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mercoledì 25 giugno 2025

Una grande festa per Pedroli dai Martin

IL RICORDO DEL GRANDE ARTISTA RIMARRA’ VIVO TRA LA GENTE

 



Pedroli alla Fornace Curti
Il 24 dicembre Babbo Natale arriverà sulla gondola di Umberto Pagotto all’attracco di fronte al negozio di Abbigliamento militare e jeanseria, di fianco al Centro dell’Incisione.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI




Le mani che fanno muovere il torchio del Centro delle Incisioni sull’Alzaia Naviglio Grande non sono più quelle del grandissimo Gigi Pedroli, prestigioso acquafortista e menestrello; ma quelle del nipote Alessandro, che ha ricevuto dal nonno in eredità la passione per l’arte.
Alessandro Pedroli
E’ lui che oggi stampa le opere di pittori eccellenti, accoglie gli appassionati in visita e mostra loro come da una macchina esce un capolavoro. E sarà lui che prima o poi, dopo il rodaggio, si affiancherà come insegnante a Marco Cattaneo, uno dei primi allievi di Pedroli, nelle vesti di maestro.
Dopo la scomparsa di Gigi, al Centro sono sempre tante le persone che si accodano per vedere in funzione il torchio. E naturalmente si parla di Gigi, della sua bravura, della sua generosità, della sua umanità”.
L’ho incontrato, Alessandro, mentre era insieme a Graziana Martin, che ha il famoso negozio di abbigliamento militare e jeanseria proprio di fianco al Centro ed è stata amica dell’artista, per il quale, nel cortile dell’azienda, si propone di organizzare manifestazioni che tengano sempre vivo il suo ricordo e continuino la sua opera tesa ad attirare sempre più gente sul naviglio.
Parlando di Gigi si rispolverano i barconi che portarono tanta merce a Milano e il marmo di Candoglia per la Fabbrica del Duomo; il “barchett de Boffalora”; e in anni più vicini a noi il “bateau mouche”, che stava nel cuore di Guido Vergani, e la Viscontea di Empio Malara. Ma anche vicolo dei Lavandai, che il poeta Armando Brocchieri definì una chiesa di pittori; e la Ripa e i cortili spesso a zig-zag... Gigi è stato il cantore di questa vecchia, affascinante Milano. Quando non era vicino al torchio, pizzicava le corde della sua chitarra, cantando le canzoni più belle che andava componendo: “El barbun”, “Adamo”, “Storia lombarda”. “Vegia usteria”, “Viale Ortles”, famoso come dormitorio pubblico per tanti poveri, meno poveri degli altri. Gigi era instancabile nell’allargare sempre più l’elenco dei suoi brani ricchi di ironia garbata, divertente, sapida.
Graziana Martin, che è stata allieva di danza al Teatro alla Scala, ed è amica di “et
Alessandro Pedroli e Graziana Martin
oil” come Luciana Savignano, di personalità non solo dello spettacolo ed è conosciutissima a Milano come donna di talento, gentile, schietta, dinamica, un sorriso dolce e comunicativo, si commuove nel rievocare la figura di Pedroli, “che ha dato tanto al naviglio”. La conosceva come le sue tasche, Milano, Gigi, e aveva in mente i nomi e l’attività degli artigiani e degli artisti che avevano lavorato nei cortili, da Romualdo Caldarini, che fu presidente dei Pittori di via Bagutta dopo Aldo Cortina; ad Angelo Cottino, Guido Bertuzzi, Sarik (Riccardo Saladin). Formenti… i maestri argentieri, che operavano in uno dei primi cortili del vicolo, il fabbro sull’alzaia, la signora Radice, che a suo tempo vendeva la lisciva alle lavandaie, e la vecchietta bassa, i capelli bianchi che nel ‘70 aveva ancora paura del bombe che avevano devastato molti tesori della città. ”Il rumore lo sentivamo anche da qui”.
in fondo, il Centro Incisioni

Gigi Pedroli era un mito, per gli abitanti del naviglio, e non solo. E chi non sa che è scomparso va ancora a cercarlo al Centro dell’Incisione anche per ammirare le sue opere. Graziana Martin - che io adoro per il suo carattere forte, per la sua bravura non soltanto nella conduzione con il fratello Paolo del negozio, ma per la concezione che ha dell’amicizia - ricorda la figura Di Gigi e il suo zelo, i suoi slanci in favore di quel luogo sacro, che è il Naviglio Grande, e prova sconforto per la scomparsa di quest’uomo straordinario, avvenuta il giorno dell’Immacolata dell’anno scorso. Perciò il 24 dicembre, grazie a lei, durante una festa per i bambini Babbo Natale arriverà in gondola, quella di Umberto Pagotto, di Vicenza, che con il suo gioiello porta la gente in gita sul canale. Si pagheranno pochi euro e quello che sarà raccolto nel salvadanaio verrà consegnato alla Fondazione De Marchi per i bambini oncologici. Santa Claus sarà un grande marinaio, accompagnato da Gregorio Mancino, artista che disegna bambini, anche sulle pareti, va negli ospedali, si veste da pagliaccio per farli ridere.
Gigi Pedroli non verrà dimenticato, dunque. E chi può farlo? Sul naviglio tutto parla di lui e tutti parlano di lui. L’alzaia dovrebbe essere intestata a lui, la leggenda del Naviglio Grande. Gigi già in vita era un simbolo. “Mi manca, mio nonno – mi confida Alessandro – Vivendo e lavorando dove si sente il suo respiro, echeggiano i suoi passi, le sue parole è come stare ancora con lui, anche grazie alla gente che entra, osserva le sue creazioni appese alle pareti e parla di lui”. Gigi è stato il maestro di vita e d’arte di Alessandro. Un esempio.
La Savignano e Graziana


Le persone care non muoiono, si trasferiscono altrove e lasciano una parte di sé nel nostro cuore. Vero, Graziana? Conservo una foto con gli zampognari che suonano la cornamusa fuori della sala esposizioni del Centro. “Ogni anno – aggiunge Alessandro, un bel ragazzo alto, educato, discreto - venivano, entravano, soffiando sul becco della ciaramella. Portavano insomma l’aria di Natale sotto il glicine che pende rigoglioso con i suoi grappoli blu.
Il Naviglio, era tutto per Gigi, un gentiluomo di vecchio stampo. Lo si vedeva il pomeriggio passeggiare sull’alzaia, appoggiarsi alla “murela” (la spalletta) e guardare l’acqua che scorre verso la darsena, dove si congiunge con quella che va a Pavia con il nome di Naviglio Pavese. Poi rientrava e riprendeva il lavoro, affiancato da sua moglie Gabriella, che si occupa della parte organizzativa. “Ha fatto davvero tanto per il Ticinello, Gigi – ripete Graziana Martin – Fu lui a fondare l’Associazione del Naviglio Grande, che allora si chiamava Lamon (Libera associazione milanese operatori naviglio). Si riunirono una sera del 1982 in una osteria per una cena a base di pane, salame e bonarda Gigi e due antiquari, Romualdo Caldarini e Giorgio Pastore, e pensarono di fare una mostra con i banchi degli antiquari per rendere più affollati i fianchi di questa via liquida (termine dal poeta Alfonso Gatto), tutto andò bene e sorse il sodalizio, alla buona, come piaceva a Gigi, che non amava gli orpelli, la retorica, i coriandoli.
Lossani e Pedroli

