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mercoledì 10 settembre 2025

Il grande fotografo Carmine La Fratta

GUARDA LA REALTA’ QUOTIDIANA  CON L’OCCHIO DELL’ARTISTA

 

 



Carmine La Fratta
In ogni occasione, feste, manifestazioni civili,
cerimonie militari, è presente con la sua macchina fotografica puntata sui momenti più significativi.


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
(foto di Carmine La Fratta) 
 
 
 
Da tempo Carmine La Fratta, fotografo bravissimo e infaticabile, pensava di andare a cercare a Napoli i vicoli di Totò e di Eduardo De Filippo; e i “luoghi” descritti da Matilde Serao nel suo libro “Il ventre di Napoli”, del 1884: “Case dove vive e mal vive il popolo, in questi ‘bassi’ che sono già oscuri, oppressi, angusti nelle più grandi e che nei vicoli, in cento vicoli, in mille vicoli diventano delle stamberghe sotterranee, quasi diventano degli antri, dove si agitano e brulicano vite umane…”.
Vicolo di Napoli con Totò

Alla fine La Fratta si è messo al volante ed è corso nella città partenopea, quella di Luciano De Crescenzo, ingegnere, filosofo, sceneggiatore, attore, scrittore (“Così parlò Bellavista” e altro); di Giuseppe Marotta (“Mal di Galleria”, “Le Milanesi”...), facendo un tuffo in quelle vene che ricordano anche Nino Taranto e Maradona, fissato anche in un murale che giganteggia sull’intera facciata di uno palazzo.
La Fratta aveva realizzato il suo desiderio e rimase qui cinque giorni, ritraendo botteghe; ambulanti, alcuni con le mani piene di cornetti apotropaici color rosso; immagini disegnate dappertutto, sulle porte, negli androni, sui muri del principe de Curtis nelle espressioni dei suoi film più famosi; di Peppino e di Edoardo De Filippo, Nino Taranto, nella finzione scenica “Ciccio Formaggio”… E non poté fare a meno, La Fratta, di inoltrarsi in San Gregorio Armeno, famoso in tutto il mondo per i negozi di statuine realistiche, ben sagomate, dal pescivendolo al pizzaiolo, di presepi che a Napoli in passato addirittura un sovrano e sua moglie amarono costruire.
Totò e Peppino a Napoli in un vicolo

Eccolo, La Fratta, nel rione Sanità, che dà il titolo a una delle commedie di Eduardo, e nelle vie, viuzze, che Curzio Malaparte percorse nel ‘43 e nel ‘44 con il maggiore Jack, non dimenticando altri pezzi della città, come il Pallonetto, il vico San Liborio - quello citato da Filomena Marturano nella celebre commedia eduardiana, in cui “fra l’altro d’estate non si respira per il caldo”. La realtà dei vicoli e dei “bassi” è oggi un po’ diversa da quella descritta da donna Matilde, ma La Fratta, girellando con il suo carico professionale, ha scoperto curiosità che colpiscono chi guarda le sue foto: brani di vita che in parte sopravvivono, antiche atmosfere, fondachi. E facce, sorrisi, atteggiamenti: un’antologia che prima o poi il fotografo raccoglierà in un volume.
Da quel viaggio è tornato a Lama, dove ha casa e laboratorio, più che soddisfatto, pronto a seguire un altro itinerario: i borghi disabitati, con le sole presenze di un vegliardo legato indissolubilmente alla sua terra, alla sua culla come l’edera al tronco di un albero o a una parete, un gatto, un cane che non si guardano neppure. Insomma il tarantino La Fratta è uno zingaro dell’arte della fotografia, un testimone attento, scrupoloso, quasi “gemello” del notissimo e molto apprezzato Fulvio Roiter, che ha pubblicato libri fotografici sul carnevale di Venezia, sui navigli di Milano, facendo acrobazie per riprendere un aspetto nascosto di un ponte, una luce, un’architettura. A La Fratta interessano anche i visi, le espressioni, la gente, le folle. Per questo lo vediamo impegnato alle feste grandiose di paesi e città, come quelle in onore di San Giuseppe.
Festa a San Marzano con gli ulivi
La ricorrenza è appena passata, ma lui fa circolare i suoi “quadri”; riprende gli artefici delle tavole dei santi a Lizzano, a Fragagnano, interpella, interroga, dialoga, apprende e scatta. Lui vuole conoscere chi mette in piedi una festa, la storia di un evento che richiama migliaia e migliaia di persone, che svuota paesi di appassionati che si riversano in quello in cui la manifestazione si snoda.
A San Marzano di San Giuseppe ha, sì, fatto molti “clic” sulle montagne di rami di ulivo portati dai trattori e dai carri o trascinati da volenterosi ed eccitati cittadini, entusiasti del ruolo loro assegnato. E si chiede perché l’ulivo, quest’albero dallo zoccolo poderoso, dal tronco a volte contorto, come in preghiera o piegato e appoggiato a vecchi mattoni come un vegliardo al bastone. L’ulivo è una pianta nobile che ci dà nutrimento; attecchisce ovunque, resiste alla mancanza di ogni tipo di alimento, ad ogni clima. A San Marzano di San Giuseppe proviene dalle potature eseguite in tanti fondi. L’ulivo è bello a vedersi, spesso è secolare: lo è a Savelletri, nei pressi della città bianca: Ostuni, dove fa compagnia a qualche carrubo. Qualche esemplare giganteggia anche a Martina Franca, in questa o in quella masseria. L’ulivo ha la sua storia, viene da Paesi lontani, ha anche a che fare con la vita di Gesù: è sotto il Monte degli Ulivi che si ritirò il Salvatore dopo l’Ultima Cena. Meravigliose le foto che La Fratta ha dedicato a quest’albero.
Domenico Porzio a Taranto
Lo abbiamo ritrovato anche a Lizzano, La Fratta, dove ha fotografato le tavole imbandite per il Santo falegname, padre putativo del Cristo. Quelle tavole ora sono vuote, perché il bendidio che contenevano è stato donato ai poveri e ai turisti. Ma il fotografo zingaro ha trovato residui della festa interessanti. E ha fatto numerosi scatti anche a Fragagnano, nella stessa occasione della celebrazione di San Giuseppe. Dappertutto ha immortalato i falò, montati anche qui con cataste di rami di ulivo con l’aggiunta di mobili disusati. Fiamme altissime, come un onore al cielo. E alla fine i fuochi d’artificio, opere d’arte che a mezzanotte disegnano stelle pulsanti in alto e si spengono a poco a poco. Entusiasmano, esaltano quelle piccole luci che esplodono costruendo corolle nel buio. II fotografo errante ha già altri fuochi da cogliere, oltre ai borghi deserti, dai quali gli abitanti fuggono o sono già fuggiti perché quelle vie non hanno più niente da offrire, soprattutto ai giovani in cerca di un avvenire sicuro. Restano i muri, qua e là solidi, abbracciati, con porte e finestre serrate. Ne ho visitato qualcuno: di abitanti ce ne sono, c’è anche il consiglio comunale, ma più paesi sono accorpati amministrativamente. Sui tanti portoni è incollata la scritta: “Si vende”.
Maradona sulla facciata di un palazzo a Napoli
Dà amarezza un guscio che si svuota, un rifugio abbandonato, un’alcova deserta. E amarezza producono certi vicoli di Napoli (con il gabinetto di decenza in comune) che hanno cambiato fisionomia, come molte case di ringhiera a Milano. In quei vicoli echeggiano ancora le storie di Eduardo, come “Napoli Milionaria”, film del ‘50 con interpreti lo stesso Eduardo e Titina De Filippo, Totò, Carlo Ninchi...; “Gli alunni del sole, del ‘52, di Giuseppe Marotta sulla vita di ogni giorno nei vicoli e nei “bassi” di Napoli…”.
Ricordo “Così parlò Bellavista”, opera di De Crescenzo degli anni ‘80, in cui l’autore parla anche degli assistiti, quei personaggi, assistiti non si sa da chi, che sostengono d’indovinare per gli altri i numeri “d’a bonafeciàte”, com’era detto il lotto non soltanto a Napoli, città bellissima, canora, con il profumo del mare, il calore del sole, l’ospitalità, l’intelligenza, l’inventiva della gente, esaltati anche nelle canzoni che hanno fatto il giro del mondo.
Settimana Santa a Talsano nel 2009
Ogni vicolo una storia, una caratteristica. Al Pallonetto di Santa Chiara alla fine dell’800 c’erano gli uffici centrali della girandola dei numeri e dei sogni, appunto il lotto, che, per la cronaca, non è nato a Napoli, ma a Genova, si dice dalla fantasia di un barbiere. In piazzetta Ecce Homo echeggia il nome di Matilde Serao, giornalista, scrittrice, fondatrice e direttrice di giornali, dallo stile caustico, che in un “basso” abitò per qualche tempo con i genitori quando tornarono dalla Grecia. Donna Matilde conosceva dunque bene i vicoli, i negozi, le case, la gente che ha poi travasato nelle sue pagine. Pane per i denti di La Fratta, attratto anche dai vicoli degli artigiani, gi Spadari, per esempio, che hanno vie anche a Milano; l’Armorari, traverse della lunga e popolosa via Torino.
Settimana Santa a Talsano
E come nella città del Porta esiste il vicolo dei Lavandai, attraversato dal “ricciolino” d’acqua sfuggita al Naviglio Grande, anche Napoli ha il vico Lavinaio.
Ripeto, non sono più i vicoli di Matilde Serao, riportati nei suoi libri, nei suoi racconti con tutto ciò che contenevano. Adesso, per dirne una, il volto e le geometrie realizzate sul campo dal “Pibe de Oro” ricoprono intere facciate di palazzi anche di cinque piani. Le immagini di La Fratta, icastiche, toccanti, fanno palpitare l’osservatore. Come quelle dei flagellanti scattate non so dove. Come quelle della Settimana Santa a Taranto, dove lo si è visto sgattaiolare, tra sdanghieri, “perdùne”, “fratelle”, la folla che trasforma in corridoi le strade attraversate dalla processione. La Fratta è spettatore-fotografo, artista rispettabile in mille occasioni.

