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venerdì 20 ottobre 2023

“Quella nevicata del ‘56” di Maria Carmela Ricci

 

 
Copertina del libro
IL MANTO BIANCO SEMBRAVA

VOLESSE INGOIARE I TRULLI

 

Franco Presicci

In queste pagine, scritte con stile

scorrevole, si ritrova un mondo

fatto di sacrifici e fatiche. Luoghi,

persone, circostanze sono disegnate

con dovizia di particolari. Credenze

ormai sopite vengono raccontate

con abilità e cuore dalla bella penna

della scrittrice.



La neve del ’56 l’ho vista in foto. Non so come la mia vicina di trullo fosse riuscita a scattarle, considerando che quella panna montava di minuto in minuto fino a minacciare di fagocitare i trulli. Bisognava aprire un varco per poter percorrere quel centinaio di metri da via Mottola alle case incappucciate.

Nevicata

Ma che fatica. La neve è bella: tra l’atro regala un abito da sposa a città e campagne. Ricordo la neve caduta quando avevo 11 o 12 anni, sempre a Martina, ed ero ospite in casa dello zio canonico, in via Marangi, dove dal balcone si poteva ammirare la Valle d’Itria. “Non uscite, la neve scende a larghe falde e da terra si solleva parecchio”, ci consigliò don Martino Calianno, mentre lui si preparava per andare a dir Messa non so più se alla Basilica o nella chiesetta vicina. La neve mi piace. Vederla in una scena invernale di Courbet mi emoziona. E mi emozionava la vista dei fiocchi che imbiancavano le vie Nuova e Alfieri, nel centro storico di Martina, creando tanta poesia. Allora ero già grande, eppure non mi staccavo dai vetri della finestra. Con il passare degli anni ho assistito ad altre nevicate, non paragonabili a quella del ’56. E, ogni tanto, guardo le immagini delle “farfalle” che ricoprivano l’ombrello del vecchietto che si avventurava nel vicolo.

Maria Carmela Ricci
Anche per questo mio amore per la neve ho accolto volentieri il libro della scrittrice Maria Carmela Ricci, “Quella nevicata del ‘56 in Valle d’Itria“, Giacobelli editore. L’ho letto subito, con interesse, curiosità, piacere, e andando avanti mi appariva sempre più bello, tra l’altro scritto con stile agile, scorrevole, arioso. Mi disturbava persino il suono del campanello della porta, che mi costringeva a interrompere la lettura. Sono pagine ricche di preziosità, che prendono il lettore e lo accompagnano in un mondo ormai perduto, quello della civiltà contadina, con nonni, figli e nipoti, costretti a stare in casa anche perché la neve ha quasi sbarrato le porte. L’autrice dialoga con Nina, che all’epoca in cui si svolgevano i fatti aveva cinque anni e lo fa con grazia, facendo rivivere in modo icastico una realtà lontana, ritmata dalla fatica, dalla miseria dalle preghiere, dagli scherzi anche, quando la gente si scaldava, nelle giornate rigide, con il braciere o con il camino acceso sotto il paiolo appeso alla camastra.
Spazzaneve

La scrittrice non trascura nulla: descrive, oltre ai personaggi, tutte le parti della casa incappucciata: il palmento, la stalla, il fienile, e poi la scuola rurale…, attenta ai particolari. “Il lunedì mattina Mimino andò nella stalla a governare Rondinella, la ‘docile cavalla storna’” della famiglia di tatà Martino e di Comasia, che baciava i figli solo quando dormivano perché non crescessero deboli e impreparati ad affrontare gli ostacoli della vita e nel timore che a manifestare affettuosità si potesse perdere l’autorità. Improvvisante dalla stalla arrivarono gli urli di Mimino: la coda di Rondinella è tutta intrecciata. “E’ la “jurie”, il folletto. Evidentemente Mimino era rimasto turbato dai discorsi fatti la sera prima. A zio Giovanni, quel birbante di folletto, intrecciava le criniere, a Comasia, quando partorì Mimino, lo spostava dal letto alla culla e dalla culla al letto. Giocava, si divertiva, faceva dispetti. Ma la “jurie” era stata inscenata da Ciccillo, per spasso. Erano due i mitici “giocherelloni”: l’altro era “’u munacìedde” (lo scrivo alla maniera del dialetto tarantino). Maria Carmela Ricci, come accennato, accompagna il lettore in una vista agli ambienti: dalla cucina si accedeva alla rimessa, che comunicava con la stalla e aveva un’uscita esterna.

Michele trasporta le fascine
In essa erano allocati: “u trajine”, “a sciarrette”, tre ”bacaclitte”. In alto in una nicchia profonda, chiusa da uno sportello ligneo, erano sistemati gli attrezzi pericolosi che venivano utilizzati per il lavoro nei campi; “ronghe”, “rungedde”, “rucegghione”, “asce”, falce, “cugnète”, nomi tradotti tutti rigorosamente in italiano, e descritti così bene, che sembra di vederli schierati come in un museo e di prenderli in mano, mentre Carmela si prepara a infornare il pane o cucina fave con la verdura. E anche qui l’autrice snocciola i tempi di lavorazione, i modi di fare l’alimento, la cura... “Quella nevicata del ’56 in Valle d’Itria” è ricco di episodi. “Come ogni mattina gli uccelli vennero a posarsi sula neve fresca per beccare le briciole di pane che Nina lasciava loro”. Tatà Martino disse che se non ci fosse la neve sarebbe andato a caccia. L’ultima volta aveva fulminato “turde” e “frangeddere” (tordi e fringuelli). Tutti i contadini avevano un fucile, con regolare permesso. Piacevole l’uso del dialetto martinese che l’autrice fa citando attrezzi, utensili, luoghi.
 