Adesso c’è attesa per la festa del 24 dicembre, quando Babbo Natale approderà con la sua folta barba e i suoi baffi bianchi e l’abito rosso. Tutto bello, iniziativa lodevolissima, ma sul palco che sarà montato nel cortile del negozio di Graziana e Paolo Martin non ci sarà più Gigi Pedroli, che c’è sempre stato fino a pochi mesi prima di morire, quando non stava già bene. Lì, da Graziana, lo vidi l’ultima volta cantare, recitare sue vecchie storie, a volte sollecitato a gran voce dal pubblico, che gli voleva bene e sapeva le sue canzoni a memoria. Lo accompagnava al banjo o alla chitarra Lossani, che fingeva di battibeccare con lui sul pezzo da eseguire, scatenando gli applausi.
Gigi era amato, a Milano e non solo. Anche se non era abituato a squadernare i nomi illustri con cui si era esibito, quelli che lo avevano accompagnato con i loro strumenti, che avevano cantato con lui anche fuori Milano, anche in serate musicali importanti.
Paolo Martin e Lossani, Graziana e Pedroli
“Quando c’era lui, il naviglio era diverso, c’era più milanesità”, commenta Graziana. E io sono convinto che nei pomeriggi dei Martin Gigi non sarà presente materialmente, ma aleggerà dietro le quinte. Anche nella festa in suo onore a dicembre, che si svolgerà con la collaborazione dell’Associazione Marinai d’Italia. Ci sarà anche una mostra delle opere di Gigi, artista dalla fantasia inesauribile, da favola, amico come Giulio Confalonieri (notissimo e autorevole critico e storico della musica) dei “clochard”, che a Milano sono tanti.
“Senza dirmelo mi ha preparato al dopo”, dice Alessandro con l’espressione di chi soffre per aver perduto un pilastro.
Il Naviglio Grande
“Accolgo il pubblico che viene al Centro a vedere funzionare il torchio e i tanti artisti che se ne servono con la sua stessa cortesia”. Era generoso, disponibile. Tra poco uscirà un libro che celebrerà i 50 anni del Centro dell’Incisione, fondato da Gigi Pedroli un “puer aeternus”, come ha scritto un critico. Un uomo che amava la vita e il suo naviglio, la bonarda e i dolci, ma anche la cucina. Per i suoi ospiti preparava personalmente il risotto alla milanese cucinato nel camino e la polenta, tutto seguito dal suono della chitarra - interviene ancora Alessandro, parlando sottovoce - Gigi faceva parte di quella schiera di uomini che lasciano tracce che non si possono cancellare. Speriamo di vedere un giorno scritto sulla targa stradale non più alzaia naviglio grande, ma alzaia Gigi Pedroli, acquafortista eccezionale, delizioso cantastorie in dialetto meneghino, che aveva molto rispetto per gli altri e adorava il Naviglio Grande.


mercoledì 18 giugno 2025

Tra le figure della Taranto di una volta

UELINE “D’U GRATTA-GRATTE” VENDEVA LA BIBITA IN VIA DANTE

 

 

Collezione De Florio
Di chioschetti come il suo si trovavano in ogni parte della città: sui Tamburi, in centro, alle Tre Carrare, a Solito. Qualche venditore per 10 lire riempiva un tegame. Questa bibita rinfrescante ha segnato un’epoca. 

 

 

 

 
 



FRANCO PRESICCI
 
 


In un servizio televisivo ho visto una folla di turisti attorno a un banchetto che serviva “
Il pialletto
’u gràtta-gràtte”. Non ho individuato la città, ma il pensiero è volato subito alla mia. Ai ricordi lontani, che resistono alle dinamiche della memoria. La città è Taranto, detta la Bimare, perché abbracciata appunto da spettacolari distese d’acqua, collegate da un canale navigabile. Basta niente per smuovere i miei pensieri: pur vivendo a 900 chilometri di distanza, io resto attratto da questo gioiello, amato non soltanto da chi vi ha emesso i primi vagiti, ma da tantissimi altri, che venendo da ogni parte del mondo, l’hanno visitata e quindi conosciuta. Taranto per me è il luogo del cuore. Me ne allontanai per cercare il luogo in cui poter esercitare al meglio il mestiere sognato, impedendomi di vivere quotidianamente la mia culla, di poter godere il profumo e la meraviglia “d’a Marine”.
Alla vista “d’u gràtta-gràtte e dell’ambulante che con l’apposito attrezzo, “’u piallètte”, facendo avanti e indietro sulla stecca di ghiaccio, ricava quello che gli serve, lo versa in un bicchiere irrorandolo di essenze di limone o di fragola o di menta... nei periodi più caldi dell’estate, sono andato in visibilio. Quel spezzone televisivo mi ha riportato indietro di almeno settant’anni. E mi ha messo di fronte alla figura di un uomo massiccio, Uelìne, che sistemava la sua attrezzatura in via Dante all’angolo con via Giovan Giovine e ritmando quel pialletto faceva un delizioso “gràtta-gràtte”. Tutto il giorno davanti alla sua postazione si accalcavano decine di persone, ragazzi e adulti. Uelìne era buono, contento di quella occupazione, che non gli faceva guadagnare molto, ma gli consentiva lo stretto necessario.
via Nettuno (Tre Carrare)

Gli volevano bene tutti, lo salutavano tutti quando lo vedevano passare per via Nettuno o per via Oberdan, qualcuno lo chiamava a gran voce. Quando preparava un bicchiere con la sua bibita, canticchiava o faceva garbate battute di spirito; e se qualche discolo usciva dal seminato lui continuava a canticchiare senza rispondere. Non si sapeva niente della sua vita privata: se fosse sposato, se avesse figli. Era riservato, pensava solo ad accontentare i clienti e quando vedeva che non ce n’erano più chiudeva baracca e burattini e se ne tornava a casa.
Chissà se ancora qualcuno si ricorda di lui. Molti hanno la memoria bucata che fa acqua, altri hanno altro da pensare, altri ancora non se ne importano più di tanto. Campeggia invece la figura di Marche Poll, più famosa perché girava per distribuire la schedina del lotto o il periodico “’U Panarjidde”, confezionato nella tipografia Leggieri (il titolare era di Altamura) e per guadagnare qualche soldo in più si prestava a fare da tramite agli scherzi di un buontempone.
Uèlìne no, faceva il suo lavoro con impegno e divertimento e poi via. A volte lo vedevo andare verso via Leonida, dove a quei tempi c’era “’u monde de le vacche”, di fronte a piazza Marconi, che allora ospitava il mercato. Come in tutti i mercati la gen
Nicola Giudetti
te, scegliendo la merce, conversava con il venditore o con un altro acquirente. Il mercato è anche il posto degli incontri e delle quattro chiacchiere.
Ricordo spesso e volentieri Uelìne” e “’u piallette”. Tanto che un giorno, in una delle mie rimpatriate, entrato in un negozio di casalinghi assieme a mia madre, proprio in via Dante, notai su uno scaffale il pialletto; anzi due, e li presi entrambi. “Che te fai?”, domandò quella santa donna, la cui preoccupazione era quella di risparmiare. “Può servire quando meno me lo aspetto. E se non mi capita l’occasione, lo conservo come cimelio”. L’occasione arrivò, a Martina Franca. Avevo invitato a pranzo almeno venti parenti, tutti di Taranto, e pensai di far loro una sorpresa: avevo preparato il ghiaccio versando acqua in un capiente contenitore rettangolare e lo avevo messo nel “freezer”. Quando arrivarono gli ospiti pranzammo e verso le tre del pomeriggio erano ancora tutti a tavola sul piazzale, mi organizzai e cominciai a servire la bibita che suscitò ilarità, piacere e urli di gioia. I pialletti li conservo in bella vista tra le mie anticaglie nel garage della casa di montagna e non manco di mostrarli, descrivendo l’uso che se faceva un tempo.
L'interno del locale di Giudetti


