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mercoledì 27 gennaio 2021

I mestieri scomparsi di Milano

Guido Bertuzzi
 

 

OMBRELLAI E CESTAI VENIVANO

DA LONTANI PAESI DI MONTAGNA


Si sono spente le loro voci e anche

il ricordo si è appannato. Calderai,

venditori di cuni, di castagnaccio,

calderai, arrotini, spazzacamini

rivivono nelle poesie e nei brani

dei parolieri.



 

 

 

Franco Presicci

Stazione Centrale
Alcuni dei venditori ambulanti dei primi del Novecento a Milano non erano autoctoni. “Quell di cuni”, per esempio, erano di Cuneo e di quella città anche le castagne cotte al forno, che infilate in uno spago molto sottile formavano una corolla che gli ambulanti si portavano appesa al collo. Giravano da una strada all’altra e nelle fiere, a volte occasionalmente in gruppi. Gli ombrellai, come i cestai, scendevano dal Mottarone, che si erge tra il Lago Maggiore e il lago d’Orta. Si presentavano gridando “ombrellee” e le massaie che avevano un parapioggia difettato o da acquistare accorrevano nel timore di non fare in tempo. In epoca più recente “quell di ombrell” tenevano la merce inguainata in un contenitore di tela a tracolla, come una faretra. La categoria vanta un museo molto ben fornito, da molti anni aperto a Gignese, il più alto centro del Verbante. Detto per inciso, questi ambulanti, compresi gli spazzacamini, per parlare fra di loro senza farsi capire dagli altri, usavano un gergo chiamato “tarusc”. Qualche esempio? In questo gergo l’ombrellaio era “lusciatt” e i soldi “bergna”, come riferisce nel suo “I mestee de Milan” Cesare Comoletti, laureato in ingegneria industriale e socio del Circolo Filologico milanese, di cui presiedeva la sezione dialettale.
 
Lavandaie di Bertuzzi

Interessante anche l’opuscolo di P.E.Manni da Massimo, che contiene un piccolo dizionario di quella parlata. I “fumaioli”, come di tanto in tanto venivano indicati gli spazzacamini, provenivano dalla Val d’Ossola, dalla Val d’Intragna e dalla Valtellina. E facevano una vita grama, pagati com’erano a volte – si diceva – con un bicchiere di acquarello, vino annacquato. Dormivano su letti di paglia in freddissimi locali della periferia e ricevevano premure soltanto dalle suore del Cenacolo del Monte di Pietà, oltre che da alcune persone pie che per loro allestivano il pranzo di Natale. Lo spazzacamino, di cui da tempo si sono perse le tracce (l’ultimo a vederne un paio tantissimi anni fa, già in pensione, in vicolo dei Lavandai fu il pittore Guido Bertuzzi) era molto amato, e non passava mai inosservato con l’attrezzo del mestiere e il suo giovanissimo garzone di fianco. Un mestiere antico come risulta dalle parole di Cicerone sul camino lindo e brillante citate alla fine del ‘500 da Tomaso Garzoni. I milanesi assegnarono al “fumaiolo” un soprannome: “on menafrecc”, per il fatto che si materializzava d’inverno, quando il freddo arrivava fin nelle ossa, come fossero loro a costringerli a infagottarsi.

Sediaio
E i soliti “locciador”, burloni, usavano un’ironia spesso sgraziata verso questo ambulante, che la fantasia popolare aveva eletto a seduttore irriducibile. Poeti e parolieri si sono sbizzarriti: “…Ch’el girava per i contrad/ el vosava – donne belle – chi gh’ha ‘l camin de fa spazzà – salta foeura, ti, ona sposina…”. Dalla Valtellina proveniva ”el moletta”, calmo, paziente, affabile, cortese, in ottimo rapporto con le casalinghe. Al suo grido”: Oh, donn, gh’è chi el moletta” veniva attorniato da tante massaie con lame da molare (forbici, coltelli); e lui premeva sul pedale che metteva in movimento la ruota della carriola e questa la consorella piccola ad essa collegata da una striscia di cuoio. Luigi Medici e altri hanno dedicato all’arrotino canzoni gustose: “Mi rappresenti in mezz ai operari/ l’indipendenza personificada/ mi dòve vui me fermi in la contrada/ e lavori o lizzoni, senza orari”.
 
Opera di un madonnaro

Sintetizzando, “el moletta” si vantava di non dover obbedire a nessuno, di andare dove voleva e lavorare senza osservare alcun orario”. In un altro brano dice: “Mè pader fa el moletta/ e mi foo el molettin/ quand sarà mort mè pader/ faroo el moletta mè”, nonostante i guadagni scarsi. I venditori ambulanti di castagnaccio erano originari della Toscana ed erano chiamati tutti Gigi, dal nome del primo rappresentante del settore, che aveva la sua postazione prevalente in piazza del Duomo. Figura molto amata dai milanesi, con quel dolce casareccio spalmato nella teglia. Comparve nel capoluogo lombardo ai primi del ‘900. Dopo il ’17, data funesta per l’esercito italiano umiliato a Caporetto, a questi corregionali dell’attore e “chansonnier” Odoardo Spadaro (che si esibì anche al Moulin Rouge con Mistinguett), dovettero vedersela con la concorrenza dei veneti.

