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mercoledì 27 ottobre 2021

IL VIAGGIO IN VOLO AFFASCINA / In calce: ‘A COZZA TARANDINE di Franco Presicci - UNA PROPOSTA PER TARANTO

 

IL SINDACO DI SAN FRANCISCO

SORVOLO’ MILANO IN DIRIGIBILE

 

Balcone in cielo
La signora Dianne Feinstein e il suo

seguito godettero la vista della città

dall’alto, un panorama splendido,

ammirando i merletti architettonici

del Duomo, il Naviglio Grande, che

scorre silenzioso e placido, le ville

patrizie della Brianza, i castelli…

Da aggiungere la gioia del volo, del

treno, del mare, testimoniata nel

museo di Ranco, oggi di Volandia,

creato da un Mito: Francesco Ogliari.


Franco Presicci



Doveva essere settembre dell’81, quando un dirigibile sorvolò il Duomo, i navigli, le cascine, San Siro... Si portava in pancia il sindaco di San Francisco, la signora Dianne Feinstein, il suo collega meneghino Carlo Tognoli e altre autorità. Si sollevò dall’aeroporto civile di Bresso, collocato fra Cinisello Balsamo e Sesto San Giovanni, fra cui s’incastona il Parco Nord.

Pronti al via

Il dirigibile rimase fermo sul piazzale per qualche ora, in attesa di completare il carico, e qualcuno tra il manipolo di cronisti ansiosi di prendere il volo anche loro, tra cui il solito furbo che cercava di sgattaiolare lasciando i colleghi con tanto di naso, accennò a una storia sommaria di questo aeroporto, sorto ai tempi della prima guerra mondiale, quando la Breda estese la sua attività agli aerei militari, dopo che nel ’77 aveva iniziato il suo servizio civile, utilizzando aerei da turismo. Già nel ‘60 aveva accolto l’Aereo Club Milano, creato nel 1926, con una scuola di volo. Negli anni lo spazio dello scalo si è ridotto, ingoiato da un grosso polmone di verde. Per la cronaca, dolorosa, nel marzo del ’72 vi trovò la morte Roberto Crippa, pittore e scultore (nel ’50 aveva firmato il terzo manifesto dello spazialismo), precipitando con un velivolo. Feci di tutto, quel giorno, per intrufolarmi fra gli “aviatori”; e non riuscendovi, evitai di essere fatto a pezzi dalla concorrenza. Mi limitai ad osservare con invidia l’aerostato a forma di fuso della nonna alzarsi e cominciare a navigare, fino a scomparire oltre i palazzi.

Si va verso i monti

Un signore che stava vicino al proprio velivolo spalancò gli occhi quando gli chiesi di prendermi a bordo, in cambio del pagamento del carburante, e seguire il dirigibile.

Catalogo del museo

 
Al giornale il capocronista Enzo Catania era convinto che sarei riuscito a spiazzare gli altri, e quando mi vide rientrare, subito, dalla faccia che avevo, capì che non ce l’avevo fatta. Mi aveva fatto interrompere un giorno di ferie e addirittura riservato un ampio spazio sul giornale, che non fece fatica a riempire. Non potevo proprio infilarmi tra assessori comunali, vicesindaco e alcuni sconosciuti, probabilmente dello “staff” del primo cittadino Usa. L’aerostato – dissi quasi scusandomi - dotato di timoni e propulsori, non è un treno, e ha quindi una capienza limitata. Catania si mise l’animo in pace e buonanotte ai suonatori. Rimasi a terra anche il 2 giugno dell’84, alla festa del Naviglio Grande. Per ricordare l’introduzione del gas metano in città e il primo decollo italiano che Paolo Andreani aveva compiuto il 13 marzo del 1784 levandosi da Moncucco su un mezzo di 23 metri di diametro, fatto costruire a proprie spese, era stata programmata una competizione fra 12 palloni con partenza appunto dal Ticinello. Ma poco prima dell’ascesa nuvole minacciose s’addensarono, oscurando il cielo, e fu grazie agli ombrelli che molti si erano portati appresso se le sponde del canale non rimasero deserte, quando la pioggia cominciò a cadere furiosamente.


Si entra nella cesta.A destra Presicci

Dopo l’acqua impetuosa, la nebbia, che non scoraggiò uno dei comandanti, noto per le sue imprese ardite: in un attimo entrò nella navicella, con un operatore della Rai, e mollò l’ormeggio, incurante dei bollettini prudenziali forniti da Linate. Anche quella volta seguii malinconicamente con lo sguardo il pallone che andava sempre più in alto per finire inghiottito dalla foschia, mentre un paio di scafi, orfani dell’esibizione non competitiva di fuoribordo, solcarono l’acqua, dando prova di grande bravura. Alle 9 si era svolto il XII Rally dei Navigli, organizzato dal Touring Club e dall’Associazione Marinai d’Italia, con kajak, gommoni, bagnarole, zatteroni spinti da pale a ruota.

 

Vigili del fuoco all'opera


 

 

Il pubblico si rimpicciolisce

 

 

 

 

 

 

La vittoria andò al Gruppo Milano Canoa: quattro ragazzi in gamba, elogiati dal sindaco Tognoli (mesi fa ucciso dal Covid), accolto dalla banda di Gaggiano, con gli assessori Gianstefano Milani, Guido Aghina, Angelo Capone e la madrina della manifestazione Oriella Dorella. Nel chiosco del Comune, quell’anno allestito in darsena, alle 17, quelli che non avevano voluto darla vinta a Giove Pluvio tornando a casa, uscirono allo scoperto, come le patelle dopo un rovescio: alcuni dagli studi dei pittori di vicolo dei Lavandai, altri dalle botteghe, dai ristoranti dell’alzaia, e ripresero a passeggiare, ammirando la mostra “Montmartre e i suoi cortili”.

   
 
Tanti personaggi l’avevano abitata: il “Bagattin”, che rappezzava le tomaie con una tale abilità da far sembrare nuove le scarpe; il “Trombetta”, che aiutava il proprio udito infilandosi nell’orecchio un corno di bue; l’artista Guido Bertuzzi, che da giovane aveva giocato nel Milan ed era amico di Bearzot e del campione della pedata Giovanni Lodetti; Aldo Cortina, che era stato allievo di De Pisis. Su questa via liquida per secoli andarono silenziosamente i barconi in ferro con il loro carico di sabbia, carne e altre merci, come il marmo di Candoglia destinato alla Fabbrica del Duomo. L’ultimo viaggio, il 31 marzo del ’79. Storia lunga, con qualche pagina nera, che un papà, sul Pont de Prèja, raccontava al suo ragazzo, compreso l’episodio del 1257, quando per decisione del podestà Beno da Gozzano, si volle portare il Naviglio Grande da Abbiategrasso a Milano, ricorrendo a nuove tasse.
 