mercoledì 3 settembre 2025

Il 6 e il 7 settembre a San Simone

LA SAGRA DEL PEPERONCINO PICCANTE E LA GRANDE FOLLA DI PARTECIPANTI

 

 

Mi sono rimasti i ricordi delle passeggiate con Michele Annese e le orecchiette al sugo ricche di “diavulìcchie squànde”. Purtroppo, questa volta, non ci sarò, perché gli anni passano per tutti.

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
Ci siamo. Il 6 e il 7 settembre Sagra del peperoncino piccante a San Simone, frazione di Crispiano. Tutti pronti quindi a riversarsi nella cittadina a un tiro di fionda dalla città bimare, Taranto, che vanta il Mar Piccolo, il ponte girevole, il Castello Aragonese. Amo Taranto, le folle e le idee realizzate a regola d’arte. Come questa festa dedicata al “cornetto” indiavolato, che stuzzica i piatti.
Michele Annese a destra

In questa occasione era Michele Annese che mi dava la sveglia. Una telefonata e una novità: “Quest’anno viene il professor Biagi, un esperto di ‘habanero’ e altre ‘piccanterie’. Ci devi essere, ti aspetto”. Infatti uno “stand” di San Simone aveva un’insegna enorme, “Peperoncini nel mondo”, ed era quello dell’illustre ospite, che veniva da Pisa, dove insegnava all’università. Esponeva peperoncini di ogni tipo e rispondeva a tutte le curiosità degli spettatori. Qualche pianta l’aveva inventata lui stesso e me ne rivelò le qualità. C’erano anche quelli che avevano tenuto il primato in un’apposita graduatoria e quelli che li avevano sostituiti. E’ breve il tempo dei campioni, nel settore. Comunque l’”habanero”, che si coltiva nello Yucatan e infiamma il palato, era ed è ricercato. Non si può andare a tavola con il libro dei primati.
Anche quella volta dunque risposi all’appello di Michele. Riprendemmo il passeggio, ascoltando commenti sparpagliati nella folla: i vecchietti che vantavano proprietà erotiche della spezia e la spargevano sul gelato o sul caffè o sulla mozzarella: “Ma tu hai provato personalmente nell’alcova questo potere del peperoncino?” “Beh, adesso vuoi sapere troppo. Prendi per buono quello che ho detto senza entrare nei particolari”. Un signore attempato ed elegante, cappello tipo Borsalino con una piuma da alpino raccontava che una sera, invitato a cena da un amico, si trovò di fronte a una pasta con ceci… “asquànde” e un commensale, facendo in modo che tutti, proprio tutti, lo vedessero, si calò in bocca un peperoncino intero. Un altro volle imitarlo e stavano per chiamare i vigili del fuoco”. “Davvero?”.
lo stand delle "ficazzèdde"

“Ma no, si fa per dire”. “No, è proprio vero, non è la prima volta che lo racconta”. Una signora imbellettata, vestita come a una serata di gala, diceva a una vicina: “Lo sai che il peperoncino ha una funzione apotropaica?”. “Sììì?”. “Beh, la sua sagoma ha ispirato il corno che i napoletani portano in tasca e lo lisciano e stralisciano ogni volta che c’è pericolo di jettatura”. Abbiamo ascoltato anche questo. E anche altro. “Qualcuno che conosco lo fa pendere dal “gilet” come una “cipolla”, l’orologio da tasca, perché si sappia che è immune dal malocchio”.
Michele – oggi non è più tra noi, purtroppo, ma vive, ascolta e vede da un’altra parte – ed io ci accomodammo su un muretto per ascoltare Giorgio Di Presa - che ha un negozio di erboristeria a Martina Franca - impegnato in numeri di divertente intrattenimento. Ci sbirciò Vito Santoro, virtuoso fisarmonicista, custode di tutte le tradizioni, degli usi e dei costumi di una volta, e ama parlarne con un’apprezzabile “vis comica”. Vito ci concesse un’altra novità: si stava dando da fare per ripristinare la serenata. “Che colpo, Vito! Bravo. Un po’ di romanticismo va rispolverato”. Aggiunse che poi sarebbe toccato all’albero della cuccagna, che s’installava soprattutto nelle feste patronali con tanti spettatori ansiosi vedendo i partecipanti scalare il palo e scivolare finché il grasso non si esauriva. Io credevo che Vito stesse per esibirsi in uno dei suoi piacevoli numeri, ma tradì la mia aspettativa.
Il professor Biagi