Nicola Sardone

Si fermavano in una strada molto frequentata o in una piazza o nei pressi di una scuola o di una caserma e invitavano i passanti a gustare una fetta di quella “toer de farina de sciscger o castegn de color gialdon o de color de legn”, il castagnaccio, che una volta i contadini affidavano al forno di campagna e chi non ce l’aveva alle piastre delle stufe. In un gustoso volumetto di Mario Supino (editrice Meravigli) si legge una divertente filastrocca dedicata a uno di questi girovaghi che, grembiule e cappello calato sulla testa, dalla panetteria di via Carmagnola raggiungeva via Borsieri (l’Isola Garibaldi), posteggiava sempre nello stesso luogo il suo banco con le padelle in rame e le sue delizie e rimaneva pazientemente in attesa degli avventori. Che non mancavano mai. Gigi, il cui nome di battesimo al secolo era Giacomo, a volte si commuoveva e qualche pezzetto lo dava “gratis” a chi aveva le tasche prosciugate, raccomandando di non farci l’abitudine e di accontentarsi di quel “ciccinin de roba”, quel “virgolin de gnaccia”. Anche il venditore di castagnaccio è da tempo sparito dalle vie di Milano, ma c’è chi lo ricorda. Come ricordano “quell di cuni”, anche se non hanno mai ascoltato la sua cantilena: “Bej cuni, bel maron, vardèe che firòn!”. Si piazzavano nel quartiere Ticinese se non in centro e alla fiera degli “Oh bej oh bej”. Il “cadregatt”, chi vende o impaglia sedie, non è del tutto scomparso.

La forma del calzolaio
C’è chi lo ha visto qualche anno fa seduto su uno sgabello a intrecciare paglia in piazza Belloveso, a Niguarda; e in un altro angolo poco distante. Sarà sempre lo stesso che non rinuncia ad abbandonare il mestiere, a dispetto del consumismo (rotta una sedia se ne acquista un’altra). Provenivano soprattutto dai paesi attorno a Belluno e dal Friuli e anch’essi adottavano un gergo legato all’attività che svolgevano: lo “scavelamènt de conza”. In uno dei loro paesi di origine hanno innalzato un monumento in onore dell’attività svolta. E “el caffè de genoeucc”, che era acquartierato in piazza Duomo o in altre vie poco lontane? Tra gli avventori netturbini, amici delle ore piccole... Tutti si servivano da soli e non avevano niente da obiettare sulla qualità della bevanda, forse perché a quell’ora era ciò che passava il convento.

Il barcaiolo

“El magnan”, il calderaio, veniva dalla Val d’Ossola e aveva anche lui la fama di dongiovanni, tanto che ancora oggi c’è chi ha memoria dei versi ”El marito apos a l’uscio/ el gh’aveva sentito tutto/ el salta foeura cont on farell in man/ e pim e pum e pum su la crapa del magnan”: una batosta memorabile, da far passare la voglia, che invece si rinnovava. Qualche anno fa a Milano si vollero ricordare tutti i mestieri del tempo perduto. In prima fila, proprio “el magnan”, seguito da “el s’ceppin, un lavoratore che, raggiunta Milano dai paesi vicini, girava per le strade alla ricerca di persone che avevano bisogno di farsi spaccare la legna. Nel corteo faceva la sua figura anche l’”alpador”, che viveva in paesini di montagna in luoghi attraversati da pastori e dal loro gregge, e venivano giù d’inverno a vendere formaggi e burro. Non mancavano l’uomo dei barconi che solcavano il Naviglio, le lavandaie, il ciabattino, che rifaceva le scarpe piegato sul deschetto.

Stazione Centrale
Anche se lavorava al chiuso, mi fa piacere ricordare, in particolare, quello che incontrai il 16 settembre dell’87, in via Gian Giacomo Mora, a Milano. Si chiamava Luigi Luca e aveva 67 anni. Avendo ricevuto lo sfratto, stava per andarsene in pensione. Mi disse di essere nato sotto l’Etna, a Bronte, terra di produttori di pistacchi destinati a tutta l’Europa. Aveva più di un cliente importante, tra cui Walter Molino, famoso illustratore italiano, che lavorò con il “Candido” di Giovannino Guareschi, si alternò con Achille Beltrame nel disegnare le copertine de “La Domenica del Corriere”, firmava quelle del “Corriere dei Piccoli”… “Mi ha promesso che mi farà una caricatura”. Mi raccontò tanti fatti, compreso quello del malavitoso che voleva un paio di scarpe confezionate in modo tale da potervi nascondere un coltello da introdurre a San Vittore. Naturalmente rifiutò. Aveva cominciato a 5 anni: garzone presso un calzolaio sotto casa, quando imparò bene il mestiere si mise a fare scarpe nuove. “Ma loro si facevano le ville e io… decisi di mettermi in proprio”. Quel mio articolo si trova, oltre che sul “Giorno”, in un’antologia per la scuola media, edita da La Nuova Italia. Con il tempo ne intercettai un altro, Nicola Sardone. Andai a trovarlo nel suo laboratorio di via Lorenteggio e mi raccontò la sua storia. Poi anche lui, ultimo esemplare della categoria con il deschetto, ha smesso. Anch’io ho amato questi lavoratori, compresi i madonnari, che con grande bravura tracciano sull’asfalto profili di santi; e gli sputafuoco. Questi, grazie a Dio, sopravvivono al tempo che vola.







mercoledì 20 gennaio 2021

Dirigente di banca e fotografo

LE SUGGESTIVE IMMAGINI DI ENZO ROCCA SUSCITANO EMOZIONI IN CHI LE OSSERVA

C’è tutto in quest’antologia: lo splendore di Taranto, con i suoi tramonti che accendono.