Naturalmente parlo anche di Uelìne, perché mi è rimasto nel cuore. Come Marche Poll, che addirittura gli universitari a una festa della matricola portarono sul palcoscenico con il ruolo di strillone. Anche qui non mancarono i guastafeste, che raccontarono a Marche Poll di essere stato raggirato: “Gli attori del cinema guadagnano milioni e a te hanno dato una miseria”. Non era così: in realtà lo avevamo trattato bene, ma il simpaticissimo, amato, stimato personaggio non si rassegnò.
Di racconti della Taranto di allora ne potrei fare parecchi, ma mi assale il timore di annoiare. Allora mi accontento di ricordare brani, scampoli, frammenti. I ricordi dimostrano che la mente funziona e rincuorano. Io sono lieto di avere in mente tante cose della mia città, oltre a Uelìne, che faceva “’u gràtta-gràtte”.
Non so quanti ricordino questa delizia. Nei primi anni 50 Uelìne c’era ancora. E c’era ancora la bibita, che vantava tanti fruitori. Una volta mi chiesero perché quel nome. Non seppi rispondere, come non saprei rispondere ad altri quesiti. La domanda è d’obbligo, direbbe Antonio Lubrano, perché grattare nel nostro dialetto ha il significato di rubare. Ma definisce anche l’atto di strofinate la pelle con le unghie per far passare il prurito e quello di sfregare il formaggio sulla grattugia. Il pialletto gratta il ghiaccio.
Quello a sinistra in piedi è Giuseppe Francobandiera
Antonio De Florio, mio consulente linguistico, storico e fotografico, o Nicola Giudetti, che in via Duomo nella città vecchia ha una collezione di oggetti antichi e documenti e immagini sulla Taranto di una volta, quella risposta saprebbero darla. Antonio rispolvera un quiz da lui proposto su facebook nel 2018, al quale furono una valanga i tarantini che pescarono nella memoria. E così riaffiorarono tantissimi banchetti o chioschetti o baracche montati in parte lungo le vice che portavano alle scuole; in via Cava nella città vecchia, dove il titolare Angelo per 10 lire riempiva un tegame; in via Duca degli Abruzzi angolo Principe Amedeo; in via Galeso vicino alla scuola Giusti; in via Diego Peluso angolo via Messapia. “’U mè’ mìene cchiù essenze”, diceva qualcuno al gestore. “Io abitavo in via Cavallotti - riferisce una signora - e andavo al chioschetto di ‘zì’ Vicienz’”. Ce n’era un altro in via Iside angolo via Capecelatro, alle Tre carrare.
Un signore che andava a rinfrescarsi da Uelìne afferma che quel gestore era tanto generoso che se un ragazzino non aveva i soldi “’u gràtta-gràtte” glielo confezionava gratuitamente, in disparte per evitare la voglia dei furbacchioni. “Mio padre ci mandava a prendere il ghiaccio senza essenza, perché a quella ci pensava lui”, ricorda un altro. Insomma, “’u gràtta-gràtte” lo si poteva prendere ovunque, e senza dover fare molta strada. Bastava girare l’angolo o fare un passo dal portone di casa.
Nicola Giudetti e Antonio De Florio

Quella bibita ha segnato un’epoca. Vero Antonio? Se mi rivolgo a Nicola Giudetti, e lo farò sicuramente questa estate, farebbe su questo tema una conferenza. E sono certo che a casa o nel suo… museo in via Duomo, nella città vecchia, conserva molte carte anche sulla storia di questa bevanda dissetante e rinfrescante che appena arrivava il caldo attirava migliaia di persone. “Appena racimolavo 5 lire mi precipitavo da Uèline”, mi dice un divoratore di cozze pelose, esperto nella cattura delle granseole, quando era più giovane. Vive a Milano , torna ogni anno a Taranto, va a dare un saluto a Mare Piccolo e poi fa un salto da Cesarino per acquistare le ostriche, le còzze e i tartufi di mare. Se posso, vorrei ricordare un altro ambulante: il gelataio, che passava con il suo carrettino, indossando un grembiule bianco, e urlava “Gelatiiii!”, prolungando la “i”. Non vedo più neanche quello. Anche questo mestiere è scomparso. Il gelato costava sei soldi.

mercoledì 11 giugno 2025

Due personaggi che hanno cantato Taranto

SAVERIO NASOLE E MIMMO CARRINO DUE NOMI DA NON DIMENTICARE

 

Mimmo Carrino

Una delle poesie più commoventi di Nasole è “A ppane mastecate u ste crescìme”. Poeta autentico, che si espresse nel nostro dialetto così armonioso. Carrino con la sua chitarra deliziò il pubblico con le sue canzoni.

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI

(foto di Antonio De Florio)

 
  

I bambini indesiderati o nati da un amore clandestino che avrebbero portato disonore ad una famiglia venivano collocati nella Sacra Ruota o Ruota degli Esposti, che si trovava prevalentemente nei conventi e aveva l’affaccio sulla strada. Provvedevano i monaci ad educarli e avviarli al sacerdozio o affidandoli a qualche coppia che li desiderava. Chi doveva disfarsi del “fagottino” si avvicinava alla Ruota di notte, quando nessuno poteva vederlo; o incaricava qualcuno di compiere il misfatto. Era una pratica che non riguardava soltanto il nostro Paese.
Saverio Nasole

Era dunque la necessità di tenere segreto quello che era considerato un peccato e a volte era la miseria a spingere tante madri a disfarsi del neonato. I monaci venivano avvertiti della nuova presenza dal suono di una campanella, uno di loro si avvicinava alla ruota e apriva la porticella che dava all’interno. Non sempre le madri abbandonavano i figli senz’alcuna sofferenza.
Saverio Nasole, poeta delicatissimo, autore di tanti bellissimi versi e anche di testi teatrali) scrisse una poesia meravigliosa e commovente, “’A ppàne mantecàte u ste crescime”. Bella, davvero bella, ricca di armonia: ogni rigo una lacrima. Scritta in dialetto tarantino, con un po’ di buona volontà la può capire anche chi non conosce la nostra parlata, che è un linguaggio dell’anima. Le pagine di Nasole sono sempre toccanti. E’ poeta vero, attento alle dinamiche della società in cui si vive.
Mille volte grazie ad Antonio De Florio, che ha ripescato i versi che propongo: “Indr’a ‘nu strittelìcchie/ e nu cambàme sule de fatje/ a sorta nostre no’ n’a jastemame/ piccè tenime spèranze e fede a Dje/ cu ne de’ sembe luce e sanetate/ pe’ quiste peccennùdde abbandunate/ a ppane mastecte u ste crescime…”. Quanta passione, quanta sensibilità e quanto amore in questa lirica, per questo dono ricevuto, che dà alla casa gioia e calore, instillando il desiderio di un abbraccio senza fine. Il bimbo è stato accolto in una casa povera, acqua e pane, ma la sua vita sarà serena. Cum’a ‘na chiande ha mmise le radici/ indra ‘stu core nuestre ‘stu piccinne/ e Gesecriste cu nu bbenedice”.
L’abbraccio è grande, la felicità della coppia pure. Il neonato ha una famiglia, non è un pacco da trasportare da una parte all’altra. E’ come fosse il frutto di un amore autentico; l’amore è un miracolo, ricrea, dà conforto e sicurezza. Il vagito di un bimbo può creare un’atmosfera di estasi, anche se dovrà vivere tra le reti, le nasse, le “zoche de le còzze”, nello spazio e nel cuore di pescatori.
Pescherecci e pescatori