Una mongolfiera
Ma venne coinvolto nel pagamento anche il clero, fino ad allora esente da ogni imposizione, e tonache e sai si allearono con il popolo, sorsero tumulti, il podestà fu ucciso e gettato nel Ticinello. Qualcuno poi giurò di aver visto da qualche parte il suo fantasma. Sotto la tettoia di vicolo dei Lavandai un cantastorie avrebbe fatto rivivere la vicenda, se non fosse stato zittito dai tuoni e dai fulmini, che cancellarono anche un albero della cuccagna in versione acquatica e un numero di sci nautico. Anche qui i racconti si sprecavano: una volta sulle acque del Naviglio Grande navigava il “barchett de Boffalora”, uno scafo sgangherato e lento entrato in servizio nel 1777. L’ultimo titolare volle dargli un po’ di energia e per renderlo un tantino più puntuale, rincarò troppo il costo del biglietto, scoraggiando così gran parte degli utenti. Allora per evitare di fare una figuraccia, pregò amici, conoscenti e familiari di occupare i posti lasciati vuoti. Nel 1879 il “barchett”, descritto in modo icastico da Paolo Valera e da altri, venne sostituito dal “Gamba de legn”, che sbuffando filava sulla strada a una velocità per quei tempi sostenuta.
 
Gara di aerostati
Tornando sui nostri passi, il nobiluomo Paolo Andreani, nato nel 1764, fu un antesignano del volo. Quando era giovanissimo, a un anno di distanza da quella dei fratelli Mongolfier, organizzò un’ascensione in aerostato: ne fece costruire uno di 23 metri di diametro e entrò nella cesta nel giardino della sua vila di Moncucco, nei pressi di Brugherio, con due falegnami con il compito di governare il braciere, atto a produrre aria calda che teneva gonfio il pallone. Raggiunse i 1800 metri di altezza, rimase in aria 25 minuti, tenendo con il fiato sospeso amici, parenti e una folla di persone. L’avvenimento, straordinario, del 13 Marzo del 1784 non ebbe seguito e il conte dirottò sul turismo, scrivendo un “Diario di viaggio di un gentiluomo milanese”. Morì a Nizza nel 1824. Dopo di lui, toccò a Celestino Usuelli che, nel 1910, costruì il suo primo dirigibile, poi compì molte ascensioni, delle quali una indimenticabile in pallone, che partita da Milano, attraversò le Alpi. Nel 1928 si levòì da Baggio il dirigibile “Italia” per la seconda trasvolata polare di Umberto Nobile. Il volo era nel cuore dei milanesi: nel 1877 Enrico Forlanini fece salire una macchina a motore dopo che per tre anni si era dato da fare per la costruzione di dirigibili. Nel 1913, utilizzando una sottoscrizione di cittadini meneghini, fabbricò il dirigibile “Città di Milano”. Forlanini, a cui è intitolato l’aeroporto di Linate, è considerato un mito. Sperimentò sul lago Maggiore un idroplano e progettò anche un elicottero a vapore. 
Elicottero polizia. Al centro Presicci
Francesco Ogliari, grande esperto dei trasporti, ha lasciato scritto in uno delle sue centinaia di volumi, che è “lecito affermare che, oltre ai tanti primati nazionali detenuti, Milano può anche vantare un contributo concreto e decisivo alla storia del volo umano. Non solo con i suoi ‘cervelli’, ma anche mettendo a disposizione degli sperimentatori il suolo e le sue strutture”. Tra quei cervelli bisogna aggiungere Gianni Caproni, di Massone di Arco di Trento, che faceva volare i suoi aerei nella prima guerra mondiale. Francesco Ogliari, a cui si deve fra l’altro il Museo Europeo dei mezzi di trasporto di Ranco (poi trasferito a Volandia) è ricordato anche da Francesco Alberoni: “Ogni anno ho il privilegio e la gioia di vivere, per un po’ di tempo, in un mondo dove i prodigi della scienza e della tecnica arricchiscono la società umana fondamentalmente stabile nei costumi e nei suoi valori. E questo lo devo all’amico Francesco Ogliari, grande umanista del nostro secolo”. Anni fa uscii arricchito da un incontro con Ogliari. Mi ricevette abbracciandomi e con lo stesso gesto mi salutò. Mi regalò l’Enciclopedia dei Trasporti (un centinaio di volumi), che mi fu molto utile, quando, dovendo scrivere la cronaca di una notte tempestosa sul “Concordia” in navigazione sul lago di Como, per la prefazione di un libro di Emilio Tadini, “La lunga notte”, sulle pagine di Ogliari trovai tutte le notizie necessarie su quella nave, che aveva avuto a bordo anche regnanti italiani e stranieri.
 
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 DALLA VOCE DELL'AUTORE:
                                 


'A cozze tarandine di Franco Presicci
                      

 

‘A COZZA TARANDINE 

di Franco PRESICCI

UNA PROPOSTA PER TARANTO

 

 

 

A còzza tarandìne jè bbèdda assèje

a vìte sus’a ‘nu bànghe d’a marìne

e te ‘’nnamuère

po’ l’àpre, t’a mànge e jè ‘nu decrìje

jè averamènd’òre d’u paravìse ca jè Tàrde

ce dìce ca no’nge ’a canòsce jè ‘nu busciàrde

o vo cu fàce sulamènde ‘na lùffe

Indr’a tùtt‘u mùnne sàpene ‘u sapòre

l’addòre de ‘stu besciù

tu’ arrìve ‘nzìcca-‘nzìcche a ‘na lambàre

o ‘ngàt’a duàne e ‘nu giuvenòtte ‘nzìste

lùcchele: “Na, assàggele, sta delìzzie”

e tu se no l’assàgge t’a cumbessàre

So’ ‘nguraddàte,’ ste còzze,

uàrdele, lìscele, attaccàt’angor’a zòche

sus’a ‘nu pundìle de Màre Pìcce

M’hàgghi’abbuffàte de còzze quànne stàve a Tàrde

Ògne mercrudìe scève a via Garebbàlde

apprìesse a ‘n’amiche pressòre de tagliàne

e da lundàne sendève ggià ‘a vòsce de Memime Micoli

“’A vuè pruvà’ ‘na còzze? Mène, ca te prìesce ‘a vòcche”

e ‘u furastìere facève sìne cu ‘a càpe, surredènne

Je e l’amìche ca se mundevàve Mandrille

no’nge ne facèveme prià’