La gente continuava a fare la ronda. Chiesi a uno che vendeva le friselle già condite con olio, sale e pomodoro: “Non mi dirà che c’è chi mette la spezia sulla frisella?”. “Glielo dico. C’è chi lo mette. Sono patiti. Del resto ho sentito dire che anche Mao-tsè- tung amasse il peperoncino”. L’ho letto anch’io. Anche fra alcuni nostri politici ci sono adoratori.
Verso le 23 Michele mi indicò un vicoletto: “Lì ci offriranno le orecchiette al peperoncino. Ci sedemmo a un tavolo e una signora quasi ottantenne, bassa, magra, grembiule nero, capelli nascosti sotto un panno bianco, seguita da una piccola fila di ragazze, spalancò la tenda della porta tenendo in mano un piatto fumante. Tra i commensali anche il dottor D’Addario, presidente dell’associazione del peperoncino di Oria. Era una fonte inesauribile d’informazioni: era in contatto con la consorella maggiore che in Calabria, a Diamante, organizza il festival del peperoncino, vinto un anno da uno del Nord, che ne aveva buttato giù 700 grammi e l’anno successivo da un altro concorrente che era arrivato a un chilo.
“Dottore, ho una curiosità: è vero che il peperoncino, fra le sue tante caratteristiche, ha anche quella di solleticare i momenti di intimità?”. Mi dette una spiegazione come dire, tecnica, che per la verità non mi sento all’altezza di riportare. Ma tutto sommato credo, dico credo, che in parte confermasse. Dopo la cena (secondo piatto polpette con peperoncino), tornammo nel grande fiume, continuando a captare i dialoghi spassosi di persone che affermavano di saperla lunga e facevano nome e cognome di signori illustri innamorati della spezia.
Stand di De Lucretiis

Ricordai che un giorno fui invitato a pranzo nella villa di un amico, dalle parti di Maruggio, e la signora mise in tavola una pastasciutta davvero infuocata. Era di origini lucane e pensai che dalle sue parti usassero mettere nel piatto più spezia che pasta. Non avevo mai visto una cosa simile. Stetti un bel po’ di tempo con la bocca aperta, sperando che l’effetto si placasse. Fuori faceva un caldo forte e non ebbi alcun giovamento. Ciononostante, non ho smesso di gradire il peperoncino, in dosi sopportabili.
Alla sagra, dopo le orecchiette, un cuoco raffinato, amico di Michele, ci invitò a gustare la sua pasta e fagioli naturalmente con peperoncino. Sapevamo di perdere una prelibatezza, ma fummo costretti a rinunciare, dirigendoci verso lo stand di Alfredo De Lucretiis, organizzatore con “Gli amici da sempre” della sagra. Lo spazio era adornato di “virgole” roventi: pendevano a mazzi dall’alto, dominavano al centro e in ogni angolo; le collaboratrici erano in tenute di colore rosso. Commentammo la festa: una celebrazione, una santificazione del peperoncino, già incoronato re in ogni dove. Sbucammo nella piazza e ci imbattemmo in Antimo Calò, di Oria, che intrecciava giunchi per mostrare come nasce un cesto. E’ un maestro nella sua arte, come De Lucreziis nella costruzione di presepi di grandi dimensioni, con pane o biscotti scaduti: presepi affascinanti, con montagne e grotte illuminate saggiamente: una favola, una magia, una scenografia bellissima.
Poi ebbero l’idea di lanciare il pomodoro giallo di Crispiano e avevano previsto un’altra sagra. Non si fermano mai, questi “Amici da sempre”, con mogli, figli, nipoti al seguito, sono sempre impegnati in questa e in quella impresa.
Tavolozza di peperoncini

Neppure Michele Annese, che apprezzava la manifestazione, si fermava mai. Quando il centro della cultura, che era la biblioteca “Carlo Natale”, chiuse, lui, già in pensione, istituì l’Università del tempo libero e del sapere, affidandone la direzione alla moglie, la professoressa d’italiano Silvia Laddomada, che ancora oggi, anche in onore del marito, continua un’attività intensa di conferenze su ogni argomento, dibattiti e molto altro e serate con Vito Santoro, che suona, racconta fatti e personaggi di un tempo lontano, con un linguaggio fervido, qualche volta garbatamente allusivo, mai sconveniente, intervallato, da uno “strappo” di fisarmonica.
Michele Annese, come detto non c’è più. E io ai primi di settembre penso alle sue chiamate, alle quali come un soldato rispondevo “Presente”. Purtroppo sono diventato vecchio e la Sagra “d’u diavulìcchie asquànde” posso soltanto sognarla. Come sogno le serate con Michele e Silvia alle feste della Madonna della Neve, del fungo, voluta dal ristorante “C’era una volta”, della lumaca di Liuzzi, del fegatino, i cui odori si spandevano in tutta la via principale.

mercoledì 27 agosto 2025

Taranto e Martina Franca

I DUE LUOGHI DEL MIO CUORE LA VALLE D’ITRIA E IL GALESO

 

Martina Franca

Fanno parte soprattutto dei miei ricordi, ma quando posso vado a visitarli, con devozione. La Bimare è la mia culla, Martina il mio rifugio, il suo silenzio la mia pace.






FRANCO PRESICCI
 
 


I miei luoghi del cuore sono Taranto e Martina Franca: la prima è la mia culla; Martina il mio rifugio. Sono entrambi deliziosi, gioielli che soltanto una persona superficiale non vede.
il ponte girevole

Che cos’è, se non uno splendore, il Mar Piccolo, che tra l’altro offre cozze polpose, gustosissime, famose nel mondo e diffonde il suo profumo? E i tramonti sul Mar Grande? E il Galeso? La seconda è superba, bella, un incanto, per la sua atmosfera, i suoi trulli, per i ricami delle sue architetture antiche; i tratturi, vie erbose che tagliano le campagne e un tempo erano ricchi di voci, a volte interrotte dalla voce dell’asino, grande lavoratore, dignitoso, mite fino a quando non ritiene di aver fatto abbastanza e allora non fa più un passo neppure con le bastonate (picchiare quell’animale è peccato mortale, c’è chi lo faceva?).
Non ne vedo più in giro. So che alcuni alloggiano alla masseria Chiancone, dove vengono trattati con riguardo; altri alla masseria Russoli, dove anni fa andai a visitarli assieme al comandante dei vigili urbani Franco Carrozzo. Lì i pochi esemplari vivono quasi allo stato brado, e chiesi al custode come facesse a radunarli e a portarli disciplinati in fila indiana dove voleva lui. Basta sussurrare un ordine al capobranco e tutti lo seguono.
I trulli del mio amico Vito