Il cielo; le bellezze di Milano, cara a Stendhal.

Preferisce riprendere persone e paesaggi, ma anche opere d’arte e artisti e l’architettura che ha cambiato il volto della città.


Franco Presicci

Passeggiando per corso Garibaldi, nella città vecchia, a Taranto, qualche estate fa, vidi passare ‘n’u sciarabàllle e subito una carrozzella con due giovani sposi a bordo. Non pensai che la ruota del tempo stesse girando al contrario e stessi per rivedere sulla ringhiera sferragliare i tram che andavano lentamente dalla stazione ferroviaria alle dieci palazzine, cioè a Solito, e viceversa; o la salumeria Gambardella in via D’Aquino riaperta e piena di avventori.

Rocca - Protopapa
E non mi preparai a sentire la voce degli strilloni che annunciavano i numeri del lotto, la cui ricevitoria era “abbasci’a marine”, e quelle dei bagnanti di Lido Taranto, in viale Virgilio, vicino al palazzone, un fungo di cemento che toglie la vista del mare a quelli che abitano di fronte. “Uagnè’, ‘u pèsce jè frische, l’hònne pescàte mo’; e uardàte ce bbèdde còzze pelòse, uagnè, avenìte”, gridava anche all’epoca ”u peciauèle” sotto la tettoia “d’a Duàne”, che adesso ammiro tra le fotografie di Enzo Rocca, dirigente di un istituto di credito, a Milano, e turista sempre con la macchina fotografica appesa al collo. Si dirà che tutti i turisti viaggiano così attrezzati per dare testimonianza dei luoghi che hanno visitato. Sì, ma Rocca è un artista: durante i suoi vagabondaggi estivi in Puglia, per esempio, Taranto la gira tutta, dalla marina al borgo, cogliendo angoli che sorprendono lo stesso indigeno. “Na, vit’addà, ‘stu passàgge strìtt’accùm’a ‘na ‘ndràme ste’ a Tarde vècchie?”. Se uno ha l’anima del fotografo, e Rocca ce l’ha, sa come andare a scoprire gli aspetti nascosti e quelli che pur stando sotto gli occhi di tutti rimangono spesso inosservati. I pescatori che rammendano la rete su un pontile di Mare Piccolo lo vedono tutti, ma Enzo Rocca ha un modo tutto suo per riprenderlo.

Rocca Enzo - Taranto
Così come per il giardino dei mitili, che una volta “le varcarùle” raggiungevano con gli ospiti della città seduti “sus’a rote” o trasto della barca e offrivano loro, con il permesso dei titolari, quattro o cinque esemplari da gustare subito con una goccia di limone. Un paio di anni fa, in occasione di una conferenza di Francesco Lenoci sui sassi di Matera, al Castello Aragonese, prima dell’inizio della serata non riuscii più a vedere Enzo, che era venuto con noi. Se n’era andato a spasso per il Castello con la curiosità di scovare i punti più attraenti. Così è: appare, scompare, cattura le immagini più singolari e una volta soddisfatto si “rimaterializza”. Enzo Rocca non parla mai delle sue foto. Se fai domande, lui risponde con frasi brevi e senza enfasi, con voce bassa.

Rocca Enzo - Taranto

Se ti complimenti per il suo lavoro di cacciatore d’immagini, sorride. Non ama glorificarsi. Eppure i suoi scatti sulla città vecchia, non solo quella decantata dai grandi poeti della Bimare, da Petrosillo a Diego Marturano, a De Cuja, o esaltati da scrittori del livello di Giacinto Peluso e di Nicola Caputo, che hanno raccontato il borgo antico e quello nuovo con passione, competenza e dovizia di particolari: il postino che entrava nell’androne dei palazzi, fischiava e urlava il nome dei destinatari della corrispondenza e se aveva tempo si faceva anche la chiacchierata con le casalinghe; il chiostro “de quìdde d’u gràtta-gràtte” e gli attrezzi dei vari artigiani, come la bilancia a molle e il trapano “d’u conzagràste”.

Rocca Enzo - Taranto
Rocca preferisce il paesaggio: i tramonti di Taranto che accendono il cielo, striandolo di colori di una bellezza tutta da godere; le chiese; il Castello, dal quale secoli fa le sentinelle vegliavano per difendere la città dai turchi; gli edifici storici; il monumento al marinaio vicino all’Ammiragliato, enorme, possente; il Mar Grande; i muri secolari screpolati come le labbra dei vecchi nostalgici delle notti passate sulle paranze; il ponte girevole che si apre per far passare le navi; il ponte di pietra, che unisce come quello di ferro le due distese d’acqua; gli slarghi; le targhe, come quella a Paisiello… Enzo Rocca fotografa con passione, a colori e in bianco e nero, e il risultato è quello di un artista sensibile ed emozionante.

