetti. Per lui la vita e il carattere di Ots sono lampanti. L‘immaginazione dello scrittore è fertile, Ots è penetrato in lui e lui ne illumina la figura con una capacità ammirevole. Il lettore se lo vede davanti agli occhi, Ots; lo vede impegnato nella mischia contro il gladiatore tradito, e quando, dopo il “duello” conclusosi con un nulla di fatto, se ne va nei boschi, con la sua faretra e il suo arco, sapendo che Jef lo cercherà sempre più intenzionato ad eliminarlo, è assediato dall’angoscia.
L’ho letto in tre giorni, questo libro, immaginando di fare un viaggio a ritrovo nel tempo, accompagnando lo scrittore attraverso abitudini, modi di vedere le cose molto diversi da noi. Lotito ha la virtù di farti quasi toccare con mano ciò che narra. Ascolto Ots, penso di ascoltarlo: “Mia madre subito capi che avevo fatto il primo passo. Quando mi vide entrare nella capanna con il ramo appresso, portò le mani al viso ed emise un lamento: ’Tu vuoi morire’. ‘No, voglio soltanto costruire un arco. Fallo fuori da qui. E poi: ‘Costruiscilo qui, Ots, morirò con te”.
Aveva ragione Ots, quell’albero non portava la morte, era innocuo come gli altri. Fino a quel momento si era lasciato condizionare dalle paure dei genitori e degli altri. Lui l’aveva toccato ed era ancora vivo e vegeto. Dopo qualche tempo la madre morì. “All’alba di un giorno d’estate”, ma non certo per colpa dell’albero. Era malata, s’infiacchiva giorno dopo giorno. Rimasto solo, le sue giornate erano monotone, avvilenti. Un giorno Iush, il capovillaggio fu più chiaro: era meglio se lui abbandonava la sua capanna, la stessa comunità di pastori e cacciatori. Non era più gradito. Ots resistette. Faceva freddo. Tornò alla caccia, dopo essersi nutrito con sofferenza degli animali del suo recinto. Pioveva e Ots si proteggeva dall’acqua “sotto una stuoia di paglia”. Pensava a Jef e alla notte di fuoco trascorsa con Alesh, all’opportunità di abbandonare il villaggio e raggiungere un altro posto, dove aspettare la morte.
Lotito e sindaco Tognoli

Pagine emozionanti, libere, ripeto, da enfasi, da ornamenti, senza frasi ad effetto. Lotito è un maestro nel racconto, sa usare a perfezione il linguaggio che gli è più congeniale. Tutto è spontaneo in lui, tutto scorre con semplicità. Il viaggio è lungo, sempre interessante, lineare. L’autore sa come muoversi nei panni di Ots. “Mi chiamo Otzi - dice lo stesso Ots nella prefazione – perchè i miei scopritori inciamparono sul mio corpo”. Gli affibbiarono questo nome, che per lui fino a quel momento non aveva alcun significato. Non ne ha neppure per questo investigatore che lo ha “resuscitato”. Ma la sua abilità di cronista, la sua voglia di scoprire, svelare, annotare, raccontare, affrontando le fatiche che la consultazione di carte richiedono, prevalgono sempre, come quando lavorava al “Giorno” e a volte, prima di scrivere un pezzo, non solo verificava, ma all’occorrenza faceva prove, esperimenti personali nel bagno del giornale. Lo fece anche in occasione della morte di un imprenditore data per suicidio. Lotito appartiene alla scuola dei cronisti che non costruivano gli articoli utilizzando il telefono. Andava sul teatro dell’avvenimento, osservava, interpretava, intervistava e dava concretezza alla propria opinione.
In “Di freccia e di gelo” ha dipinto persone che vivevano tra neve, pioggia, vento, tempeste, stenti, malattie da cui non potevano difendersi. Quelle persone mangiavano animali abbattuti nel bosco che conoscevano bene.
Gionalista Catania, Ottavia Piccolo, Lotito

Alla fine della lettura di queste pagine, ho subito avvertito la voglia di riaprirle, per ripercorrere nuovamente l’esistenza di Ots, il cui padre aveva paura dei tuoni e del buio. Lui aveva ucciso un uomo senza volerlo, Jush lo sapeva e voleva sentirselo dire da lui. Ots continuava a tremare,“sentiva colargli la bava dalla bocca, pur essendo innocente”.
“Di freccia e di gelo” è stato esposto in bella evidenza al Salone del libro. E Lotito continua a presentarlo in diverse città, compresa la sua amata Foggia. E’ stato anche a Noci, il paese dei boschetti e delle masserie, alcune fortificate, per difendersi dai briganti del 1860, e della Madonna della Scala, abbazia dei frati benedettini.
Soddisfatto, contento, di questa lettura edificante, sono andato dal mio ulivo, con cui mi sfogo, ricevendo segnali con il movimento delle fronde.