E’ tanta la squisitezza di questa poesia, che fa emergere i sentimenti più veri e più profondi. In ogni verso s’annidano i palpiti del cuore del poeta, la sua riconoscenza per quel regalo divino. La poesia coinvolge, trascina, rapisce.
Via Garibaldi


Conobbi Nasole una vita fa, nella città vecchia, una sera in cui si recitava all’aperto, tra le facciate screpolate delle case, le finestre scricchiolanti; i negozi chiusi, i bassi semiaperti con le donne sedute fuori a fare da spettatrici; palcoscenico la via, breve e stretta, da cui si vedeva Mar Piccolo. Saverio Nasole era tra gli spettatori, riservato, come al Dopolavoro Ferroviario quando recitarono “’A stutate”, esaltata anche da “La Voce del Popolo” dei fratelli Rizzo (si stampava in una tipografia in piazza Bettolo). La gente si alzò in piedi applaudendo, mentre Nasole mostrava la sua soddisfazione con un sorriso leggero. Poi chiese un giudizio a Rizzo e il critico gli rispose che avrebbe preferito un altro finale. Solo quello. Il resto era un capolavoro.
Il ricordo di Saverio Nasole è sempre vivo, nonostante siano passati anni dalla sua scomparsa. Tempo fa un artigiano che realizzava “perdune” di terracotta con la calamita di fronte al “museo” di Nicola Giudetti, nella città vecchia, mi parlò dell’esistenza di un sodalizio degli amici del poeta.
Conversando con Antonio De Florio, collezionista di migliaia di foto e documenti sulla nostra Taranto, studioso della storia della città dei due mari, dei costumi antichi, ricercatore di vecchissime storie, è riemerso un altro personaggio, deceduto pochi giorni fa a 77 anni: Mimmo Carrino, che interpretando con la sua voce e la sua chitarra, soprattutto con la sua maestria indiscutibile, la lirica “A ppane mastecate u ste cerescime” ne esalta le virtù che hanno reso Nasole “immortale” . La voce di Carrino e le corde del suo strumento accrescono la commozione.
Mimmo Carrino
Carrino è anche lui un personaggio notevolissimo. Soprattutto negli Settanta si esibì da autentico padrone della scena anche nelle antenne private. La canzone che lo aveva imposto a un vasto pubblico s’intitola. “’A frusckelona mèje”. Una vera folla assisteva alle interpretazioni di Carrino. Lui e Nasole erano legati al dialetto come l’edera che si attorciglia ai tronchi degli alberi, alle facciate dei palazzi, ai pali della luce, ai muri a secco, senza mai abbandonare la presa. Carrino ha dato l’anima a Taranto, questa città regina, abbracciata dal mare e baciata dal sole, amata e decantata sin dai tempi più remoti, da scrittori venuti da lontano, compreso Guido Piovene, che di Taranto scrisse che “vive tra i riflessi, in un’atmosfera traslucida adatta a straordinari eventi di luce”. Il noto autore di “Viaggio in Italia” descrisse i tramonti come “un’isola di fuoco”. Taranto è inondata di poesia. La sua bellezza straordinaria, esaltante riempie l’anima. Purtroppo a volte si è costretti a lasciarla con l’ansia di farvi ritorno. E Carrino se ne andò per ragioni di studio. Si insediò ad Urbino dal 1973 al 1981, dove si laureò. Insegnò disegno, ma sognava la sua città. Sentiva bisogno del profumi di Mar Piccolo, della parlata della gente della città vecchia; sognava le case, le vie, i rumori del borgo nuovo e di tutte le delizie sparse dappertutto.
Barche e  cozze

E ritornò alla culla. Una carriera entusiasmante, la sua. Incise dischi, tra le solite difficoltà, trovò il successo, la stima dei cittadini della sua città. Il valore non può essere trascurato, ignorato, umiliato. Mimmo Carrino emerse come un delfino dal mare. Il suo nome era sulla bocca di tutti, s’imparavano le sue composizioni, lo si applaudiva febbrilmente.
Il cantautore aveva una grande competenza musicale. Entrò nel gruppo locale dei Giom, frequentava personaggi che adoravano il dialetto, a cominciare da Bino Gargano, che io ricordo come persona garbata, fine, rispettosa (se non ricordo male era parrucchiere) e aveva una inesauribile passione per il teatro). I suoi testi si ricordano ancora. I tarantini veraci come le vongole, innamorati del vernacolo, che è l’espressione della nostra anima, non dimenticano. Le nostre radici sono in quella lingua. In una poesia di Saverio Nasole trovai la parola “allecrie”; e se ne prova tantissima nelle passeggiate nel borgo antico, sulla sponda “d’u mare peccennùdde”. Quelle passeggiate inebriano, come tanti versi di Nasole e la voce di Mimmo Carrino, due colonne, due pilastri. Mi emoziono quando sento i titoli di testi come “Arrevò Pirre e spicciò ‘a pacchie” e “’U cuggione d’a regine”.
Tarantini in via Cava

Carrino amava la città vecchia, dove andava spesso per suonare la sera nei locali in cui si vedeva con gli amici. Ascoltava i consigli che gli dava Enzo Falcone, ammirava soprattutto Bino Gargano, per i quali scrisse le canzoni. Familiarizzò, oltre che con Nasole e Gargano, anche con Edmondo D’Auria, uno degli attori, tutti bravissimi, della compagnia dello stesso Falcone, regista e attore stimato. Lo vedevo spesso, al circolo Arsenale, dove confluivano tanti tarantini anche per vedere i film che si proiettavano nelle sale al chiuso e all’aperto. Ah, oltre che con i Giom Carrino suonò anche con il gruppo denominato Showmen, che negli 60 era molto seguito.
Di attori illustri ne ho conosciuti anch’io, in questa mia deliziosa città. Anna Casavola, per esempio. E anche Enzo Valli, al secolo Murgolo, figlio di un graduato vigile urbano, attore a sua volta; il comico Mirabile e la figlia Lina, Murianni, un gentiluomo che lavorava all’arsenale, lo stesso D’Auria e altri.
Un saluto a Saverio Nasole, che tra l’altro fondò il sodalizio “Armonia dei due mari”, e a Mimmo Carrino, ai quali dovrebbe essere dedicata una via, come riconoscimento di tarantini veri che qualcosa a Taranto hanno dato

mercoledì 4 giugno 2025

La vita esaltante di un carabiniere

IL GENERALE LA FORGIA E LE GRANDI OPERAZIONI

 

Il generale La Forgia
L’ho ritrovato dopo tanti anni e abbiamo rivissuto
momenti molto movimentati; e le notti passate in strada sulle auto del radiomobile.