Memine le teneve indr’a ‘nu gruèsse piàtte cuppùte, de crète

nu mundòne, c’addacquàve

le pegghiàve, l’aprève e allungàv’a màne

decènne: “Sìende ce amòre ca te dè’ ‘sta còzze”

mìenze chile appedùne, cu ‘nguàrche spuènze

na decìne de còzze pelòse, ddò’ nùce

tret’o quàtte vònghele, ‘nu pàre de rìcce

e ‘nu cannelìcchie

Mandrille le scè spizzecàve pùre sott’u spetàle vècchie

ca stàv’a le spàdde de via D’Aquine

A còzza tarandìne jè ‘nu tresòre

pùr’u nòme, còzze, m’ènghie ‘u còre

arruccàte accùme stòche

indr’a ‘na cetàte ca no’nge jè a mèje

e no’nge ve cònde ‘u spiùle ca m’avène

Mò m’addumànne, mangupàte

Hònne fàtte ‘u munumènd‘o cavàdde, ‘o ciùcce, o càne

peffin‘a sègge

peccè no’nge ‘u vo’ cu fàcene pur’a còzze

ca jè ‘u capetàle de Tàrde?

Mettìmele ‘na ‘zegne a ‘ngòrchie vànne

macàre mmìenz’a Rotònne

mbàcce ‘o palàzze d’u Guvèrne.

                                              

UN MONUMENTO DELLA COZZA TARANTINA A TARANTO

UNA PROPOSTA DA ACCOGLIERE SIMILMENTE ALL’INIZIATIVA DEL COMUNE MODENESE

Castelfranco Emilia dedica un monumento al ‘tortellino’

Castelfranco Emilia, lungo la via Emilia fra Modena e Bologna, è la ‘patria’ del tortellino: nonostante le eterne rivalità fra le Due Torri e la Ghirlandina, la leggenda racconta che qui nacque la pasta che è emblema dell’Emilia. E proprio per celebrare questa sua lunga tradizione culinaria, la città di Castelfranco ha dedicato un monumento al tortellino tradizionale, in piazza Aldo Moro. 

L’opera è firmata dallo scultore Giovanni Ferrari di Pavullo.  

Nel bronzo è stata rappresentata la ‘famosa’ scena della genesi del tortellino, celebrata anche dal poeta Alessandro Tassoni: si narra infatti che il tortellino sia stato ideato all’osteria Corona di Castelfranco, dall’oste che aveva spiato l’ombelico di una bella signora, ospite della sua locanda. Il monumento raffigura quindi il curioso gestore dell’osteria che sbircia, attraverso un ideale buco della serratura, la bella dama che si sta spogliando: al centro sta il tortellino, re della tavola di Castelfranco e di tutta la regione. Le sculture sono incastonate in una fontana.



mercoledì 20 ottobre 2021

Cantò la sua Puglia con passione

IL PITTORE BARESE FILIPPO ALTO

MERITA DI ESSERE RICORDATO

 

Filippo Alto

 

Qualcuno propone di dedicagli un

Premio ed elogia Locorotondo che

gli ha intestato una via. In un suo

testo Giuseppe Giacovazzo scopre

il suo paese nelle opere dell’artista. 

 

Franco Presicci 

“Ti racconto - dopo quasi una vita – perché una domenica ti trascinai dalla città a vedere com’era fatto il mio paese. Tu ora lo dipingi. Io lo riscopro nella tua pittura. E mi chiedo qual è il senso dell’immediato sortilegio, e per quali ragioni interiori alla ‘bugia’ dell’arte rinasce sempre viva l’emozione di trovare nell’aria le case pulite, le ‘commerse’ nel cielo issate, come stendardi, le strade tagliate dal vento, insomma quella forma ‘oggettiva’ che va sotto il nome di Locorotondo e che anch’io cerco di disegnare: come posso, con le parole”. E’ l’inizio di tre pagine che Giuseppe Giacovazzo, giornalista e scrittore, direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, scomparso da tempo, scrisse per una cartella di litografie di Filippo Alto, il pittore barese con studio a Milano, che scendeva spesso in Puglia per ritrarre la bellezza dei suoi paesi: Cisternino, Ostuni, Alberobello…, le case con il tetto a cappuccio, le viti, gli ulivi dai tronchi monumentali, la terra rossa della città del Festival della Valle d’Itria... 

Da sin. Rossicone, Kodra, Alto

E quando la musica inondava il magico paesaggio di Martina Franca, Filippo era sempre presente: passeggiava nei tratturi, nell’intrico di vie del centro storico, alcune solitarie, altre affollate, con le vecchiette a sferruzzare sulla soglia del basso, e s’inebriava, accumulando particolari da affidare al pennello. Particolari di bellezza. “La Valle d’Itria? Ci sono scesa per invito di Giovanna Bemporad – rispose Gina Lagorio a chi l’intervistava – una poetessa e traduttrice di molta raffinatezza. D’estate quella valle è una meraviglia, tra mare e collina. Sono scesa per il festival di lirica. E l’impressione che avevo era di solarità. Una solarità che scendeva dentro l’anima”. Quando da Milano partivo per Martina, in treno perché da Bari in giù volevo godere dal finestrino i prodigi che scorrevano con la velocità del vento, incontravo spesso un amico di vecchia data appassionato della sua culla.