L'ulivo
Non per niente fa parte dell’Accademia d’a Cutezze, associazione che si propone di salvaguardare e tramandare alle nuove generazioni la parlata dei martinesi e le tradizioni locali; ed è attiva insieme ad altri scrittori, poeti, pittori in vernacolo al Salotto Culturale Palazzo Recupero, nella splendida città dei trulli.
Nevicata
Tra l’altro il libro è molto bene illustrato con “capasonere”, vendemmia, catena del focolare con caldaia (camastre p’a callère), capocolli appesi per l’asciugatura, un calesse che lascia tracce sulla neve…,: foto inizio del 900 del fotografo Eugenio Messia. Insomma in questo libro c’è anche da vedere, oltre che da leggere. L’indomani mattina i maschi, dopo aver fatto colazione con pane e pomodoro ed essersi infagottati spalarono la neve in direzione del trullo-scuola. Occorreva naturalmente crearsi un passaggio per procurarsi cibo e legna. Non si poteva rimanere assediati da quella massa fatta di prismi di ghiaccio per molto tempo. La neve è bello vederla quando scende rendendo candido il paesaggio: ma poi? Poi bisogna spalarla. Più andavo avanti nella lettura e più queste pagine mi attraevano. Sono innamorato di quel mondo, dei suoi usi e dei suoi costumi, dei modi di vivere dei contadini, delle cucine monacali, dei forni, dell’ulivo, del fico, della quercia, alberi di Martina. 
Vigna

Mi colpiscono i lavoratori della terra, i vignaioli; adoro Martina con la sua campagna imperlata di viti… E la trovo qui, scolpita da una scrittrice di talento, che fa rivivere quelle giornate del ’56 immerse nella neve, candida coperta, panna che s’ingrossa nelle strade, nei vicoli, sui tetti delle case, sulle altane, sui campanili, creando un’atmosfera da favola. La neve è poesia: “Il cielo è basso, le nuvole a mezz’aria/ un fiocco di neve vagabondo/ fra scavalcare una tettoia o una viottola/ non sa decidersi” (E. Dickinso). La neve ispira gli artisti della tavolozza. La neve inebria, mi commuove, anche quando viene giù sottile, come moscerini che danzano. Questo libro tornerò a leggerlo. Laureata in Scienze Biologiche all’università di Perugia, Maria Carmela ha insegnato anche matematica; e oggi in pensione coltiva di più le sue passioni di sempre: poesia, narrativa e pittura.

Coltre bianca

Faccio queste considerazioni e osservo ancora le foto del libro. Ecco un contadino che pota le viti con il ronciglione, e un altro che con la zappa smuove le zolle, entrambi colti dall’obiettivo di Benvenuto Messia. In altre pagine dipinti di Maria Carmela: una casa a cono di gelato e un ulivo saraceno, quindi poesie dell’autrice. Rientro nel testo: “Tatà Martino fece uscire dalla stalla la cavalla, la bardò con i finimenti, l’attaccò al calesse e con i figli maschi, partì per una ricognizione nei vari vigneti di sua proprietà”. La neve aveva smesso di cadere. Il libro si apre con una prefazione del professor Francesco Lenoci, docente alla Cattolica di Milano, e con una postfazione di Teresa Gentile. “L’altro protagonista del libro – dice il docente – è il dialetto martinese, la parlata dei genitori di Maria Carmela Ricci… La nostra priorità è di non far scomparire la parlata dei nostri avi. Perciò reputo che sia importante lasciarne tracce scritte…”. 

La Neve
E segue con la memoria le tradizioni: i genitori di Francesco gli hanno insegnato di non mettere il pane a pancia in giù; non buttare mai il pane: voleva dire sputare alla miseria; il pane non deve essere sprecato né maltrattato; bisogna portare il pane alla bocca mai con la mano sinistra, bensì con la destra, la mano dell’angelo; ciascuna fetta di pace caduta dalla tavola occorre recuperarla e baciata in segno di devozione; il pane inzuppato nel latte deve essere sminuzzato con le mani, mai con il coltello….Anche la mamma faceva il pane in casa”. Tornando al dialetto, si dice convinto che se si perdesse, “scomparirebbe un bagaglio di saggezza antica”. Lenoci adora il dialetto. Nella postafazione Teresa Gentile, presidente del Salotto Culturale “Palazzo Recupero”, scrive che “la professoressa Maria Carmela Ricci, autrice del romanzo ‘Quella nevicata del ’56 in Valle d’Itria’ rivela nella sua scrittura fluida una cultura classica ben sedimentata e una non comune sensibilità”. Tutto giusto. Io, finito di leggere il libro, sono andato mentalmente indietro nel tempo, rispolverando ricordi. Devo confessare che Maria Carmela Ricci, con il suo racconto cesellato, ha anche arricchito il mio scrigno. “Quella nevicata…” è stato presentato alla grande sere fa, a Martina Franca, nella Sala Consiliare del Comune. L’ha condotta Rosa Maria Messia, alla presenza di un folto pubblico. Tra i relatori la stessa Gentile, Francesco Lenoci, il tenore Gianni Nasti, Benvenuto Messia, Giovanni Nardelli ed altri.






domenica 15 ottobre 2023

Musica e risate per il calendario 2024

Merini e Graziana

CANZONI IN DIALETTO MILANESE

E LE POESIE DI ALDA MERINI

Sulla pedana Fabio Lossani e il

grande acquafortista Gigi Pedroli,

che è anche cantautore in dialetto

milanese. Chi non era riuscito ad

entrare tendeva l’orecchio alla

festa e guardava il Naviglio che

scorreva placido e silenzioso.