Rocca Enzo - Taranto
Osservo volentieri le sue antologie, che dovrebbero essere esposte. E osservo con immenso piacere le sue immagini su Milano: la Galleria Vittorio Emanuele II, con i suoi famosi ed eleganti locali (Biffi, Savini, Campari, la libreria storica Bocca…); la Terrazza Martini, dove ha lo studio Francesco Lenoci (nel ’60 vi conobbi Arnoldo Foà e tanti altri attori); la Galleria del Corso, mèta negli anni Cinquanta e Sessanta di cantanti dell’altezza di Domenico Modugno, Tony Renis, Caterina Caselli, Memo Remigi…, diretti alle varie case discografiche .Vi conobbi anche Giovanni D’Anzi, autore di “O Mia bela Madunina”, che ritrovai la sera in cui Febo Conti, Roberto Brivio, Evelina Sironi, Liliana Feldmann… si esibirono all’aperto per ridare a un noto circo il telone che la tempesta aveva distrutto. Con Enzo Rocca s’incontrano e s’intrecciano storia e arte.

Milano-Monumentale-Enzo Rocca
Via Morone, a Milano, che da via Manzoni corre verso piazza Belgioioso, cara a Stendhal, non soltanto perché vi aveva dimora la baronessa Matilde Viscontini, da lui tanto amata; Via Bigli, dove aveva il suo salotto la contessa Clara Maffei, che presentò Boito a Verdi, e la casa il Premio Nobel Eugenio Montale; piazza della Scala, via Borgonuovo, via Sant’Andrea (ci abitò Wanda Osiris, che faceva colazione con le amiche al Caffè Cova), via Della Spiga, via Palestro, corso Venezia, via Montenapoleone… e i cortili fiabeschi con colonne inghirlandate, sculture, vialetti che s’intersecano, fontane zampillanti…L’obiettivo di Enzo Rocca spazia senza limiti, come la penna di Francesco Ogliari, patito di trasporti e di ogni altro mezzo di locomozione, a cominciare dai treni. Francesco l’amava profondamente Milano (la guardava dall’alto, dal basso, di dentro. Scrisse che questa città è bella dove nessuno la vede, perché la sua bellezza è discreta, riservata e non ama imporsi, assecondato da Guido Piovene. Bisogna percorrerla con amore per vedere ciò che tanti non vedono. Come fa Enzo Rocca, che si definisce fotografo amatoriale e ottiene risultati che hanno a che fare con l’arte. Nato a Pisoniano, un piccolo paese a due passi da Roma, ha iniziato a fare scatti all’età di vent’anni. Era ancora all’università e acquistò un attrezzo del mestiere con i soldi ricavati dal lavoro che svolgeva.

Rocca Enzo - Taranto
Nelle ore libere dallo studio. Amando molto viaggiare, dapprima in Italia e in Europa, e poi spingendosi oltreconfine, con i suoi “clic” immortalava culture e tradizioni. Lo incalzo e mi dice: “La passione per il cinema ispira la mia estetica, l’uso della luce e la ricerca di atmosfere”. Predilige il ritratto, il reportage e le persone nel contesto sociale e ambientale. E’ sempre difficile fotografare la gente a sua insaputa, cogliere quel momento nel contempo intimo e in simbiosi con il contesto in cui agisce. Le mie foto catturano questo sentimento, includono quell’aspetto emotivo imprevisto a me stesso”. Scatta velocemente per cogliere il soggetto nel suo atteggiamento più naturale. Ammira tutto ciò che d’interessante cade sotto i suoi occhi. E’ attratto dal paesaggio urbano: luoghi reali, vivi facendo riviere ricordi ed emozioni.

Milano-Barona-Enzo Rocca
Appassionato di arte contemporanea fotografa le opere d’arte e gli artisti: Fontana, De Chirico, Carmassi, Dova… Alcuni suoi ritratti sono stati pubblicati in cataloghi d’arte. Furono gli amici ad incoraggiarlo, e negli ultimi anni ha intensificato l’attività: ha collaborato con un’agenzia fotografica di Roma, si è iscritto al novantenne Circolo fotografico milanese, sodalizio storico di via Bezzecca, da sempre frequentato da maestri dell’obiettivo come Enrico Fantozzi, Pietro Donzelli, Valentino Bassanini, Sergio Manni… “Amo camminare – mi racconta – esplorare la città. Vado anche in compagnia dei soci del sodalizio. Siamo attirati dalle architetture”, dall’abside di una chiesa, da una modanatura, da un’edicola, da una strada articolata in modo diverso dalle altre, dalla piazza dedicata a Gae Aulenti, da luci, ombre”. 