Il direttore del Giorno Zucconi e Chechele
Un giorno da una borsa tirò fuori una copia con la copertina verde di “Paese vivrai” di Giacovazzo. Rilessi le prime righe, che ho riportato all’inizio, e gli dissi che sapevo tutto il testo a memoria. “Bene, ma vogliamo dimenticare questo pugliese che a Milano nella sua casa di via Calamatta, proprietà di un altro eminente pugliese, Guglielmo Miani; poi in quella di via Porro Lambertenghi, all’Isola, quindi nel suo rifugio estivo di Figazzano, ha realizzato ristoratrici, splendide tele sulla Puglia, esponendole nelle gallerie d’arte più famose in Italia e all’estero? Gli si dovrebbe dedicare una grande serata nel luogo più prestigioso, per esempio a Milano a Palazzo Reale. A Locorotondo gli hanno dedicato una via; ma perché non anche un Premio? Lui di Premi ne ha creati più d’uno, con te”. Credi che io non ti dia ragione, amico mio? Erano altri anni. C’era più gente disposta a sostenere certe iniziative.
Apricena Chechele dietro il Sindaco (al centro)

Per esempio, parecchi colleghi, andati in pensione, hanno lasciato Milano; altri questo mondo; altri non so, non li sento da tempo. E io viaggio verso i novanta. “Ma sono convinto che per una ‘formica di Puglia’, per un grande artista qual era Filippo riusciresti a tirar fuori le energie necessarie. Tu, che tra l’altro eri suo amico e compagno di serate casalinghe indimenticabili, con Vito Plantone, Costantino Muscau, Enzo Caracciolo, Achille Serra, Francesco Colucci, Martino Colafemmina, Romeo Quatraro e altri”. Sono diventato una lumaca che ogni tanto mette la testa fuori dal guscio, per motivi che toccano ai vecchi. Mi limito a vagheggiare tante cose e per quanto riguarda Filippo spesso sfoglio i suoi numerosi cataloghi e rivedo un trullo la cui cuspide sfuma ai piedi di un fico, i balconi spanciati di Martina intersecati con un pezzo di masseria di Noci o affiancato a un campanile di Trani, elementi “legati” da un ramo d’ulivo o da un tralcio di vite o da un frammento di tratturo, di una strada. “La strada è incontro”, ha scritto Giacovazzo. E’ spesso sulla strada ritrovi un amico che non vedi da tanti anni, ripercorri la sua storia trascorsa insieme e vuoi conoscere quella che da lì è andata avanti”. 

La cartella di Filippo Alto

Sono state tante le strade attraversate da Filippo, uomo generoso, colto, intelligente, attento, artista autentico, dai discorsi essenziali, consapevole del significato delle parole. Un uomo che amava ascoltare e meditare. E non parlava mai di sé. Mai chiedergli un commento sui suoi quadri. “Sei tu che devi dire a me. Io dipingo e lascio giudicare a chi osserva”. Rispose così al questore Enzo Caracciolo, che a casa mia fissava un suo quadro appeso nel soggiorno. E non amava quelli che si autocelebravano. Quelli con il tempo si spengono e lasciano solo tracce della loro pochezza, se non sono passati inosservati. Anche con questi era gentile, pur sapendo che dai loro discorsi non avrebbe ricavato nulla. Considerava il dialogo un’occasione di arricchimento. Filippo non c’è più dal ’92. A Figazzano ci vanno la moglie Ada, i figli Giorgio e Diego con le mogli e i rampolli, forse anche per ritrovarlo, per ascoltare i suoi passi, le sue conversazioni con la gente. Figazzano, quando c’era lui, era un pellegrinaggio di amici che arrivavano da ogni parte. Una sera v’incontrai Mario Mazzarino, già sottosegretario alle Finanze, con il quale avevo frequentato l’oratorio del Sacro Cuore, in via Giovan Giovine,a Taranto; un’altra sera il ministro Vernola; e poi il famoso critico d’arte Raffaele De Grada, il poeta Egidio Pane, il giornalista Rai Antonio Rossano (chi ha buona memora ricorda le sue esaurienti cronache su Rai 3 durante la sagra canora martinese), il compianto scrittore, da tempo scomparso, Giuseppe Francobandiera, direttore del Circolo dell’Italsider alla Masseria Vaccarella della Bimare, dove tra gli altri ricevette Gianni Brera, Morando Morandini, critico cinematografico del quotidiano “Il Giorno”, per una serie di conferenze su vari argomenti, e allestì una importante mostra dello stesso Alto.

Apricena in festa

E sempre a Figazzano conobbi don Oronzo, un contadino di 80 anni, che gli domandava come mai nei suoi quadri, tra viti, ulivi, querce, fichi Filippo non inserisse una figura umana, magari con il cappello di paglia in testa. Filippo sorrideva. E una volta, in una serata piena di gente, gli consegnò il microfono per fargli raccontare la vita della campagna di una volta. Nei panni di Silvio Noto, l’attore, presentatore, doppiatore, cantante barese, famoso tra gli anni 50 e 70 (nel ’57 presentò Mina in una trasmissione televisiva), don Oronzo si trovò a suo agio e parlò di vendemmie, raccolte di olive, canzoni, e d’innamoramenti tra le “ceppune”. Un successo, Il pubblico, applaudendo, si alzò in piedi. Per don Oronzo, un po’ brusco ma buono, simpatico, un po’ incurvato dalle fatiche, basso, magro, occhi vispi, battagliero, Filippo era “’u prufessòre de le quàdre”, un mito. Ballò con Raffaele De Grada, ospite di Filippo, e poi mi condusse nel suo trullo, attaccato alla casa del pittore, mi offrì un bicchiere di vino e una bottiglia ancora piena di nettare. Gli scrissi un lungo articolo e mormorò un grazie. Filippo sapeva trattare bene le persone. Aveva una lunga schiera di estimatori, a Milano, Bari, Bologna… Leonardo Mancino, che era di Macerata, direttore didattico e scrittore, su Filippo compose un lungo saggio, che conservo come una reliquia. Conoscevo la scrittura felice di Mancino. Avevo letto le sue poesie, le avevo recensite sul “Giorno” e avevo letto la sua storia dei fischietti in terracotta in un catalogo di una mostra del luglio-agosto del ’90 nell’atrio del palazzo comunale di Ostuni. 

Apricena

 

La pittura di Filippo apre un libro pubblicato dalle Edizioni del Rosone, di Franco Marasca, che da Milano si era trasferito nella sua Foggia. Discutevo spesso con Filippo, a casa sua, nella mia, al Circolo della Stampa, da Chechele e Nennella… “Urgono le visioni di Puglia – mi disse a un tavolo de “La Porta Rossa”, di Chechele, durante una delle manifestazioni che il dinamico ristoratore di Apricena realizzava - più vissute con il passare degli anni. Le radici anziché rinsecchire si ispessiscono. Non è il periodo del ritorno, ma quello della maturazione, di una maggiore consapevolezza di ciò che si è perduto, il desiderio di far diventare universale il paesaggio che mi porto dentro”.