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
Non lo sentivo da tanto tempo. Quando ha preso casa a Roma e io sono andato in pensione, lui è stato promosso generale, ha lasciato a malincuore il servizio e ogni mese torna a Molfetta, la sua città natale, e rimane una settimana e a volte anche di più.
I cronisti  Berticelli, Lovati, Presicci. il generale Vitagliano e il cronista Laccabò

Nella città immersa nel verde della campagna, con il profumo del mare sempre gremito di barche, che scaricano pesce in vendita al dettaglio e all’ingrosso, s’incontra con gli amici dell’adolescenza riuniti a una tavola imbandita alla pugliese. Lo ritrovo, il generale dei carabinieri Paolo La Forgia, oggi settantunenne, dopo almeno 40 anni. Sempre gentile e disponibile, i sentimenti duraturi, i ricordi limpidi e scorrevoli, aperto al racconto. Lo risento grazie al maresciallo Pino Lato, che sta ad Assisi e ha nel taccuino della memoria appuntati, brigadieri, tenenti, capitani, colonnelli, generali della Legione dei Cc di via Moscova, a Milano, che a suo tempo ebbe come pilota anche il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, vittima della mafia.
Ripescare un vecchio amico è sempre un regalo del destino, o della forza di volontà che fa immediatamente resuscitare ore, giorni, mesi, anni volati via come il vento. Con Paolo La Forgia ci vedevamo quasi ogni giorno, negli anni passati. Quando i carabinieri ci invitavano per una conferenza-stampa, lui, allora capitano, al termine mi precedeva nel suo ufficio con la scusa di farmi vedere qualcosa e invece tirava fuori dal cassetto una scatola di sigari toscani e ne sfilava due, trasformando l’ambiente in una fumea.
Auto dei carabinieri

ll telefono si è scaldato per il tempo in cui l’abbiamo adoperato. “Ricordi questo?”. “E tu, hai memoria di quest’altro?”. Una gara improvvisata vinta da tutt’e due. Lui comincia da Rho, o adagiato a pochi chilometri dal capoluogo lombardo. Gliene ha dati di problemi, questo centro, dove allora alloggiavano tante aggregazioni di rapinatori, trafficanti, ladri di ogni tipo, come a Milano e altrove; e i carabinieri sempre all’erta, sempre pronti a intervenire per mandarli al gabbio. Qualche operazione si è conclusa con furibonde sparatorie. Le “binde”, assalti a mano armata, a banche e ad altri luoghi appetiti, erano all’ordine del giorno, e non facevano soltanto rumore. “Ti ricordi l’operazione che si concluse in zona Niguarda, con i carabinieri in elicottero, altri scaglionati sulle scale di uno stabile in cui, in un appartamento, si erano rifugiati i “duristi” di grosso calibro? Bastava poco per scatenare l’inferno; “e invece noi li prendemmo mentre uscivano e sequestrammo l’arsenale, tra cui le mitragliette che avevano sottratto in una Gazzella dei carabinieri nel corso dell’operazione. Ricordi?”. “Io c’ero dall’alba. Ricordo il colonnello Tommaso Vitagliano (poi promosso generale) sotto l’ombrello per difendersi dalla pioggia furiosa” . La Forgia continua: “La Compagnia di Rho faceva mille arresti all’anno. Era una vita frenetica, notti insonni passate in strada. In auto ero con la testa fuori del finestrino per evitare che l’autista deviasse per la nebbia fitta”. Entusiasma quando racconta. “Avevo collaboratori eccezionali che davano l’anima al servizio, da Giuliano Meloni all’appuntato Carta, ai marescialli Gallone e Lucchelli. Nel ‘95 ci fu un sequestro-lampo di persona e nell’operazione per la liberazione della vittima intervenne anche il Gis (le teste di cuoio). Dopo aver localizzato il covo, mi trovai nel turbinio dei film il ragazzo fra le braccia. Piangeva, per l’emozione e per la paura. Che momenti! “Arrestammo tre uomini e una donna.
I generali Battista e La Forgia
La Compagnia – dice - gli ha dato molte soddisfazioni. La Forgia e i suoi uomini hanno fatto imprese memorabili, fra cui quelle per arginare gli scontri fra i tifosi che mettevano a ferro e fuoco la città. Ricorda piazza Duomo e dintorni arroventate, con gruppi di facinorosi appostati sul monumento a Vittorio Emanuele. Durante i suoi 40 anni di carriera ha sempre comandato reparti investigativi, con tutti i rischi che quel comando, come gli altri, comporta. Nel ‘94 sequestrarono 5 mila chili e 500 grammi di cocaina proveniente dalla Colombia. Individuarono i “container” parcheggiati nel porto di Genova, li aprirono, ma trovavano soltanto scarpe e tomaie. “Guardate meglio, approfondite”, diceva La Forgia.
Era notte e i segugi si liberarono delle scatole di scarpe e sotto scoprirono i panetti di droga. La Forgia chiamò il Comando generale a Roma, e poi ricevette per telefono gli elogi del presidente della Repubblica Scalfaro. E non fu la sola volta che un’autorità così in alto chiamasse per congratularsi. La fatica, il coraggio, la bravura, la scaltrezza di quegli uomini era nota. E noi giornalisti davamo spazio non soltanto in cronaca.
Quando i carabinieri ci chiamavano e noi ci presentavamo puntuali in sala-stampa non smettevamo di fare domande. Io del “Giorno”; Piero Colaprico o Lorenza Pleuteri di “Repubblica”; Paolo Longanesi del “Giornale”, Elio Spada o Giovanni Calabrò dell’”Unità”; e avevamo l’occasione di salutare i colonnelli Tommaso Vitagliano, Emanuele Garelli.
I generali La Forgia e Garelli


Elio Toscano, Morini, Martorana, Gebbia. Umberto Massolo e altri. E dopo al bar interno aperto sulla piazza d’armi a bere una bibita o un caffè, con l’ordine di non fare nomi, mai: l’ordine era che gli uomini dovessero operare nel silenzio. Quando nell’85 scrissi una serie di articoli sui racconti della polizia e dei carabinieri fui regato a non fare cenno alle generalità degli intervistati. Non potetti neppure dire che il colonnello Vitagliano realizzava ottimi quadri con protagonisti i carabinieri a cavallo su sfondo azzurro.
Per anni ho frequentato via Moscova, dove conoscevo tutti. Una volta mi fu consentito di trascorrere una notte in giro per la città su un’auto del radiomobile. La notte Milano ha un suo fascino particolare. Il buio interrotto dalle luci dei lampioni e dai lampeggianti di “volanti” e “gazzelle” e spesso il silenzio dalle sirene. Ricordo anche le voci, gli schiamazzi delle bische clandestine all’aperto, con qualche giocatore che riceveva denaro dalle mani di una falena, che aveva appena finito di sgambettare sulla strada. Di notte Milano ha le sue insidie. Una volta con un trattore sradicarono la macchina del bancomat di un istituto di credito. Le bande erano sempre in agguato, come quella del buco e quella che con la carotatrice in un “weeK end” sfondò un muro per arrivare al caveau” di una banca in piazza Diaz. “Ricordi, Paolo?”.
La Forgia. Garelli, Presicci. i questori D'Amato e Ninni


Paolo La Forgia ha la memoria inossidabile. Non gli ho chiesto se durante i pranzi con gli amici a Molfetta parla soltanto della gente che viene anche dai paesi vicini per acquistare orate, sarde, gamberetti, triglie… e magari anche qualche ostrica o cozza pelosa. Riappaiono, oltre ai ricordi delle giornate e delle nottate vissute nelle vie di Milano, quelli delle sparatorie e dei morti, a volte tre al giorno. Quando si ritorna alla “culla” si recuperano gli amici e si ha anche voglia di ammirare le bellezze, i panorami, le chiese, ovunque soffino aliti di vita.
La Forgia Molfetta ce l’ha nel cuore. La lasciò nel ‘77 per il corso allievi ufficiali a Roma. Entrò nell’Arma e fu destinato a Palermo, “dove mi trovai benissimo”; poi a Messina; poi ancora a Brindisi, alla tenenza dell’aeroporto; quindi alla Compagnia di Rho.
I generali Elio Toscano e Sergio Gebbia
Dopo tutti questi giri arrivò alla Compagnia Duomo di Milano, dove rimase dall’87 al ‘91; dal ‘92 al ‘96 al Nucleo investigativo; dal ‘96 al 2000 al Nucleo investigativo di Roma. Sempre come comandante. Non è finita. E’ stato capocentro della Dia della Capitale; poi alla guida del Comando nazionale dei carabinieri ispettori del lavoro per poi passare come referente dell’Arma alla Commissione parlamentare antimafia per la XVII legislatura. Nel 2018 viene promosso generale. “Milano – dice – è stato per me un periodo bellissimo, nonostante le continue telefonate dalla centrale operativa e le incalzanti operazioni contro una malavita sempre più agguerrita, decisa a colpire senza esitazione per farla franca o per realizzare un colpo. E a Milano le bande sono state numerose, da quella della dolce vita a quella dei rapinatori del lunedì (gli altri giorni fingevano di essere impiegati, uscendo dalla tana nell’ora in cui escono chi va davvero a lavorare); la banda del cinese, dei Tir e via dicendo. Senza trascurare i grossi nomi della mala, che si sentivano i padroni della città. Per l’impegno nell’Arma dei carabinieri il Comune di Molfetta a suo tempo ha invitato il generale La Forgia a tenere una conferenza nell’aula consiliare e gli ha consegnato una targa di cittadino che ha onorato la sua città. Una soddisfazione in più.