Milano-Bovisa-Enzo Rocca
Quando va da solo, punta l’obiettivo verso le persone, giovani, vecchi che si tengono per mano; setaccia la zona Bovisa, un tempo ricca di fabbriche; l’Ortica, il quartiere un tempo con tanti “trani”, immortalato da Giorgio Gaber, Nanni Svampa, Ornella Vanoni, Enzo Jannacci, Dario Fo…; la Barona, che come le altre ha cambiato faccia; Porta Romana, protagonista di un brano interpretato da Nanni Svampa (“Porta Romana bella, Porta Romana/ Ci stan le ragazze che te la danno/ Prima la buonasera e poi la mano/ E buttami la giacca ed il coltello/ che voglio vendicare mio fratello…); monumenti; ragazzi che giocano a palla per la strada. Foto bellissime, come quelle dei Navigli, di piazza San Babila, che non è più quella di una volta. Enzo Rocca riprende questi luoghi con trasporto. E’ affascinato da Milano, dove gli arti demoliti, come la Pusterla dei Fabbri, restano nel ricordo di tanti, curiosi di vedere che cosa hanno messo al loro posto. Chi viene a Milano e lega il proprio cuore a quello della città non ha più il coraggio di tornare indietro. Si capisce perché Stendhal era rapito da Milano, dove voleva essere sepolto.








mercoledì 13 gennaio 2021

Era di Castellaneta Ferruccio Miraglia

UN LUMINARE DELLA MEDICINA

CHE DETTE LUSTRO A MILANO

Con lui l’ospedale Buzzi, dov’era

primario, cominciò ad essere la

prima Maternità d’Italia. Amico

del vecchio Angelo Rizzoli e di

tanti altri personaggi di grande

importanza, ha fatto nascere

migliaia di bambini. I suoi libri

sul parto indolore sono tradotti

in diverse lingue.


Franco Presicci 

Castellaneta, un salto da Taranto, è nota per le sue gravine, dove nel X secolo i contadini, per sfuggire ai Saraceni, trovarono rifugio; per il convento, del 1471, eretto in onore di San Francesco; per le sopravvivenze archeologiche d’insediamenti apulo-romani…, oltre che per aver dato i natali a Rodolfo Valentino, al secolo Guglielmi, protagonista di tanti film, tra cui “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, di Rex Ingram, nel ’21, ammirato da Charlie Chaplin, grande seduttore, uomo ideale degli anni Venti. La città è così orgogliosa dell’idolo del cinema muto e del bianco e nero, che sulla perpendicolare della strada principale gli ha fatto erigere un monumento, nei pressi della casa in cui il famoso concittadino lanciò il primo grido.

Dino abbascià
L’effigie, in ceramica, inaugurata il 30 settembre del ’61, in pompa magna, è mèta di migliaia di turisti, provenienti da ogni parte del mondo. Di Castellaneta era anche Ferruccio Miraglia, docente universitario, luminare della medicina, che a diversi anni dalla sua morte è ancora ricordato a Milano; e in particolare all’ospedale Castelvetro, dove ha operato per tantissimi anni. Lo conobbi nel 2006, e gli chiesi di iscriversi all’Associazione regionale pugliese, con sede in via Pietro Calvi. Accettò subito e cominciò ad essere presente a tutte le manifestazioni ideate e realizzate da Giuseppe Selvaggi (dirigente di banca in pensione, scrittore di talento, ogni anno invitato personalmente da Franco Punzi, presidente del Festival della Valle d’Itria, in qualità di esponente del sodalizio, al Piccolo Teatro, dove fino a un paio di anni fa il programma della rassegna veniva esposto a melomani, critici, artisti…). Le iniziative di Selvaggi, condivise e incoraggiate dal presidente scomparso, Dino Abbascià, imprenditore di grande prestigio, e oggi dal generale Camillo de Milano, eletto a quella carica all’unanimità (è anche presidente della Fondazione Asilo Mariuccia), a Miraglia piacevano. 
"Il Puglia" ad Al Bano

Arrivava tra i primi, prendeva posto vicino all’ingresso e ascoltava senza mai intervenire: riservato, discreto, interessato a questo laboratorio di idee in favore della Puglia, come il Premio intestato alla nostra regione, molto apprezzato e ambito (è stato assegnato a Renzo Arbore, ad Al Bano, alle donne del vino di Maruggio, a Livia Pomodoro…), presentazioni di libri, conferenze tenute da intellettuali importanti, tra cui a suo tempo Raffaele Nigro, giornalista e scrittore, spesso moderati dal giornalista Piero Colaprico, direttore della sede milanese di “Repubblica” e grande cronista, nato a Putignano. Al termine di alcune serate io lo accompagnavo per un tratto e un pomeriggio mi concesse di dargli del tu. Fu in quella stessa occasione che mi volle raccontare uno scampolo della sua storia e per il resto mi invitò a casa sua. Era giunto a Milano nel ’40, dopo aver conseguito la laurea a Torino.

Galleria delle Carrrozze stazione
E a Milano cominciò una carriera brillante: primario ospedaliero, studi di psicosomatica e psicanalisi, fondatore della Società italiana di psicoprofilassi ostetrica, padre della cultura della preparazione al parto, della rivista “Nascere” e dell’etica dell’umanizzazione dell’assistenza sanitaria, autore di diversi libri, tra cui “Sarò madre”, tradotto in tre lingue, “Per una cultura del nascere” con prefazione di Gustavo Charmet…Mi ricevette nel salotto della sua bella casa e dopo avermi fatto accomodare prese a parlare attirando immediatamente la mia attenzione. Parlava piano, quasi sottovoce, con quella sua espressione severa che non si apriva mai al sorriso: “La cultura aveva già iniziato a interessarsi del dolore del parto, e venne fuori il movimento di profilassi ostetrica sotto l’egida dei russi e dei francesi. Nel ’55 con una borsa di studio della Provincia di Milano, fui mandato a Parigi a capo di una delegazione di medici e ostetriche e due colleghi della Maternità provinciale di via Macedonio Melloni, dov’ero aiuto”. A Parigi rimasero 15 giorni, frequentarono la clinica in cui operava il noto dottor Lamase, acquisendo “la tecnica che allora era il ’top’ del progresso”. E aggiunse: “Contemporaneamente alla contrazione la donna doveva respirare di frequente e imparare a rilassarsi in tutto il corpo. Ma questo non era sufficiente.
 