Franco Presicci  

Passano gli anni, da secoli e il fascino del Naviglio non si spegne mai. Purtroppo dai cortili sono scomparse decine e decime di attività, dai maestri argentieri a molti pittori.

Barcone sul Naviglio Grande

Sull’alzaia, sulla sponda destra del canale, al civico 58, s’impone la bottega storica “Abbigliamento militare e janseria Martin Luciano e figli”, nota non solo a Milano e nel circondario. E’ nel cortile di questa impresa che domenica 8 ottobre, alle 16.30, è andata in scena una manifestazione festosa, senza festoni e senza stelle filanti, ma con tanta cordialità e poesia. Il microfono è stato dato subito all’artista Fabio Lossani, che, accompagnandosi un po’ con il banjo un po’ con la chitarra, ha interpretato alcune sue composizioni e brani di Enzo Jannacci, Giovannino D’Anzi, e ha evocato il Teatro Carcano, dove si esibì Giuseppe Moncalvo, il più grande Meneghino delle ribalte dialettali milanesi, e Carlo Bertolazzi rappresentò la prima de “El nost Milan”, nel 1893. Lossani ha subito movimentato l’ambiente sollecitando la collaborazione del pubblico, che si è emozionato, divertito, esaltato, ha cantato con lui, ha applaudito con entusiasmo, mentre i fratelli Graziana e Paolo Martin, comodi in prima fila, sorridevano compiaciuti di quel pomeriggio di ilarità, di musica e di ricordi.

Graziana Martin legge la Merini

Poi Graziana è salita sulla pedana e con voce calibrata ha recitato toccanti poesie di Alda Merini, emblema del Naviglio; e tra un verso e l’altro ha ricordato la sua amicizia con la poetessa. “Entrai in un bar, lei, accomodata ad un tavolo, cominciò a fissarmi come volesse esplorare la mia anima. Improvvisamente, con l’indice mi fece segno di avvicinarmi e mi disse che dovevamo essere amiche”. Graziana ha anche fatto cenno alla figura di Michele Pierri, poeta consacrato, che visse quattro anni a Taranto con la Merini, soggiornando con lei anche in una villa di Crispiano, pochi chilometri dalla Bimare. Sul Naviglio Grande la Merini era in buoni rapporti con tutti, entrava e usciva, simpaticamente, nello studio di un artista, un saluto e via. Ed ecco sulla pedana un mito, un’icona del Naviglio Grande, Gigi Pedroli, geniale acquafortista e autore di bellissime e spassose canzoni in vernacolo milanese, pronto ad interpretarne alcune in coppia con Fabio Lossani, con il quale ha creato momenti di grande, sana, gustosa ilarità rispolverando in versi figure caratteristiche del Naviglio (parecchie inventate da lui) con un estro inimitabile.

Graziana e Paolo premiano Pedroli

Quindi la giornalista e scrittrice Cinzia Alibrandi ha intervistato Graziana e Paolo sul carattere del loro papà, benevolmente soprannominato “lo sceriffo del Naviglio”, per l’abitudine di portare un cappello alla “cow boy”. Artefice della bottega, oggi nominata storica dal Comune di Milano, non è mai stato dimenticato. Graziana ha ricordato la propria passione per la danza (è stata allieva della scuola della Scala ed è amica dell”etoile” Luciana Savignano) e la sua assiduità tra il pubblico del Tempio della lirica. Paolo si è soffermato sulla vita quotidiana in questo mondo che condivide con la sorella, dove la gente si può anche sedere, conversare, scherzare, osservare quello cha la circonda, comprese fotografie di persone famose (Vittorio Sgarbi, Jovanotti, Ivana Spagna, Max Britti…). E’ insomma come un momento di riposo, di rilassatezza nel salotto di casa. 

Il Naviglio

Sono molti gli ospiti che una volta usciti all’aperto si godono il meraviglioso spettacolo del Naviglio Grande, che scorre placido e silenzioso, ricco di storia e di leggende, decantato dal giornalista Gaetano Afeltra, dallo scrittore Carlo Castellaneta, dallo storico Guido Lopez (“Navigliando” e altre opere) e da altri. Il pomeriggio si è concluso con M. Antonietta Breda, già docente di Architettura al Politecnico, e lo speleologo Gianluca Padovan, che hanno parlato del reticolo di rifugi antiaerei di Milano, invitando il pubblico a visitarli. Uno è proprio in via Vigevano 19, a un passo dal Naviglio. La bottega dei Martin, sorta nel 1938, è una istituzione. Si specchia sul famoso corso d’acqua, dove un tempo navigavano i barconi che portavano ogni sorta di merce nel capoluogo lombardo e anche sabbia e marmo per la Fabbrica del Duomo. Arrivavano in darsena, il porto di Milano, da dove parte l’altro canale, che va a Pavia, detto appunto Naviglio Pavese, che attraversa la via Ascanio Sforza.