E’ davvero amabile, l’asino di Martina, dove assistetti a una scena esemplare: la femmina da un recinto mandava segnali d’amore al maschio chiuso in un trullo buio. Poi lasciarono che si avvicinassero, e m’impressionò la delicatezza con cui si accingevano al rapporto: preliminari lunghi e commoventi. Non mi piace che il suo nome venga associato “’a le scanzafatìe” e agli studenti svogliati.
Martina è adorabile per i suoi vigneti (le viti nane, secondo il poeta Raffaele Carrieri), per gli ulivi, per il centro storico, che è uno scenario teatrale, dove le donne sedute sulla soglia di casa sferruzzano; le “vedovelle”, dove la gente si disseta con la bocca aperta sull’acqua che cade fresca e generosa…
Taranto è una meraviglia, una magia “p’a marine”, le barche “nazzecate” dal mare, i pescherecci all’ancora, il suo tessuto urbano, il lungomare, il ponte che scioglie il suo abbraccio per il transito delle navi. E poi i vecchi dalle labbra screpolate che nella città vecchia parlano un dialetto con le finali strascicate e non per questo meno ritmico, meno sonoro.
Uno come me, che rimpatria una volta all’anno, si perde nelle nuove vie della città. Conosco “’a Salenèlle”, perché, finchè c’era, giravo fra le bancarelle del mercatino delle pulci, alla ricerca “d’a levorie”, un gioco che facevamo da ragazzi in strada: due palle d’acciaio, due palette di legno e “‘a scigghie”, cerchio di ferro fissato a un chiodo da conficcare nel terreno.
La locomotiva a vapore

Quando avevo vent’anni la via Magna Grecia, portava il nome di Venezia ed era una grande distesa di verde intenso, con una clinica quasi ai margini della strada. Vi circolavano solo le signore della notte e di giorno qualche solitario in bici.
Una volta per ore ho cercato il sentiero che stava di fronte ai Salesiani e portava alla scogliera e sono rimasto deluso, perché quel tratto è sopraffatto da nuove costruzioni. Ho cercato anche lo stabilimento balneare “Santa Lucia”, dove si rinfrescavano soprattutto gli arsenalotti (ci andavo anch’io con i miei genitori e con gli zii e cugini). Sparito anche quello. Ogni volta che Fred Buongusto cantava “Una rotonda sul mare” mi emozionavo, pensando all’altra.
Cerco ancora un pezzo di quella Taranto, che fa parte dei miei sogni. Superata la via Giovin Giovine c’era l’orto di “mesta Ronze”, che vendeva “’a gnète”. Non c’è più da una vita: ha fatto spazio a una scuola, uffici, case, negozi.... Più avanti c’era l’orto del signor Capone “cu ‘a ‘ngègne” azionata da un cavallo bendato; oggi hanno elevato i Beni Stabili. L’entrata della chiesa del “Sacro Cuore di Gesù” era su via Giovan Giovine, l’hanno spostata in via Dante. Ricordo tutti i sacerdoti della mia giovinezza che si sono avvicendati in quel tempio: Don Musto, don Giancola, dom Cipolletta, don Franzoso, Don Pietro Saracino. Questi si occupava dalla gestione dei funerali e dei matrimoni; e spesso s’inalberava perché gli interessati miravano sempre ad assottigliare i costi. Poi abbassava i toni e diceva “Zìtte ‘nu pòche”, ma non faceva sconti.
La Dogana e le lampare
Lì conobbi Mario Mazzarino, futuro onorevole e sottosegretario alle finanze. Decise di mandare in scena una commedia, “Il ribelle” e mi affidò la parte del protagonista. Avevo 13 anni. Recitammo nel teatro della Chiesa di San Francesco. Era molto più grande di me. Lo rividi tanti anni fa nella casa delle vacanze di Figazzano del pittore Filippo Alto e mi fece festa. Era accompagnato da Mimmo Sacco, un giornalista della televisione nazionale che si occupava di politica.
Quanto avrei da dire sulla mia città, famosa anche all’estero. I ricordi scorrono come l’acqua del canale navigabile che sposa i due mari. Mi viene spesso in mente la figura del professor Pietro Parenzan, direttore dell’Istituto talassografico, che scendeva con un batiscafo nei fondali del Mar Piccolo per studiarli e li riproduceva in quadri affascinanti, che espose in una sala del Circolo Magistrale “Tarentum” in via Di Palma, dove, nell’androne, il pittore Giuseppe Pignataro, poi trasferitosi a Milano, aveva ricavato il suo studio.
In quel circolo, di cui era presidente il maestro Cioffi, tipo dinamico e battagliero, si tenevano conferenze e mostre e non mancava mai la presenza del provveditore agli studi; di Franco Sossi, direttore del “Rostro”, di Mario Ligonzo, che curava la prima pagina de “Il Corriere del Giorno” (in seguito aprì una galleria d’arte in via Mignogna, dove ospitava pittori del livello di Franco Boniello, Rino Di Coste e altri), ma preferì poi lasciare il quotidiano di Taranto per “Il Corriere della Sera”. In via Di Palma, nello stesso stabile del circolo “Tarentum”, il professor Tambone, aprì un altro circolo, al piano superiore.
Sulle sponde del Mar Piccolo

Non dimentico il Premio Taranto (opera dei fratelli Rizzo de “La Voce del Popolo”), il Premio Rinascita. Era il ‘50, il ‘51. Il primo scatenò polemiche a non finire: i pittori Pignataro, il disegnatore De Nicolò e altri di notte scrivevano sui muri “Viva Raffaello, abbasso l’arte moderna” e il critico d’arte della “Gazzetta” Oronzo Valentini rispondeva alle secchiate di vernice dei contestatori. Una sera un pescatore, guardando le donne nude immortalate in un quadro chiese spiegazioni. “Sono donne” gli fu risposto, E lui: “Non è vero, io vedo tutte le sere mia moglie e non è così!”.
Martina Franca tra i suoi meriti ha il Festival della Valle d’Itria, noto e apprezzato a Parigi e a New York. Ogni anno i fautori vengono a Milano a presentare lo spettacolo al Piccolo Teatro. Accorrono cantanti e orchestrali illustri, critici, melomani, cronisti, curiosi. Fino a qualche anno fa fra i relatori c’era Franco Punzi, presidente amato da Sergio Escobar, direttore della struttura di Paolo Grassi e Giorgio Strehler… Un grande Festival, che inonda Martina di musica e dà l’occasione al pubblico, che viene anche dal Giappone oltre che dall’Europa, di apprezzare le delizie della città e le opere rappresentate per la prima volta ai tempi nostri. Il regista Pierluigi Pizzi mi disse che quando lui era a Martina camminava guardando il alto per vedere i balconi spanciati, le altane fiorite… prima di andare a bere il caffè al bar Tripoli, oggi chiuso.
I trulli di Mina

Di Martina ricordo le grandi tavolate e i balli sull’aia, i giochi dei bimbi nei tratturi, le arrampicate sui ciliegi alti quattro piani, le serate nei trulli degli amici tra chitarre e mandolini: i vecchi impegnati sotto una “bouganville” a giocare a scopone: le vigne gravide; il vento che dondolava gli ulivi; lo zio canonico penitenziere che confessava gli altri preti. Fra i ricordi più belli “’a Ciucculatere”, la locomotiva a vapore che partiva dal binario tronco di Taranto e, avvolta dal fumo, fischiando, attraversava le stazioni di Nasisi, Statte, Crispiano, Madonna del Pozzo, arrivando a Martina, dove attraverso uno scambio si spostava su un altro binario e tornava indietro fino alla piattaforma girevole, che le consentiva di mutare senso di marcia. Oggi quella “ruota” è semisepolta, in attesa di essere restaurata e usata come base di una “Ciucculatère” come monumento. Si avvererà il miracolo?
Quante volte, da adolescente, l’ho presa per andare in Valle d’Itria, la gloriosa locomotiva a vapore, che viaggiò anche nel 1837, quando inaugurarono la Napoli-Portici. Allora i mezzi erano scarsi e il sovrano, quando viaggiava, ordinava a un ferroviere appostato sul predellino di avvertire il conducente di andare più piano oppure più veloce.  