I giornalisti Zucchi e Colaprico
L’importante era che il personale impiegato in sala-parto stabilisse un rapporto empatico con la donna. Fino agli anni ’60 – dice Marina Farinet – nei reparti italiani di maternità c’era una gestante spaventata e inconsapevole, che si avviava passivamente all’avventura più esaltante della sua vita, quando la psicosomatica e la psicanalisi sono confluite nella psico-profilassi, dando vita a un movimento che ha trasformato non solo la scena nazionale del parto ma si è anche inserita nella cultura occidentale, precorrendo vari aspetti…”. Negli anni ’70 fu sottoscritta una convenzione fra l’Istituto di psicologia dell’Università di Milano, diretto da Franco Fornari, e il reparto di ostetricia dell’ospedale Buzzi, dove Ferruccio Miraglia era primario. “L’idea-guida – ricordava Gustavo Charmet – era di riuscire a intercettare le fantasie e gli affetti messi in moto dal concepimento e dall’avvicinarsi dell’evento parto… Miraglia se n’era sempre occupato e aveva acquisito una fama nazionale nell’area della preparazione al parto e nelle procedure atte a governare e a gestire i dolori del travaglio e le angosce ad esso connesse. Aveva capito la delicatezza del rapporto medico-gestante e conosceva meglio di tutti gli altri i dinamismi.
 
Lo scrittore Giuseppe Selvaggi

Ma voleva chiarire al massimo il loro significato, le origini, la portata… Si domandava – diceva ancora Charmet - “quali fossero i pensieri nascosti, quelli legati alla dimensione dell’inconscio che potevano essere intercettati, socializzati e messi al servizio della naturalità del parto”. Allo scopo, Miraglia - volle socraticamente conoscere se stesso, sottoponendosi ad analisi con Fornari - accoglieva i sonni delle donne e dei loro mariti e Fornari li interpretava. “Quando partorisce – mi disse Ferruccio – la donna deve essere cosciente, vivere il momento del parto, perché da questo dipende il legame affettivo del bimbo con la madre. Il tipo di respirazione da me concepito serve a dominare il dolore, a non averne paura”. Il professor Miraglia ha avuto tanti altri meriti. Tra questi, l’aver responsabilizzato, precorrendo i tempi, il padre, introducendolo nella sfera della preparazione e dell’assistenza al parto. Di Ferruccio Miraglia tutti conoscono l’autentica generosità. Ha curato gratuitamente e con gioia centinaia di persone. Un episodio: nel ’43, inviato in Grecia, nell’isola di Antichitera (dove gli archeologi hanno scoperto i resti di un tempio di Apollo), si mise a disposizione della popolazione senza mai chiedere una lira. Non me lo riferì spontaneamente: dovetti confidargli di essere stato messo al corrente di un fatto sulla sua magnanimità e incalzarlo per farmelo raccontare da lui.

Il generale Camillo de Milato

Era severo, essenziale, determinato, a volte anche brusco. “A chi può interessare conoscere certi aspetti dei miei rapporti con gli altri”? “A me, per esempio, che come giornalista ho il dovere di tracciare un profilo sintetico, ma chiaro, della persona che intervisto. E quello che ho voluto sapere di te sono poche cose rispetto alle tantissime che hai da dire. E quelle che mi hai detto mi hanno colpito”. Bisognerebbe assegnargli un Premio alla memoria. Un riconoscimento importante, come il Premio che veniva assegnato alle persone che hanno fatto grande Milano (nel maggio del i985 venne dato a Gaetano Afeltra, figura eminente del giornalismo). Miraglia aveva tutte le carte in regola per riceverlo. 

Gaetano Afeltra
Ha fatto nascere migliaia di bambini: un’intera città, soprattutto al Buzzi, che sotto la sua direzione cominciò ad essere la prima Maternità d’Italia. Uomo coltissimo (tra l’altro conosceva il tedesco), amico del grande Angelo Rizzoli (che venendo dai “martinitt, celebre struttura per orfani e bimbi abbandonati fondata nel XVI secolo da san Girolamo Emiliani, fondò la casa editrice, che ha pubblicato le opere di scrittori importanti e periodici autorevoli, tra cui “L’Europeo”, che contava firme prestigiose, tra cui Oriana Fallaci). Con il “cumenda” Miraglia dette alle stampe il suo primo saggio: “Il parto senza dolore”. Era anche appassionato di sci. Si era innamorato della montagna, quando studiava a Bologna. Gli amici lo avevano invitato a un raduno sciistico a Bardonecchia e lui era rimasto affascinato dal fantastico, spettacolare paesaggio. Fu allora che si decise di trasferirsi all’ateneo di Torino. “Non dirmi che alla tua rispettabile età
scii ancora?”. “Te lo dico. Quest’anno sono anche caduto”. Mi alzai per andar via quando squillò il telefono. Una signora lo ringraziava per le cure ricevute da lui tanto tempo prima. Molte donne si ricordano ancora di questo luminare. Figlio di un insegnante di violino, prese parte al conflitto mondiale e dopo l’8 settembre fu destinato ai lager di Versen e di Dalum. Quando morì, il 17 febbraio 2012 (aveva quasi 100 anni), anche “Il Corriere della Sera” ed altri giornali lo ricordarono come meritava.