Fabio Lossani e Gigi Pedroli

La gente, nelle ore di libertà, va a passeggiare sull’alzaia o sulla Ripa Ticinese, si ferma davanti alle vetrine del “Libraccio” o entra nel cortile dello studio di Gigi Pedroli, per vedere il torchio con cui vengono realizzate tante opere d’arte sparse nelle collezioni pubbliche e private e l’esposizione permanente dell’artista. La sera folle di giovani attirati dai locali alla moda e dall’atmosfera. Si appoggiano alla spalletta del Naviglio, fanno su e giù, bevono, sorseggiano, urlano, festeggiano, cantano…Ho apprezzato molto l’iniziativa dai Martin, che non è la prima e non sarà l’ultima allestita in questa bottega storica, così presente nel cuore dei milanesi, che un appassionato ha donato a Graziana e Paolo un’intera collezione di oggetti di una volta, tra cui telefoni di cui pochi avevano memori. Se si risvegliasse il loro papà, uomo dalle numerose letture che “si era insegnato la vita”, uomo che in segno di rispetto indossava la giacca per andare da Pedroli, sarebbe orgoglioso nel vedere così ben frequentata e tanto cresciuta la sua creatura. La manifestazione, ottimamente riuscita, prendeva occasione dal calendario 2024, dove nella prima pagina troviamo i commenti di alcuni personaggi: il giocoliere Umberto Pagotto scrive che ha un sogno: la supremazia della bellezza; e il duo Maria Antonietta Breda e Gianluca Padovan, già citati: “Una struttura quadrangolare affacciata sul Naviglio Grande, composta da un negozio, dal suo ufficio spartano, con un grande atrio e un magazzino. 

Parte delpubblico
Un tassello della grande Milano. Nel mosaico della storia cittadina Martin Luciano e i suoi figli hanno scritto la loro pagina”. Dice la sua anche l’alpino Elco Pierangelo Volpi: “La loro straordinaria bottega storica è un angolo di intriganti abbigliamenti”. Non voglio tralasciare il pensiero dello sportivo tuttologo Simone Lunghi: “Il Naviglio Grande è l cordone ombelicale che ha nutrito di mondo questa città, facendola diventare un riferimento a livello europeo e mondiale per la moda, lo sport e l’economia”. Ne è passata dunque di gente da queste sponde, in mille occasioni, come la Mostra dell’Antiquariato, la Festa del Naviglio, i vari mercatini, quando i ponti s’incorniciano di fiori e i cortili si arricchiscono di tavolozze policrome che pendono dalle ringhiere e sul Naviglio corrono barche di ogni tipo e qualche volta un barcone, che lasciato il deposito in cui è custodito come monumento, reperto storico, si trascina dietro ricordi mai sopiti. In passato vedemmo anche il “Bateau Muche” e la “Viscontea”, progettata dall’architetto Empio Malara.
Barcone sul Naviglio

Una gioia guardare questa via liquida, Il Naviglio, che attraversa cascine, castelli, ponti, vile, passeggiate. Un mondo che piaceva anche a quel grande giornalista che era Guido Vergani, autore di migliaia di dotte pagine su Milano, celebrata anche dalla sommelier ristoratrice Maida Mercuri sul calendario dei Martin: “Tempo di bilanci.

Graziana, Pedroli, Paolo e Lossani

Prima o poi arriva il mio? Sono felice di aver vissuto il Naviglio com’era una volta, fatto di personaggi… Alda Merini… fatto di umanità, giochi, voglia di stare insieme e di condividere emozioni, fatto di persone speciali che hanno formato la ragazza che sono ora. Tutto questo non esiste più, ma chi l’ha vissuto come me sa di che cosa parlo”. “I Navigli – scrive il poeta Alfonso Gatto - con la loro cerchia sono strade: strade d’acqua silente, con odore di terra, di carreggiate, di verdure...” Il Naviglio: bellezza, sogno, magia, migliaia di ricordi, nostalgia, emozione. Lo scoprii negli anni Settanta, visitando lo studio del pittore Guido Bertuzzi, l’ho visitato oggi andando a una festa memorabile in una bottega storica, dove si respira aria casalinga. I tetti mi fanno ripiombare nell’amata terra che ho lasciato. “Il Naviglio, biscione d’acqua verdastra fluente nel quartiere più caratteristico della città, il Ticinese…” - sento la voce di Luciano Visintin, giornalista del ‘Corriere della Sera’ e scrittor.e - , acqua che parte dal Ticino, nei pressi di Tornavento, e arriva alla darsena”. Pensieri ed emozioni suscitate ai margini della manifestazione dell’8 ottobre, nel cotile dei fratelli Martin, dove Graziana avrebbe allestito volentieri una mostra di presepi, dopo aver visto le foto che avevo postato su Facebook. Donna volitiva, intelligente, ricca di idee, impegnata nella difesa del Naviglio.




mercoledì 11 ottobre 2023

Quante cose sono cambiate

Peppino Miccoli
IL TRATTURO QUASI SOLITARIO

E GLI AMICI CHE SE SONO ANDATI


Fortunatamente sono arrivati dalla

Bimare due amici, Mara e Pino, che

abitano Trullo Gigio, che da molto

tempo non aveva respiri. Imponente

sotto una quercia secolare, che domina

il paesaggio.