mercoledì 3 luglio 2024

Una nuova opera di Goffredo Palmerini


UN LUNGO VIAGGIO ALLA RICERCA METICOLOSA DI UOMINI E STORIE

 




Goffredo Palmerini
L’autore corre in mille luoghi oltreconfine e in Italia, ovunque si
svolgano o si siano svolti fatti di ogni genere che interessino i lettori. Racconta Paganica, l’amata terra d’origine, la sua regione, uomini e fatti, tenendo sempre alta l’attenzione.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI




Ancora una volta con Goffredo Palmerini, giornalista e scrittore, giramondo attento ai fatti di cronaca e alle storie di uomini che anni fa hanno oltrepassato i confini per andare a cercare pane o fama altrove, percorro vite vissute, m’imbatto in personaggi eminenti e non, in avvenimenti esaltanti e altri che suscitano sofferenza, il coraggio e la determinazione di cambiare le cose, com’è accaduto con la fine del killer covid che ha colpito milioni di persone nel mondo e dopo (“Columbus day” a New York si riprende alla grande dopo la pandemia” o Elham Hamedi, una voce di libertà in Iran, nell’arte e nella poesia”). Palmerini si legge volentieri per i fatti che racconta e come li racconta. Entra con notevole abilità nelle situazioni e nel cuore delle persone, approfondisce le notizie, le spolpa, le irrora. Toccante il ricordo di David Sassoli, che “aveva grande forza che proveniva dalle sue convinzioni, radicati nella fede e maturate nelle esperienze della vita…”. Seguendo Goffredo Palmerini in ogni parte del pianeta, dagli Stati Uniti all’Australia attraverso i suoi libri il lettore si arricchisce e spesso si emoziona. Palmerini sa condurlo con sé da Paganica al Canada, dove gli immigrati italiani hanno perduto il professor Franco Ricci, che insegnava all’università di Ottawa. Era nato in Venezuela da genitori originari di Sulmona, la città nota in tutto il mondo per la produzione dei confetti e per il borgo antico ricco di palazzi storici, chiese e di negozi di ogni genere. Il docente era legato alla sua terra e vi passava i mesi estivi. Aveva contatti con la comunità italiana, soprattutto con quella abruzzese.
Copertina del libro "Ti racconto  così" - Palmerini
Palmerini parla anche dei suoi incontri con i corregionali in Italia e all’estero delle loro iniziative e delle loro attività. Insomma ci fa conoscere uomini e cose, paesaggi e tutto ciò che c’è da sapere sul nostro Paese e sugli altri. Ecco alcuni titoli dei capitoli XXV Premio L’Aquila “Zirè d’oro” in grande smalto; a Roma la mostra “Constantin Udroiu, l’artista di due culture”; “Il Fucino, storia del lago e della gente marsa”, in cui Goffredo racconta gli antichi popoli che abitavano la Marsica, il lago del Fucino e la sua storia.
Tutto questo in “Ti racconto così”, edito da One Group, un libro che ho cominciato a leggere appena mi è arrivato, prendendomi tutto il tempo che ho voluto, perchè nelle pagine di Goffredo Palmerini trovo tante cose che non so e m’interessa sapere, attirato fra l’altro dal modo con cui lo scrittore le espone, restituendoci numerose e varie cronache dell’Aquila, l’amata città d’origine - come scrive Lucilla Sergiacomo nella sua prefazione - a partire dai fatti destinati a passare alla storia”. La Sergiacomo è docente di letteratura italiana e lingue classiche nei licei e in corsi di magistero di Sassari e dell’Università di Chieti e Pescara, oltre che autrice della storia letteraria italiana. La professoressa ricorda anche le collaborazioni di Palmerini a quotidiani e riviste e i tanti incarichi da lui ricoperti in vari Premi, tra cui quello per la promozione e la diffusione della cultura e dell’editoria abruzzese.
La presentazione è di Pierfrancesco Bruni: “Questo è un libro che racchiude la storia di un uomo. Non soltanto i passi, gli incontri, i linguaggi, le lettere, gli appuntamenti vissuti e trasparenti nella logica di un linguaggio, di letture tra cronaca e letteratura”. E aggiunge che Palmerini sa che tutto può superare il tempo, anche una cronaca può passare alla storia, diventare storia. Con questa consapevolezza scrive il capitolo “L’Aquila, apre oggi l’antico Caffè Tre Marie”, al civico 13 dell’omonima via. “E’ solo il prologo alla riapertura prossima dello storico “Ristorante Tre Marie, famoso in tutto il mondo non solo per l’eccellenza della sua cucina, ma soprattutto per essere stato il luogo di presenze e di incontri straordinari: regnanti e scrittori,governanti e registi, attrici e cantanti e cantanti, poeti e musicisti, la più varia ed eccellente umanità del mondo…”.
Colaprico e Lenoci