mercoledì 6 gennaio 2021

Un’intervista a Pippo Baudo nel giugno del ‘71

Presicci intervista Pippo Baudo

HA FATTO LA STORIA DELLA TIVU’

IL PIPPO NAZIONALE, UN MITO

 

I suoi genitori erano contrari alla

sua passione per lo spettacolo. La

mamma alla fine gli disse che se

proprio voleva fare la televisione

conducesse almeno il telegiornale.

Lo conobbi al Festival di Miradolo

Terme, Pavia, qualche anno dopo

c’incontrammo all’entrata della

Fiera, da via Domodossola, quindi

in un albergo di corso Sempione, a

un passo dalla sede Rai di Milano

e al Festival dei Giocolieri, a Bergamo.

 

Franco Presicci

Oggi Pippo Baudo è un mito, il principe dei presentatori; e ogni volta che compare in televisione, per una ricorrenza o per un’altra occasione particolare, è un avvenimento. Della tivù ha fatto la storia e di molti cantanti la fortuna. E’ simpatico, cordiale, divertente. Così mi sembrò molti anni fa, nel ’64 (se la memoria non m’inganna) in un piccolo festival a Miradolo Terme, oltre 3.500 abitanti in territorio di Pavia.

Don Lurio
Appena arrivò volle farsi una partita a ping-pong con me e per farla tolse ridendo la racchetta al mio avversario improvvisato. Mancavano poche ore allo spettacolo, e lui si fermò a conversare con un folto numero di “fans”. che si spintonavano per conquistare la prima fila. Non aveva la fama di oggi, ma si capiva che sarebbe diventato un mattatore. Successivamente, dovendolo intervistare per un settimanale popolare che non esiste più da tempo, lo pescai in un albergo a due passi dalla Rai di corso Sempione. Mi ricevette non ancora del tutto vestito nella sua camera e dovemmo interrompere spesso il discorso perché le telefonate non gli davano pace. Mi disse: “Fino a ieri non mi chiamava nessuno; adesso appena metto giù la cornetta quella riprende a squillare. La celebrità albeggiava. Lo rividi nel giugno del ’71 davanti alla Fiera di Milano, poco prima della registrazione della trasmissione “La Freccia d’Oro”. Non mi dette fretta. Gli chiesi di raccontarsi e lui lo fece volentieri. Cominciò col dire che da buon siciliano era un po’ superstizioso; e a giudicare da alcuni episodi qualche motivo ce l’aveva. Ma non indossava oggetti apotropaici.

Nicola Arigliano intervistato da Presicci

Del resto, di frecce nella faretra ne aveva, per difendersi dalla jettatura e dagli imprevisti. Come se la cava, per esempio un conduttore che dopo aver preparato mentalmente la scaletta per Rossano Brazzi si vede arrivare in studio e all’ultimo minuto Nicola Arigliano? O Raffaella Carrà? O Memo Remigi? O Piero Mazzarella? O Enrico Simonetti? O Ernesto Calindri? Con l’improvvisazione, dono che gli ha elargito madre natura. Se Pippo aspettava Franco Franchi e l’attore era rimasto impalato nella morsa di Ciccio Ingrassia, Pippo non si agitava né fremeva: un tocco del truccatore ed ecco Ciccio trasformato in Franco davanti alle telecamere. L’improvvisazione è sempre stata una delle caratteristiche di Pippo Baudo, fin da quando correva in salita e animava piccoli spettacoli di provincia e bussava alle porte della televisione senza che si aprissero.

L'intervista a Ernesto Calindri
Poi qualche capitano si accorse che quel soldato era un portento e poteva diventare generale e proclamò il “Sesamo, apriti!”. Pippo aveva una sola preoccupazione: riuscire a rimanere sulla fune. Ero curioso di sapere come nascevano le sue trasmissioni; e come reagiva ad un possibile inconveniente capace di lacerare il tessuto di un programma. Mi rispose: “Basta avere fra le mani l’ago e il filo per ricucirlo”. A rivederlo dopo tanto tempo non era cambiato per niente. Alto, snello, colto, intelligente, era solo diventato un personaggio con l’aria da goliarda impenitente. Aveva 35 anni, tra l’altro suonava benissimo il pianoforte. Lo aspettavano “Canzonissima”, “Senza Rete”, “Spaccaquindici”, “Domenica in”, “Fantastico”, il Festival di Sanremo. Una carriera gloriosa. E’ difficile racchiudere in un articolo tutte le sue tappe, superate alla grande; le sue conquiste, i successi che si susseguivano con ritmo rock.

