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mercoledì 31 luglio 2024

Indimenticato il “pret de Ratanà

AVEVA FAMA DI GUARITORE DON GIUSEPPE GERVASINI





don Giuseppe
Un colloquio con Angelo Frigerio nipote di Vincenzina Pizzi, devota del “don”, che ai suoi tempi, oltre all’affetto, si attirò anche inimicizie, invidie, cattiverie. Sepolto al cimitero Monumentale, dove riposano i grandi, alla sua tomba s’inginocchiano i fedeli, che gli fanno dir Messa, portano fiori e cambiano l’acqua nei vasi.











Franco Presicci





Ai miei tempi i nonni raccontavano le fiabe ai nipotini soprattutto la sera della vigilia di Natale. Magari stando seduti attorno ad un braciere o a un bacile scheggiato. Non solo fiabe, anche brani di vita vissuta intrecciati con giochi di fantasia. E i virgulti stavano ad ascoltare con attenzione, a volte immedesimandosi nelle trame di Cenerentola e Cappuccetto Rosso, ma anche del passerotto implume caduto dal nido sulla neve, rischiando la vita, se un vecchietto non lo avesse raccolto e ospitato in un cestino cilindrico per i gomitoli di lana.
a sinistra Vincenzina Pizzi
Vincenzina Pizzi, di Carate Brianza, con il piglio da comandante delle forze armate o da carabiniere baffuto, a Natale si stemperava e stando con i nipoti, snocciolava ricordi del “pret de Ratanà”, che seguiva assiduamente anche quando il ministro di Dio diceva messa o riceveva persone che avevano bisogno di un consiglio per guarire. A volte si portava appresso il nipote Angelo, che allora abitava con lei in via Carlo Farini, a Milano, dove si era trasferita con il marito.
Don Giuseppe Gervasini – questo il nome del prete – aveva fama di guaritore, alchimista, erborista e tantissimi credevano che facesse anche miracoli. Si raccontava la storia della donna che, lasciata a casa la figlia ammalata, corse da lui per avere un rimedio, e come risposta ebbe una mano sulla spalla e l’invito a tornare che vi avrebbe trovata la ragazza in piedi in perfetto stato di salute. Si raccontava anche la storia di un lattaio che aveva la faccia piena di gonfiori, arrossamenti e piaghe che gli facevano un dolore bestiale. Un luminare gli aveva prescritto delle iniezioni costose, ma il problema non riusciva a risolverlo. Andò da don Giuseppe, che prima lo riempì di insulti ed improperi per aver obbedito senza pensare a quella ricetta e poi gli suggerì di prendere la schiuma del latte, di metterla sui fornelli e poi di spalmarla sul viso. Detto come sempre in dialetto in milanese e con qualche parola grossolana.
Don Giuseppe aveva anche un’intesa strana con i tram con capolinea a Baggio. Quando doveva prenderlo, non faceva eccezione all’abitudine di procedere con un passo da tartaruga, arrivando appena in tempo. Un giorno il conducente, infastidito dalla sua flemma, mise in moto, il tram partì ma si fermò dopo qualche metro. Il conducente ripetè il comando più volte e il mezzo rimase immobile. Si mosse soltanto dopo che don Giuseppe era salito mormorando: “Adess va pur”. Adesso va’ pure.
Angelo e Gianni Bianchi

Angelo Frigerio
Leggende metropolitane o episodi realmente accaduti? I maligni erano scatenati con don Giuseppe, assegnando pessime interpretazioni ad ogni suo gesto. Di difetti il sacerdote ne aveva: l’11 giugno del 1892, giorno in cui prese i voti, parenti e amici organizzarono una festa, ma lui non si fece vedere se non la sera, trovando il tavolo vuoto dei cibi che erano stati preparati. Ma possedeva anche dei pregi. Stava sempre dalla parte dei poveri, tanto da inimicarsi i padroni delle terre, che si lamentarono con le autorità ecclesiastiche già quando il sacerdote svolgeva la sua missione a Recanate.
In un pomeriggio di pioggia pigra e silenziosa, due nonni, Angelo Frigerio, come detto nipote della devota Vincenzina, e il sottoscritto, hanno ripassato la vicenda di don Giuseppe con più benevolenza. Viveva in una modesta villetta di fianco alla Cascina Linterno, dove per nove anni soggiornò Francesco Petrarca, curando l’orto, correggendo alcune sue opere e godendo il silenzio e la solitudine che aveva cercato (era stato chiamato a Milano come consigliere e ambasciatore da Giovanni Visconti). La cascina – mi piace dirlo – è curata dai fratelli Gianni e Angelo Bianchi, che con le loro mille iniziative calamitano il quartiere nel cortile e nella chiesetta della stessa struttura, non solo tenendo conferenze e scrivendo libri scrupolosamente documentati sulla vita e le attività passate del luogo; ma anche, a volte, parlando di don Gervasini.
Cascina Linterno