Chechele Jacubino

E seguiva con gli interni spagnoleggianti della Sicilia”. Chechele s’incantava, nel sentirlo parlare. Ogni tanto interveniva per elogiare la sua Apricena, che con Foggia e Lucera fu preferita da Federico II, perché soddisfacevano la sua passione per la caccia. Morto Filippo, dopo diversi anni Ada, la moglie, gli allestì una esposizione in una sala di Cisternino. Siccome era agosto, non riuscì a trovare nessuno degli amici per la presentazione dell’artista e delle sue opere. Erano tutti in vacanza, chi emigrato al mare a Peschici; chi in montagna, chi non aveva lasciato recapiti. Chiamò me, rifugiato come sempre nella mia campagna di Martina, all’ombra di un “ombrello” dalle foglie lobate dotate di un grande picciolo: il fico, che nasconde i suoi anni e raccoglie qualche volta i miei pensieri. Le dissi subito di sì e mi ritrovai, una delle rare volte, seduto al tavolo dei relatori, a spiegare la personalità di Filippo Alto, amico, confessore, consigliere, sostenitore, sempre al mio fianco nelle giurie e nell’organizzazione dei Premi, uno dei quali proprio fra gli odori della cucina di Chechele e Nennella, personaggi davvero straordinari. E feci appena in tempo a concludere l’ultima frase contenendo la commozione. Confesso che, parlando, lo cercavo fra il pubblico, convinto che fosse lì ad ascoltarmi, con quel suo sorriso amabile e comunicativo. Una voce mi diceva che da qualche parte c’era, in quella sala, nascosto, magari dietro Silvia Laddomada e Michele Annese. Vorrei sapere dove si trovi adesso, in quale parte del cielo, accanto a quale stella. Ah, il fico. Ricordo l’elogio che fece Giacovazzo in un’altra cartella di litografie di Filippo dedicata agli alberi di Puglia: la quercia, l’ulivo, il fico, appunto. Quel fico cresce anche sulle pareti dei sentieri e non ha bisogno d’acqua per svilupparsi e dare frutti. Un albero di grande dignità, longevo. Un albero amato anche da Filippo. Il fico, che con le sue foglie coprì la nudità di Adamo ed Eva.

SU "MINERVANEWS" -NOTIZIARIO (BLOK NOTES CON PENNA NERA):

IL FICO - Incontro di botanica "culturale"

Interventi di Cosimo Clemente e Silvia Laddomada


mercoledì 13 ottobre 2021

La mia scuola elementare

UN SERBATOIO DI RICORDI

LA “ACANFORA”, IN VIA DANTE

 

Scuola "Acanfora"
Ebbi come maestra la signora

Carrozzo, dolce, paziente, brava,

che non accettava i miei capelli

lunghi con i buccoli. Che fatica

convincere mia madre a farmi

potare. Gli scherzi degli scolari e

qualche bacchettata sulle mani.

La pernacchia dello scolaro che

risuonò in tutta la scuola.


 

Franco Presicci



Non ho mai più messo piede nella scuola “Acanfora”, dove frequentai le elementari avendo come maestra la signora Carrozzo. Una maestra che adoravo: paziente, comprensiva, sempre calma, dolce.

Uno scolaro
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
E soprattutto non impugnò mai la bacchetta per punirci, come faceva un altro maestro. Erano i tempi della guerra e spesso le lezioni erano interrotte dal sibilo della sirena e dalle corse al ricovero, che era nella piazza di fianco alla scuola, adesso stretta fra due palazzi che si affacciano uno su via Dante e l’altro su via Oberdan. Erano i tempi della tessera annonaria e se non ero sempre tormentato dalla fame, era merito di mia madre, che mi dava anche la sua porzione di pane e a volte si forniva come tanti dalla borsa nera. Erano i tempi in cui a scuola si facevano le aste, alle quali ero allergico. La signora Carrozzo in prima le utilizzava anche come castigo: se non si riempiva la pagina che ci assegnava a casa, ce ne imponeva dieci e anche venti, se si era recidivi. Ricordo l’insistenza appassionata di mia madre nel convincermi ad andare sino in fondo, perché io dopo le prime righe avrei chiuso il quaderno.

Pennini di una volta

Ma neppure quelle piccole sbarre, che dovevano essere precise, nette, senza sbavature, compromisero il mio affetto per la signora Carrozzo. Quando raggiunsi i sedici anni, la incontrai per strada; e dopo una breve conversazione anche sul mio comportamento scolastico, mi invitò a casa sua, credo in corso Umberto; e, avendole detto che sapevo fare il presepe, mi sollecitò ad architettarne uno anche da lei. Il giorno dopo ero già all’opera; e mentre costruivo grotte e sentieri, il marito, che mi stava vicino per curiosità, mi corresse: “Non si dice ‘Gl’italiani’: l’apostrofo è inopportuno, quindi si deve dire Gli italiani”.

Anche lui era una gran brava persona. Terminata la scenografia, non li vidi più. Davanti alla scuola “Acanfora” dovevo passare, sorgendo nel punto in cui via Dante incontra a destra via Nettuno, che era quella in cui abitavo. Vedevo entrare gli scolari, e i genitori o i fratelli più grandi che li aspettavano all’uscita; il custode Antonio, che sembrava dirigere il traffico e chiudeva il portone quando le scolaresche si erano sciolte; ma non mi sono mai soffermato per rivedermi ragazzino con il grembiule, davanti alla maestra che pregava mia madre di tagliarmi i capelli con i buccoli, che mi avevano procurato il soprannome “Rezzetìedde”.