 

mercoledì 20 agosto 2025

La grande bellezza del Galeso

AFFASCINA, SEDUCE, RAPISCE QUESTO MAGICO CORSO D’ACQUA

 

 

Il Galeso (foto De Florio)
Ero adolescente quando mi portarono a visitarlo dopo il varo di una nave su una sponda del Mare Piccolo. Scrittori poeti, pittori si sono ispirati a questo tesoro di Taranto.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 


Quando avevo una decina d’anni con tutta la mia famiglia andavo al Cantiere Tosi a vedere il varo delle navi. La cerimonia mi entusiasmava soprattutto quando la madrina lanciava la bottiglia di sciampagna contro lo scafo e la casa galleggiante scivolava verso il mare. Fu in una di quelle occasioni che mi accompagnarono in una visita al Galeso, di cui avevo sentito tanto parlare. Una visita veloce, senza ciceroni impegnati in citazioni storiche e letterarie. Con il passare del tempo lessi le pagine del Gissing (“Sulle rive dello Jonio”) e rimasi amareggiato, perché l’autore lo giudicava diverso da come se l’era immaginato.
Il Galeso (foto De Florio)
Nei miei ritorni nella Bimare mi proponevo di andare sulla sponda di quel gioiello, uno dei tanti sparsi nella mia città, ma c’era sempre un imprevisto che mi distraeva. E al momento della ripartenza mi sentivo un innamorato infedele. Un po’ di anni fa mi decisi, ma dovetti tentare più volte, perché non riuscivo ad arrivarci: non c’erano indicazioni precise e chiedere a un passante era impresa inutile: tutti mi rispondevano sorpresi, perché non ne sapevano niente, pur abitando nelle case vicine. Alla fine fu un pastore al comando del suo gregge ad illuminarmi. Una visione bucolica estranea all’ambiente.
Ed eccolo, il Galeso, occupato da grosse barche cariche di mitili sotto un enorme telone. Guardai, ricambiato, gli uomini indaffarati sugli scafi, che quando seppero che arrivavo dalla Lombardia, scrutando la macchina fotografica, dopo avermi dato il benvenuto, mi chiesero di puntare l’obiettivo verso di loro; e mi invitarono a brindare con acqua fresca. A far sbocciare la simpatia fu anche il dialetto che mi veniva spontaneo. Alla fine di una conversazione durata un’oretta, fatta di domande e risposte su Milano, sulla vita che vi si conduce, sulla nebbia, che oggi è rara, sul traffico, sulla gente che va sempre di corsa (non ne ho mai saputo il motivo). Poi mi vollero regalare un paio di chili di cozze, che intendevo pagare, ma le facce risentite mi suggerirono di non insistere. Tornai con le foto da distribuire e dovetti mobilitare nuovamente l’obiettivo, perché il gruppo era cresciuto.
Una sera al “Corriere del Giorno”, che allora era in un palazzo dei Beni Stabili, riferii le mie
Verso il ponte di pietra

impressioni all’amico di sempre Vincenzo Petrocelli, redattore della terza pagina. Gli dissi che stavo leggendo il pensiero della scrittrice polacca Kazimiera Alberti, autenticamente entusiasta della nostra regione, da lei “praticamente scoperta nell’Ottocento”, come Benito Mundi scrive nella prefazione al libro “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia” di Francesco Giuliani. “La Puglia è una regione molto antica, ricca di testimonianze che affondano nel silenzio e nelle tenebre della preistoria, aprendo un prezioso varco alla conoscenza…”. La Alberti definisce Taranto “una stella della Magna Grecia” e scopre con piacere i treni delle Ferrovie Sud-Est, che la portarono attraverso città e cittadine, villaggi, pianure e colline, per vigneti e frutteti… “Le Ferrovie svolgono una preziosa funzione turistica, economica, ma anche culturale… Più di novanta treni viaggiatori corrono, galoppano, trottano attraverso il calderone pugliese ed alla fine del giorno annotano una bella cifra: abbiamo percorso cinquemila chilometri, cosicché ogni otto giorni facciamo il giro del mondo”.
Il lungomare
Del Galeso non trovo traccia in queste pagine, e me ne dispiace. Visitando una città nata sul mare, vive sul mare e respira un’aria mediterranea, frizzante; vanta frutti di mare deliziosi e altre preziosità ovunque, allettando, come i suoi tramonti che infiammano l’orizzonte, un salto al Galeso è sempre salutare. E ristora lo spirito.
Comunque sono contento di essere nato a Taranto, in questa meraviglia, che riscopro ogni volta nei miei approdi: monumenti, tesori antichi raccolti nel Museo, il tessuto urbano, uomini dell’uno e dell’altro borgo, la Cattedrale, San Domenico, il lungomare, la Villa Peripato, il Castello Aragonese, il Mar Piccolo... Incontro anche tante persone gentili e ospitali, con la voglia d’ingegnarsi per la città, di cui per colpa della mia diserzione ho perso tante cose. Loro me le raccontano e io sono attento nell’ascolto. Nicola Giudetti, Antonio De Florio, Cataldo Sferra…, che celebrano Taranto in versi e in prosa o con immagini che hanno il sapore dell’arte.
La Dogana
Quante ore ho passato a meditare sugli scritti di Alfredo Lucifero Petrosillo, Diego Marturano, Alfredo Nunziato Maiorano, Claudio De Cuia, Diego Fedele, Giacinto Peluso, Nicola Caputo… purtroppo scomparsi. Li amo tutti, come amo Taranto, i suoi mari, i vicoli della città vecchia, “le strìttele”, il Galeso. a cui mi auguro abbiano ridato la dignità che merita.
Ricordo i versi “… tu guidi le sonanti acque e fresche/ acque per dolce clivo, alla tranquilla/ spera del mar tra floridi giunchetti/ fiume Galeso...”. Dissi al pittore Filippo Alto - parafrasando Giuseppe Giacovazzo -, che da Bari in tempi lontani si trasferì a Milano, conservando la sua roccaforte a Figazzano, nei pressi di Martina Franca: “Un giorno tu e io andremo sulle sponde del Galeso, dove trascorsi momenti di gaudio. Io lo vedrò scorrere all’ombra degli alberi giganteschi e tu lo coglierai con la tua tavolozza”. Filippo amava il paesaggio e i suoi angoli più deliziosi. Amava anche lui il fiume che coglieva il fischio delle navi quando slittavano in acqua. Non si può non amare il Galeso. Così come non si può non amare Mare Piccolo, con le barche all’ormeggio e il profumo del pesce fresco appena sbarcato. Taranto, dolce Taranto. Tu culli i miei sogni, m’incanti, m’inebrii. Quando sono a Milano un venticello fresco e ristoratore mi porta il tuo profumo. Inimmaginabile la gioia che provo quando salgo sul treno che si prepara a ingoiare chilometri di binari, uscendo dal grande ventre della stazione Centrale di Milano. E’ sempre affollato, quel treno. Domando qua e là ai viaggiatori dove sono diretti: chi a Foggia, chi a Bari, molti a Taranto, a baciare la sua terra. Il mio cuore batte forte ai racconti di chi lasciò la culla per venire al Nord a guadagnarsi il pane. “Ricorda il Galeso?”. “Certo che lo ricordo. Mio padre lavorava al Cantiere Tosi”, “Il mio a Buffoluto”, “Il mio all’Arsenale.
via Garibaldi
I racconti s’intrecciano, si accavallano, si moltiplicano. Si sa come vanno lo cose negli scompartimenti dei treni. Alcuni non hanno voglia di parlare, altri sonnecchiano, ma chi è sul punto di annoiarsi si lascia andare. E nel mio ultimo viaggio di ritorno non mi sono neppure accorto del tempo che passava. Un tale che aveva lasciato la terra per salire nel capoluogo lombardo cambiando mestiere aveva nostalgia e tanti ricordi del Galeso. Un altro, seduto proprio di fronte a me, sosteneva che il Galeso se lo portava nel cuore; e ricordava I sospiri di Orazio “per le dolci acque del Galeso, caro alle pecore avvolte nelle pelli, e i fertili campi che furono di Falanto, lo Spartano….”. Cose antiche, adesso andate a vedere com’è.
Qualcuno osserva che la bellezza del fiume è affascinante. Ascoltavo le opinioni, che si arricchivano, mentre il convoglio sussultava. E tutto quello che attraversava, cascine, animali, contadini alla guida del trattore, correva scomparendo come un fulmine. E io pensavo a Stazio, Marziale, Virgilio e agli altri che hanno celebrato il Galeso. A questi la mia mente ricorre ogni volta che incontro un ciarlatano che sputa sentenze su questa gloria della nostra città. Anch’io trovai i suoi fianchi umiliati, ma il mio lamento marciò verso quelli che dovevano intervenire e non lo facevano. E adesso?
il Ponte Girevole
Io adoro il Galeso e adoro Taranto. Se c’è qualcosa che non va , volto pagina. Non voglio sentirmi dire: “Ma tu chi sei? Te ne andasti oltre mezzo secolo fa , ritorni e salti in cattedra?”. Me lo dissero una volta e a dirmelo fu proprio un amico: “Chi parte lasciando Taranto non può più considerarsi figlio di questa città”. Amico mio, il cuore batte sempre per la Bimare. Non si possono soffocare i sentimenti. E poi, il Galeso conserva sempre la sua attrattiva. Nutro soltanto la speranza che il Galeso, qualche secolo addietro chiamato dai contadini Gialtrezze, senza averlo mai visto e senza sapere neppure dove scorresse, ha avuto i suoi detrattori ma anche i suoi entusiastici ammiratori. L’ inglese vittoriano George Gissing nel suo libro “Sulle rive dello Jonio”, tra l’altro scrisse: “Fiume? Sarà lungo appena mezzo miglio….”. La bellezza per lui si misurava con il metro. 