 

Franco Presicci  

D’estate salgo sul Chiancaro, a piedi come una volta, per risentire le voci degli amici che se ne sono andati, rivedere i luoghi mai dimenticati: la “vedovella” poco frequentata che ancora versa acqua fresca nei bottiglioni; i trulli rinfrescati, ancora intatti; le gobbe di pietra del vignale oggi nascoste sotto la terra ricca di filari di viti; il trulletto con la paglia quasi attaccato al muro a secco; il fondo che fu di Giovanni, curvato dalle fatiche sulla zolla; le ragazzine che giocavano a “Mammà s’ha perse ‘a scarpe de sete”; Pierino che non voleva fare il calzolaio come il padre; Ciccillo, che resisteva nel suo stato di scapolo.

Giovanni Montanaro al torchio

Tutto torna nella mia immaginazione. Cerco di captare i passi lenti, cadenzati dello zio prete: l’atmosfera di oltre settat’anni fa, e baluginano le figure di mio nonno Ciccio, seduto sotto una bouganville cresciuta con la forma di una campana fabbricata da Giuseppe Bellucci; della nonna affaccendata vicino alla cucina monacale; di zio Martino che, deposta la tonaca sull’attaccapanni, si è accomodato con i pantaloni alla zuava a ridosso della porta del trullo grande mentre legge il breviario. Guardo tutto, i muretti a secco ancora ben tenuti, le case a cappuccio che mi erano familiari, l’entrata del trullo di Giovanni, alto, con diversi coni, possente, anche se antico, dominatore di una distesa di verde, ed emergono ancora scene del passato: le serate ritmate da chitarre e mandolini, gli scherzi, i racconti di maghi della pioggia. I ricordi pungono come i rovi. Scendo dal Chiangaro, arrivo a San Francesco, compero mezzo chilo di mozzarelle e uno di pane da Fragnelli, entro nell’auto che ho parcheggiato davanti alla ferramenta “La Madonnina” e metto in moto. Su via Mottola il mio sguardo sbircia altre case a cono di gelato, gli sbocchi dei tratturi, la chiesetta in cui ancora qualche sacerdote dice messa, e poi entro nel nostro, sulla destra, lungo quasi cinquecento metri, in terra battuta, con un trullo scapitozzato invaso dagli sterpi, incuria da condannare perché questo è uno sfregio alla bellezza di Martina. Infine, proprio di fronte a noi, il vigneto di Peppino infestato dalla peronospera, che fa piangere il cuore.

La vigana colpita dalla peronospera

Quanto sudore versato per quei grappoli, che rischiano di essere strappati. E’ bello, silenzioso, risposante, tranquillo, il nostro tratturo. Ma oggi è come una vena senza sangue: a poco a poco si è svuotato. E’ rimasto il rumore del trattore che traccia solchi nella terra e quelli della motozappa o del tagliaerba di Donato, giovane buono, devoto di San Pio, lavoratore instancabile forse anche per vincere la solitudine. Ciao, Martina. Me ne sto seduto sul piazzale, dando un occhio al glicine che cerca di buttar giù la struttura che ormai fa fatica a sopportarne il carico; osservo gli alberi più vicini, l’alloro e il fico fasanese, e mentalmente passo in rassegna gli amici che sono scomparsi. Penso alle tavolate, ai giochi con la pompa dell’acqua, ai canti, al forno quasi sempre acceso la domenica sera, per confezionare pizze e panzerotti, alle chiacchierate davanti al cancello del trullo di Maria, allo scarpone abbandonato sul muretto a secco di Peppino, che non c’è più da tanto tempo.

Il trattore
Sono tentato di portamelo via per ricordo. Ma obbedisco alla vocina che mi aiuta a non compiere misfatti. Sono passati gli anni e quella scarpa non l’ha mai toccata nessuno, neppure Rosa - la moglie del defunto amato - che piange ancora. Ho una foto tra le cose più care: Peppino acculato sul muretto intento a mangiare un panino. Doveva essere mezzogiorno, quando la scattai. Un momento di riposo tra una sgobbata e l’altra nella vigna, che aveva piantano una trentina di anni fa: la ruspa aveva trascinato la terra verso l’alto, riempito il vuoto di grossi sassi, ricoprendoli di terra per colmare il dislivello. Seguirono le piante. I miei ricordi continuano a scorrere placidi come l’acqua del Galeso. Una volta sturata la memoria chi lo ferma più, il flusso. Rivedo apparire Peppino alla guida del motocarrello con gli attrezzi che gli servono per la giornata. Giovanni è ancora sulle sue zolle a raccogliere le zucche grandi quanto meloni, pronto per il lavoro di muratore a San Vito, ai margini di Taranto, per completare la casa di un avvocato. Sento Rosa e Maria irritati per un albero messo nel punto sbagliato da uno zappatore che svolge un mestiere che non gli appartiene; Carluccio che se ne sta addossato al cancello come se fosse il guardiano cipiglioso del tratturo, mentre i ladri s’intrufolano nel suo trullo.
 