La chiesa di via Dante
La signora Carrozzo non sapeva di questo nomignolo, altrimenti avrebbe provveduto. Eh, quante cose ho imparato da quella donna bassina e carina, che insegnava con vivo attaccamento, senza perdere mai il controllo, neppure quando noi ragazzi avremmo fatto perdere le staffe persino a Giobbe. Una volta mi disse di farmi il segno della Croce e invertii l’ordine dello Spirito Santo. Non mi redarguì e non mi fece uscire dalla classe (del resto non lo aveva mai fatto). Mi chiese solo di ripetere il gesto e mi licenziò con un bravo, essendomi corretto. Da lei ho appreso il valore della pazienza, anche se allora non ero capace di impiegarla e scattavo come un fiammifero acceso. Sorrido al pensiero delle volte che la signora Carrozzo pregò mia madre di portarmi dal barbiere, che, guarda caso, stava proprio di fronte alla scuola.
Disegno di Lotito

La resistenza della signora Lina, mia madre, la costrinse a minacciare, sempre con voce pacata e serena, di non accettarmi più in classe con quella foresta sul capo. La signora Lina, sia pure con sofferenza, cedette, ma dal barbitonsore mi mandò da solo. Non voleva assistere alla tosatura. E al mio ritorno a casa, vedendomi pelato come un’anguria, perché io, seduto sulla poltrona girevole, avevo deciso che, dato che c’ero, potevo fare piazza pulita sulla mia zucca, pianse. E anche la maestra, quando entrai nell’aula, diretto al mio posto, in seconda fila, di fronte a quello scempio, rimase di stucco. Del resto non poteva prevedere che io mi sarei fatto pelare come le pecore fra le mani dei pastori.

Pennini e penna

La signora Carrozzo fu la mia insegnante fino alla terza e mi vennero gli occhi lucidi quando seppi che non si sarebbe più seduta su quella cattedra. Ricordo l’ultima domanda che mi fece: “Che cos’è un fungo?”. “Un genere di piante di varie dimensioni, tipi, colore, forma. Alcuni hanno una sagoma ad ombrello, altri a tamburo, altri a mazza da “baseball”. E avrei continuato, se lei non mi avesse fermato, perché soddisfatta. Ci aveva inculcato anche l’amore per la natura e il rispetto che le si deve. Nutrivo molto affetto anche per il direttore, di nome Suglia. Era delicato, paterno, mai uno sbuffo di autoritarismo, che emergeva invece in una delle bidelle, che non sopportava i ragazzi indisciplinati; tanto che per imporsi spesso bloccava i pugni sui fianchi come le anse di una giara, in dialetto tarantino capasone. Un giorno uno di quegli atteggiamenti seguiti da un “Basta!” urlato come i comandi del caporale a un addestramento di reclute provocò una pernacchia, che, autore uno di quinta, non sarebbe riuscita meglio neppure al marchese del Grillo. L’interessata digrignò i denti e girò gli occhi di fuoco verso destra e sinistra, e anche la testa, senza centrare l’obiettivo. Per la verità, quel rumore sonoro che nei teatri o nei comizi sottolinea una battuta riuscita male o un discorso non condiviso lo avrei fatto volentieri anch’io, che se non ero un Giamburrasca poco ci mancava.

Trascorso il tempo e riandando con gli amici a quegli anni, sentivo dire di punizioni severe: scolari isolati dietro la lavagna o inginocchiati sui ceci. E qualcuno evocava il detto “Mazze e panelle fanno i figli belli”, che io contestavo. La bacchetta era per qualcuno un mezzo per ottenere la disciplina, il silenzio, l‘ordine, quando, per esempio, momentaneamente assente il maestro (magari per una fuga in bagno), gli alunni si scatenavano e a subirne le conseguenze era il capoclasse, che faceva più chiasso di tutti. C’era anche il maestro che la bacchetta l’agitava soltanto, quello che la batteva sulla cattedra; e quello che l’adoperava con leggerezza. 

Presicci sfida il caldo per un "gràtta-gràtte”
Presicci sfida il caldo per un Quando toccava a me e andavo a lamentarmi da mia madre, mi sentivo dire: ‘Ben ti sta, vuol dire che hai fatto ciò che non dovevi fare”. E pensavo: “Ho avuto il resto” (Ma quando facevo il bravo, mi dava i soldini per comperare “’u gràtta-gràtte”). Lei aveva molta stima di quel maestro austero, che a volte metteva da parte la pagina di aritmetica e ci parlava del suo desiderio di creare un orto, in cui piantare insalate e carote da regalare; e della cattiva fama che accompagna alcuni animali, come la civetta, ritenuta a torto annunciatrice di sventure. E accennava alle figure del mago della pioggia, del lupo mannaro, dei fantasmi, dei folletti…, precisando che erano soltanto credenze popolari tramandate da secoli. Anch’io stimavo il maestro, per la sua cultura e quindi per la ricchezza che ci somministrava.

E ancora oggi mi pento del biglietto con la scritta: “Maestro, lei mi è antipatico”, che, per spirito di patate, gli infilai nella tasca della giacca appesa all’attaccapanni e rimasto inevaso. E restarono impuniti, per la difficoltà di individuare i colpevoli, il piccolo strato di colla sparso sul posto del mio compagno di banco, che si ritrovò con i pantaloni sporchi; la mano ignota che infilò nella cartella del primo della classe un disegno raffigurante un asino; e quella che rovesciò il mio calamaio. Marachelle che per alcuni non potevano essere liquidate con uno scappellotto o un colpetto di verga: I monelli andavano rimodellati. E il cosiddetto monello dell’ultima impresa sbirciò il maestro, la mazza posata sulla cattedra gli sembrò ergersi verso l’alto, oscillare come un pendolo, lanciando un segnale sgradito. Il maestro aspettò che l’autore si rivelasse, ma l’attesa e il silenzio naufragarono nel suono dalla campanella, che quella volta sembrò più forte e più lungo.

Via Dante Alighieri

La scuola “Acanfora” è un serbatoio di ricordi. Qualcuno pallido, qualche altro vivo. ben delineato nei suoi contorni. Quando torno da Milano, d’inverno o d’estate, mi fermo all’angolo di via Nettuno con via Dante e la guardo, la fotografo per immortalarla nella mia ricca raccolta d’immagini. E mi viene un po’ di malinconia alla vista della facciata un po’ trascurata, con i manifesti elettorali incollati sulla facciata, qualcuno sventolante nello sforzo di staccarsi per fare pulizia. E non sono andato mai più a vederla dall’ingresso di via Oberdan, dove le scale sono fiancheggiate da due…scivoli, che da ragazzo praticavo con un po’ di timore a testa in giù, come fanno ancora oggi i bambini nei parchi-gioco. Ricordo tutto di quella scuola: la disposizione delle aule, quella adibita ad abitazione del custode, a sinistra rispetto all’entrata, l’ufficio del direttore; e ricordo il maestro supplente (credo si chiamasse Calderone) al quale raccontai una storia che mi ero inventata e lui mi promise che l’avrebbe riferita a un regista di sua conoscenza per ricavarne un film. 