mercoledì 28 maggio 2025

Antonio De Florio fotografo d’arte

VA ALLA RICERCA DELLA TARANTO CHE CON IL TEMPO HA MUTATO FACCIA

 

Antonio De Florio

La sua macchina  fotografica è magica: fa emergere angoli spesso trascurati o ignorati; fa risaltare tutta la bellezza di una città apprezzata nel mondo. 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
 
 
Barche in Mar Piccolo
E’ un anno che manco dalla mia città. Ci sono stato l’anno scorso per un impegno e non ho avuto tempo nemmeno di fare un salto da Cesarino, sulla strada per San Giorgio, a comperare il pesce. Eppure, avevo l’intenzione di incontrare Antonio De Florio e andare con lui “abbàsce ’a Marìne”, a respirare quell’odore salmastro che mi trascina. Lo considero il mio santo protettore, Antonio, anche perché, quando ho bisogno di una foto introvabile, detto e fatto: l’immagine è già sulla mia scrivania. E quando mi serve qualche informazione sulla ”culla” di cinquant’anni fa e oltre, esperto e studioso com’è di quei tempi, e di quelli che viviamo, lui apre la cassapanca della memoria e trova chicche da inviarmi
Trascorro ore a scrivere di Taranto; e ogni volta mi vengono in mente luoghi e persone, edifici e vie che hanno fatto parte di un pezzo della mia esistenza. San Domenico, per esempio, che io mi ostino a dirla in dialetto, “Saneminghe”, innamorato pazzo come sono di “lanzuèle”, “mustazzuèle”, “nevère”, parole che con tantissime altre uso ancora per sentirmi a casa. Per questo devo essere grato a Claudio De Cuia, che un pomeriggio di 71 anni fa mi tenne quasi un’ora a parlarmi “d’a lènga nostre”, che da allora cominciò a crescere dentro di me, alimentata da una passione inestinguibile. Eravamo nello studio del fotografo-pittore Salinari, luogo d’incontro di Mario Sossi, che fondò “Il Rostro” ed era molto stimato da Palma Bucarelli, direttrice della Galleria d’Arte Moderna a Roma; Raffaele D’Addario, grande paesaggista; Mario Scuro, poeta... Inutile citare gli altri, che pure avevano un peso nel panorama della cultura tarantina.
Già allora mi aggiravo per la città vecchia, infilandomi nei vicoli che s’intersecano; “indr’a quìdde strìttele”, che consentendo il passaggio in fila indiana porta alla Dogana. Ho vissuto momenti emozionanti in quell’isola ricca di voci di artigiani, gente di mare, ristoratori che si esprimono in dialetto urlando con le finali prolungate la freschezza di cefali e saraghi. Brava gente dai volti aggrinziti intenta a risistemare le reti e le nasse.
la passerella del '51

Quei momenti me li fa rivivere Antonio De Florio, collocando su facebook “quadri” che infiammano il cuore. Non si può neppure immaginare il tempo che dedico a quelle foto: le vedo, le rivedo; chiudo il computer, lo riapro per vederne altre ed è sempre una gioia che ricevo dai colori, a volte sfavillanti, della mia città, che Antonio De Florio sa cogliere con maestria d’artista.
Che cosa resta ad uno spatriato agli arresti domiciliari (da non intendere nel senso giuridico), se resta incantato di fronte a un battello che attraversa il canale navigabile per raggiungere le isole di San Paolo e San Pietro? Anche quel canale mi sommerge di ricordi: il palombaro che si calava in acqua per rastrellare delizie; la passerella fatta di barche, nel ‘51, per sostituire il ponte di ferro, da rimettere in sesto; gli scafi che portavano i turisti al giardino delle cozze offrendo assaggi deliziosi. E corro ai racconti ascoltati dalle labbra screpolate dei vecchi: il nonno, Giovanni, di De Florio che vogando portava altri appassionati della città alla scoperta “de quìdde stuèzze de màre ca mundevàme, p‘amòre. peccernnùdde”.
Sono dunque grato ad Antonio, che comanda su facebook “Foto Taranto com’era”, con migliaia di uomini e donne d’equipaggio.
La dea e il pescatore

Ogni sua foto un’emozione; un’occasione per sognare e ridestare la mente: e scorrono come in un film il Premio Taranto; il professor Pietro Parenzan, direttore dell’Istituto Talassografico, che mise in aldeide formica il pescecane a due teste, raro esempio di teratogenesi marina, trovata “indr’u màre peccerjdde”: lo stesso Parenzan che con una specie di batiscafo scendeva nel fondo del Mar Piccolo per studiarlo, ricavando poi tele suggestive, che mise in mostra al Circolo Magistrale Tarentum, in via Di Palma. A volte basta una parola per accendere un’idea, far germogliare un ricordo, far resuscitare un mondo che non c’è più. E io lo rivivo, quel mondo, ad ogni foto o video di Antonio De Florio, eseguiti sempre con grande sensibilità e talento. Quei rettangolini di carta li aspetto con ansia, anche perché mi danno l’impressione di essere lì, in quella strada, tra quei campi, su quel sentiero baciato dal sole, su quella spiaggia, che si chiamava Santa Lucia, dove si bagnavano gli arsenalotti, riposando poi sulla rotonda che a ripensarla richiama la canzone di Fred Buongusto.
Al posto di quello stabilimento balneare oggi hanno innalzato un palazzo; vero Antonio? Anche il sentiero che dai Salesiani portava alla scogliera è stato ingoiato da un fungo di cemento. Neppure Antonio può più riprendere alcuni tratti della città. Sono scomparsi per sempre: tanti tarantini non se li ricordano neppure. La mania di cambiare per migliorare spesso può deturpare. E’ avvenuto tante volte anche a Milano. E’ avvenuto altrove. E’ l’uomo che non è mai contento di quello che ha. E parla di rinascita. C’erano luoghi a Taranto a cui ero molto affezionato: viale Venezia, per esempio, allora tappezzata d’erba selvatica, che appena tagliata profumava; una palazzina (una clinica), massimo due, mai un’auto, al massimo una bici, su quella via lunga come un tratturo della transumanza. Adesso si chiama Viale Magna Grecia, ed è rumorosa, piena di cilindrate con orchestre di “clacson”, affollata e ricca di negozi, di officine, “de lùcchele”.
De Florio all'aeroporto