 

mercoledì 13 agosto 2025

Prestigioso PREMIO a Michele Focarete

UN CRONISTA CHE HA MANGIATO PANINO E POLVERE PER CAPTARE UNA NOTIZIA

 

 


Michele Focarete
Il riconoscimento, è stato consegnato il 10 Agosto
a Poggio Imperiale dal sindaco in una bellissima cerimonia alla presenza del sindaco Alessandro Liggieri con accompagnamento musicale.

 

 

 












FRANCO PRESICCI
 
 
 
 
Il Premio “Principe Placido Poggio Imperiale” è stato assegnato a Michele Focarete, attento, scrupoloso, poliedrico cronista inviato del “Corriere della Sera”, autore di coraggiose inchieste anche all’estero, conoscitore della malandra organizzata di Milano, Lombardia e oltre.
Poggio Imperiale

Il Premio gli è stato assegnato appunto per il suo valore professionale e per aver tenuto saldo il legame con la terra dei suoi nonni e dei suoi genitori: Poggio Imperiale, un bel paese tranquillo fatto di gente laboriosa, che sorge in Puglia, a un tiro di fionda da San Severo, i cui contadini un tempo lo raggiungevano a piedi.
Il Premio è nato con lo scopo di rendere merito alle personalità di ogni settore che hanno tenuto alto il nome di questa terra con il loro percorso professionale o per singoli episodi esaltanti. E Michele Focarete si è distinto quando frequentava per lavoro la Milano “by night”, raccontandola con garbo, serietà e puntualità di grande cronista sul “Giorno”, poi sul quotidiano del pomeriggio “La Notte” diretto da Cesare Lanza, entrando poi nel tempio del giornalismo: “Il Corriere della Sera”. Qui si è occupato anche di “nera”, esplorando l’ambiente dei “boss” e dei gregari, che miravano al dominio della città, tentando di espandersi anche fuori. Focarete è stato un esempio di cronista in prima linea, avido di notizie, cacciatore infaticabile, abituato a consumare scarpe e nutrirsi di pane e polvere per agguantare la chicca. Inoltre non ha mai dimenticato la “culla” in cui hanno emesso i primi strilli i suoi nonni e i suoi genitori; e ne parla in modo toccante, facendo intuire che le sue radici sono più solide di quelle dell’ulivo e della quercia.
Il nonno di Michele alla stazione