La Concattedrale in viale Magna Grecia
Non ci credetti, perché ero consapevole dell’inadeguatezza del racconto. Non so più che fine abbia fatto il libretto di poesie che mi donò un giovane maestro, che faceva anche il pittore con un certo talento. In alcuni versi diceva: “Chi sono io? Il frutto di una notte turbolenta”. Era giovane, spiritoso, intelligente. Lo incontrai dopo tanto tempo e mi regalò un quadro, che interpretai come uno squarcio dell’anima. Avevo già 18 anni. Scuola “Acanfora”; via Dante, che da via Giovan Giovine è stata stravolta. Gli orti sono stati spazzati via per far posto alla costruzione di palazzoni e alla nascita di nuove strade, come viale Magna Grecia, un tempo corso Venezia, inondata di verde. Quando avevo forse 17 anni nella palestra si svolse una festa non ricordo per quale ricorrenza e quelli della mia comitiva vi aderirono senza avvertirmi, per il semplice fatto che uno di loro voleva corteggiare una mia parente senza avermi tra i piedi. Via Dante è una delle vie più note. Nel ’45 vi è nato il comico, imitatore, attore, conduttore televisivo Teo Teocoli. Anche lui tarantino di successo. Chissà se anche lui ha frequentato almeno un anno quella scuola edificata a quanto pare nel 1925, alle Tre Carrare, quartiere sistemato nello stesso anno.









mercoledì 6 ottobre 2021

Ancora ricordi di San Severo

Zio Luigi

 

TERRA DEL VINO E DELLA CULTURA CON GENTE LABORIOSA E OSPITALE


Ho conosciuto la vita e la fatica dei contadini: sveglia prima dell’alba e ritorno alle 5 o alle 6 del pomeriggio.

Il mio impegno di corrispondente da quella città per “Il Corriere del Giorno” di Taranto. 

I miei rapporti epistolari con Fernando Palazzi, noto autore del vocabolario italiano.

 

 

Franco Presicci

Negli ultimi tempi del mio lungo soggiorno a San Severo, Giovanni Acquaviva, direttore de “Il Corriere del Giorno”, mi affidò la corrispondenza del giornale da quella città. Ne fui fiero. E così nel pomeriggio, dopo aver fatto i compiti e letto pagine di qualche libro, me ne andavo in giro osservando e ascoltando la gente e qualche “trombettiere”, quelli che sapevano sempre tutto. 

Sant'Agata di Puglia

Quando fu installato il primo semaforo, scrissi un articolo; e poi un altro sulla fatica d’un contadino nel raccogliere i lampascioni o le “ciambrachelle” (lumache) o nel catturare rane; e battevo strade, vicoli, slarghi, dove potevo captare una voce: “Lo sai che cosa è successo?...”. E via con la notizia. Poi tornavo a casa, scrivevo, se c’era da scrivere, mettevo i fogli nella busta con la dicitura “fuori sacco” e alle 22 andavo alla stazione ad aspettare il treno in arrivo da Milano e diretto a Taranto. Rientravo e ripassavo la lezione. Trascorrevo così le giornate. La mattina a scuola, al liceo classico “Matteo Tondi”; il pomeriggio a studiare e a fare il girovago assetato d’informazioni. Facevo una capatina anche al commissariato di polizia, dove avevo conosciuto un poliziotto, persona arguta e intransigente, gentile, ma restìo a spifferare “chicche” anche se mi mettevo in ginocchio. Tra gli amici contavo Tardìo, dipendente dell’Istituto Agrario ed esponente di spicco della Democrazia Cristiana, e Turillo Ceparano, che conquistata la maturità scientifica era indeciso nella scelta della facoltà. Frequentavo anche un mio coetaneo (non ne ricordo il nome) che non perdeva occasione per tessere le lodi di Napoleone.

Piazza di Torremaggiore
Sant'Agata

Il Corso riempiva tutti i suoi discorsi, a casa, nelle passeggiate, con le fidanzate. Un altro ancora, un po’ scontroso, che viveva per lo studio e pubblicò un articolo sulle Isole Tremiti e un altro sulle città bianche, tra cui Ostuni, paese che allo storico tedesco Gregorovius sembrò una visione. Io ero interessato alla storia di San Severo, città del vino e della cultura, con tesori architettonici e monumenti. Vi ho vissuto un periodo piacevole e ricco di iniziative.

Avevo confidenza anche con alcuni anziani: papà Nicola, che non percepiva una lira di pensione, pur avendo lavorato come un mulo, ma senza un briciolo di “marchetta”, come diceva lui; Tommaso, che, novant’anni suonati, ripeteva di essere stato in America e di poterne raccontare fatti e misfatti; e, quando lo faceva, veniva soccorso dalla fantasia. Papà Nicola lo ascoltava fumando la sua pipa con il camino in terracotta e la cannuccia di canna ricurva; e quando i ragazzini giocavano sfiorando la soglia del basso davanti al quale i due erano seduti, Tommaso fermava la narrazione e si lamentava: “Necò’, non posso continuare. ‘Sti uagnùne no so’ ‘mbaràte”.

I tetti di Sant'Agata

Arco Borrelli a Torremaggiore
La verità era un’altra: la sua memoria vacillava, quindi spesso si lacerava il canovaccio. Erano i due monumenti del quartiere, fatto di case basse e povere, con le facciate screpolate, lebbrose. A poca distanza da noi, dove gli stabili avevano già un altro aspetto, c’era il mulino Casiglio, un nome noto, non solo per lo stabilimento, ma anche per l’omonimo professore, Nino, che pubblicò parecchi libri importanti, tra cui qualcuno con l’editore Rusconi. Difficile tener chiuso il mio serbatoio; e così sfilano anche i cinema, tra cui il Marchitto, dove però non sono mai entrato.