Gatto nel tratturo
 
 
Questo tratturo è come una scacchiera che non ha più pedine. Fortunatamente Trullo Gigio ha riaperto la sua porta con l’arrivo di Mara e Pino: lei nata nella gloriosa città vecchia della Bimare, cantata da poeti, pittori, scrittori (ah Giacinto Peluso e Nicola Caputo!) M’inoltro nel tratturo di fianco, che in verità non è più un tratturo, ma una via a zig zag, per un tratto asfaltata e per un altro accidentata, a saliscendi, con un bosco su un lato fino alla chiesa della Madonna della Consolata, che si erge su un ampio spazio, da cui si diparte la strada che va a Noci (ha anche un nome: Papa Domenico).
Trulli lungo il tratturo


Lo faccio tante volte, quel percorso, per andare dai miei cari amici Argese e Gacobelli, e non incontro che carretti, furgoni, trattori e auto veloci come all’autodromo di Monza. Mi ristora il loro affetto e mi deliziano le partite a scopone con Vito, Angela e mia moglie Irene. Cosimina e Matteo, Antonella, Nicola riempiono di voci i pomeriggi, i figli Gerardo e Vito “junior” meditano sul prossimo esame all’università. Qualche volta passeggio su un altro tratturo, dove mi accoglie una signora che fa il formaggio, ha mucche e tori, qualche maiale, e vende le uova e altre cose. E lì mi fermo una decina di minuti a stuzzicare le galline che starnazzano nel cortile. La signora è gentile, premurosa, anche se scuce soltanto solo un paio di parole, tra dolci sorrisi. L’aria della campagna fa bene allo spirito. Gli amici mi vengono a trovare e quando mi chiedono che cosa faccia dalla mattina alla sera, non dico che leggo o scrivo, che mi stendo sulla sedia a sdraio e ascolto l’ulivo e il fico, che hanno l’età di Matusalemme, loquaci soprattutto quando li dondola il vento e l’autopompa di Teodosio non gracchia mentre innaffia l’orto. Qualcuno arriva da Milano, soggiorna a Taranto e fa un salto da me a Martina. S’inebria davanti al paesaggio e manifesta un po’ di invidia per la vita che conduco tra noci e mandorli, cachi e ciliegi ed esalta Taranto come un gioiello, con il Mar Piccolo e le barche che vi danzano, la ringhiera con l’affaccio sull’altro mare, il Grande, ma loro hanno la cotta per il verde, che è un dono di Dio: Martina.

La vigna oltre il tratturo

Io do energia all’invidia, adducendo che spesso parlo all’alloro e all’ulivo e che loro mi ascoltano pur senza rispondermi perché parliamo linguaggi diversi. Non mi credono, naturalmente, ma la loro invidia, non ostile, non bieca, non maligna, ma benevola, quella che si dichiara per fare un complimento, per tutta questa pace che mi avvolge, per questo panorama baciato dal sole. E quando arriva il vento i rami degli alberi dondolando emettono una musica dolce che induce al sogno. E’ sul piazzale che apparecchiamo la tavola, non disturbati dal passaggio di qualche auto, magari quella di Teodosio, che sale verso il Trullo Gigio, fino a ieri solitario e da qualche mese abitato da Mara e Pino, due tarantini veraci, di quelli che si ascoltano volentieri quando parlano il dialetto, sonoro, onomatopeico. Gli amici godono alla vista delle orecchiette e delle altre specialità: fegatini, mozzarelle, capocollo del luogo, fioroni, susine, pesche. Mio cugino Francesco, martinese che viveva a Taranto, parlava con il fico che sta su un lato del parcheggio delle macchine. Lo sorpresi mentre gli diceva. “Tu hai avuto il coraggio di prendermi in giro. Ti credi furbo? Mi hai colpito alle spalle, a tradimento. Se non fossi un fico storico, ti riempirei d’insulti”. Rimasi ad ascoltare attento e interessato il seguito.

Tratturo in salita

E capii che l’albero era innocente: era stato lui ad innestare su quel tronco un profico. Era capatosta, s’infilava in polemiche pretestuose che non finivano mai. Per lui la maggiorana che abbiamo sul bordo dell’altro piazzale era origano e non ci fu verso di indurlo alla ragione. Ma era un galantuomo, innamorato dei campi. Lasciava nello sgabuzzino, di cui aveva le chiavi, i suoi scarponi e li calzava d’inverno, quando veniva a controllare, ma in verità per trascorrere un paio d’ore in questo paradiso. Prima di Peppino il fondo me lo curava “Memìne cape de pètre”, che mi aveva chiesto il permesso di piantare una volta i lupini e un’altra volta le fave, ma quando arrivavo trovavo le piante spogliate e la terra non curata abbastanza. Uno che si diceva contadino potò gli ulivi fuori tempo e ne fece morire cinque. Maria lo rimproverò e lui le rispose con arroganza. Poi ho scelto Donato, che vive da solo nel trullo lasciatogli dal padre Giovanni e dalla madre Stellina, il primo portato via dal Covid, la seconda da una strana malattia.

Quercia alla fine del tratturo
Anche in paese ho perso parecchi amici: il giornalista Paolo Aquaro, che aTaranto dirigeva la rinata “Voce del Popolo”; Franco Punzi, presidente del Festival della Valle d’Itria e amico di Sergio Escobar, direttore del Piccolo Teatro di Milano; Pierino Pavone, cappottaro che sapeva a memoria tutte le storie di papa Galeazzo; Peppino Cito, che realizzava bellissimi trulli in terracotta; Ninì Ponte, che aveva trasferito la sua falegnameria in campagna, lungo la via per Ceglie, e se ne serviva per lavoretti che regalava agli amici; l’avvocato Giovanni Chisena, che un tempo firmava Anchise i suoi articoli sportivi su “la Gazzetta del Mezzogiorno”; Alessandro Caroli, persona squisita e coltissima, autore di diversi libri, tra cui “Musica in Valle d’Itria- Come nasce un grande Festival”, breve storia della rassegna martinese che ha conquistato il mondo. La presentazione è di Giuseppe Giacovazzo: “E’ venuto in campagna a trovarmi Alessandro Caroli con il manoscritto di queste pagine pronte per la stampa. E’ venuto all’indomani della inaugurazione del Festival di Martina Franca, XXV edizione, per il quale avevo scritto un articolo su ‘La Gazzetta del Mezzogiorno’ e avevo parlato di lui nei termini che qui riporto, creatore e realizzatore delle prime difficili edizioni, non ebbe per compagna la capricciosa dea Fortuna. Pagò anzi ben salatissimo tributo alla dea bendata. Dovette accettare un immeritato esilio, evitò la bancarotta e partì senza un saluto…”. Se n’è andato recentemente anche Alessandro, preceduto da Giacovazzo, autore di “Puglia, il tuo cuore”. E se n’è andato l’avvocato Elio Michele Greco, della Fondazione “Nuove Proposte”.