Quella Taranto l’ho cercata, facendomi pellegrino. L’ho cercata “dalle parti “d’u Pezzòne” e alla Tre Carràre e a viale Virgilio. Niente da fare. Hanno cambiato faccia anche alla chiesa del Sacro Cuore di Gesù, che ebbe come sacerdoti don Giancola, don Musto, don Cipolletta, don Franzoso, don Saracino... A quei tempi avevo 15 anni. Anche la via di fianco a via Nettuno (entrambi confluivano in Dalò Alfieri) ha un altro profilo. Ancora grazie ad Antonio, “fratello” di Nicola Giudetti, e come lui custode e difensore delle nostre tradizioni e di quella Bimare cancellata con colpi di spugna, per l’impegno di ripescare anche cartoline illustrate, in cui risorge piazza Maria Immacolata con il “Cin Cin Bar”, la Standa, la libreria Filippi. La Dregher, il negozio di moto di D’Addario. Salvo foto e cartoline per il bisogno di godere le forme di una volta di piazza Fontana, del ponte di pietra, di un bacino dell’Arsenale… Ed ecco anche l’edicola che stava di fonte all’ingresso dello stesso opificio militare, dirimpettaio anche del suo Cral, dove il sabato e la domenica gli iscritti andavano a ballare o a conversare, molti con “L’Unità!” in una tasca della giacca. C’era anche una filodrammatica, diretta da Falcone, con attori Giovanni Mirabile e la figlia Lina, Conte, D’Andria, Murianni, la signora Casavola... Ogni tanto comparivano il signor Schirano, con il cappello scuro a larghe falde (inviso a qualche scriteriato, che non lo vedeva come ottima persona qual era, ma come ex milite, mestiere esercitato per campare); e Osvaldo Fischetti, a cui mancava un anno per il diploma di ragioniere ma era comunque forte in matematica. Ma guarda quante persone fanno resuscitare le foto di Antonio De Florio, che è stato un pezzo grosso all’Italsider, dove esponeva relazioni ai dirigenti più alti e forse già allora dava sguardi fotografici su Taranto.
Nicola Giudetti e Antonio De Florio

Deve aver cominciato presto a maneggiare il magico strumento che immortala uomini e cose; e ha macinato centinaia di chilometri per andare da casa sua a via Duomo, dove ha il suo regno Nicola Giudetti, con tutta una collezione di antichità costruita negli anni con gioia e diletto e quadri usciti dalla sua tavolozza e processioni nate dalla sua capacità di plasmare l’argilla.
Antonio e Nicola sono un binomio indissolubile, idrogeno e ossigeno combinati nella giusta misura: entrambi legati alla nostra città, come l’ulivo alla terra, le valve della paricella, che quando si aprono mostrano un colore perlaceo. Mi emozionano i video di Antonio, alcuni ispirati dai versi di Diego Fedele, Diego Marturano, Alfredo Lucifero Petrosillo, Saverio Nasole… Anche in quei pezzi cinematografici si susseguono immagini stupende: il Galeso, che scorre silenzioso e deserto; Mare Piccolo, che quando è tranquillo accarezza le sagome delle lampare; “’a Duàne”, rimasta senza le voci “de le cuzzarùle” e “de Cìcce ‘u gnùre” e di altri. E’ qui che Alfredo Nunziato Maiorano veniva ad ascoltare il dialetto dei pescatori e scrisse “Tàrde vècchie mije”.
Teatro dei burattini in piazza Garibaldi

Taranto è adorabile. Sono lontano 10 mesi all’anno, ma un altro suo innamorato me la riporta, facendomi sognare: Antonio De Florio. La bellezza “d’a nàche” mi acceca, mi rapisce. E’ per me una calamita. Mi adescano le immagini che regala Antonio De Florio, che la esplora, la scruta, la penetra, scopre i suoi segreti, i suoi angoli più nascosti, la studia. Va avanti e indietro nelle pagine di Giacinto Peluso, Nicola Caputo, Domenico Ludovico De Vincentiis... pagine avvincenti. Taranto è un gioiello, un besciù. Dà tutto quello che serve allo spirito. E’ una dea. La sua malia è famosa nel mondo. Chiedetelo a De Florio, se dico il vero; chiedetelo a Nicola Giudetti, che è il re del borgo antico, il suo sacerdote. De Florio lo sa, lui, che di Taranto conosce le vicende storiche, beve i tramonti che si accendono sul Castello Aragonese; passeggia nei vicoli, nelle vie più interessanti e in quelle meno note; percorre le scalinate, i mercati, le folle durante le feste, le processioni, dai Misteri a San Cataldo. Conservo gelosamente foto che Antonio ha scattato “indr’a vieremìenze”, al Castello, ai delfini che fanno gli acrobati nel nostro mare, “a renghière”, o “Castìedde”, al ponte che si slaccia per rendere omaggio alle navi con gli alberi più alti... Antonio per me è geniale, ha una cultura vasta e un cuore grande, una pazienza infinita.

mercoledì 21 maggio 2025

Il giornalista Piero Colaprico

DA ABILISSIMO CANE DA TARTUFI A DIRETTORE ARTISTICO DEL GEROLAMO

 

 

Piero Colaprico

Prima di lui sulla plancia di quel teatro erano stati seduti Carletto Colombo e Umberto Simonetti, due nomi famosi. Sul palco si esibirono Eduardo, Milly Mazzarella e altri. Prima di quella poltrona, Piero era stato valoroso cronista, quindi direttore della redazione milanese di “Repubblica”.

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI
 
 


Nustalgia de Milan
Ancora un pugliese in cima all’albero maestro. E’ Piero Colaprico, di Putignano, che dopo aver fatto una brillante carriera al quotidiano “La Repubblica”, andato in pensione, ha cambiato campo. Da qualche tempo è il nuovo direttore del Teatro Gerolamo, che ha avuto in plancia personaggi come Carletto Colombo, che fra i tanti meriti poteva vantare quello di aver rilanciato il teatro dialettale milanese; e dopo di lui Umberto Simonetta, che su quel palco portò in scena uno dei suoi testi: “Mi voleva Strehler”. Coltissimo, preparato e volenteroso, Colaprico è l’uomo più adatto a quell’incarico, anche perché tanti anni fa, pur facendo il cronista di nera, cioè il cane da tartufi, e poi uno dei migliori segugi di Palazzo di Giustizia, dove tra l’altro seguì tutta la vicenda di Tangentopoli, portò in scena storie e personaggi della mala in un teatro nei pressi di piazzale Abbiategrasso, tra cui un bandito a cui la fantasia d’un cronista aveva assegnato il nome di uno strumento musicale solo perché la sua custodia era stata rinvenuta nell’androne di uno stabile da cui era stato visto uscire quello che era il fantasma di Milano.
le canzoni milanesi