Piero Mazzarella
Quel giorno in cui mi ricevette in quella camera d’albergo vicino alla Rai e in altri successivi lo vidi scrivere pagine brillanti in tivù. Il suo nome diventava onnipresente, applaudito, esaltato. Parlare con lui era davvero un piacere: sorridente, giocoso, cultore di storia. Rispondeva a tutte le domane, senza schermirsi. “La lavorazione dei programmi si svolge soprattutto in tre fasi: una è la scelta degli ospiti, e comincia una specie di caccia all’improvvisazione, perché io sostengo che il 75 per cento del gradimento avviene quando il pubblico si accorge che lo spettacolo lo stiamo inventando in quel momento per lui. Tranne le canzoni, che sono già collaudate, il resto de ‘La Freccia d’oro’, com’era per ‘Settevoci’, è tutto alla mercè del caso. Ti faccio l’esempio dell’ultima puntata: dovevamo avere Raoul Grassilli, avevamo già preparato una cosa per lui, Grassilli non viene più, viene Pagliai e, plaf!, è tutto quanto da inventare. E’ una specie di jettatura: quando mi dicono che viene un ospite sono sicuro che quell’ospite non c’è”. Gli domandai: “Pippo, come ti trovi meglio, con i personaggi di grosso calibro come Gassman o con quelli minori?”. “Se un personaggio è troppo secondario, non esce fuori niente. Però, se intravvedo dei lati nascosti, cerco di tirarli fuori, e allora ho il gusto di costruirlo io, il personaggio. Se ho di fronte un personaggio notevole mi diverto, non a dissacrarlo, ma ad evidenziarne gli aspetti nascosti”. “Più umani?”. “Più umani. Ricordo un’intervista fatta l’anno scorso a ‘Settevoci’.

Tony Renis e Presicci
Ne è trapelato un Gassman che nessuno poteva immaginare”. “Com’era questo Gassman?”. “Un Gassman che esponeva il suo lato io più intimo. Se tocchi certe corde, il pubblico scatta”. “Tutte le tue trasmissioni hanno ottimi indici di gradimento, fra cui “Settevoci”, che molti ricordano con nostalgia, e adesso “La Freccia”, che è agli sgoccioli. Che cosa è cambiato in te dai giorni degli spettacoli al Puccini di Milano, se non sbaglio con Lucio Flauto, e da quelli del festival di Miradolo Terme?”. Assolutamente niente. Perché devi sapere che quando uno è in fase ascendente, non ha paura di niente avendo un traguardo da raggiungere. Quando poi è arrivato in alto tenere la corrente è difficile”. “D’accordo. Ma voglio sapere se ti senti un divo; come ti senti dentro se la gente ti ferma per in strada per l’autografo o ti accorgi che la ventenne guardandoti con gli occhi luccicanti, spiffera all’amica: “Toh, Pippo Baudo!”.

Memo Remigi con Franco Presicci
“Certo che mi fa piacere, ma niente di più. Mi diverto a rappresentare una sorpresa rispetto ad altri che, appena emergono, si montano la testa e prendono a sbagliare tutto. D’altra parte vedi che io, raggiunta la maturità artistica, mi sono sposato e sono rientrato nell’alveo di una vita borghese come tanti altri”. “In tre o quattro aggettivi, mi puoi definire Pippo Baudo?”. “Semplice. Modesto, artista nel senso più completo del termine, perché non mi limito a presentare, ma faccio anche altro: suono, ballo, canto”. “Ti piace la pittura?”. “Molto. Nelle correnti spazio. In un periodo avevo la passione per Monachesi; poi per De Chirico, non quello metafisico; poi per Guttuso…”. ”Leggi?”. ”I ‘best-seller’ quasi tutti, ma in particolare la storia. Non quella delle guerre puniche, ma gli ultimi cent’anni. Ho sempre avuto da ragazzo un profondo interesse per la storia. Mi affascina”. “Tu sei laureato in legge. Hai qualche volta pensato di fare l’avvocato o il magistrato?”. “Tu mi vedi in tocco e toga in un’aula di tribunale? Se mi fosse capitato di fare l’avvocato e di rimanere impigliato in un processo importante, venendo il mio turno, avrei potuto dire: ‘Signore della Corte, ecco a voi Alighiero Noschese”. “Che cosa pensi degli strappi alla giustizia in Italia?”. “Di strappi ce ne sono dappertutto. Oggi gli strappi li trovi anche sulle gonne delle donne”. “In famiglia conservi questo carattere bonario, brillante? Oppure qualche volta spunta un Pippo con il ‘cerone’?”. “Starei fresco. Mia moglie mi lascerebbe subito. Io sono sempre Pippo al naturale, in casa e fuori”. “Questa volta sei più frizzante del solito. Come mai? ”Dopo cinque anni di ininterrotto lavoro finalmente sto per andare in vacanza. Dici che non è una gran bella cosa? Me ne vado al mare”. “C’è un vino al quale credi possa essere paragonato Pippo Baudo?”. “Il Corvo rosso di Salaparuta”, vino da arrosti di carne sanguigna e di pollami nobili. “Che cos’ha di particolare questo vino?”. “E’ siciliano”. E dire che i genitori erano contrari alla sua passione per lo spettacolo (iniziò con il teatro) e alla fine la mamma gli disse che se proprio voleva fare la tivù facesse almeno il telegiornale. Non poteva immaginare che, pur non conducendo un Tg, sarebbe diventato un grande.

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Disegno di Anna Presciutti     

 

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