martedì 3 ottobre 2023

Dopo la scomparsa del sacerdote

 

IL GEOMETRA-POETA MARTINO SOLITO

RICORDA DON ANTONIO CORRENTE


Don Antonio Corrente
 

Una testimonianza efficace, con dettagli

che danno risalto al ritratto. Coltissimo,

severo, don Antonio fu tra l’altro prelato

d’onore di Sua Santità, giudice

provinciale del Tribunale ecclesiastico di

Taranto. Gli fu concessa l’onorificenza di

commendatore dell’Ordine “al Merito

della Repubblica”


 

 

Franco Presicci

A Martina Franca ho conosciuto persone importanti. Di alcune sono diventato amico: Franco Punzi, presidente del Festival della Valle d’Itria e già sindaco della città, scomparso da poco tempo; Nico Blasi, direttore della interessantissima rivista “Umanesimo della Pietra”; Alessandro Caroli, scrittore consacrato (“La valigia del tempo”…), fondatore dell’Associazione “Il Parnaso delle Muse” e del Festival di Martina, profondo conoscitore di musica, lettere e filosofia (abbondanti tracce sono sparse nei suoi libri), “manager” di Raitrè, prima di emigrare in Australia, dove fondò una televisione; Francesco Lenoci, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Giuseppe Bellucci, artefice di campane che vanno a suonare in ogni parte del mondo; Luisa Motolese, presidente della Corte dei Conti a Milano; il notaio Alfredo Aquaro.

L'ultima messa

Don Antonio Corrente, che oltre a tanti incarichi da lui ricoperti negli anni fu insegnante di religione all’Istituto Magistrale “Livio Andronico” e al liceo scientifico “Battaglini”, a Taranto e altrove, l’ho solo incontrato alcune volte, nei miei lunghi soggiorni nella terra amata e dipinta da Filippo Alto, artista barese residente a Milano e con casa di vacanza a Figazzato. Martina ha diversi “Patriae decus”. L’elenco è fissato su marmo incassato in un’ampia parete all’ingresso del Comune. Ma non ci sono miei amici in quella lista (Lenoci, pur in possesso del titolo, aspetta una nuova targa, più lunga, per esservi inserito). Monsignor Antonio Corrente, prelato coltissimo e severo, che suggerì il “Patriae decus”, non vi compare. Forse vi sarebbe stato incluso. Lo intercettai tantissimi anni fa, oltre settanta, all’uscita del “Livio Andronico”; e avendo sentito parlare molto bene di lui mi venne l’impulso di salutarlo, ma il fervore degli studenti, felici di muoversi all’aria aperta dopo ore di lezioni, soffocò il mio gesto.

Il ringo
In seguito lo rividi a Martina, dove il ringo sfocia nella piazzetta in cui si ergono la Basilica e la Torre dell’Orologio. Andava a passo spedito, si fermò, incerto se proseguire o tornare indietro e scelse la seconda opzione. Il mio sguardo lo seguì fino all’angolo in cui si apre la vetrina del tabaccaio. La sua figura solenne suscitava un po’ di disagio. Gli anni, come tutti sanno, passano svelti e io non mi accorsi che ne erano volati un bel po’, quando lo incontrai di nuovo in piazza XX Settembre. Lo avvicinai, mi presentai e, per sciogliere l’imbarazzo, gli dissi che un mio cugino era stato tra i più attenti e zelanti dei suoi alunni. Mi chiese il nome, ma non si ricordava di quel Fiorenzo Fischetti. Di Clemente Salvaggio, in seguito salito sulla plancia de “Corriere del Giorno, dopo anni di rodaggio da cronista e prima di mattatore al periodico barese “Mercoledì Sport”, qualche pallido ricordo ce l’aveva. Avevo 22 anni o più quando, negli ‘50 a Taranto usciva anche un periodico confezionato da Giuseppe Barbalucca, medico pediatra prestato al giornalismo (fu anche capocronista del “Corriere”), e da Piero Mandrillo, illustre docente, cultura vasta, emigrato per qualche tempo in Australia come insegnante d’italiano all’Ateneo di Wellington, conteso dal “Corriere del Giorno” e dalla “La gazzetta del Mezzogiorno per un diario di viaggio. Dopo qualche anno ero nello studio di Clementino Messia, fotografo di tutto rispetto, collezionista d’immagini della Martina di un tempo, imparentato con Benvenuto, maestro del “clic”, dopo Eugenio, suo padre, e attore, ciclista, poeta, autore di una delle foto di fianco sul Chiangaro di oggi (quella di ieri è di Eugenio, grande maestro del “clic”), entrarono il dirigente dell’Ufficio tecnico Nicola Colonna e don Antonio Corrente. Il prelato, solenne e rigido, mi fissò stringendomi la mano, mentre Colonna si accingeva a dire che ero di Taranto, vivevo a Milano, facevo il giornalista.
Martino Solito 