Poi Colaprico cominciò a scrivere romanzi di successo, prima con Piero Valpreda, poi, alla morte dell’anarchico, da solo, pubblicando con grosse case editrici e da ultimo con Feltrinelli. Io lo conobbi quando iniziò a muovere i primi passi nell’agone del giornalismo e ad entrare nelle simpatie di mastini come Ferdinando Oscuri, detto Poirot, che aveva già capito che quel ragazzo era fatto di ottima stoffa. Anche a me apparve subito metà castoro e metà lepre. E lui ha dato ragione a chi lo stima e continua a farlo, quando lasciato il servizio a “Repubblica come direttore della redazione milanese, che fu dell’indimenticabile Guido Vergani, si è insediato sulla poltrona di direttore artistico del “teatro-bomboniera” Gerolamo, dove si esibirono i più grandi dello spettacolo da Eduardo a Milly a Mazzarella.
Adesso lo vedo quasi ogni giorno in televisione, a commentare i fattacci che accadono in quasi tutto il Paese, facendo soffrire qualche collega che, acculato su una seggiola sgangherata spacciata per trono, si limita a sognare. Colaprico va avanti con l’età senza glorificarsi di ciò che ha fatto e continua a fare ed è sempre quel ragazzo tranquillo, grande lavoratore, capace di sottrarre ore al sonno per coniugare la scrittura con il sipario. Opera sempre in silenzio, in modo pacato, prudente, lontano dalle polemiche, incurante delle invidie, magari rivivendo qualche volta i giorni in cui, se alle 4 del mattino un “trombettiere” gli soffiava una notizia, di quelle che fanno gola, ancora fresca. non mancava di saltare dal letto, vestirsi e correre sul luogo indicato.
Colaprico con gli attori
L’ho visto dunque all’opera, qualche volta abbiamo ficcato insieme il naso nel cuore di una chicca, l’abbiamo rivoltata scoprendo verità nascoste. Piero andava avanti per la sua strada, badava al sodo, spesso assestava colpi alla concorrenza e non se ne vantava. Stimato da tutti per la sua cultura, per il suo modo di raccontare, per la ricchezza dei dettagli, per i “biscottini” che seminava nella teglia. Scriveva in modo che chi lo leggeva riuscisse ad entrare negli ambienti da lui descritti e ad immaginarsi le pellacce finite al gabbio. Conosceva, oltre a moltissimi esponenti della “madama” e dei “caramba” e in tribunale giudici, pubblici ministeri, cancellieri. E aveva bene in mente qualche filo di malerba.
Insomma poteva serenamente essere considerato l’ultimo della vecchia guardia, il cui albo annoverava giornalisti come Arnaldo Giuliani, Fabio Mantica, Patrizio Fusar e altri. Le sue mietiture non avevano stagioni. Un giorno un collega si mise a fare domande ad Alberto Sala, un ispettore che lavorava in mezzo mondo con polizie straniere, anche con l’Fbi e con la Dea, e improvvisamente, fu interrotto: “Stai per caso cercando di dare un ‘buco’ a Piero Colaprico?”. E l’altro, come la volpe colta in procinto di saccheggiare un pollaio: “Per carità, è solo questione di curiosità”. E rimase come una statua di sale. Anche quel giorno il carniere di Piero era già pieno.
Piero Colaprico in questura
Un’attività intensa la sua. Fece inchieste con Oreste Del Buono; sviscerò la vita e le imprese dei membri di una famiglia malavitosa che aveva il suo quartiere generale all’estrema periferia di Milano; si occupò delle bande di borseggiatori o “mani di velluto” appostati nelle stazioni del metro e sui tram e bus più affollati; fece un resoconto preciso e dettagliato di una colossale operazione di polizia e carabinieri, alle 5 del mattino, in una roccaforte della droga…
Quando in un prestigioso locale di piazza Piemonte venne presentato uno dei suoi libri, presente anche il questore Paolo Scarpis e Paolo Colonnello, cronista di giudiziaria del “Giorno”, che aprì la serata con i virtuosismi del suo sassofono, Dario Cresto Dina, capo redattore di “Repubblica”, chiese come mai un giornalista, che deve tastare il polso della città e saltare quando il battito è irregolare, possa trovare il tempo di scrivere libri. Avrei voluto rispondere che ci sono giornalisti che sacrificano il sonno per restare incollati alla scrivania.
Questa in estrema sintesi la storia di Piero Colaprico come cronista di nera, che tra l’altro ha in memoria nomi, cognomi, specialità, imprese, cioè la storia dei pescicani e il mondo del malaffare, compreso quello di una volta, che non aveva come oggi il grilletto o la lama facili; e rispettava chi stava sull’altra sponda, armato d’intelligenza e gradi capacità investigative. Colaprico ha divorato polvere e consumato scarpe per esplorare, scoprire, come quella volta che da una macchia di sangue intuì, osservando il silenzio, l’autore di un delitto.
uno spettacolo
Adesso la sua storia è scritta negli “annales” della cronaca nera e lui respira l’aria del prestigioso Teatro Gerolamo, dove una volta affluivano i bambini per assistere agli spettacoli di marionette della Compagnia Carlo Colla & Figli. Poi, nel ‘57, il teatro entrò in crisi, al punto di rischiare la demolizione. Ma vegliava un santo protettore: Paolo Grassi, che allora dirigeva con Strehler il Piccolo Teatro. Il Gerolamo resuscitò e la sera del 9 aprile dell’anno successivo andò in scena “L’opera del pupo” di Eduardo De De Filippo, a seguire Pulcinella, prezzi dei biglietti da mille a dieci mila lire. Per quella serata il grande Eduardo interruppe le rappresentazioni al Teatro Odeon, facendo la gioa di Paolo Grassi, che aveva molta fiducia nella rinascita del teatro di piazza Beccaria, dove poi arrivò Piero Mazzarella.
Giorni fa l’ho chiamato, Piero, per essere informato sulla sua esperienza al Gerolamo. Non mi ha fatto aspettare né ha deluso le mie domande. “Quando mi sono dimesso da “Repubblica”, alla fine del 2011, sono rimasto disoccupato per un po’, poi sono stato assunto come direttore artistico al teatro Gerolamo, vero gioiello di architettura e di storia. E’ di proprietà privata e sta a 200 metri dal Duomo, nel cuore di Milano. Io avevo detto a chi mi ha assunto, una signora giapponese, architetto, Chitose Asano, che prima di allora avevo scritto per il teatro, che sicuramente andavo a vedere qualche spettacolo, ma non era il mio lavoro. Non importa, era stata la risposta, noi abbiamo fiducia che puoi farlo. E così mi sono buttato e dal 2022/23 curo il cartellone di quanto mettiamo in scena. Mi sono basato su due principi semplici.
Alberto Sala, Piero Colaprico. Franco Presicci
Uno, giornalistico: chiedo a chi sa più di me di teatro. L’altro personale: cerchiamo di non prendere niente che non convinca”. E rispunta il Piero saggio, prudente, attento. “Il nostro palco non ha grandi dimensioni, ma ha una grande forza, gli spettatori stanno tutti intorno, quindi se chi va in scena è bravo, arriva diritto al pubblico. Me n’ero accorto quando, prima di essere assunto, al Gerolamo era andato in scena un mio testo, “Qui città M.”, interpretato da Arianna Scommegna e con la regia di Serena Sinigaglia. E quando, dopo aver recitato anche con Luciano Lutring, un ex bandito, detto il solista del mitra, avevo portato al Gerolamo ”Milanoir Milanuit”, piccola storia di osteria che si avvaleva delle canzoni della mala interpretate da uno che al 2 di piazza Filangieri era stato davvero, come Giancarlo Peroncini, detto El Pelè, perché correva veloce, più della polizia”. E così, accanto ai grandi del teatro, da Paolo Rossi e Maddalena Crippa, da Sonia Bergamasco e Beppe Servillo e tanti altri - inutile citare tutti – abbiamo allineato anche attori più giovani, o più di nicchia, avendo tante belle sorprese e una grande risposta dal pubblico”.
Lo ascolto con interesse, entusiasmo e con un pizzico di emozione per il continuo successo di un amico caro e leale. Piero si sta quindi avviando ad altri successi “e ancora una volta metterò sul palco un pianoforte che ci hanno regalato: quello che usava Giovanni D’Anzi, quando suonava la sua canzone più celebre, ‘Madonnina’, l’inno di Milano”.
Vi ho snocciolato la storia di un virgulto di Puglia, culla a Putignano, la città degli abiti da sposa e del carnevale dalle maschere gigantesche.