”Mia nonna era affezionata a don Giuseppe – mi dice Angelo - da quando durante la guerra si trasferì da Carate Brianza nel capoluogo. Lo era tanto, che durante il conflitto mondiale all’ululato della sirena non correva mai al ricovero antiaereo, ma rimaneva in casa incurante dei bombardanti, che sventravano case, strade, edifici, sicura che don Gervasini l’avrebbe protetta”.
Vincenzina era amica di Carolina, la perpetua del prete, e insieme, quando lui, famoso non soltanto in Lombardia, morì sollecitarono la gente a raccogliere ciò che era necessario per i funerali e il resto, compresa la sepoltura al cimitero Monumentale, dove riposano i grandi: Antonio Ascari, Antonio Beretta, primo sindaco di Milano, Camillo e Arrigo Boito, Arturo Toscanini, Ferdinando Bocconi, Arnoldo Mondadori, Giovanni Battista Pirelli e tanti altri. “Pina andava tutti i giorni a far visita alla tomba del prete, vi portava i fiori, che distribuiva anche alle tombe vicine, cambiando l’acqua nei vasi, e poi recitava, con altri devoti, il rosario e faceva dire la Messa. Rito osservato per anni e anni, e anche oggi.
Particolare di Cascina Linterno

Vincenzina in questi percorsi portava con sé anche il nipote Angelo, e strada facendo gli raccontava qualche brano dell’attività e del carattere del “don”. Oltrepassata la soglia del camposanto, vedendo tanta gente raccolta attorno al sepolcro, se rallegrava. “Ho imparato a conoscerlo – dice Angelo - fin da quando cominciai ad andare alle elementari. Mia nonna era un caporale, voleva decidere tutto lei, tenere il bastone sempre in mano”; ma quando parlava di don Giuseppe Gervasini attenuava i toni, manifestando una stima e un rispetto assoluti, una vera e propria devozione”.
Da Baggio e dalla cascina Linterno le voci sulle sue doti arrivavano a Milano con la velocità della luce, suscitando malignità e malumori, invidie, dicerie e cattiverie. Lui lo sapeva, ma non se ne curava, forse ispirandosi al “Non ti curar di lor, ma guarda e passa”. Andava avanti per la sua strada muovendosi tra leggenda e storia, erbe e pranoterapie. I tanti libri, fra cui quello di Francesco Ogliari e Franco Fava, “La Milano del Pret de Ratanà”, lo definiscono burbero benefico, ma guai se questo giudizio ai suoi tempi fosse arrivato alle orecchie di Vincenzina Pizzi, che come moltissimi altri lo riteneva degno di santificazione, promozione che spetta alla Chiesa e non al popolo.
Angelo Frigerio osservava i gesti e ascoltava le parole di Vincenzina con la curiosità e l’attenzione dei piccini della sua età, e mi dice che per lei le virtù di don Giuseppe non erano fantasie dei suoi devoti, ma guarigioni vere, miracoli. Ogliari e Fava sostengono, e ci crediamo, che era una persona buona, generosa, amante del prossimo, che non chiedeva mai compensi per quanto faceva per gli altri. I suoi erano slanci di umanità, nonostante fosse aspro, irascibile e a volte volgare. Si dice, ma a noi è simpatico lo stesso.
Monumento a don Giuseppe

Il cardinale Schuster aveva per don Gervasini simpatia e benevolenza, e a volte concelebrava la messa con lui: Gli chiese anche un rimedio per il mal di gola, e revocò il provvedimento emesso dal cardinal Ferrari di sospensione “a divinis”. Don Giuseppe era dunque un prete scomodo, i detentori della scienza medica si erano ribellati, accusandolo di esercitare la loro professione abusivamente, senza titolo ed esperienze specifiche. Neppure il suo appoggio alle persone deboli, indifese, povere, come i contadini, era visto di buon occhio da chi deteneva il potere, cioè i proprietari di terre. E questo alla fine aveva prodotto il suo esonero dalla cappellania di Ratanà, che aveva tenuto dal 1897 al 1901.
Immaginetta di don Giuseppe

Molti erano anche gelosi dell’attenzione che gli dedicavano i giornali, considerando pregi e difetti. I titoli si avvicendarono anche dopo la sua morte. “Vogliono santo il pret de Ratanà”; “La gente ricorda ancora il prete che faceva miracoli”; “Sulle orme magiche del pret de Ratanà”… La sua storia è stata ripercorsa in un film del ‘73, “Stregoni di città”. Il sacerdote, nato 1° marzo del 1897 e deceduto il 22 novembre del 1941, non è mai stato dimenticato. Anni fa un ladro s’impossessò del crocifisso che stava sulla sua tomba e i devoti si rivolsero al “Giorno”, chiedendo un articolo che favorisse la restituzione, intanto ne acquistarono uno nuovo. Una mattina l’originale fu rimesso al suo posto.
Il “pret” ancora oggi è ricordato, venerato. Una moltitudine di persone, non solo milanesi, vanno a portare fiori sulla sua tomba, a dire preghiere. Alcuni, andando alla Cascina Linterno, si fermano davanti alla sua casa e sussurrano: “Qui abitava el pret de Ratanà”. Che aveva carisma e parlava in dialetto.

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