Don Antonio ascoltò distaccato la presentazione, e dopo circa un quarto d’ora, sollecitato da un impegno, si avviò verso l’uscita, seguito dal geometra, mentre all’esterno alcuni martinesi – coincidenza – s’infuocavano commentando la Padania, “questa regione che esiste soltanto nella testa di alcuni lombardi”; e Clementino riprese a confidarmi la sua passione per i fuochi di artificio, che andava ad ammirare a Locorotondo alla festa di San Rocco, e anche a Matera e in altri paesi della Puglia, della Basilicata e della Calabria. “Il monsignore appena uscito – deviò Clementino dopo pochi minuti – è un pozzo di sapienza”. Martino Solito lo descrive con uno stile piacevole, semplice, scorrevole, colloquiale in “Don Antonio Corrente”, una testimonianza preziosa, del 2022. Parte da lontano, dal ’60, anni in cui frequentava a Locorotondo la scuola agraria e sostava davanti alla vetrina della libreria di Giambattista Carrieri, soffermandosi sui libri tascabili della Bur (copertina grigia, 70 lire a titolo), e vedeva spesso conversare il titolare, don Giovanni Colucci e don Antonio Corrente. 

Con Papa Woitila
Più tardi, nel ’65, dopo il diploma, cominciò ad avere dimestichezza con loro. Data di nascita di don Antonio il 1918, in una famiglia non benestante: il papà, Paolo, di mestiere carrettiere, “tra i migliori di quel tempo”, e la mamma Pastore Maria Carmela, che mise al mondo cinque figli. Antonio frequentò le elementari alla scuola Marconi, celebrò la prima messa a Roma il 5 luglio del ’42 e la seconda nella città natale il 12 dello stesso mese, nella Basilica di San Martino. All’attività sacerdotale accompagnò quella di insegnante illuminato e dotto. “Ascoltare le sue lezioni – mi disse uno suo studente di allora – era un vero piacere, edificava, coinvolgeva, arricchiva la mente di chi gli stava di fronte”. Quando parlava lui, un silenzio totale avvolgeva l’aula, la sua dottrina, le sue scintille di cultura, profonda, eterogenea, affascinavano. 

Nel ’78 l’amicizia fra don Antonio e Martino Solito si rafforzò, coltivata anche nella libreria Clio, nel ringo, dove un giorno Martino gli regalò un proprio volume, “Hitleriade”, un “misto di versi e prosa”. In via Verdi, che collega piazza Roma con via Mercadante, ricca di negozi (la macelleria di fianco alla barbieria e al meccanico, il centro fotocopie di Cosimo Basile, il forno a legna). don Antonio gli si rivolse proclamando “Che verve!” “Che verve!”. Da lì una più intensa frequentazione durata fino agli ultimi momenti di vita del prelato, deceduto il 14 giugno del 2021, a 101 anni. Durante uno dei loro incontri don Antonio rivelò a Martino il tipo di lavoro che stava svolgendo: la ricerca etimologica di mille parole del dialetto martinese, terminato nel ’95 in una raccolta: “Voci della Valle”, cioè la valle d’Itria, che Giuseppe Giacovazzo, in occasione della presentazione del libro di Alessandro Caroli “Musica in Valle d’Itria-Come nasce un Festival”, definì benedetta da Dio. E benedetta è davvero, con i suoi balconi spanciati, la luce, la terra rossa, le abitazioni incappucciate, alcova, guscio, rifugio, dove il contadino tornava la sera, accolto dal camino con il fuoco acceso sotto il paiolo con la minestra in via di cottura. Don Antonio, entusiasta delle sue “Voci”, a Martino parlava dei vari lemmi, soprattutto dell’introduzione in cui aveva espresso il suo giudizio sulla cultura martinese… E gli parlava dei disegni, di oggetti antichi che andava rappresentando l’architetto Pasquale Angelini. 

La chiesa distrutta
La testimonianza dedicata a don Antonio da Martino Solito, persona molto seria, concreta, di poche parole “pane al pane e vino al vino”, contiene anche pagine con l’elenco delle onorificenze ricevute dal prelato (commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica, Prelato d’0nore di Sua Santità…), degli incarichi di altissimo livello a lui affidati (giudice provinciale del tribunale ecclesiastico di Taranto…), delle scuole in cui ha insegnato… Solito ricorda anche l’incontro con Papa Giovanni Paolo II, in occasione della visita, il 29 ottobre del 1989, a Martina Franca. Ho letto molto volentieri questo prezioso testo di Martino Solito sulla vita e le attività di un suo amico carissimo, sulla sua generosità: “L’Abazia di Orosh in Albania, distrutta durante la guerra dei Balcani, fu ricostruita nel 1998 e dintorni. Don Antonio contribuì alla sua ricostruzione con entusiasmo”. Narrava che “la gente del luogo si era appropriata dei conci della chiesa al suo crollo, ma, cessata la guerra”, durante la sua rinascita, in molti restituirono il maltolto. “La devozione e la fede avevano fatto muovere le pietre”, il commento di Antonio Corrente. Martino Solito ricorda anche il lavoro fatto insieme, nel ’98 e il commento del sacerdote: “Ora si comincia a fare sul serio”. Il loro impegno si ampliò con soddisfazione di entrambi. Martino Solito, autore di tanti volumi pubblicati in veste elegante, ne ha in cantiere un altro.