Grande l’emozione suscitata in tutti, non solo nei cittadini e nei corregionali, ma anche nelle personalità che si recano nella gloriosa terra d’Abruzzo per visitarla o per tenervi conferenze, come il professor Francesco Lenoci, amico di Palmerini, e conoscitore appassionato del famoso locale, come conosce il Savini, il Cova, il Campari a Milano, il Cambio a Torino, il Gambrinus a Napoli, che hanno nell’albo d’oro i nomi di eminenti della politica come Cavour, Toscanini, la Callas, Eduardo De Filippo, Totò, Wanda Osiris, Josephine Baker, scrittori,... Non c’è niente da trascurare in “Ti racconto così”: ogni pagina s’impone all’attenzione.
“Dopo Celestino V è di Francesco il dono più grande. Il Papa aprirà la Porta Santa per la Perdonanza N.728”. Questo l’incipit del capitolo dedicato alla visita di Papa Francesco: “Avrebbe mai immaginato Pietro Angelerio, l’umile e tenace monaco benedettino poi eremita sui monti della Majella e del Morrone eletto al soglio pontificio il 5 luglio 1294, che il primo giubileo della cristianità da lui concesso in dono all’umanità quel 29 agosto a L’Aquila, dalla Basilica di Santa Maria di Collemaggio, dove fu incoronato, che dopo 728 anni un suo successore, Papa Francesco, avrebbe aperto la Porta Santa per la Perdonanza, che egli stesso aveva istituito?”.
Palmerini a destra

Si apre una pagina ed ecco una pagina che colpisce. L’autore non dimentica i personaggi che se ne sono andati, “iI grande drammaturgo Mario Fratti muore a New York”. Palmerini ricorda con profonda commozione i rapporti che aveva con l’artista e la figura umana dello stesso. Era stato da lui una settimana, ospitato nella sua casa sulla 55.ma strada a Manhattan, come altre volte, dopo tre anni di pandemia. Si erano intrattenuti su tante cose, soprattutto delle notizie che gli portava dal paese natale, l’Aquila, Chi non aveva mai incontrato Mario Fratti, Goffredo Palmerini glielo fa conoscere attraverso questo suo bellissimo libro di 325 pagine , una più importante dell’altra. Mi piace riportare un giudizio di Lucilla Sergiacomo su questo autore prolifico e impegnato: “Se Goffredo Palmerini fosse vissuto ai tempi dell’antica Roma potremmo rintracciarlo nel novero dei pontefici massimi, i magistrati che registravano negli “Annales maximi” i fatti più rilevanti, politici, militari e sociali, accaduti nell’anno trascorso… Come un vero e proprio analista anche Palmerini ci restituisce numerose e varie cronache”.
Palmerini ad un convegno

Cronache essenziali che hanno segnato i nostri giorni; come la “lunga marcia delle donne nelle istituzioni”, che è stato il suo tema in un convegno sull’argomento, prendendo le mosse dal suo Abruzzo e dai corregionali che presero parte alla lotta contro il regime fascista. Lotta che produsse sangue e sacrificio. Importantissimo fu il contributo delle donne abruzzesi alla liquidazione di un regime, che se non fosse per i lutti, le sofferenze, i soprusi, la restrizione della libertà… si potrebbe dire farsesco.
“Mi piace ricordare il contributo reso da Maria Federici - aquilana come chi vi parla - che operò nella terza commissione relativa ai diritti e doveri economico-sociali. Significativa fu l’azione per il riconoscimento di pari diritti alle donne anche nell’accesso alla magistratura, fino ad allora escluso”. Seguono i nomi delle donne che hanno lasciato il segno, da Nilde Jotti ad Angelina Merlin, a Rita Montagnana Togliatti, a Tersa Noce… Nel ‘76 prima donna ministro Tina Anselmi.
“Ad ogni capitolo resta legato il senso. Ogni capitolo è un orizzonte di senso”, scrive Pierfranco Bruni. Poteva mancare il tema dell’emigrazione che ha in Goffredo un esperto illuminato? “Madre Cabrini, l’angelo dei migranti. Milano, Palazzo Pirelli la mostra di Mio Carbone”. Qui esalta il racconto che l’artista svolge sull’emigrazione italiana anche con la mostra dedicata alla santa protettrice degli emigrati. Un tema che sta a cuore a Goffredo Palmerini, che ha girato il mondo per andare a conoscere le persone che hanno lasciato il paese per cercare cibo altrove. Le ha intercettate e si è fatto snocciolare la loro storia, intreccio di coraggio, speranza, sacrificio, impegno, che spesso hanno portato i figli e i nipoti al successo e al prestigio in ogni campo in cui si sono ingegnati. Palmerini, uomo curioso, coltissimo, attento, giornalista serio, scrupoloso, che va a fondo alle cose, sensibile ai drammi, alle delusioni, alle sconfitte, che racconta senza enfasi e con partecipazione anche in questo libro, che le generazioni future dovranno consultare per riproporre la vita quotidiana odierna del nostro Paese.