“Nessuno può dimenticare il luogo delle proprie origini. In famiglia ho ascoltato le storie di questa terra e io stesso da bambino passavo le mie vacanze estive a Poggio e trovavo molte persone che avevo conosciuto soltanto nei ricordi; e proprio i ricordi corrono veloci alla fine degli anni 50, quando mio padre, Giovanni Candido Focarete, mi portava a Poggio Imperiale una volta all’anno. Una grande avventura che sapeva di magia. Partivano dalla Centrale di Milano di mattina per arrivare a destinazione a mezzanotte. Ad attenderci c’era mio nonno Michele, meglio conosciuto come Michelucc. Un’immagine surreale ai confini con la realtà. Era seduto sul carretto (barrocc) trainato dal suo inseparabile asino, che si chiamava Matteo. Michelucc vestiva con una camicia pesante a quadroni, con maniche arrotolate sui gomiti che mettevano in mostra la maglia della salute, tassativamente di lana, in testa una coppola grigio-scura. Quando ci vedeva i suoi occhi diventavano lucidi e l’abbraccio con mio padre era poderoso, infinito, A me dava una carezza con le sue mani ruvide da contadino, che mi facevano sentire protetto. E poi come nelle più classiche delle favole a lieto fine mi faceva tenere le brigie. Due chilometri come un cow boy fino ad arrivare a casa, in via Focarete”.
Lo ascolto, Michele, con interesse e nostalgia, perché le sue parole ridestano tante mie memorie, compresa quella della conferenza da me tenuta proprio nella chiesa di Poggio Imperiale sul genetliaco di Papa Pio XII, quando frequentavo il liceo classico Matteo Tondi di San Severo. La missione mi era stata affidata da don Giuseppe Stoico, rettore del seminario, in una giornata di neve alta quasi mezzo metro.
Ha ragione Michele: il tuo paese rimane nel cuore per sempre, lo ami, lo sogni, lo porti sempre con te, ovunque tu vada, con le case, le persone, i momenti vissuti: un viatico dell’anima.
“L’altro nonno – riprende Michele - Giuseppe Sarra - faceva il macellaio e lo chiamavano “Chiancarell”, da chianca (l’asse di legno su cui in passato si tagliava la carne e sul quale veniva esposta per la vendita”. Ancora oggi lo ricordo, a distanza di un secolo, perché ha insegnato il mestiere a tutti i macellai del posto e dei paesi vicini”. Nonno Giuseppe, uomo di poche parole, ma dal grande cuore, ebbe 14 figli, tra cui mia madre Lucia, che si innamorò di Giovanni Camillo Focarete, mio padre, che faceva il sarto con l’hobby della musica. Per comprargli la tromba mio nonno vendette un pezzo di terra. Ma il lavoro e la banda del paese a Camillo andavano stretti e così come tanti uomini del Sud, emigrò a Milano, trovò una casa in affitto e aprì una sartoria in viale Romagna, davanti alla Casa dello Studente.
A sinistra il papà di Michele Focarete
A 29, quando pensò di essersi sistemato, mio padre scese a Poggio Imperiale e disse a Lucia: “Domani ritorno su, vieni con me e ci sposiamo”. E così fu. Nel gennaio del ‘47 nacque mia sorella, Anna, in via Carlo Forlanini, all’Ortica, e nell’agosto del ‘51 nacqui io, in via Pietro da Cortona, a un centinaio di metri da piazzale Susa. Milanesi di nascita, terroni di origini”. Terrone, che bella parola! Terra, contadino (arte nobile), zappa, raccolto, nutrimento, fatica, quanta fatica.
Mi affascina questa storia, che Michele snocciola anche nei particolari, manifestando amore per Poggio e per la sua gente, per il campanile che con il suo ritmo richiama i fedeli alle funzioni e scandisce le ore. Michele è come se fosse nato a Poggio, un tessuto urbano stretto in un atto di affetto caloroso.
Il cronista inviato che ha inseguito con impegno e passione la notizia; che ha vissuto la Milano dei sequestri, dei regolamenti di conti, delle rapine clamorose, riceve un premio che probabilmente non si aspettava. Che emozione, vero Michele? Con il pensiero va ai giorni in cui scendeva dal predellino del treno alla stazione di Poggio Imperiale, inaugurata il 25 aprile del 1864, insieme alla tratta Ortona-Foggia e attiva fino alla chiusura, nel 2000. La stazione, luogo di incontri, di fervore, di attese, di persone che vanno o vengono tra i fischi del locomotore., che parte lento come una lumaca e poi corre come il vento.
Il giornalista Focarete
Non trascura nulla, Michele Focarete. Giornalista dall’80, ha spesso trattato argomenti legati all’infanzia maltrattata e al traffico degli esseri umani. Nel 2009 arrivò secondo al prestigioso Premio Vergani e l’anno successivo lo vinse come migliore cronista lombardo per il reportage in Romania sulla tratta dei bambini rubati negli orfanotrofi e gettati sui marciapiedi a prostituirsi, pubblicato su “Sette”, il “magazine” del “Corriere della Sera”. Si è occupato per lungo tempo della vita notturna milanese e dei suoi cambiamenti, “quelli che gli americani chiamerebbero ‘nighter’”. Ha scritto tre libri (“Milano ad ogni ora”, “Il mio nome è Lara” e “Milano by night – quando lo spogliarello era un’arte”). Dal 2013 al 2017 ha ricoperto l’incarico di consigliere e vicepresidente della commissione Cultura dell’Ordine dei giornalisti... Attualmente collabora a diversi quotidiani nazionali e settimanali. E ha inanellato un bel po’ di Premi, tutti importanti, per il suo lavoro di giornalista, che non guardava l’orologio e quando era sul teatro di un avvenimento osservava con cura senza mai lasciarsi sfuggire nulla. Un cronista di altri tempi pronto a tutto pur di portare in redazione il carniere pieno. Bene hanno fatto dunque il sindaco di Poggio lmperiale, Alessandro Liggieri, e il consiglio comunale a riconoscere il talento di Michele Focarete, dandogli il Premio ispirato alla figura di Placido Imperiale, “che fondò nel 1759 il nostro paese e fu conosciuto come esempio di ‘principe illuminato’ per la sua visione e per le sue azioni mirate al miglioramento delle condizioni di vita e alla valorizzazione dei territori”.
Focarete a un convegno


La cerimonia di consegna si è svolta il 10 agosto in una serata musicale con protagonista l’orchestra fiati “Apulia” diretta dal maestro Antonello Ciccone e con la partecipazione del soprano Ripalta Bufo nel concerto “Ennio Morricone, la leggenda del ‘900.
Mi congratulo con Michele Focarete, collega e amico, gentiluomo, alla mano, schietto e ironico. L’ho sempre seguito fin da quando veniva al “Giorno” a portare i suoi articoli sui locali notturni, ambienti che conosceva alla perfezione. Pochi altri conoscono Milano come lui, di notte e di giorno, la Milano tormentata dalle bande criminali e la Milano che si compiace delle sue mille attività culturali. E ama, Michele, ripeto, il suo paese. Al tempo in cui Giovanni Focarete salì al Nord i viaggi erano un inferno, vagoni affollati anche nei gabinetti e la gente li conquistava attraverso i finestrini, perché le piattaforme erano intasate. Tempi di emigrazione,
Focarete con Papa Francesco

di salasso del Sud. Quello era il treno della speranza. E per molti la speranza si è concretizzata.

mercoledì 6 agosto 2025

Le chiesette rurali di Martina

SI PREGA TRA I PROFUMI. E' LA GRANDE BELLEZZA

 

La Madonna della Consolata
Il luoghi di preghiera sono sparsi. Dal Chiancaro alla vecchia strada per Noci, dove è prossima la festa della Madonna della Consolata, alla presenza del vescovo.

 

 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI


Sulla strada che da Martina va a Locorotondo in alto si erge un tempietto che mi appare come il guardiano della Valle d’Itria. Lo visitai la prima volta un’ottantina di anni fa insieme allo zio canonico penitenziere, don Martino Calianno, che celebrava la Messa nella basilica e a volte in quella chiesetta a un tiro di fionda da casa sua, in via Marangi: una via breve, uno scampolo parallelo a via Bellini.
Vito e Angela Argese
Un’altra piccola chiesa è quella della Madonna della Consolata, in fondo alla vecchia via per Noci, che si allarga in un piazzale su cui, di fronte, si trova una scuola degradata e abbandonata. Ero già entrato in questo luogo di preghiera, durante una festa dedicata alla Signora. che richiama tanta gente, per devozione o per il piacere di vedere schierati baracche e stand, ascoltando un’orchestra che stuzzica la voglia di ballare. Una volta vi ho incontrato il compianto notaio Alfredo Aquaro, accodato alla processione con in mano una candela. “Ora prendo un po’ di arachidi, noccioline e semi di zucca per due ragazzini che mi stanno a cuore”, mi disse. Ciao, Alfredo.
Le chiavi della chiesetta ce l’ha Angela Argese, che la tiene in ordine e splendente, come fosse casa sua. Vito, il marito, le dà una mano. Mi sono seduto nuovamente qualche giorno fa su un banco vicino al simulacro di san Pio, ed è stato per me come un’immersione nella pace e nel silenzio, per un momento lontano dal mondo e dai suoi tumulti. Giacchè c’ero ho fotografato un antico pozzo all’aperto che ancora oggi raccoglie acqua piovana. A un tiro di fionda c’è una masseria ancora attiva. Fino a qualche anno fa Angela conduceva con saggezza un’azienda, dove oggi trascorre il periodo estivo. “Quasi ogni giorno passava un vecchietto e gli regalavo le uova”, dice questa donna intelligente, generosa e disponibile, come Vito, un uomo di spirito che non ama raccontare le proprie fatiche sulla terra, che non sempre dà soddisfazioni.
Il pozzo