Andavo spesso a quello che stava vicino alla villa e al convento dei Cappuccini: trasmetteva spesso film western, la mia passione, e andavo a vederli assieme all’amico e compagno di scuola Tonino Vassallo, che aveva un fratello prete. Campanozzo, che abitava a San Paolo Civitale e aveva un fratello professore di matematica con cattedra all’Istituto Magistrale, lo vedevo solo in aula. Negli anni l’ho cercato, anche sui social, ma senza trovarne traccia. Di notevole livello culturale i miei insegnanti: De Rogatis, don Giuseppe Stoico, Maggi, La Bianca, che veniva da Trinitapoli, De Gennaro, da Giovinazzo. il preside Mancini era un’ottima persona e una volta m’interrogò in greco; severo ma senza esagerazione. il custode era divertente: scherzando, rivendicava il diritto di avere la maturità “ad honorem” dopo trent’anni al liceo; e sempre scherzando, se vedeva uno studente andare in bagno fuori orario, cantilenava: “Se qualcuno ha una disfunzione diarroica, deve stare a casa”. E qualche studente timido si sentiva imbarazzato. Intorno a mio cugino Michele – un bel ragazzo, simpatico, intelligente, spassoso – fiorivano sempre belle ragazze. Una sera nella comitiva ne accolsero una scompagnata, e lui m’invitò a colmare il vuoto.

Foggia

Quando fummo in campagna, illuminata da una luna sfacciata, tutti scomparvero dietro possenti tronchi d’ulivo. Allo scoperto soltanto io e Lella - il nome della fanciulla - carina, i capelli vaporosi, freschi di parrucchiera, bassina, ingrugnita, scontrosa. Avanzai di qualche passo verso di lei per sedermi su un pezzo di tufo e rischiai di sentirla ululare come per difendersi da un tentativo di approccio; allora tuonò la mia voce: “Attenti, arriva il guardiano!...”, e tutti sbucarono come l’armata Brancaleone in fuga, senza chiedersi se l’allarme fosse vero o fasullo. Il nome del “campiere” che avevo lanciato destava paura a tutte le coppie che si isolavano, anche nei dintorni della stazione ferroviaria. Quando Michele mi tirò le orecchie per l’accaduto, risposi che avevo visto un’ombra concretizzarsi a passo spedito e volevo solo metterli all’erta. In quei giorni stavo leggendo il libro “Baroni e contadini”, di Giovanni Russo, e mi aveva colpito il capitolo “Le bandiere di San Severo”, che erano quelle delle cantine. Sulla scrivania, se si può dire tale, avevo “Cristo si è fermato ad Eboli”, regalo di mio zio Luigi, che come la moglie Donatina aveva un cuore grande quanto un bacino di carenaggio. Avevo già immagazzinato “L’uva puttanella” di Rocco Scotellaro, e “Piccolo Mondo Antico” e “Malombra” di Fogazzaro. 

Immagine di Sant'Agata di Puglia
E cercavo di racimolare i soldi per acquistare un libro su Diodoro Siculo, nei tascabili Mondadori, che avevo visto esposto all’edicola-libreria aperta in piazza, il cui titolare era un pubblicista corrispondente della Rai. Fu a San Severo che Fernando Palazzi mi mandò in omaggio la seconda edizione del suo vocabolario italiano, preceduto da una lettera sul Premio Viareggio. Credo fosse il 1955. Gli avevo scritto per chiedergli notizie sull’argomento e mi rispose che preferiva “non parlare di quel Premio, perché lui con il suo romanzo “Rosetta” non aveva avuto l’esito desiderato, nonostante fosse stato esortato a parteciparvi. Mi rivolgessi a Giovanni Titta Rosa, che sicuramente mi avrebbe esaudito. Non ho dimenticato nulla della mia permanenza a San Severo. Neppure i colori della sua campagna; e i palazzi patrizi, il Teatro Comunale - dove si esibirono fra gli altri Giacomo Rondinella e l’attore Guglielmo Inglese - la biblioteca; il corso della villa, cioè quella dello struscio, dove nascevano e morivano gli amori, il luogo degli appuntamenti serali e domenicali, che spesso approdavano al bar per poi riprendere la ronda.

Foggia
La facevo anch’io, quando non mi rintanavo in casa anche nelle sere della Festa della Madonna del Soccorso, festa grande, anzi grandissima, con la folla compatta dietro la processione, con i fuochi d’artificio che esplodevano in cielo tra mille colori, come coriandoli luminosi spruzzati da una scatola invisibile. Lo ricordo, l’omaggio devoto alla Madonna. L’aspettava con ansia anche chi non aveva il dono della fede. Mi piaceva, la gente di San Severo.
Fra i contadini avevo molti amici; e piangevo con loro quando le viti venivamo bombardate dalla grandine, che faceva saltare i progetti, soprattutto i matrimoni, affidati alla vendemmia. Era dura, la vita dei contadini: in piedi prima dell’alba e rientro alle 6 del pomeriggio. I contadini sono fatti di quercia: scassano la terra, la rivoltano, l’arano, la seminano, e quando il tempo lo permette raccolgono i frutti. Uno di loro un giorno mi disse che io ero un privilegiato. Come dargli torto? Papà Nicola, dopo aver ascoltato un torto che avevo subito, mi disse: “Tu sì’ studènte e no ssì’ pèchere; s’addevìnde pèchere ‘u lupe te mànge”. Saggezza popolare. Papà Nicola aveva disertato la scuola, ma ogni tanto mi regalava un consiglio appropriato. San Severo è rimasto nel mio cuore. Qualche volta ci sono tornato, e una di queste volte, venendo da Milano, mi fermai a Poggio Imperiale, attirato da due contadini alla ricerca di rane. (“Che fatica, non ce ne so o più”). Mi riconobbero e ne fui felice. Conoscevano zio Luigi e mi pregarono di salutarlo. Quando arrivai a casa di mia cugina Leletta, dolce e taciturna, premurosa, lei stava per mettere le “recchietèdde”, fatte apposta per me e per mia moglie, nella pentola. Mi sentii accolto come il figliol prodigo. Mi ritrovai attorno le sue stupende figlie, Donata, Anna, Mirella, Lucia, e zio Luigi, il mio mito, e rivissi un po’ il tempo perduto, ricordando anche i luoghi che avevo visitato negli anni passati a San Severo: Torremaggiore, dove stampammo il giornale che avevo confezionato assieme a un gruppo di studenti volenterosi; Sant’Agata di Puglia, culla del mio amico e collega, lo scrittore Piero Lotito; Foggia; Troia; Lucera, dove andai per conoscere il direttore della biblioteca Gifuni, su consiglio dell’amato Tommaso Fiore. 


SU "MINERVANEWS" -NOTIZIARIO (BLOK NOTES CON PENNA):

RESOCONTO(testi e video) PRESENTAZIONE ALLA MASSERIA FRANCESCA
 
DEL LIBRO: "LA BIBLIOTECA DI CRISPIANO" DI MICHELE ANNESE