Ricordo che avevo 11-12 anni quando un altro contadino, Giovanni, mi parlava del mago della pioggia, che con un cappello a larghe falde e un ampio mantello saliva sui trulli e invocava la generosità del Padreterno, ritmando preghiere o parole rituali mai rivelate. Da tanto tempo desidero stimolare Vito Argese, un serbatoio di storie, a ripercorrere con la memoria vie erbose, come tanti anni fa feci con don Oronzo, a cui il grande pittore cantore della Puglia Filippo Alto affidò il microfono in una delle sue serate a Figazzano. Finora Vito lo ha fatto a stralci, spontaneamente, accennando alla chiesetta della Madonna della Consolata. “Era ridotta a un rudere, non c’erano soldi per restituirle la dignità di culto. “Fu il sindaco Alberico Motolese, ancora oggi ricordato con stima e rispetto da molti, a provvedere. Un costruttore gli aveva chiesto l’autorizzazione per erigere uno stabile e il primo cittadino gli chiese di aggiustare le ossa della chiesa”. E rieccolo, il luogo di culto, senza sfarzi, senza tante immagini se non quelle della “Via Crucis”, accogliente, a un tiro di fionda dalla masseria Recchione, all’incrocio di cinque contrade. La chiesetta fu benedetta nel ‘58 da monsignor Guglielmo Motolese, amministratore apostolico e poi arcivescovo della Bimare. “Allora la gente viveva in campagna”, mi riferisce Vito.
Ora sono in tanti ad aspettare la festa, che si conclude come al solito con i fuochi d’artificio che sprigionano mille stelle policrome e geometrie nell’aria, mentre fedeli e non applaudono e la musica continua a spandersi tutt’intorno. Intanto un uomo basso, sorridente, simpaticone prepara le bruschette. “Gustate questa delizia: pane di Laterza con olio, sale, pomodoro e origano”, urla gioioso. Se arriva qualcuno in ritardo, Angela corre subito a cercare una sedia, e la consegna con la sua abituale delicatezza.
La chiesetta di via Papadomenico

Ci sono stato un paio di volte e ho notato persone venute da altre parti, come l’avvocato Martino Carbotti, che ha i trulli sulla via per Locorotondo, il “locus rotundus”, in cui Giuseppe Giacovazzo, già direttore della “Gazzetta del Mezzogiorno”, aveva la redazione del suo periodico “Paese Vivrai”, poi diretto dal figlio Piero, mezzo busto della televisione nazionale.
Un’altra chiesetta sta proprio a Figazzano. Le chiavi erano custodite da don Oronzo, un anziano contadino affabile, arzillo, dalla memoria fertile. Inanellava parole in dialetto martinese, destando subito l’attenzione di chi ascoltava. Un anno, per la festa della Madonna, era in programma l’esibizione di padre Cionfoli, che era però disponibile per il lunedì e non per la domenica. Gli organizzatori erano in difficoltà e alla fine pensarono di spostare i festeggiamenti. “Che cosa?”, tuonò don Oronzo. “Io per padre Cionfoli non accetto che si rimandi la festa. La Madonna viene prima di tutti. Se insistete, io chiudo la chiesa e vi arrangiate”.
Don Oronzo non le mandava dire, tenace, irremovibile. Raccontò l’episodio in dialetto a un pubblico numeroso invitato da Filippo e arrivato anche da Milano. Seduti in prima fila, il ministro Vernola dei Beni Culturali, e il critico d’arte Raffaele De Grada, ospite del pittore. In una mia intervista a don Oronzo feci una domanda impertinente: “Fiorivano amori fra i grappoli durante le vendemmie”. “Come no”. “Tu eri vivace?”. Don Oronzo: “Non mi ricordo. So soltanto che sono sempre stato al mio posto”. Era bassino, un po’ ricurvo per il lungo lavoro nei campi, prontissimo nelle risposte. Non schivava una domanda.
A volte salgo sul Chiancaro, imbocco il tratturo, mi fermo davanti al cancello, chiuso, dei trulli dello zio prete, come in un pellegrinaggio. Al ritorno ho un altro punto fisso: la fontanella che sta quasi all’incrocio da oltre un secolo. Dopo averla osservata, mentre un ragazzino le succhia acqua, prendo la strada che porta a via Mottola e a metà ho una sosta obbligata: una piccola chiesa, che vidi per la prima volta quasi ottant’anni or sono. Zio Martino di tanto in tanto ci andava e su quell’altare a volte diceva anche Messa. Adoro queste pareti consacrate. Qualche anno fa andai a cercare in un altro tempietto un sacerdote devoto di sant’Agostino, a cui volevo chiedere una Messa per mio nonno Francesco. Un amico mi indicò la via, e ci arrivai attraversando Locorotondo e poi ancora il territorio martinese. Arrivai in tempo per sentirlo parlare del suo santo preferito.
La Madonna della Stella

Ristora lo spirito un rito fra le viti e il canto delle cicale, mentre echeggia il rombo del trattore: il canto della natura e il sudore del contadino. I “din don” invitano alla funzione e sono ritmi veri, non registrati su nastro. Ah, la tecnologia si è insinuata anche sui campanili. E’ dolce il suono delle campane, i rintocchi arrivano al cuore, suscitando ricordi. Andando per via Mottola, se posso, mi fermo ad osservare il tempietto dedicato alla Madonna della Stella. Tanti anni fa i fedeli venivano a chiedere offerte per la sua festa, che non so se fanno ancora.
A Martina sono tante le chiesette di campagna; e sono molto frequentate. Martina è una città in cui la fede è diffusa. E il rispetto per i sacerdoti pure. Ricordo le donne che ogni mezzogiorno, a turno, portavano il piatto con la pastasciutta a zio Martino. Erano felici di farlo. Suonavano il campanello, lo zio tirava la corda che apriva la porta, loro salivano le scale e il pranzo era servito. Osservavo quelle donne incuriosito. Alcune di loro andavano a seguire la Messa celebrata dallo zio nella chiesetta sul rilievo dirimpetto alla Valle d’Itria. Ci si arriva attraversando una vietta collocata sullo stesso piano, sulla sinistra guardando dal basso.
I Santissimi Medici
Una volta non c’erano i rumori delle cilindrate che hanno fretta e la gente andava a piedi a Locorotondo e qualcuno sgambando va ancora ad Alberobello quando il paese accende le luci per la festa dei Santissimi Medici.
Dove porta la Fede! Ci sono cappelle nelle masserie. Ho visitato a Crispiano quella della Lupoli (appartiene a un tarantino, che ha in casa una collezione “de perdune” in processione per la Settimana Santa. Alla Lupoli si respira aria di antichità anche per il suo Museo della Civiltà contadina (zappe, torchi, rastrelli, falci... tutto un mondo ormai sconosciuto). Nella cappella si può ammirare un grande crocifisso collocato subito dopo l’entrata, a sinistra. Immortalai una donna anziana in meditazione su una panca di pietra. Ancora oggi ci sono donne vestite di nero. Come nei quadri del pittore Emilio Marsella, che ha dipinto anche le chiese della sua Maruggio. Pittura della memoria, ispirata nello studio milanese dell’artista.